Synaxis 21 3 (2003) - quaderni 16

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SYNAXIS XXI/3 - 2003 QUADERNI DI SYNAXIS 16

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA



Magia, superstizione e cristianesimo a cura di Salvatore Consoli – Egidio Palumbo – Mario Torcivia


Magia, superstizione e cristianesimo / a cura di Salvatore Consoli, Egidio Palumbo, Mario Torcivia. - Catania : Studio teologico S. Paolo, 2004. (Quaderni di Synaxis ; 16) 1. Magia e religione. I. Consoli, Salvatore. II. Palumbo, Egidio. III. Torcivia, Mario. 261.2 CDD-20 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana


INDICE

INTRODUZIONE

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MAGIA E SUPERSTIZIONE IN SICILIA AL TEMPO DI GREGORIO MAGNO (Giovanni Mammino) . . . . . . . . 15 [473] SUPERSTIZIONE E MAGIA NELLE PREGHIERE SICILIANE DEL SIRACUSANO (Salvatore Marino) . . . . . . . . 19 [477] 1. Preghiere inculturate . . . . . . 21 [479] 2. Preghiere-formule magico-superstiziose . . . . 25 [483] 3. Gesti e parole degli “scongiuri” nelle malattie del corpo . . 37 [495] SUPERSTIZIONE E PATOLOGIE PSICHICHE (Fabio Sambataro – Francesco Furnari) .

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SUPERSTIZIONE E MAGIA (Giuseppe Raniolo) . .

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DIO E I MAGHI: QUALE SOVRANITÀ? (Rosario Gisana) . . . Introduzione . . . 1. Magia e religione biblica . 2. La proscrizione dell’atto magico Conclusione . . .

PIETÀ POPOLARE: DOMANDA RELIGIOSA ED ISTANZE MORALI NELLA CULTURA SICILIANA (Pasquale Buscemi) . . . . . . .


Chiarificazioni terminologiche e status quaestionis . . 1. Pietà popolare e sue distorsioni nella società e cultura siciliana 2. Sguardo al passato: gli interventi dei vescovi siciliani sulla pietà popolare . . . . . . 3. Preoccupazioni ed indicazioni pastorali di Mons. M. Sturzo, vescovo di Piazza Armerina . . . . 4. Indicazioni pastorali e riflessione teologica nel documento della CEI Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia . 5. Pietà popolare ricerca di Dio e nuova domanda etica . Conclusioni . . . . . . .

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83 [541] 85 [543]

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FIDUCIA NEL DIO DI GESÙ CRISTO E MODELLI DI ATTACCAMENTO (Francesco Furnari) . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . 1. Il modello di attaccamento di Bowlby . . . . 2. Dio come fonte dell’attaccamento . . . . . 3. Le basi psicologiche della fiducia in Dio . . . . Conclusione . . . . . . . .

105 [563] 105 [563] 108 [566] 111 [569] 118 [576] 121 [579]

L’ALLEANZA: RECIPROCA APPARTENENZA DI DIO E IL SUO POPOLO (Attilio Gangemi) . . . . . . . . 1. L’alleanza veterotestamentaria . . . . . 2. L’annunzio della nuova alleanza . . . . . 3. L’alleanza nel Nuovo Testamento . . . . .

123 [581] 123 [581] 128 [586] 133 [591]

MAGIA, SUPERSTIZIONE E CRISTIANESIMO. PUNTO DI VISTA DOGMATICO (Maurizio Aliotta) . . . . . Introduzione . . . . . 1. Le motivazioni del ricorso alla magia . 2. Magia, fede e salvezza alla luce della Scrittura

137 [595] 137 [595] 139 [597] 144 [602]

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MAGIA, SUPERSTIZIONE E CRISTIANESIMO. INDICAZIONI DEL MAGISTERO E DELLA LITURGIA DEL VATICANO II (Gianbattista Rapisarda) . . . . . . . 147 [605] Introduzione . . . . . . . . 147 [605]


1. 2. 3. 4. 5. 6.

Dai Praenotanda del Benedizionale . . . . . Dal Rito degli esorcismi . . . . . . Dal Direttorio su pietà popolare e liturgia . . . . L’insegnamento della Chiesa nel Catechismo della Chiesa cattolica Le indicazioni dei vescovi italiani . . . . . Le problematiche e le proposte pastorali . . . .

150 [608] 155 [613] 159 [617] 163 [621] 165 [623] 169 [627]

RIPENSARE IL SIGNIFICATO DELLA VITA: DALLA PROPIZIAZIONE ALL’IN-VOCAZIONE, DAL POSSESSO AL DONO (Corrado Lorefice) . . . . . . . . 173 [631] Introduzione . . . . . . . . 173 [631] 1. Antropologie a confronto: sfasature e provocazioni . . 175 [633] 2. Una rilettura cristologica della vita: considerazioni a partire dalla Gaudium et Spes . . . 183 [641] 3. Il “per-dono” della vita e sua conseguenza etica . . . 187 [645] ITINERARIO DI FEDE CHE AIUTA A RISCOPRIRE IL SENSO DEL DONO (Alberto Neglia o. carm.) . . . . . . . 1. Impostazione del passato . . . . . . 2. La proposta biblica . . . . . . . 3. “Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” . . 4. Il dinamismo trinitario nell’uomo . . . . . 5. Nel battesimo il credente è iniziato al dinamismo trinitario . . 6. Assenso vitale alla fedeltà trinitaria . . . . 7. Il percorso educativo . . . . . . 8. Il coraggio della croce . . . . . .

193 [651] 193 [651] 194 [652] 196 [654] 198 [656] 200 [658] 201 [659] 202 [660] 206 [664]

NEL SEGNO UMILE DELLA BELLEZZA DI DIO. PER UNA RILETTURA DELLA DEVOZIONE DELLO SCAPOLARE DEL CARMINE

(Egidio Palumbo) . . . . 1. Tra vera devozione e magia . 2. Al vaglio della critica storica . 3. L’ habitus Mariae come forma vitae

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INTRODUZIONE

“Magia, superstizione e cristianesimo”: questa la tematica intorno alla quale i docenti dello Studio Teologico S. Paolo insieme a studiosi locali si sono impegnati nell’anno accademico 2002/03 per il consueto lavoro seminariale interdisciplinare. Il gruppo organizzatore — formato dai professori Salvatore Consoli, teologo morale, Egidio Palumbo, teologo della vita consacrata e Mario Torcivia, teologo spirituale — con la scelta di questo tema ha desiderato contribuire in ordine alla lettura e alla disamina di un fenomeno che incede sempre più anche nella nostra regione perché possa individuarsi una feconda azione pastorale, capace di coinvolgere pastori e comunità ecclesiali. La ricerca interdisciplinare è stata ipotizzata a mo’ di itinerario: un “punto di partenza” (le paure); la “tappa intermedia” (la fede come fiducia/affidamento), il “punto di arrivo” (la riscoperta del “senso del dono”). Il punto di partenza è stato costituito da un’ampia sezione di lettura e analisi della situazione riguardo alla magia e alla superstizione, sia nella società laica che nella comunità ecclesiale. Il tutto con particolare attenzione alla realtà della Sicilia. La cifra ermeneutica emersa dall’analisi è stata la categoria della paura, ovvero tutte le forme ed espressioni di paura, da quelle più evidenti a quelle inconsce: paura delle proprie responsabilità, paura di crescere e maturare in umanità, carenze educative ed affettive, paura del futuro, paura dell’altro, paura di Dio. Al fine della comprensione del fenomeno è stata richiesta ad alcuni esperti la lettura/analisi della religiosità della persona e della comunità. Due gli storici della chiesa che hanno presentato il risultato dei loro studi: Giovanni Mammino, tratteggiando la realtà inerente a “Magia e superstizione in Sicilia al tempo di Gregorio Magno” ha rilevato come il compito dell’autorità civile e dei vescovi nel VI-VII secolo consistesse nello


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Introduzione

sradicare, applicando le leggi, il fenomeno magico, considerata la sua persistenza anche nella comunità ecclesiale, specie nelle diocesi di Tindari e Siracusa. Salvatore Marino, ha analizzato invece, la “Superstizione e magia nelle preghiere siciliane del siracusano”. Tale indagine ha monitorato alcune preghiere, ancora oggi pronunciate nella zona del Siracusano. Alcune si presentano teologicamente corrette, altre manifestano evidenti formule magico-superstiziose in ordine a pericoli derivanti da perturbazioni atmosferiche e/o da animali, altre ancora costituiscono dei veri e propri scongiuri in ordine a malattie corporee. L’aspetto magico-sacrale è causato dalla pretesa di una realizzazione immediata delle richieste presentate. Si sono voluti interpellare anche tre psicologi: Fabio Sambataro e Francesco Furnari hanno evidenziato il rapporto tra “La superstizione e le patologie psichiche”. I due docenti hanno affrontato il tema della superstizione analizzando i possibili meccanismi cognitivi che ne stanno alla base e il rapporto con le patologie psichiatriche e in modo particolare lo spettro impulsivo-compulsivo dai tratti di personalità fino al disturbo ossessivocompulsivo propriamente detto. Giuseppe Raniolo ha presentato, invece, nel suo “Superstizione e magia”, l’approccio etno-psicologico al pensiero magico della nostra epoca. Lo psicologo ha analizzato la magia e la superstizione come espressione di un pensiero arcaico infantile che si caratterizza per il primato dell’egocentrismo, dell’animismo e dell’onnipotenza. Crescendo, da adulti, il pensiero magico si eclissa, o quanto meno, nel rapporto con la realtà e nell’incontro con l’altro adulto, sperimenta la propria finitezza, il proprio limite, la reciproca sete di conoscenza e di appartenenza, tollerando anche la casualità degli eventi. Per l’Autore del contributo, poi, «si ricorre alla magia quando la complessità del mondo sovrasta la capacità di adattamento dell’individuo e questi teme di confrontarsi con i propri limiti». Lo psicologo conclude l’articolo rilevando come tutti siamo immersi nella magia, che consiste oggi nella tecnologia, più che nelle pratiche magiche tout court. Rosario Gisana, biblista anticotestamentarista, ha interpellato la Sacra Scrittura sul tema “Dio e i maghi: quale sovranità”. Il risultato di tale disamina, che fa incontrare il lettore con la fede biblica — capace di educare ad una relazione personale intensa (la pietas) con Dio per mezzo di atteggiamenti di interiorità, adorazione, riflessione e ascolto — consiste nell’af-


Introduzione

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fermare chiaramente che la magia insidia il potere divino e il suo strumento mediativo: la profezia. Da qui la proibizione biblica di ogni forma magica, vero e proprio culto idolatrico, anche se l’Antico Testamento presenta dei personaggi che presentano un comportamento magico da purificare. Il teologo moralista Pasquale Buscemi ha analizzato infine la tematica della “Pietà popolare: domanda religiosa ed istanze morali nella cultura siciliana”. Per l’Autore la pietà popolare — le cui forme vanno sempre evangelizzate — è un vero e proprio “segno dei tempi”, cui prestare attenzione, sulla stregua anche del dettato magisteriale dell’episcopato siciliano, per «scoprire la voce di Dio, discernere la sua volontà e programmare l’attività pastorale della Chiesa tenendo conto della situazione socio-culturale e della maturità cristiana raggiunta dal popolo di Dio che vive in Sicilia». Operata la lettura della situazione, la tappa intermedia è consistita nel porre allo studio la centralità della fede come relazione di affidamento/fiducia nel Dio di Gesù Cristo, per fare emergere che tutto questo rappresenta una prima esigenza per uscire dalla paura. Anche qui lo psicologo, Francesco Furnari, ha esposto nel suo contributo su “Fiducia nel Dio di Gesù Cristo e modelli di attaccamento” quali dinamismi psicologici favoriscono la relazione di fiducia/affidamento — disposizione innata che forma la relazione di attaccamento — evidenziando come «il ruolo che ha la fede, la fiducia nel Dio di Gesù Cristo è di base e di completamento nel modello delle relazioni interpersonali adulte [e che] il ruolo che ha Dio e la religione può aiutare ad illuminare i processi di sviluppo come la transizione degli attaccamenti genitoriali a quelli tra pari durante l’adolescenza e le risposte alla perdita degli attaccamenti significativi nella vita adulta». Attilio Gangemi, biblista neotestamentarista, ha presentato l’Alleanza: categoria biblica per antonomasia per parlare del reciproco rapporto esistente tra Dio e il suo popolo. Ecco, pertanto, la disamina dell’alleanza stipulata durante l’esodo del popolo d’Israele dall’Egitto alla Terra promessa; di quella precedentemente stipulata con i Patriarchi e con Mosè; di quella profetizzata attraverso Osea, Geremia — unico profeta a parlare nell’Antico Testamento di “nuova alleanza” — ed Ezechiele che parla di Dio come Colui che sostituirà il cuore dell’uomo. In Gesù, infine,


