Sul Romanzo, Anno 3 n. 5, ott. 2013

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motivazione è possibile, e non parliamo solo dei fonosimbolismi, attraverso i quali i parlanti riproducono la realtà circostante (si pensi al tic tac dell’orologio o al chicchirichì del gallo). Sappiamo, per esempio, che i nostri “occhiali” si chiamano così per via dell’“occhio”, ma che in Francia lunettes “piccole lune” dipende dalla forma delle lenti; nella lingua inglese, glasses è associato al materiale. È come se nel segno linguistico, insomma, fosse richiamato un tratto che, secondo la comunità, è saliente per la descrizione del referente in questione, ed è questo, perciò, che rende ogni società diversa da tutte le altre, assieme a tutti gli altri meccanismi con cui i singoli gruppi definiscono la realtà, dopo averla organizzata cognitivamente. Tale tratto è arbitrario – ma tacitamente condiviso da tutta la comunità di parlanti – e l’associazione, opaca; a questa arbitrarietà assoluta, però, il linguista Ferdinand De Saussure affiancava l’arbitrarietà relativa tipica delle onomatopee e, aggiungiamo noi, di MALEVENTUM/BENEVENTUM, bonaccia/malaccia, soglia/sogliola e così via; anche in tali casi, infatti, le associazioni sono ben giustificate: «Questo tipo di meccanismi […] – spiega Marina Benedetti in L’etimologia fra tipologia e storia in M. Mancini (a cura di), Il cambiamento linguistico, Roma, Carocci, 2003 – evidenzia una generale tendenza dei parlanti a superare l’arbitrarietà del segno linguistico (o meglio a trasformarla in “arbitrarietà relativa”, […]) e l’esigenza di individuare – attraverso il riconoscimento del presunto “valore descrittivo” di un segno – le ragioni di una certa denominazione». Si chiama “etimologia popolare”, “paretimologia” o “etimologia secondaria”: le definizioni sono molte e, per quanto si focalizzino su aspetti diversi (qualcuno parla persino di “etimologia dello spirito”), non escludono il procedimento di fondo: l’associazione errata di un segno a un concetto, sicuramente dovuta alla scarsa dimestichezza con le parole in questione; è scontato, infatti, che la poca padronanza della lingua scritta e parlata – soprattutto in ambito lessicale – muova in questo senso: 1. Un parlante che conosce poche parole difficilmente è in grado di motivarle in modo corretto: attrezzandosi come meglio può – e facendo leva, cioè, su meccanismi propri di associazione – è portato a sbagliare con molta più facilità; 64

Sul Romanzo

n° 5 • Ottobre 2013


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