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avviene la stipulazione della “nuova ed eterna alleanza”, la cui sede, secondo la riflessione paolina, è il cuore dei credenti per mezzo dell’effusione dello Spirito. Il teologo sistematico Maurizio Aliotta, ha fornito il punto di vista dogmatico per parlare di “Magia, superstizione e Cristianesimo”. Dopo aver esposto come la pretesa della magia consista nel «piegare al volere dell’uomo anche la sfera del divino» ed aver tratteggiato la differenza tra magia e scienza, l’Autore si sofferma ad evidenziare che la motivazione soggiacente a chi ricorre alla magia è «la ricerca di una via di salvezza, individuata e realizzata dall’uomo stesso». Egli, così facendo, oblia il ruolo che la Scrittura assegna invece alla gratuita prossimità di Dio verso l’uomo nonché il carattere dinamico della stessa fede biblica. L’Autore inoltre considera che i riti sacramentali vanno letti più nell’ottica di “segni” che come «azioni magiche caratterizzate da un automatismo soteriologico» e che il linguaggio rituale diventa sacramento solo se convertito dalla Parola. Il punto di arrivo dell’itinerario è la riscoperta del senso del dono. Il liturgista Gianbattista Rapisarda nel suo “Magia, superstizione e cristianesimo. Indicazione del Magistero e della liturgia del Vaticano II”, ha illustrato quanto i recenti documenti magisteriali, i rituali liturgici e il Catechismo della Chiesa Cattolica affermano sulla tematica oggetto del Seminario di studio. Per il docente di liturgia è importante catechizzare i fedeli sull’esatto significato del termine “benedizione”, saper celebrare in modo conveniente i riti benedizionali perché non vengano percepiti, a causa della fretta, come atti magici disancorati dalla fede e dall’impegno personale del credente recuperando in tal modo il contesto ecclesiale dei riti. Il teologo moralista Corrado Lorefice ha riflettuto su “Ripensare il significato della vita: dalla propiziazione all’invocazione, dal possesso al dono”. Esaminati alcuni modelli antropologici fortemente immanentisti oggi presenti per rilevarne sfasature e provocazioni, l’Autore si sofferma poi sul modello antropologico biblico per il quale storia e preghiera sono saldamente congiunte. Alcune considerazioni per una rilettura cristologica della vita alla luce del dettato conciliare della Gaudium et spes concludono lo studio di Lorefice. Alberto Neglia, teologo spirituale, ha proposto un “Itinerario di fede che aiuta a riscoprire il senso del dono”, nel quale non è l’uomo che è


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chiamato a costruirsi l’immagine di Dio. Questi, infatti, è il soggetto dell’iniziativa d’amore perdonante e gratuita nei riguardi dell’uomo, che vive la sua concreta storia particolare, fino al dono di se stesso nel Figlio. La fede in Dio Trinità produce poi la consapevolezza che la relazionalità è elemento costitutivo dell’essere umano, il quale scopre di avere bisogno dell’altro. In forza del Battesimo il credente dovrà pertanto «risignificare la propria esistenza, cioè, comprenderla ed esplicitarla a partire dall’incontro con Cristo morto e risorto, e da quello che comporta la decisione di affidarsi totalmente a lui e appassionarsi alla sua causa». Per fare questo v’è bisogno di un vero e proprio percorso educativo che tenga conto della storia del mondo, della liturgia e della storia personale del credente e che si nutra di Parola, liturgia e delle domande che solcano la storia dell’uomo, senza mai obliare la consegna alla logica imprevedibile della croce. Il teologo della vita consacrata, infine, Egidio Palumbo, nel suo “Nel segno umile della bellezza di Dio. Per una rilettura della devozione dello Scapolare del Carmine”, ha presentato un tentativo di “purificazione” e di rilettura teologico-spirituale-pastorale di una devozione popolare particolarmente diffusa in Sicilia e nel Meridione d’Italia e che la chiesa ha istituito come sacramentale. Per la Tradizione carmelitana, infatti, rivestirsi dell’abito della Madonna del Carmelo deve essere letto come il vivere la forma vitae della stessa Maria, modello di vita cristiana e carmelitana. La ricerca interdisciplinare su “Magia, superstizione e cristianesimo” sollecita alcune riflessioni conclusive inerenti al vissuto personale ed ecclesiale dei credenti. Innanzitutto qualche indicazione teologico-spirituale. Non sfugge il labile confine che a volte si instaura tra culto e magia. Qui la liturgia cristiana e le varie forme di pietà popolare sono fortemente interpellate per quanto attiene l’esperienza del dono fondata nella fede del Dio di Gesù Cristo. Due annotazioni. Benedire, nella prospettiva della fede ebraico-cristiana, significa riconoscere nelle cose di questo mondo lo statuto del dono: esse sono dono di Dio e per questo finalizzate a scelte liberanti di condivisione e di solidarietà. Inoltre, la preghiera di domanda, sempre nella prospettiva della fede ebraico-cristiana, colloca il credente nella condizione di decentramento da sé e da ogni pretesa di controllo magico della realtà, per aprirsi all’Alterità del Dio di Gesù Cristo e all’ac-


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coglienza matura e responsabile della Sua volontà. Domandare nella preghiera rende più consapevoli che l’esaudimento precede la richiesta, che il dono già offerto in Cristo e per Cristo precede e fonda la domanda: il cristiano sa che può domandare perché ha già ricevuto. Per questo l’efficacia della preghiera si pone non a livello dell’ottenimento di quanto è stato richiesto, bensì a livello del progresso della fede e della vita spirituale, dove veniamo a scoprire che la preghiera — sia nella forma liturgica che in quella dell’autentica pietà popolare — ci educa a saper rispondere a Dio e operare in sinergia con Lui nei difficili e tortuosi sentieri della vita quotidiana e della storia. Da qui un’altra indicazione di carattere pastorale. Siamo convinti che non è sufficiente, anche se certamente doveroso, condannare la magia e la superstizione e ogni forma di sincretismo. Accanto alla condanna è necessario anche un rigoroso e sapiente discernimento da parte della comunità ecclesiale — pastori e popolo di Dio, ognuno con la propria competenza e ministerialità — che sappia valutare ciò che è autentico desiderio di Dio ed anelito verso una liberazione umana integrale, sappia purificarlo da ogni falsa immagine di Dio e visione distorta dell’uomo e della storia, e sappia renderlo evangelicamente fecondo in acculturazione cristiana È importante che cresca e maturi nel popolo di Dio la consapevolezza di ristrutturare l’esistenza non sull’io, ma su Dio: è Lui la sorgente e il significato ultimo della vita, e a Lui siamo chiamati a riconsegnarla come dono custodito e offerto senza misura. Come il Figlio dell’uomo. Salvatore Consoli Egidio Palumbo Mario Torcivia


MAGIA E SUPERSTIZIONE IN SICILIA AL TEMPO DI GREGORIO MAGNO

GIOVANNI MAMMINO*

Tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo la diffusione del cristianesimo in Sicilia non si è ancora compiuta. Nonostante la legislazione bizantina appoggiasse in tutti i modi la religione cristiana continuavano ad essere ben radicati il culto pagano ma soprattutto diverse pratiche magiche e la superstizione. Dall’epistolario gregoriano emerge il ruolo fondamentale dei vescovi riguardo a questo fenomeno. Nell’ottica della difesa della religione cristiana e dell’ortodossia la legislazione giustinianea disponeva che i vescovi notificassero ai magistrati provinciali le celebrazioni dei culti pagani, nonché le violazioni delle norme contro gli eretici. Dovevano inoltre notificare all’imperatore i casi di mancata applicazione di quelle norme da parte dei governatori provinciali; se negligenti in questo, i vescovi rischiavano la deposizione1. La prima testimonianza riguardo a questi fenomeni legati alla magia, all’eresia e alla superstizione ci è data da Gregorio Magno nella lettera di risposta alla relazione del vescovo Eutichio di Tindari2. Egli segnalò al pontefice la presenza nel territorio della sua diocesi di idolatri ed esponenti della setta eretica degli angeliti3, alcuni dei quali si erano già convertiti, ma altri resistevano cercando la protezione dei potenti, ed altri ancora si nascondevano nelle montagne. Per questi casi di *

Docente di Storia della Chiesa nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cod. Iust., 1, 11, 9. 2 Ep. III, 59 (ag. 593). Sull’atteggiamento dei vescovi nei secoli precedenti riguardo al problema della magia: G. MARASCO, I vescovi e il problema della magia, in Vescovi e pastori in epoca teodosiana (Atti del XXV incontro di studiosi dell’antichità cristiana), I, Roma 1997, 225-247. 3 Gli esponenti di questa setta, tardi sostenitori delle eresie trinitarie, vengono chiamati “severiani” o “angeliti” dal nome di una zona di Alessandria chiamata Angelio. Vedi 1


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Giovanni Mammino

persistenza del paganesimo nelle campagne Gregorio informa il pretore Libertino; è compito specifico dell’autorità civile applicare quelle leggi che vietano l’idolatria e i malefici4. Quello della lotta alla magia e all’idolatria era stato uno degli obiettivi dell’azione pastorale del vescovo Massimiano di Siracusa. Egli era riuscito ad individuare anche dei chierici che praticavano dei malefici detti cantermae5, ma non aveva potuto punirli. Per essi Gregorio ordina al diacono Cipriano di infliggere una forte punizione (districta atque fortis correctio) e di chiedere aiuto per questo ed altri casi al pretore Libertino. In effetti Gregorio chiedeva l’impegno nella lotta contro la magia e l’idolatria non solo ai vescovi ma anche ai suoi collaboratori nella gestione del patrimonio; esigeva inoltre anche l’appoggio dello Stato ed in particolare del pretore. Negli anni successivi al 595 fu questa infatti la linea di condotta. In una lettera al notaio Adriano il pontefice esprimeva tutto il compiacimento nei suoi riguardi per la sollecitudine dimostrata nell’aver perseguito maghi e indovini (incantatores atque sortilegos) e allo stesso tempo lo incoraggiava a continuare a cercare queste persone e a punirle severamente (districta ultione corrigere)6. La stessa cosa avviene con Paolo, scolastico dell’ex console Leonzio, lodato da Gregorio perché premuroso e severo nel punire i maghi7. In Sicilia sono dunque presenti diverse tipologie di persone non ancora raggiunte dal cristianesimo o in contrapposizione ad esso, come gli idolatri e gli eretici angeliti, ed anche altre tendenze legate alla magia e al sortilegio che continuavano a convivere in alcuni casi all’interno della anche: NICEPHORVS CALLISTVS, Historia ecclesiastica, XVIII, 49 (PG 147,432); Per le pratiche magiche e superstiziose in Sicilia: L. CRACCO RUGGINI, La Sicilia tra Roma e Bisanzio, in Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, 5-6, nota 16. S. GASPARRI, Gregorio Magno e l’Italia meridionale, in Gregorio Magno e il suo tempo (Atti del XIX incontro di studiosi dell’antichità cristiana), I, Roma 1991, 91. 4 Cod. Iust., 9, 18. 5 Ep. V, 32 (20 apr. 595). Nel Du Cange troviamo la seguente definizione: canterma, maleficii species aut incantationis unde forte nomen, “susurrus magicus”. Un caso simile di un presbitero di Reggio accusato di idolatria lo troviamo in Ep. X, 2, 5-9 (ott. 599). S. GASPARRI, Gregorio Magno e l’Italia meridionale, cit., 91. 6 Ep. XI, 33 (giu. 601). 7 Ep. XIV, 1, 8 (sett. 603): [...] omnino uos in ultione maleficorum sollicitos ac districtos.


Magia e superstizione in Sicilia al tempo di Gregorio Magno 17 [475]

comunità cristiana, come avvenne per i chierici macchiatisi di maleficio8. Riguardo agli eretici, perseguiti alla stregua di coloro che praticavano la magia e la superstizione, è segnalata la presenza non solo di angeliti ma anche di monofisiti e manichei. Per questi ultimi Gregorio incaricò il diacono Cipriano di richiamarli in tutti i modi alla fede cattolica. Alcuni monofisiti del patriarcato di Alessandria, venendo in Sicilia, si convertirono e, ritornando nella loro città, chiesero di essere raccomandati al patriarca da Gregorio per evitare che gli altri eretici monofisiti li molestassero9. La situazione della diocesi di Tindari è emblematica per tutta l’isola: gli idolatri e gli eretici non rappresentano un gruppo molto rilevante perché gran parte di essi si erano già convertiti. Nelle zone rurali più interne è attestata la presenza di idolatri o di piccoli gruppi di eretici oriundi dall’Oriente. L’accenno alla conversione di molti di essi (plures asseruisti esse conuersos) fa pensare ad un lento processo di disgregazione, favorito certamente dall’applicazione della legislazione giustinianea, ma soprattutto dalla diffusione capillare del latifondo ecclesiastico con il conseguente controllo del territorio. Agli idolatri e ai piccoli gruppi di eretici non restava altro che ricorrere alla difesa dei potentiores per ottenere impunità o scegliere la fuga e l’isolamento presso montagne e luoghi impervi. Forse il vescovo Eutichio, inviando la lettera a Gregorio, volle chiedere aiuto perché si era reso conto che quello era il tempo favorevole per stroncare l’idolatria e l’eresia mediante l’applicazione delle leggi. Il cambio avvenuto nella pretura siciliana faceva ben sperare; dal nuovo pretore Libertino ci si poteva aspettare qualcosa di più rispetto all’atteggiamento negligente, frutto di corruzione, che aveva caratterizzato l’operato del predecessore Giustino10. 8 Riguardo ai termini utilizzati per la Sicilia da Gregorio per descrivere le varie categorie di persone implicate nell’eresia, nella magia e nell’idolatria: “Angelliorum dogmatis”, “idolorum cultores” (Ep. III, 59, 5-6); “maleficio“ (Ep. V, 32, 5); “incantatores atque sortilegos” (Ep. XI, 33, 2); “ultione maleficorum” (Ep. XIV, 1, 8). Un sintomo del fenomeno della diffusione di culti idolatri lo riscontriamo nell’episodio narrato in Ep. III, 37, 3-7 (mag. 593) dove un giudeo di nome Nasa, dopo aver costruito un altare dedicato a S. Elia, induceva i cristiani compiere atti di culto idolatrici. 9 Ep. V, 7, 2-6 (ott. 594); Ep. XII, 16 (ag. 602). Per la presenza di eretici in Sicilia: L. CRACCO RUGGINI, La Sicilia tra Roma e Bisanzio, cit., 63, nota 35. 10 Nel Registrum non troviamo la lettera che Gregorio invia a Libertino per la questione degli idolatri e degli angeliti del territorio di Tindari. Nell’Ep. III, 37 (apr.-mag.


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Giovanni Mammino

Il fenomeno della magia, dei sortilegi e dei malefici sembra latente e difficilmente quantificabile. La cosa che più stupisce è che tale tendenza si manifesta anche all’interno delle comunità cristiane. Se in Gregorio desta particolare indignazione il fatto che siano dei chierici a cadere nel peccato dei malefici, è facile immaginare ciò che poteva avvenire nel popolo. Per certi aspetti, riguardo alla problematica di cui si è trattato, la situazione della Sardegna non differisce molto da quella siciliana. In quell’isola, ancora di più, ci sono dei contadini dediti all’idolatria ed è attestata la presenza di aruspici e indovini. Così anche in Corsica dove il vescovo di Aleria viene incoraggiato a dare delle penitenze a quei battezzati che per negligenza o necessità ritornavano al culto degli dei. Al vescovo di Terracina Gregorio ordina di essere severo nel punire coloro che rendono culto agli alberi e commettono azioni illecite contro la fede cristiana11. Il problema del ritorno ai culti idolatrici o di una non compiuta evangelizzazione sembra diffuso ovunque, soprattutto nelle isole; ed è per questo che Gregorio insiste con i vescovi perché si facciano promotori di conversione al cristianesimo, ma anche con le autorità politiche, chiamati in prima persona a far applicare le leggi che vietano la pratica dell’idolatria e della magia.

593) egli incoraggia il nuovo pretore ad applicare quelle leggi che il predecessore Giustino, corrotto da vari interessi, non aveva voluto rendere operative. 11 Per la situazione in Sardegna: Ep. IV, 23; 26 (mag. 594); in Corsica: Ep. VIII, 1 (sett. 597); a Terracina: Ep. VIII, 19 (apr. 598). Sulla situazione dell’Italia meridionale: S. GASPARRI, Gregorio Magno e l’Italia meridionale, cit., 90-93.


SUPERSTIZIONE E MAGIA NELLE PREGHIERE SICILIANE DEL SIRACUSANO

SALVATORE MARINO*

La preghiera apre la solitudine dell’uomo e lo rende sempre disponibile alla speranza e al futuro1, essa è quindi una dimensione essenziale di tutte le religioni ed è una esperienza molto più accentuata e pervasiva in una società prevalentemente agricola, dove l’uomo dipendendo dalle condizioni atmosferiche sperimenta la sua continua dipendenza da Dio. È soprattutto quindi in queste società che «l’umano ed il naturale tendono a perdere la loro autonomia e ad essere assorbiti dal metastorico. Si crea di conseguenza la convinzione che ci si possa ‘servire’ del divino — attraverso intermediari —, per manipolarlo a propria utilità e piacimento. La religiosità che ne risulta è essenzialmente magico-superstiziosa»2.

«Infantilismo, miracolismo, provvidenzialismo deresponsabilizzante, tendenze magico-superstiziose» fanno parte della religiosità popolare3, essendo questa «caratterizzata dalla spontaneità e immediatezza del vissuto…» e quindi dalla sogettività, ne segue che «l’ambiguità è insita nella spontaneità, nell’affettività e nell’emozionalità che caratterizzano questa esperienza religiosa»4. Tenendo conto di queste caratteristiche si può * Docente di Storia della Chiesa e Storia delle Religioni nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 Cfr G. RAGOZZINO, Il fatto religioso, Padova 1990, 45. 2 G. MATTAI, Religiosità popolare in Nuovo Dizionario di Spiritualità a cura di S. De Fiores - T. Goffi, Roma 1979, 1322. 3 Per tutte le problematiche relative a questa religiosità rinvio a Synaxis XVI/2 (1998). 4 G. PANTEGHINI, La religiosià popolare, Padova 1996, 179-180.


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affermare che «l’atteggiamento magico non è legato ad un determinato stadio più o meno arcaico della civiltà umana. Cova nel cuore dell’uomo di ogni tempo e luogo»5, perchè è legato al suo personale rapporto con Dio. Se ciò e vero, tale constatazione vale anche per l’uomo cristiano, malgrado sia chiaro che «sotto il profilo teorico, religione cristiana e superstizione sono completamente diverse»6, infatti la fede donata nel battesimo «tutto rischiara di luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo e perciò guida l’intelligenza verso soluzioni pienamente umane» (GS 11). Ciò significa che per il cristiano la fede, derivante dalla adesione a Cristo, non è soltanto un insieme di proposizioni teologiche, ma è legata strettamente alla propria vita vissuta e quindi alla vita degli altri, cioè alla storia. Questo legame con la storia implica influssi nelle due direzioni, sia della fede verso la storia che di questa verso quella, e non sempre gli influssi sono neutrali ma producono interrogativi e contaminazioni di vario tipo. In questa breve ricerca mi interesserò soltanto ad alcuni aspetti di queste contaminazioni in relazione all’ambito delle preghiere siciliane del siracusano. Preghiere che mentre fino ad almeno la metà del secolo scorso esprimevano una realtà viva del nostro popolo, oggi possiamo affermare con certezza che sono diventate assolutamente marginali, essendo legate solo ad alcune categorie di anziani più legati al passato. Occorre ricordare fin dall’inizio che le preghiere siciliane sono tantissime e le più varie, perchè di fatto investono sia la dimensione più espressamente teologica che la vita quotidiana. Diverse sono di una chiarezza e coerenza teologica tale che chiaramente viene confermato che «spesso all’origine di alcune tradizioni ‘popolari’ vi è l’azione di chierici dotti»7, mentre in molte altre si conferma che «la superstizione sorge da un senso religioso male illuminato: essa è legata ad una religiosità che non è ancora giunta a conoscere il vero volto di Dio, quello fatto risplendere dalla parola di Dio che si rivela nel Cristo»8, 5

G. RAGOZZINO, Il fatto religioso, cit., 29. G. DE ROSA, La religione popolare, Roma 1981, 43. 7 M. ALIOTTA, Introduzione a Synaxis XVI/2 (1998), 354. 8 D. TETTAMANZI, Religione, in Dizionario di teologia morale a cura di L. Rossi A.Valsecchi, Roma 1976, 891-892. 6


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano

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questa superstizione anche per le preghiere siciliane si manifesta nel dare un valore pressocchè infallibile a certe formule da recitare in modo preciso e in circostanze particolari e nell’adulterare i riti per riuscire a incidere e possibilmente cambiare il corso della storia9. La mia ricerca tende soprattutto a fare emergere una dimensione magico-superstiziosa presente in diverse preghiere del siracusano, ma non voglio assolutamente affermare che tutte le preghiere siano inficiate da questa dimensione. Così voglio iniziare con il presentare alcune preghiere che sono teologicamente esatte.

1. PREGHIERE INCULTURATE Molte preghiere siciliane sono teologicamente esatte e sono legate sia ai momenti della vita quotidiana (alzarsi-dormire, lavoro-problemi) sia alla devozione (Madonna-Santi-Sacramenti) che alla modalità di frequenza in chiesa (Domenica-novene). Queste sono le più esatte teologicamente e vi si avverte alla base, malgrado qualche contaminazione, la presenza del clero. A modo di esempio tra tutte queste preghiere ne presento alcune legate alle virtù teologali: i famosi atti di fede speranza e carità, che venivano recitati con le altre preghiere del mattino, cui aggiungerò l’atto di dolore, legato alla confessione e alla rassicurazione serale di dormire in pace con Dio. Atto di fede Signuri iu cridu tri pirsuni divini e ‘n solu Dio lu quali castiga li mali e premia li e cridu a lu Figghiu di Diu ca calau di ‘n celu ‘n terra si fici omu comu a nui na lu senu purissimu di Maria nasciu, patiu, morsi ‘n cruci 9

Signore io credo tre persone divine e un solo Dio il quale castiga i cattivi e premia i buoni e credo nel Figlio di Dio che è disceso dal cielo in terra si fece uomo come noi nel seno purissimo di Maria nacque, patì, morì in croce

M. ZALBA, Superstizione, in ibid., 1071-1072.


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pi’ salvari l’anima nostra e cridu ca na l’ostia cunsacrata c’è nostru Signuri Gesù Cristu, veru Diu e veru omu comu ‘n celu ccussì na l’ostia cunsacrata; e cridu tutti l’articuli ca n’ansigna tutta la Chiesa cattolica, apostolica, romana, pirchì tuttu è veru, l’ha rivilatu Diu, lu quali nun po’ ‘ngannari e mancu voli essiri ‘ngannatu.

per salvare l’anima nostra e credo che nell’ostia consacrata c’è nostro Signore Gesù Cristo vero Dio e vero uomo come in cielo così nell’ostia consacrata e credo tutti gli articoli che ci insegna tutta la Chiesa cattolica, apostolica romana perchè tutto è vero, l’ha rivelato Dio il quale non può ingannare e neanche vuole essere ingannato.

Atto di speranza Signuri, io speru pi’ la voscia divina buntà e misericordia pe’ meriti di Gesù Cristu e ‘ntercessioni di Maria u pirdunu de’ piccati, a razia finali e a gloria di lu santu Paradisu.

Signore io spero per la vostra divina bontà e misericordia per i meriti di Gesù Cristo e l’intercessione di Maria il perdono dei peccati la grazia finale e la gloria del santo Paradiso.

Atto di carità Signuri, vi amu e vi voiu amari cu tuttu lu cori e l’arma mia, pirchì siti Diu dignu di siri amatu supra ogni cosa e pi’ l’amuri vostru amu lu prossimu miu comu mi stissa e pirdugnu di cori a cu m’ha ‘ffisu10.

Signore vi amo e vi voglio amare con tutto il cuore e l’anima mia perchè siete Dio degno di essere amato sopra ogni cosa e per l’amore vostro amo il prossimo mio come me stessa e perdono di cuore a chi mi ha offesa.

10

Informatrice MARINO VINCENZA, casalinga, anni 79.


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano

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Come si può notare, oltre la assoluta carenza di rima e di ritmo, vi è una sostanziale relazione, sembra addirittura una traduzione letterale, con le corrispondenti preghiere ‘ufficiali’, anche se nell’atto di fede vi è un inserimento relativo all’Eucaristia e sembra emergere più chiaramente che nelle corrispondenti italiane un Dio giudice. Però un vero processo di inculturazione già emerge nella preghiera relativa al pentimento, dove, malgrado la sostanziale somiglianza di teologia con la corrispondente preghiera ‘ufficiale’, da una parte vi è una più ampia elaborazione dei temi e dall’altra vi è la presenza di un procedemento in rima, che è propria di quasi tutte le preghiere e le formule siciliane. Atto di dolore Diu, mi pentu, Diu, mi pentu ca v’haiu affisu a tradimentu, v’haiu affisu summu beni pir mia morti ‘n cruci e peni. Varda, varda a cu haiu affisu a cu mi duna lu paradisu; mi pò dari u focu eternu casticari na l’unfernu. Mai mai piccari cchiui vi purmettu,miu Gesù. Primu, Diu, voiu muriri ca turnarivi a tradiri nè d’affenniri a vostra divina buntà e misiricordia, Signuri11.

Dio, mi pento, Dio, mi pento che vi ho offeso a tradimento (tradendovi) vi ho offeso sommo bene (che) per me (sei) morto in croce (con grandi) pene Guarda, guarda a chi ho offeso a chi mi da il paradiso mi può dare il fuoco eterno castigarmi nell’inferno. Mai mai peccace più Vi prometto, o mio Gesù Prima, o Dio, voglio morire che tornar(vi) a tradire(vi) nè di offendere la vostra divina bontà e misericordia, o Signore.

Questa conclusione mi sembra influenzata dalle nuove conoscenze religiose apprese nel tempo dall’informatrice, credo sia più aderente al siciliano e al ritmo della preghiera quest’altra conclusione, anche se l’ultimo rigo non ha la rima baciata. Speru la salvazioni pì la morti e passioni; spero lu pararisu pieehì Diu ni l’ha prummisu. 11

Spero la salvezza eterna per la morte e passione (di Gesù) spero il paradiso perchè Dio ce lo ha promesso.

Informatrice MAZZARELLA GIUSEPPA, casalinga, anni 76.


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Ni l‘ha prummisu e ni l’ha dari se simmu veri cristiani12.

Ce lo ha promesso e ce lo deve dare se siamo veri cristiani.

Questo richiamo alla salvezza eterna mi permette di ricordare che molte preghiere siciliane sono legate al tema della morte, che è un problema centrale per la vita dell’uomo e come tale è affrontato in tutte le religioni. Tra le varie preghiere ne voglio presentare soltanto due legate agli angeli. Mentre la prima è teologicamente corretta, la seconda è diventata una filastrocca e fa emergere il passaggio dall’inculturazione teologica alla deformazione magico-superstiziosa tipica del popolo, che è il tema principale della ricerca. Angilu santu, custoddiu miu, siti binigno, valurusu e forti va raccumanno lu spiritu miu quannu sugnu a lu fini la morti; e si m’incontra lu dimonio fausu e riu Angilu santu a vui mi tegnu forti si tutti facemu la vuluntati di Diu ‘n paradisu si rapunu li porti13.

Angelo santo, custode mio, siete benigno, valoroso e forte vi raccomando lo spirito mio quando sono in punto di morte; e se mi incontra il demonio selvaggio e malvagio Angelo santo a voi mi aggrappo fortemente se tutti facciamo la volontà di Dio del paradiso si aprono le porte.

San Micheli cull’ali, cull’ali ‘n paradisu mi voli purtari ‘n paradisu c’è Maria cu tri libbra ca liggia e liggia la passioni facennu festa e cuminioni Cu la sapi dilla dilla cu ’n’ a sapi ‘mpariccilla si no quannu mori setti balati na lu cori14.

San Michele con le ali, con le ali in paradiso mi vuole portare in paradiso c’è Maria con tre libri che leggeva e leggeva la passione facendo festa e comunione (Eucaristia) Chi la sa la dica la dica a chi non la sa insegnagliela se no (altrimenti) quando muori sette grosse pietre (tombali) avrà sul cuore.

12

Informatrice FRANCO GIUSEPPINA, casalinga, anni 85. Informatrice BURGO SEBASTIANA, casalinga, anni 94. 14 Informatore BURGIO PAOLO, contadino, anni 80. 13


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano

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2. PREGHIERE-FORMULE MAGICO-SUPERSTIZIOSE Presento ora alcune preghiere-formule che con una certa difficoltà sono riuscito a raccogliere a Solarino. Molte persone, anche miei parenti e conoscenti, si sono rifiutate di rivelarmi tutto ciò che loro conoscono, perchè credono fermamente che in tal caso esse perderebbero ogni potere in relazione alla capacità di realizzare quanto richiesto. È inutile ricordare che chi recita tali preghiere è seriamente convinto del loro reale effetto pratico su fenomeni naturali e su malattie. Ho cercato dividere il materiale raccolto tenendo conto del diverso ‘oggetto’ cui ci si riferisce. Comincio da quelle preghiere che si recitavano per ottenere la liberazione da calamità atmosferiche. In una società contadina arcaica, in cui il raccolto dipende dalla variazioni stagionali, è importante che nulla turbi il ciclo naturale.

2.1. In pericoli derivanti da perturbazioni atmosferiche Comincio con una una serie di preghiere recitate in occasione di gravi temporali, pericolosi per la campagna e che incutono timore a quanti si trovano da soli in casa. Santa Barbara nun viniti (o viditi?) ca tri nuvuli vidu viniri una di acqua, una di ventu una di speci draunara15 Pigghia ‘n cuteddu e tagghila na lu menzu e ghiettila na na cava scura unni nun ci canta iaddu e nun ci nasci nudda criatura16

Santa Barbara non venite (o vedete?) che tre nuvole vedo venire una di acqua, una di vento una che sembra un dragone scuro Prendi un coltello e tagliala a metà gettala in una burrone oscuro dove non canta il gallo e non vi nasce nessuna creatura (cosa)

15 Draunarà in questo caso è un aggettivo, e significa dragone scuro, animale con cui si identificava il diavolo. Si tratta di una nuvola temporalesca molto scura. 16 Informatrice VALVO CARMELA, casalinga, anni 65.


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Santa Barbara, nun durmiti ca li lampi su vinuti, su vinuti pi longa via, Santa Barbara è cu mia17.

Santa Barbara non dormite perchè i fulmini sono arrivati sono venuti da lontano Santa Barbara è con me.

Santa Barbara, santa Barbara, si tu dormi, nun durmiri. Rapi li porti e dduma i cannili. li cannili su ddumati, li piccaturi chiamunu pietati18.

Santa Barbara, santa Barbara se tu dormi, non dormire Apri le porte ed accendi le candele le candele sono accese i peccatori chiedono pietà.

In queste preghiere santa Barbara è invocata come protettrice contro il temporale. In altri paesi però il protettore è S. Giovanni. Anche se l’atteggiamento di fondo è di preghiera, i verbi sono quasi tutti all’imperativo, caratteristica questa di una forma impositiva propria della magia. Questa aspetto emerge più chiaramente in altre. Quando infatti la nuvola è particolarmente pericolosa perchè c’è al seguito la ‘cuda draunara’, cioè una tromba d’aria (che quando è piccola si chiama mazzamariddata-vortice), tale calamità può essere debellata dicendo questa preghiera in cui si invoca la SS.Trinità, quasi a riconoscere in questo modo la gravità del pericolo: Nuomu di lu Patri di lu Figghiu e pi’ virtù di luil Spiritu Santu tagghiti cuda d’ogni cantu.

Nel nome del Padre e del Figlio e per virtù dello Spirito Santo tagliati coda da ogni parte.

Però poi si deve recitare un Padre Nostro ed una Ave Maria allo Spirito Santo!19 Questa dimensione più magico-superstiziosa emerge in queste due invocazioni chiaramente alterate, la prima rimanda a mio parere alle litanie:

17

Informatrice CALAFIORE GAETANA, casalinga, anni 85. Informatrice GALLO PAOLA, casalinga, anni 80. 19 Informatore MALLIA PAOLO, contadino, anni 80. 18


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano Sant’Anna Susanna Prutesta Maria Populu Cristi Furca e timpesta Libera nos domini20.

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Sant’Anna Susanna protesta (?) Maria popolo di Cristo forca e tempesta libera nos domine.

La seconda lega i pericoli del cielo con le tentazioni Pasqua Tufania Natali Assunzioni Ti scungiuru ntentazioni21.

Pasqua Epifania Natale Assunzione ti scongiuro (vai via) tentazione.

Concludo questa rassegna con una preghiera rivolta direttamente alla Madonna. Si può notare un atteggiamento più deferente e affettuoso, i verbi all’imperativo rivolti a Maria sono meno aggressivi e perentori, tranne l’ultimo rivolto al muro e legato alla paura del terremoto, fenomeno molto presente nella storia dei siciliani. O Madonna di li osca ui siti na na cammira a lu scuru e tri angili aviti a li pedi e tri nuvili viditi viniri una di iacqua, una di ventu, una di ranni draunara la pighiati e la stuccati ‘n mezzu e la ittati na na funna cava unni nun ci sunu vischi unni nun ci sunu cardinali unni nun c’è nudda arma cristiana. Fermiti muru e nun trimari Agnus Dei, miserere nobis22.

20

O Madonna dei boschi voi siete in una stanza al buio e tre angeli avete ai piedi e tre nuvole vedete venire una di acqua, ina di vento, una grande come una dragone scuro la (questa ultima) prendete e la tagliate a metà e la gettate in un profondo burrone dove non ci sono vecovi (!) dove non ci sono cardinali (!) dove non c’è nessuna anima cristiana (nessuna persona). Fermati muro (della casa) e non tremare Agnus Dei, miserere nobis.

Informatrice GALLO PAOLA, casalinga, anni 80. Informatrice AMATO GIUSEPPA, casalinga, anni 70. 22 Informatrice CALAFIORE GAETANA, casalinga, anni 85. 21


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Mi è stata recitata un’altra preghiera che l’informatrice dice essere legata a questi gravi fenomeni atmosferici. Mi sembra una realtà ibrida, da una parte credo legata all’inculturazione della fede (il Verbo, la redenzione, il giudizio…) dall’altra invece a forme corrotte dovute forse alla trasmissione popolare, esistono infatti in paese delle varianti. Si tratta di una preghiera molto lunga e complessa: è presente una catechesi, una filastrocca, uno scongiuro. Si fa una comparazione tra un forte temporale e il giorno del giudizio, quando lo stesso Gesù morto in croce siederà “tremendo” a giudicare tutti nella valle di Giosafat. Lu verbu sacciu e lu verbu voiu diri chistu è lu verbu di nostru Signuri. Nostru Signuri vinni a muriri pi’ nui piccaturi. O piccaturi, o piccatrici, non vidi quantu è gghiauta sta cruci quantu è gghiauta e quantu è bedda ca stenni ‘nvurazzu ‘n celu e l’aurtùn terra chiddu in terra n’ama bbrazzari, chiddu ‘n celu n’ama ‘ddurari.

Il verbo conosco e il verbo voglio dire questo è il Verbo di nostro Signore. Nostro Signore venne a morire per noi peccatori. O peccatore, o peccatrice, non vedi quanto è alta questa croce quanto è alta e quanto è bella che estende un braccio in cielo e l’altro in terra quello a terra lo dobbiamo abbracciare quello in cielo lo dobbiamo adorare.

Na la valle di Giusefà picciuli e rranni ama gghiri dda. c’era san Giuvanni cu nu libriceddu d’oru ca liggia iddu liggennu e iddu scrivennu: – O maistru, chi nun ci n’avi ti pietà? – Chi pietà ci haiu a ‘aviri ca nun varduno nè festa nè simana ca nun vardunu nè a tia nè a mia e nemmenu a la Virgini Maria.

Nella valle di Giosafat piccoli e grandi dobbiamo andare là. c’era San Giovanni con un libricino d’oro che leggeva lui leggendo e lui scrivendo: – O maestro, che non avete pietà? – Che pietà devo avere(per gli uomini) che non guardano nè le feste nè la settimana che non guardano nèa te nè a me e nemmeno alla Vergine Maria.


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano A Matri Santa rispunni e dici: Cu verbu sapi e nun lu dici setti palati di focu e di pici, cu lu sapi e nun lu ‘mpara23 setti palati di focu e di pala, cu lu dici tri voti a capizzu nè paura, nè trimulizzu, cu lu dici tri voti a peri nè paura nè mali pinseri, cu lu dici tri voti o ciancu nè paura di tronu nè di lampu24.

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La Madre Santa (Madonna) risponde e dice: Chi il verbo sa e non lo dice sette palate di fuoco e di pece, chi lo sa e non lo insegna sette palate di fuoco e (colpi) di pala, chi lo dice tre volte accanto al cuscino non avrà nè paura nè tremarella, chi lo dice tre volte a piedi (camminando) non avrà nè paura nè cattivi pensieri, chi lo dice tre volte girato di fianco non avrà paura nè di tuoni nè di fulmini.

Nella variante della parte finale, emerge più chiaramente l’insieme di fede inculturata e di superstizione popolare. cu la dici tri voti a capizzu nun n’avi paura di trimulizzu cu la dici tri voti a la gnuni nun n’avi paura di mali pirsuni, cu la dici tri voti pi’ via nun avi paura di morti ria, cu la dici tri voti in campagna nun avi paura di trona e di lampi, cu la dici tri voti a lu sabitu ria si ni cchiana ‘n celu cu la Vergini Maria25.

chi lo dice tre volte accanto al cuscino non avrà paura della tremarella, chi lo dice tre volte all’angolo (della stanza) non avrà paura della cattive persone, chi lo dice tre volte per strada(camminando) non avrà paura di morte violenta, chi lo dice tre volte in campagna non avrà paura di tuoni e di fulmini chi lo dice tre volte in giorno di sabato se ne sale in cielo con la Vergine Maria.

Voglio tuttavia concludere questo primo paragrafo in modo positivo. Presento una preghiera che veniva recitata a conclusione della trabbiatura del frumento, naturalmente fatta con gli animali e con il tipico tridente adatto. È una preghiera da cui emerge l’animo cristiano dei nostri contadini di un tempo e la dimensione anche eucaristica del frumento.

23 Imparare nel dialetto siciliano molte volte vuol dire “insegnare”, come in questo caso. 24 Informatrice VALVO CARMELA, casalinga, anni 65. 25 Informatrice BURGO SEBASTIANA, casalinga, anni 94.


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Nesci lu suli, tri cavaddi d’oru26 d’oru e d’argentu pi’ fari lu frummentu, lu frummentu va a quaranta e tutta la notti canta canta viola viola lu nostru cori si cunsola e gridamu cun firvuri viva lu Santu Salvaturi, sia ludatu e ringraziatu ogni mumentu lu Santissimu Sacramentu27.

Esce il sole, tre cavalli d’oro d’oro e d’argento per fare il frumento, il frumento ha reso il quaranta e tutta la notte canta canta viola viola (cioè sottovoce) il nostro cuore si consola e gridiamo con fervore viva il Santo Salvatore, sia lodato e ringraziato ogni momento il Santissimo Sacramento.

2.2. In pericoli e rischi legati agli animali In una società contadina il rapporto con gli animali è continuo ed essenziale. Questi possono essere sia selvatici, e quindi pericolosi e sono così da controllare ed esorcizzare, sia domestici, questi devono essere difesi e protetti, ma anche controllati se diventano pericolosi. Così le preghiere sono le più varie. Comincio con lo scongiuro contro i lupi, animale ormai da noi estinto. Cosi il piccolo contadino — allevatore di poche pecore — si difende da questo animale, ma anche dai ladri, che al lupo sono equiparati. San Silvestru supra nu munti stava centu e na vistiuledda vardava passa nu lupu di la luparia e si mangiau a megghiu vistiuledda c’avia. Passa Gesù e Maria e ci dissi: – Silvestru, chi hai ca cianci? – E c’aia aviri, Matri mia,

San Silvestro sopra un monte stava cento e una bestiolina (pecorelle) custodiva passa un lupo di un branco di lupi e si mangiò la migliore pecorella che aveva. Passa Gesù e Maria e gli disse(al singolare!): – Silvestro, cosa hai che piangi? – E cosa devo avere, Madre mia,

26 A mio parere qui si ha un richiamo alla Trinita (il numero tre), in altre preghiere è definita tri sbrannuni d’oru, cioè tre torce infuocate d’oro. 27 Informatore MALLIA PAOLO, contadino, anni 80.


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano passau lu lupu di la luparia e si mangiau la megghiu vestia c’avia. – Pirchì nun ci dicevutu a storia mia? – Matri mia, nun la sapia! – Sutta via e supra via nun tuccari a vestia mia! A lu latru ci attaccau la menti a lu lupu li vranchi e li denti28.

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passò il lupo di un branco di lupi e si mangiò la migliore pecorella che avevo. – Perchè non gli dicevi la mia storia? – Madre mia, non la sapevo! – Sotto la via e sopra la via non tocccare la bestia mia! Al ladro gli legò la mente (lo bloccò) al lupo le mascelle e i denti.

Ho rintracciato un’altra preghiera utile a raggiungere lo stesso scopo, in questa però la dimensione magica è presente fin dall’inizio, infatti per essere efficace la preghiera va insegnata soltanto nella notte di Natale, all’interno delle ultime tre ore della giornata. Inoltre le parole della stessa preghiera sembrano fare allusione ad un possibile precedente meleficio subito dal contadino, così questo sembra essere costretto a recitarla per poter far sopravvivere il proprio bestiame. Nasci a sett’uri29 lu veru Missia mi vidu tri missi cu la fantasia o stidda ca nascisti a lu livanti nun fari jri lu rucculu avanti! O stidda ca nascisti a lu punenti leva la fatta e cci attacchi li denti Attacchi lu denti tutti l’uri ora ca di notti sciu lu suli! Lassa lu lupu cu la luparia tri migghia arrassu da vistia mia. Crieleisò, Crieleisò Gesù Cristu tuttu può.

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Nasce fra sette ore il vero Messia mi vedo30 tre messe con la fantasia o stella che nascesti al levante non fare andare l’ululato (del lupo) avanti! O stella che nascesti al ponente togli la fattura e legagli i denti Legagli i denti a tutte le ore ora che che di notte è nato il sole! Lascia il lupo con il suo branco di lupi tre miglia lontano della mia bestia. Kirye eleison, Kirye eleison Gesù Cristo tutto può.

Informatrice CALAFIORE GAETANA, casalinga, anni 85. Nella Sicilia antica le ore si contavano a partire dal tramonto, così qui ci si riferisce verso le ventiquattro. 30 Si fa allusione alle tre messe di Natale. Notare il verbo ‘vedere’, che è caratteristico della nostra gente quando si riferisce a cerimonie liturgiche. 29


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Faccio un altro nodo alla mia cintura Nautru ‘ruppu a la curria e m’affranchisciu lu vistiami mia31. e mi libero32 il bestiame mio.

Anche i cani, che per il contadino-pastore abitualmente sono amici e compagni di lavoro, possono diventare simili ai lupi quando ringhiando rischiano di avventarsi contro il bestiame o possono fare del male a delle persone. Il protettore riconosciuto contro questo pericolo è San Vito, ci si rivolge a lui con diverse formule per ‘incantesimare’, cioè bloccare e rendere inoffensivo, il cane. Ho scelto queste due preghiere-scongiuro perché è presente una diversa ‘dose’ di magia. Santu Vitu, Santu Vitu, quanti voti vi lu dicu attaccatimi sti cani ca mi volunu muzzicari. Cu lu fazzuletto russo, attaccatici lu musso, cu lu fazzuletto janco, attaccatici lu ciancu33.

Santo Vito, Santo Vito, quante volte ve lo dico bloccatemi questi cani che mi vogliono mordere. Col fazzoletto rosso, bloccategli il muso, con il fazzoletto bianco, bloccategli i fianchi.

Santu Vitu, Santu Vitu, Santu Vitu, su tri voti ca vu dicu chiamativi a li cani nun mi faciti muzzicari. Chianta di nuci e di oru calatu teniti cani ca t’aiu attaccatu.

Santo Vito, Santo Vito, Santo Vito, sono tre volte che ve lo dico chiamatevi i cani non mi fate mordere. Pianta di noce e di oro puro fermati cane che ti ho bloccato.

Come si può notare questa preghiera sembra non essere legata al pericolo immediato, ma sembra piuttosto un modo di rassicurarsi sul pericolo in genere, tanto che durante la preghiera si devono fare tre nodi con 31

Informatore MALLIA PAOLO, contadino, anni 80. Il verbo siciliano suggerisce l’idea di essere liberato da un peso che si ha sopra, il paragone potrebbe essere fatto con una ipoteca bancaria. C’è quindi l’allusione ad un precedente maleficio fatto sul proprio bestiame. 33 Informatrice FRANCO GIUSEPPINA, casalinga, anni 85. 32


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano

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una cordicella. Quando il pericolo è cessato si ‘disincanta’ il cane sciogliendo i tre nodi e dicendo ogni volta: Guardu l’occhi a la marina sciogghiti cani di sta catina34.

Guardo con gli occhi verso il mare sciogliti cane da questa catena (legame magico).

Vi sono altre preghiere sia contro il morso delle serpi che contro quello delle api. Le tralascio, voglio però riprendere tra le altre questa preghiera, certamente corrotta, manca infatti una parte di rima, che serviva ad eliminare le conseguenze derivanti dal morso di un animale sconosciuto. È sorprendente il miscuglio di riferimenti teologici all’incarnazione e alla Trinità, questo probabilmente è dovuto al fatto che si richiede una protezione più potente. Così abbiamo contemporaneamente nella stessa preghiera una maggiore presenza sia di contenuto teologico sia di superstizione e magia. Lu Signuruzzu nasci a Bitlemmi lu Signuruzzu mori a Gerusalemmi lu Verbu caru fattu sestu e di lu piccatu fattu mestu: ietta ssu vilenu ddocu ‘nterra, iu sacciu lu viziu tuu nu sacciu c’animali sì tu.

Il Signore35 nasce a Betlem il Signore muore a Gerusalemme il Verbo si è fatto carne36 e dal peccato è stato reso mesto (ma anche pesto): getta questo veleno quì in terra, io conosco il tuo vizio (cioè sei pericoloso) Anche se non conosco che animale sei.

Gloria Patri, Figghiu e Spiritu santu37.

Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.

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Informatore GENOVESE GAETANA, casalinga, anni 80. In siciliano è un diminutivo-vezzeggiativo che si una con una persona con cui si ha molta confidenza, così di fatto divanta intraducibile in italiano. 36 Non si tratta di vero siciliano, ma di una storpiatura del latino (et verbum caro factum est) ripreso così come veniva percepito dal popolo nella lettura del vangelo alla fine della Messa in latino. 37 Informatrice MANCARELLA PAOLA, casalinga, anni 67. 35


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2.3. L’intervento dei Santi nelle situazioni di vita quotidiana La vita quotidiana di ogni uomo è fatta di piccoli e grandi problemi. Questi nella vita di un siciliano cristiano sono vissuti nell’ottica di fede e sono legati alla provvidenza. Si chiede al Signore di intervenire attraverso i Santi, visti come protettori. In tantissimi casi siamo in presenza di vere preghiere di supplica e di richiesta, però voglio presentare due doppie preghiere, rivolte rispettivamente a San Giorgio e a Sant’Antonio di Padova, in cui in una emerge una vera preghiera, mentre nell’altra c’è la presenza dell’elemento superstizioso: si vuole ottenere la grazia subito, come effetto immediato delle parole recitate. San Giorgiu gluriusu lu me cori quant’è cunfusu, pi’ sta parma ch’aviti ‘n brazza cunciditimi ‘na grazia, cunciditimilla a mia, ca vi dicu ‘n’Ave Maria.

San Giorgio glorioso il mio cuore quanto e’ confuso, per questa palma38che avete in braccio concedetemi una grazia, concedetela a me, che vi recito un’Ave Maria.

È da notare come la preghiera dell’Ave Maria sia essenziale nella configurazione della religiosità popolare anche per dare forza alle preghiere spontanee rivolte ai Santi, ciò è previsto sia in questa che nella successiva preghiera. San Giorgio inoltre nella iconografia è un santo sempre raffigurato a cavallo, nei tempi passati il più nobile e veloce mezzo di comunicazione, così ci si rivolge a lui per ottenere la grazia di avere notizie da una persona lontana e per averle velocemente: San Giorgiu cavaleri vui a cavaddu e iu a peri: Vui ca istuvu a lu livanti e vinistivu di lu punenti sta razia m’ati a fari

San Giorgio cavaliere voi a cavallo ed io a piedi: Voi che siete andato al levante e siete venuto dal ponente39 questa grazia me la dovete fare

38 Ricordiamo che San Giorgio è martire e quindi la iconografia lo presenta sempre con la palma del martirio. 39 Espressione che indica la velocità di movimento del Santo, come se in un attimo facesse il giro del mondo.


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano ‘ntempu nenti. San Giorgiu cavaleri ja a cavaddu e ja a peri pi’ la vostra santità facitimi sapiri la virità. San Giorgiu cavaleri vinitì a cavaddu e nun viniti a peri: pi’ la vostra caritati viniti prestu e nun tardati40.

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in tempo di un niente (immediatamente). San Giorgio cavaliere andava a cavallo e andava a piedi per la vostra santità fatemi sapere la verità. San Giorgio cavaliere venite a cavallo e non venite a piedi (siate veloce): per la vostra carità venite presto e non tardate.

L’informatrice si è preoccupata di aggiungere che dopo aver recitato questa preghiera si dice al Santo quale grazia si chiede in particolare e poi si devono recitare tre (notare il numero trinitario) Pater, Ave e Gloria. Uno dei santi più invocati nella nostra zona era (ed è ancora) Sant’Antonio di Padova, un santo miracoloso perchè legato alla divina provvidenza (forse ciò è derivato dalla iconografia che lo vede sempre con il Bambino Gesù in braccio) e quindi capace di far ottenere la grazia al più presto. Una preghiera riconosce questo legame con la provvidenza in modo esplicito: Iu sugnu bisugnusu iu sugnu scunsulatu di vui Sant’Antoniu voiu siri cunsulatu. Da divina Pruvvidenza vui siti la mia spiranza: cu la forti cunfidenza la fidi sempri avanza41.

Io sono bisognoso io sono triste e depresso da voi Sant’Antonio voglio essere consolato. Della divina Provvidenza voi siete la mia speranza: con una forte fiducia la fede sempre aumenta.

Altre preghiere però usano delle espressioni un po’ più decise. In questa, legata alla richiesta di ritrovare cose perdute, ma importanti (filicissima) per la persona che prega, emerge già l’imperativo:

40 41

Informatrice delle due preghiere DI NATALE SEBASTIANA, casalinga, anni 87. Informatore MALLIA PAOLO, contadino, anni 80.


[494] 36 Haiu persu na filicissima cosa Sant’Antuninu nun dormi nè riposa è ddinucchiatu davanti a lu so quadrino42 facitimilla truvari vui sant’Antuninu43.

Salvatore Marino Ho perduto una importantissima cosa Sant’Antonino non dorme nè riposa è inginocchiato davanti al suo quadretto fatemela trovare voi Sant’Antonino.

Questo imperativo diventa più chiaro ed esplicito nella preghiera seguente: Sant’Antoniu miu divinu porta ‘mbrazza lu Bamminu tuttu letu e cunsulatu Sant’Antoniu miu avvucatu. E ssa cruna c’aviti a lu latu vi l’ha datu la Matri di Diu fammi la razia Antoniu miu falla prestu e nun tardari ca tu si’ santu e lu po’ fari u po’ fari co’ Figghiu di Diu fammi la razia Antoniu miu, falla prestu e nun tardari c’haiu bisognu ora stissu44.

Sant’Antonio mio divino porta in braccio il Bambino Gesù tutto lieto e consolato Sant’Antonio mio avvocato. E quella corona che avete al fianco ve l’ha data la madre di Dio fammi la grazia Antonio mio fammela presto e non ritardare perchè tu sei santo e lo puoi fare lo puoi fare col (l’aiuto del) Figlio di Dio fammi la grazia Antonio mio, fammela presto e non ritardare perchè ne ho bisogno ora subito.

Così da una parte c’è la notazione che la ‘grazia’ viene richiesta per l’intercessione dei Santi ma è concessa da Dio, dall’altra si chiede che questa venga concessa immediatamente, quasi conseguenza diretta delle parole dette, come un abbracadabbra dei racconti di favole. Questa stessa preghiera “Sant’Antoniu miu divinu” serve per ottenere la guarigione dal “fuoco di S. Antonio”, cioè l’“Herpes zosters”.

42 Parola secondo me deformata, sembrerebbe un quadro piccolo (quadretto), ma forse è una crasi di quadro divino, cioè davanti a Dio. 43 Informatrice MARINO VINCENZA, casalinga, anni 79. 44 Informatrore MALLIA PAOLO, contadino, anni 80.


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano

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3. GESTI E PAROLE DEGLI “SCONGIURI” NELLE MALATTIE DEL CORPO Vi sono nella tradizione popolare molte preghiere che sono legate alle malattie o a dolori vari legati al corpo dell’uomo. Queste preghiere, accompagnate a volte da gesti e più specificamente dette “scongiuri”, contro le malattie del corpo, sono molto complesse: si invoca la Trin!tà o un Santo, si parla di Gesù e del diavolo, a volte si dicono parole che sembrano senza senso e senza legame con quello che precede o che segue45. Questi legami tra gesti e parole sacre, fatti e recitate con massima attenzione e cura per non sbagliare, rendono problematico cogliere quanto e fino a qual punto, per chi recita questi scongiuri, le malattie siano veramente tali o derivino in fondo in fondo dal malocchio, la siciliana “ucchiatura”, che qualche persona ha lanciato contro altra persona, animale o cosa. Così è difficile discernere quanto queste formule siano preghiere e quanto “scongiuri”, che implicano cioè la credenza nell’esistenza di una ‘forza’ non ben definita. Ho l’impressione che questa ‘forza’ per molte di queste persone quando si fa l’ucchiatura è di origine diabolica, quando invece questa viene tolta la ‘forza’ è di origine divina. In ogni caso tutti sono disposti a rivelare soltanto quelle formule che fanno bene, cioè tolgono l’ucchiatura. Comincio con il presentare due formule per liberare qualcuno da un generico malocchio. Si comincia con il posare sul capo del malcapitato un piatto con un poco di acqua e sgocciolandovi sopra dell’olio, si ripete: Gesù Cristu vinci Gesù Cristu addipingi Nuomu di lu Patri di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu.

Gesù Cristo vince Gesù Cristo dipinge Nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo.

45 Discutendo con un artigiano del legno, ma che attualmente ‘esercita’ anche la professione di mago facendomi dire alcuni scungiuri, che mi poteva dire, infatti non tutti possono essere rivelati, mi recitava una traduzione italo-siciliana degradata della preghiera a S. Michele Arcangelo che prima del Concilio si recitava alla conclusione della S. Messa. Io gli ho spiegato l’origine della preghiera e mi sono offerto di tradurla bene in modo che potesse essere capita. Si è categoricamente rifiutato… perché doveva essere recitata così per ottenere i risultati richiesti. Potenza delle parole!


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Salvatore Marino

Nostru Signuri di Roma vinia na parma d’aliva na li manu tinia supra l’altari la binidicia scippava l’occhi a cu’ mali facia cu tri pani e cu tri pisci Nostru Signuri n’abbunisci46.

Nostro Signore da Roma veniva un rametto d’ulivo nella mano teneva sopra l’altare lo benediceva cavava gli occhi a chi il male faceva con tre pani e con tre pesci nostro Signore ci rende buoni (ma anche ci riempie).

Chi recita la formula conclude facendosi per tre volte di seguito il segno della croce. È paradossale che da una parte si chieda al Signore una grazia e dall’altra si affermi contemporaneamente che egli rende ciechi i malvagi! Le formule relative alla liberazione dei mali che infestano il corpo, come sempre, sono molte, ma ne scelgo soltanto alcune tenendo presente il corpo umano e cominciando dalla testa e scendendo man mano. Ho l’impressione che il maggior numero di scongiuri sia contro il mal di testa. Questo può essere causato da fenomeni naturali (es. una insolazione) o provocato con ucchiatura da altri uomini. Le formule variano, ma varia anche la modalità di preghiera. Contro un accertato ‘colpo di sole’, cioè l’insolazione, si mette sul capo della persona una piatto con dell’acqua e vi si immerge un anello d’oro della stessa persona o dei presenti e si recita una delle due formule seguenti, formule che molto più delle altre si avvicinano alla preghiera. Se i gesti si fanno di mattina si dice: Nesci suli di munti calvanu comu sciu nostru Signuri Gloria Patri, Spiritu Santu, la santissima Trinitati, libiratici stu mali e mittitici la sanitati.

Sorgi sole dal monte Calvario come uscì nostro Signore Gloria al Padre, allo Spirito Santo, la Santissima Trinità, toglieteci questo male e metteteci (dateci) la salute.

se si fa alla sera si dice: Ritiriti suli…

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Ritirati sole…

Informatrice GOLFO CONCETTA, casalinga, anni 68.


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano Nesci lu suli a lu munti di Diu e va stramunta na lu felici senu e ccu ssa cruna c’hai ‘n testa ci ha luvari lu focu da testa47.

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Sorge il sole dal monte di Dio e tramonta nel felice seno (di Maria) e con la corona che hai in testa devi toglierci il fuoco dalla testa.

Per un dolore di testa dubbio che forse è naturale, ma che forse è stato provocato dal malocchio, si dice una formula più complessa che sa molto di filastrocca, ma di difficile comprensione, perchè ritengo tramandata in modo deformato: Aiu arrivatu all’auditu48 sangu di Cristo n’avemu tutti nei tu e neiu iu tutti accussì a favuri miu. Iu mi prisentu e stu pedi m’avanza salutu tutta a ma cumpagnia sangu di Cristu ci n’è pi’ via iu vi lu dugnu e vai mi lu dati se nun aiu tortu ragiuni mi dati49.

Sono arrivato all’auditu sangue di Cristo ne abbiamo tutti neghi tu e nego io Tutti (chi? I santi?) così in favore mio. Io mi presento ( a chi?) e questo mio piede avanza saluto tutta la mia compagnia sangue di Cristo ce ne è per la strada io ve lo do e voi me lo ridate se non ha torto ragione mi date.

Mentre la guaritrice recita questa formula preme le mani stringendo forte la testa di chi soffre e le ripete per tre volte. Poi, lasciando le mani ferme sulla testa, dice: Dicci un credo a San Giuvanni ca ti leva li malanni.

Recita un Credo a San Giovanni che ti toglie la malattia.

e si recita il Credo.

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Informatrice DECORATO GRAZIA, casalinga, anni 63. Parola che la stessa persona che recita la formula non capisce, mi ha detto che forse si vorrebbe indicare il cielo. A mio parere potrebbe essere una deformazione della espressione latina liturgica ‘laudamus’, siamo cioè arrivati alla lode. 49 Informatrice MAZZARELLA GIUSERPPA, casalinga, anni 76. 48


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Salvatore Marino

Questa altra formula si usa quando si pensa vi sia stato un maleficio (ucchiatura) fatto da altre persone. Stringendo la testa con le mani e premendo con ritmo a forma di croce, si ripete per tre volte: San Giuvanni di la furesta ci luvati la timpesta ci luvati a ‘nfirmitati e ci mittiti a santitati. E vattinni malu natu pi’ lu calici sacratu pi’ l’amuri di Gesù na sta testa nun ci viniri cchiù.

San Giovanni della foresta toglieteci la tempesta ci togliete la infermità e ci mettete la sanità. E vattene cattivo nato (allusione al diavolo) per il calice consacrato per l’amore di Gesù in questa testa non tornare mai più.

la formula successiva è ancora più chiara. Si recita mentre si tirano tre volte i capelli ed intanto si fa il segno della croce: Vattinni ucchiatura maliditta vattinni di sta frunti biniditta vattinni nta lu funnu di lu mari unni nun ci sunu nè turchi nè mancu cristiani. San Duminicu Salisianu (per altri e San Damianu) vui ci mittiti lu vostro ‘nguentu iu ci mettu la ma manu50.

Vattene maleficio maledetto vattene da questa fronte benedetta vattene nel fondo del mare dove non ci sono nè turchi e nè cristiani. San Domenico Salesiano (per altri e San Damiano) voi ci mettete il vostro unguento io ci metto la mia mano.

Tra le diverse formule, quelle da me sentite sono tutte però abbastanza corrotte, rivolte a Santa Lucia per guarire da un male agli occhi, scelgo la seguente che è un legame tra preghiera, erboristeria e magia: Santa Lucia na lu mari stacìa, passa Gesu cu la Vergini Maria e ci dissi: – chi fai Lucia? – ch’aiu a fari, Matri mia? iau nu purpu ca’ na l’occhiu. – Pirchi nun vai na lu ma ortu ci su macchi di finocchiu 50

Santa Lucia stava in mezzo al mare passa Gesù con la Vergine Maria E le disse:– che fai quì Lucia? – che devo fare, Madre mia? ho un polipo qui nell’occhio. – Perchè non vai nel mio orto dove vi sono piante di finocchio

Informatrice della due ultime formule DI NATALE SEBASTIANA, casalinga, anni 87.


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano cu li ma manu l’aiu chiantatu cu li me pedi l’aiu scarpisatu. Squagghia purpu e squagghia pidata squagghia vina ch’ è ‘nsanguinata51.

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con le mie mani le ho piantate con i miei piedi le ho calpestate. Liquefatti polipo e liquefatti pedata liquefatti vena che sei insanguinata.

Anche contro il torcicollo si ha una formula che prevede un dialogo tra un Santo e la Madonna (come ha già fatto notare, quasi sempre presente perchè è madre) e che si conclude con una formula magica… e con un Gloria al Signore! San Ciminu simina linu e lu simina a surcu chinu passa la Vergini Maria e dici: – San Ciminu pirchì simini a surcu chinu? – Pirchi ‘aiu u coddu ‘ncravaccatu – Pirchì nun ti lu scravacchi? – Nun lu sacciu scravaccari Cravacca ratu e scravata ratu52 scravacca lu nerbu ‘ncravvaccatu53.

San Cimino semina il lino e lo semina a solco pieno passa la Vergine Maria e dice: – San Cimino perchè semini a solco pieno? – Perchè ho il torcicollo – Perchè non te ne liberi? – Non so come si può fare Gira il collo da una parte giralo dall’altra sciogli il nervo attorcigliato.

Per bloccare la palpitazione di cuore (aritmia), e quindi il pericolo di morte se l’anima lascia il cuore, si chiede l’intervento divino recitando una preghiera tre volte e per tre giorni di seguito, massaggiando il cuore facendo girare la mano intorno ad esso. Fermati cori – ca Diu ti voli fermati arma – ca Gesù Cristu ti cumanna! E’ firmata st’arma cu stu cori cincu angili su partuti pi’ sanari stu malatu 51

Fermati cuore – che Dio ti vuole Fermati anima – che Gesù Cristo ti comanda! È fermata quest’anima con questo cuore Cinque angeli sono partiti per guarire questo malato

Informatrice CALAFIORE GAETANA, casalinga, anni 85. A mio parere dovrebbe essere scravacca i latu… si gira cioè il collo da una parte e dall’altra. 53 Quasi tutte le persone intervistate la conoscono. 52


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Santa Marta, Santa Maddalena e San Damianu ca è medicu supranu prima ci passa la so’ e po’ la ma manu54.

Santa Marta, Santa Maddalena e San Damiano che è medico sovrano (cioè il più grande) prima ci mette la sua e poi la mia mano.

Una malattia molto comune nei bambini in una società agricola è la “verminosi”, vi sono perciò varie preghiere per combattere questa malattia e liberare i bambini dai vermi (ossiuri). Il primo scongiuro che presento prevede all’inizio una formula, intrisa a mio parere di una forte dimensione magica, infatti mentre si invocano i santi medici Cosma e Damiano contemporaneamente si comanda ai vermi in modo imperativo, poi segue un gesto accompagnato da una preghiera. Vermi di la virmaria vermi ca si mancia a tia! vermi virdi, vermi furcuni va circannu ficutu e purmuni. Pì lo mè cumannamentu vattini a lu funnamentu. San Cosimu e san Damianu siti medicu e siti suvranu fustuvu medicu di nostru Signuri: allibbirati stu criaturi.

Verme del ‘vermaio’ verme che mangia te!55 verme verde, verme biforcuto vai cercando il fegato e i polmoni. per il mio ordine (comandamento!) vattene nell’abisso (le basi del mondo!). San Cosimo (Cosma) e San Damiano siete medico e siete sovrano siete stato medico di nostro Signore: Liberate (dai vermi) questa (povera) creatura.

Intanto è stato preparato un piatto dell’olio cui è stato aggiunto il sale, a questo punto il guaritore intinge nell’olio salato il pollice e l’indice e poi unge l’ombelico del malato, vi tiene appoggiato l’indice e girandolo a destra e a sinistra, mentre recita: Pi’ lu nomu di Maria lu vermi cascaria!

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Per il nome di Maria il verme cadrà!

Informatrice GERMANO SEBASTIANA, casalinga, anni 74. L’espressione è volutamente ambigua. È rivolta al verme nel doppio senso: ci sia un altro verme che mangi te, oppure: mi rivolgo proprio a te che stai mangiando quello per cui prego. 55


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano Pi’ lu nomu di Gesù lu vermi nun torna cchiù!

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Per il nome di Gesù il verme non ritornerà mai più!

Poi si fa seguire un Padre nostro ed un Ave Maria. Il tutto, come in altri casi, si deve ripetere per tre volte. Pur tralasciando altre formule mi sembra importante presentarne due altre che, paradossalmente, legano la caduta dei vermi alla settimana santa, collegando questa alle cadute di Gesù durante la via dolorosa del Calvario: Lunidì santu è, martidì santu è, merculidì santu è, giovedì santu è, venniri santu è, sabatu santu è, duminica ca è matina di Pasqua, u vermi mori e ‘n terra casca56.

Lunedì santo è, martedì santo è, mercoledì santo è, giovedì santo è, venerdì santo è, sabato santo è, domenica che è mattina di Pasqua, il verme muore ed in terra cade.

Lunedì santu, martedì santu, mercoledì santu, giovedì santu, venerdì santu, sabatu santu, Duminica i Pasqua lu vermi casca casca mascuni comu cascau nostru Signuri. Pi’ lu nomi di Diu e di Maria li vermi si nana ghiri tutti ‘n cumpagnia.

Lunedì santo, martedì santo, mercoledì santo, giovedì santo, venerdì santo, sabato santo, Domenica di Pasqua il verme cade cadi cosa grossa come cadde nostro Signore Per il nome di Dio e di Maria i vermi se ne devono andare in compagnia.

Varie preghiere sono legate ai dolori che si hanno alla bocca dello stomaco57, quando questi derivano da un improvviso spavento si deve “ciarmari u scantu” cioè calmare, meglio eliminare, lo spavento. La persona che lo può fare, mentre massaggia lo stomaco con la mano dice per 56

Informatrice delle due formule DI NATALE SEBASTIANA, casalinga, anni 87. In siciliano si chiama a ucca i l’arma, cioè la bocca dell’anima. Questa espressione di per se stessa la dice lunga sui legani corpo-anima, e quindi peccati-malattie, nella concezione della cultura siciliana. Ancora oggi quando c’è un imprevisto che provoca un dolore improvviso (es. si cade, si sbatte..) diversi anziani ancora dicono u Signuri t’a’ castiatu, cioè il Signore ti ha castigato… evidentemente per qualcosa che si è fatta di male. 57


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tre volte una di queste formule (ne ho rilevate anche altre, ma sono troppo carrotte e poco comprensibili): San Duminicu i lunni vinia e passau di na massaria e truvau n’ominu bonu e na fimmina ria. Ci dasanu pì mangiari pani di ranza pi’ curcarisi linu mogghiu levati scantu ca nun ti vogghiu. Levati scantu ca nun ti vogghiu, nesci bruttu fitenti ca ti cumanna Cristu onnipotenti.

San Domenico da lontano veniva e passò da una masseria e trovò un uomo buono e una donna cattiva. Gli diedero da mangiare pane ammuffito e per coricarsi lino bagnato vai via spavento che non ti voglio. Vai via spavento che non ti voglio, esci subito brutto puzzolente e cattivo perchè ti comanda Cristo onnipotente.

Santu scantu malidittu58 di sta ucca e l’arma biniditta ti n’agghiri a mari unni nun ci su turchi nè cristiani Matri Maria, dacci a forza e a valia59.

Santo spavento maledetto da questa bocca dello stomaco benedetta te ne devi andare a mare dove non ci sono n’è turchi nè cristiani Madre Maria, dacci forza e vigore.

Concludo questa carrellata di formule con un’ultima preghiera contro le scottature: Tutti li cani di la canaria arderu u focu duminicaria lu Signuri passau, lu focu astutau. Diu ti salvi, o Maria, vergini e pura La carni cotta addivintari crura60.

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Tutti i cani del branco di cani accesero un fuoco il giorno di domenica il Signore passò, Il fuoco spense. Dio ti salvi, o Maria, vergine e pura la carne cotta (bruciata) deve ridiventare cruda.

Notare la contraddizione in termini tra santu e malidittu. Informatrice delle tre ultime formule MAZZARELLA GIUSEPPA, casalinga, anni 76. 60 Informatrice MANCARELLA PAOLA, casalinga, anni 67. 59


Superstizione e magia nelle preghiere del siracusano

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Questa breve analisi delle preghiere popolari siciliane della zona del siracusano da una parte ci ha rivelato la ricchezza e la varietà delle situazioni di vita cui esse fanno riferimento e dall’altra anche la variegata relazione religiosa con la realtà i Santi e Dio. Molte altre preghiere qui non presentate sono delle vere preghiere, ma in molte di queste presentate abbiamo visto come la “necessitàdesiderio” di vedere realizzate subito le richieste e la soluzione dei problemi spinga, pur in un contesto di preghiera cristiana, le persone a far emergere quella dimensione di magia presente nel cuore di ogni uomo. Quindi perchè le preghiere siano teologicamente adeguate «il linguaggio verbale e gestuale della pietà popolare, pur conservando la semplicità e la spontaneità d’espressione, deve sempre risultare curato, in modo da far trasparire in ogni caso, insieme alla verità di fede, la grandezza dei misteri cristiani»61.

61 CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano 2002, 25.



SUPERSTIZIONE E PATOLOGIE PSICHICHE

FABIO SAMBATARO* FRANCESCO FURNARI**

Il termine “superstizione” proviene dal latino “quod super stat” e sta a significare “atti, credenze, o riti, comunque mossi da un’irrazionalità”. Le superstizioni presuppongono un collegamento causale tra due eventi. La caratteristica principale è la mancanza di fondamento empirico, il che le rende refrattarie alla critica nonostante l’evidenza contraria. Possono predire eventi positivi ma sono più spesso associate a quelli negativi. I pensieri e i comportamenti superstiziosi possono essere dei tentativi di controllo di situazioni che vengono percepite al di là delle proprie possibilità (Jahoda, 1969) e in cui il soggetto si aspetta di fallire nonostante i suoi sforzi. In un’ottica cognitivista, la superstizione può rappresentare un’inefficace strategia di coping. La percezione della mancanza di controllo sugli eventi potrebbe portare allo sviluppo dell’impotenza appresa (Selingman, 1975). Con tale concetto si intende quella condizione psicologica maladattiva caratterizzata da depressione, mancanza di motivazione ed un senso di scarsa efficacy che si sviluppa in tali situazioni. I soggetti superstiziosi tendono a credere nel paranormale e tali credenze permettono loro di fare delle attribuzioni causali esterne e specifiche che spostano all’esterno dell’individuo la causa della vergogna per il fallimento del soggetto, prevenendo così lo sviluppo dell’impotenza. La superstiziosità si correla con la sopravvalutazione del pericolo, che è una caratteristica cognitiva e che contribuisce a mantenere un senso di minaccia e mancanza di controllo (Sica et al., 2002); tale credenza tende *

Psichiatra. Docente di Psicologia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.

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Fabio Sambataro – Francesco Furnari

ad autoperpetrarsi: più il soggetto emette comportamenti superstiziosi, maggiormente passerà alla conclusione che debba esistere un pericolo reale. Le superstizioni possono aumentare nei periodi di ambiguità, incertezza o incontrollabilità. Keinan (1994) durante la Guerra del Golfo riscontrò che gli abitanti delle zone ad alto stress — che presentavano cioè un alto rischio ad essere colpite in un attacco missilistico — presentavano maggiori livelli di “pensiero magico” rispetto a quelli che vivevano nelle zone a basso rischio. Analogamente, Padgett & Jorgenson (1982) osservarono durante la grande depressione degli gli Stati Uniti che l’interesse verso l’astrologia aumentò; anche in Germania si riscontrò una correlazione diretta tra gli indici di superstizione e gli indicatori di pericolo economico dal 1918 al 1940. Malinowski (1954) trovò che gli abitanti delle isole Trobriand non mostravano alcun comportamento superstizioso quando pescavano nelle acque del lago, dove c’erano alte probabilità di successo; ma iniziarono a presentarlo quando dovettero cominciare a pescare in mare aperto, dove c’era una minore percentuale di successo. Il ricorrere alla superstizione da’ un senso di controllo (Blackmore & Troscianko, 1985; Irwin, 1992; Singer & Benassi, 1981) o almeno può aiutare a spiegare perché non sia possibile il controllo (Ayeroff & Abelson, 1976; Langer 1975), spostando il locus of control all’esterno (Tobacyk & Milford, 1983) e prevenendo così lo sviluppo dell’impotenza appresa. In questa ottica appare difficile porre una distinzione precisa tra locus of control e superstizione, anche se sembrerebbe che le superstizioni siano una dimostrazione del proprio locus of control. L’impotenza appresa può anche derivare dal credere che una situazione possa essere gestita, ma la possibilità di controllarla sia bloccata da un’attribuzione interna, quale la capacità dell’individuo stesso. Se una persona crede che il controllo non sia possibile - a causa di un’attribuzione esterna - l’impotenza appresa non dovrebbe svilupparsi o, qualora si stesse già sviluppando, dovrebbe attenuarsi. Uno dei meccanismi che potrebbe spiegare perché le superstizioni vengano evocate durante le situazioni di incontrollabilità è l’effetto di congruenza dell’umore, ovvero il fallimento fa esperire delle emozioni negative che fanno rievocare le superstizioni. Gli studi di Matute (1994, 1995) e di Dudley (1999) sugli effetti delle superstizioni sulla performance in presenza di un problema insolubile confermano tali risultati, evidenziando che le prestazioni dopo un problema


Superstizione e patologie psichiche

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insolubile di soggetti con più alti livelli di superstizione misurati alla Paranormal Belief Scale di Tobacyk (1988) sono migliori di quelli con livelli più bassi e che la superstiziosità aumenta dopo il confronto con problemi insolubili. Il mettere in atto dei comportamenti volti a diminuire l’impatto di qualche evento futuro temuto non è una caratteristica unica delle persone superstiziose, ma anche di quelle affette da disturbi d’Ansia. Per definizione questi disturbi sono caratterizzati dalla anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuri, accompagnata da sentimenti di disforia o da sintomi fisici di tensione (gli elementi esposti al rischio possono appartenere sia al mondo interno che a quello esterno) che causano un disagio clinicamente significativo o la compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti (DSM-IV-TR, APA, 2002). La natura seria dei disturbi d’Ansia differisce notevolmente rispetto a quella innocua della maggior parte dei comportamenti superstiziosi. Entrambe queste condizioni condividono un tema comune, che è quello dell’incapacità a controllare gli eventi e le reazioni che provocano ansia. La relazione tra superstiziosità ed ansia è stata generalmente poco studiata, alcune indagini sono state fatte sul Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC). Tale disturbo d’Ansia secondo il DSM-IV-TR, è caratterizzato da ossessioni o compulsioni ricorrenti, sufficientemente gravi da far impiegare tempo (cioè, richiedono più di un ora al giorno) o da causare disagio marcato o menomazione significativa. In qualche momento nel decorso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli. Le ossessioni sono idee, pensieri, impulsi o immagini persistenti vissute come intrusive e inappropriate (che il soggetto è capace di riconoscere come prodotto della sua mente e non come imposte dall’esterno), e causano ansia o disagio marcati. Le ossessioni più frequenti sono pensieri ripetitivi di contaminazione, dubbi ripetitivi, la necessità di avere le cose in un certo ordine, impulsi aggressivi o terrifici e fantasie sessuali. I pensieri, impulsi o immagini non sono semplicemente preoccupazioni eccessive riguardanti problemi reali della vita ed è improbabile che siano correlati a reali problemi della vita. L’individuo con ossessioni, di solito cerca di ignorare o sopprimere


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tali pensieri o impulsi o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni (chiamate compulsioni). Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi (cioè lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere mentalmente delle parole) effettuati per prevenire o ridurre l’ansia o il disagio; tali comportamenti sono chiaramente eccessivi e non connessi in un modo realistico con ciò che sono designate a neutralizzare o prevenire. Molti individui evitano gli oggetti o le situazioni che provocano le ossessioni o le compulsioni. Tale evitamento può divenire esteso e limitare gravemente il funzionamento generale. Nei paesi occidentali anglosassoni, il tasso di prevalenza del DOC dell’1-2 %, tuttavia questi tassi sono diversi in Asia e in altri gruppi etnici (Pigott, 1998; Samuels & Nestadt, 1997). Tali ricerche suggeriscono che fattori socioculturali possono influenzare la forma e il contenuto delle ossessioni e delle compulsioni. Le ossessioni più comuni sono quelle di contaminazione, ma tra gli ebrei e gli egiziani si riscontra una maggiore preoccupazione su tematiche religiose che nei pazienti indiani o britannici che presentano invece maggiore tendenza all’ordine e all’aggressività (Okasha et al., 1994). Le similitudini tra il DOC e alcuni comportamenti superstiziosi sono molto evidenti e sono state in parte corroborate da alcuni studi (Frost et al., 1993) ma non da altri (Leonard et al., 1990). Altri studi sono stati finalizzati alla ricerca del significato etiologico delle superstizioni nello sviluppo del DOC (Leonard, et al., 1990; Liddell & Morgan, 1978), senza però riscontrare alcun nesso. Nello studio di Leonard et al. (1990) venne somministrata una intervista semi-strutturata ad un campione di 38 pazienti DOC (bambini) e ai loro genitori e ad un gruppo corrispondente di controlli sani. Non si riscontrò alcuna differenza tra il gruppo DOC e quello dei sani relativamente alla superstiziosità, tranne che la maggiore tendenza dei primi a mostrare dei comportamenti più ritualistici. Nello studio di Frost et al. (1993) vennero somministrati uno strumento di misura di credenze e comportamenti superstiziosi, il Maudsley Obsessional-Compulsive Inventory (MOCI) (Rachman & Hodgson, 1980), la Compulsive Activity Checklist – Revised (Freund & Sketeke, 1987) e diverse misure di perfezionismo e responsabilità (es. le cognizioni correlate


Superstizione e patologie psichiche

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ad ossessioni e compulsioni) a 108 studentesse di college. Le superstizioni risultarono correlate sia alla compulsività globale e al controllo compulsivo che agli indici cognitivi quali il perfezionismo e la responsabilità, ma non con i rituali di pulizia. La conclusione degli autori fu che sia il controllo che la superstizione avevano in comune il tentativo di contrastare eventi di cui si aveva una bassa percezione di controllo. La maggiore correlazione riscontrata tra superstizione e indici cognitivi suggerisce che le superstizioni potrebbero essere più strettamente associate con pensieri ossessivi che con comportamenti compulsivi. Zebb & Moore (2003) analizzarono le implicazioni psicopatologiche più ampie della superstizione, somministrando a 191 soggetti sani il Superstitiousness Questionnaire di Leonard et al. (1990), questionari specifici per l’ansia, Agoraphobic Cognitions Questionnaire di Chambless et al, (1984) per l’Agorafobia; il Body Sensation Questionnaire di Chambless et al, (1984) per la paura di reazioni somatiche; il MOCI di Rachman & Hodgson (1980) e il Padua Inventory di Sanavio (1988) per i sintomi ossessivi-compulsivi; il Penn State Worry Questionnaire di Meyer et al. (1990) per valutare la preoccupazione di tratto; il Social Phobia and Anxiety Inventory di Beidel et al., (1989) per la fobia sociale e l’ansia in generale); strumenti per la sofferenza psicologica generica (Depression Anxiety Stress Scales di Lovibond & Lovibond (1995) per l’ansia e la depressione) e per la percezione del controllo dell’ansia (Anxiety Control Questionnaire di Rapee et al., 1996). Fu riscontrata solo nelle donne (90), una relazione sia tra i livelli di superstiziosità e i sintomi ossessivi-compulsivi (controllo ossessivo, ma non pulizia, rallentamento o dubbio), altri disturbi d’ansia, quali l’agorafobia e la fobia sociale, con la sofferenza psicologica generica e con la bassa percezione del controllo dell’ansia. La differenza di genere potrebbe derivare dal fatto che, a causa di fattori sociali, le donne percepiscono di avere meno controllo sull’ambiente e potrebbero essere più disposte ad intraprendere attività che danno l’illusione del controllo ed essere pertanto maggiormente suscettibili alla sofferenza psicologica nella forma di disturbi d’ansia e depressivi. La possibile associazione tra superstizioni e psicopatologia generica deve ancora essere convalidata scientificamente (Vyse, 1997), nonostante gli studi svolti in questa direzione (Dag, 1999; Tobacyk et al, 1992). Alcuni dati


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sono stati riscontrati riguardo alla possibile correlazione positiva tra superstizione e ansia di tratto ed esperienze dissociative (Wolfradt, 1997), segni di alterazioni del lobo temporale (Morneau et al., 1996) e negativa con la self-efficacy generale e sociale (Tobacyk & Shrader, 1991). E’ possibile ipotizzare che la superstiziosità non sia specifica dei disturbi d’ansia in generale o in particolare (DOC) ma più fortemente associata con la generica sofferenza emotiva (es. ansia e depressione). Borkovec & Roemer (1995) osservarono che un gruppo di pazienti affetti da disturbo di ansia generalizzata riferivano che il preoccuparsi faceva diminuire la possibilità che l’evento temuto si verificasse. Un’altra possibilità è che, alla base dell’associazione tra uno specifico disturbo d’ansia e la superstiziosità o tra superstiziosità e sofferenza emotiva, vi sia una diatesi comune, quale l’incapacità a controllare gli eventi ansiogeni e le conseguenti reazioni emotive. L’accettazione culturale dei comportamenti e delle credenze superstiziose nei diversi popoli, fa sì che le caratteristiche dei sintomi ossessivocompusivo-simili della gente superstiziosa non vengano considerate patologiche; pertanto le valutazioni e le cognizioni potrebbero non avere un ruolo etiologico nello sviluppo del disturbo ossessivo compulsivo. Gli studi sugli animali hanno evidenziato che l’atteggiamento superstizioso ha avuto una lunga storia biologica (potrebbero essere responsabili di ciò delle alterazioni dei neuroni colinergici dell’ippocampo, Devenport, 1980; e uno stato ipodopaminergico, Brugger, 2002) e che se si è conservato durante l’evoluzione deve aver avuto una qualche importanza adattativa. Mainardi (2000) sostiene che la capacità del credere nell’irrazionale sia stata un vantaggio per la sopravvivenza della specie umana. Il pensiero razionale ha portato l’uomo ad indagare e svelare cose incredibili sull’universo intero ma allo stesso tempo lo ha anche messo di fronte alla caducità delle cose umane, contro la quale non c’è razionalità che possa aiutare.


SUPERSTIZIONE E MAGIA

GIUSEPPE RANIOLO*

Il pensiero magico e la superstizione appartengono a tutte le culture e a tutte le epoche. Comunemente si ritiene che oggi il ricorso a queste forme di illusorio dominio della realtà sia più diffuso di un tempo ma probabilmente è vero soltanto che vi è più consapevolezza dell’esistenza del fenomeno. Accade molto spesso che i nostri pazienti ci riferiscano degli espedienti che utilizzano nell’intento di piegare la realtà al proprio volere o di annullare gli effetti di un proprio comportamento o che ci rivelino le relazioni che indovinano tra eventi e fatti altrimenti tra loro assolutamente inconciliabili attribuendo ad essi significati reconditi agli altri ma a loro perfettamente comprensibili. Si tratta di espressioni di un pensiero arcaico fisiologico nei bambini. Questo pensiero si caratterizza per il primato dell’egocentrismo, dell’animismo e dell’onnipotenza. L’egocentrismo consiste nel ritenersi il perno del mondo e dell’esistenza come se le cose si muovessero, divenissero ed esistessero solo in funzione del soggetto che le osserva. Questi si colloca al centro del mondo il quale esiste perché esiste lui. Nell’egocentrismo è posto in primo piano il dominio e il governo sulle cose così come la riduzione degli altri a oggetti o strumenti. Nell’animismo gli oggetti, gli esseri viventi, gli elementi della natura, appaiono dotati di intenzionalità e possiedono una mente o un’anima. Senza pensare alle religioni animistiche, che pure si modellano su questa idea, nell’animismo inteso come chiave di lettura del reale, gli oggetti dimostrano di possedere intenzioni benefiche o malefiche cosicché *

Psicologo.


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Giuseppe Raniolo

se il bambino è colpito da una palla questa “è cattiva” e gli adulti rinforzano questa lettura della realtà proponendola e potenziandola (sono spesso loro a suggerire al bimbo che “la palla è stata molto cattiva”). L’onnipotenza del pensiero dà l’illusione di potere determinare solo attraverso la volontà e il desiderio cambiamenti nel mondo reale. Il bambino può credere ad esempio che il suo desiderio da solo possa fare ritornare la madre. L’onnipotenza della parola dà l’illusione di potere intervenire sugli oggetti nominati dominandoli. L’onniscienza dà l’illusione che niente deve essere appreso e che tutto è conosciuto. La crescita favorisce l’eclissi di queste modalità di pensiero che pure sono, all’origine della nostra esistenza, fisiologiche: rinunciamo nel tempo all’egocentrismo, all’animismo, all’onnipotenza perché li abbiamo posseduti. Esiste anche chi non ha mai vissuto questa illusione e perennemente cerca di importarla nella sua esistenza. Bambini deprivati possono da adulti sentire che tutto gli deve essere dato perché niente hanno mai posseduto. Scrive il grande psicoanalista inglese Winnicott: «La madre sufficientemente buona va incontro all’onnipotenza del figlio e, in una certa misura, le dà un senso; fa questo più e più volte. Il vero Sé sorge grazie alla forza data all’Io debole dell’infante dal supplemento offerto dalla madre alle sue espressioni onnipotenti. […] e di conseguenza l’infante comincia a credere nella realtà esterna che sembra magica e si comporta come se fosse magica (a causa dell’adattamento relativamente buono della madre ai suoi gesti e bisogni), e che agisce in un modo che non urta contro la sua onnipotenza. Pertanto l’infante può rinunciare a poco a poco alla sua onnipotenza… Il bambino può ora cominciare a godere l’illusione della creazione e del controllo onnipotente per poi giungere gradualmente a riconoscere l’elemento illusorio nel fatto di giocare e di immaginare. Ecco la base per il simbolo, che dapprima è sia la spontaneità o l’allucinazione del bambino sia anche l’oggetto esterno creato e infine investito libidicamente».1

In un qualche modo divenire adulti determina sempre una crisi nel rapporto con il mondo attraverso la presa di coscienza della propria finitezza, dell’esistenza dell’altro e del primato della casualità sulla 1

WINNICOTT, Sviluppo affettivo e ambiente, trad. it., Roma 1970, 184-85.


Superstizione e magia

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necessità. La scoperta dell’alterità, in particolare, accresce la libertà e la capacità di conoscenza dell’individuo che, se rimanesse nella posizione egocentrica e onnipotente vedrebbe scemare la sua possibilità di incidere sulla realtà e sul mondo fino all’impotenza. Il mondo dell’illusorio dominatore è chiuso e povero, senza curiosità e mistero. Il paranoico, per esempio, sa tutto, è certo che gli altri lo odiano e lo spiano, non ha bisogno di apprendere e di conoscere, possiede una pretesa conoscenza che lo rende dolorosamente solitario e impaurito. L’altro propone i suoi bisogni e i suoi desideri. L’altro possiede intenzione e volontà. L’altro esiste a prescindere dal nostro intervento e dai nostri intenti. E’ nell’incontro con l’altro che si scopre il reciproco limite, il reciproco desiderio, la reciproca sete di conoscenza, di appartenenza, di condivisione. La consapevolezza dell’esistenza dell’altro deriva dalla presa di coscienza della propria limitatezza, finitezza: qualcuno o qualcosa soddisfa i nostri desideri, colma l’assenza, il vuoto. L’incontro con l’altro lenisce l’angoscia di morte che è propria della condizione umana. Cosicché se si vuole debellare illusoriamente l’angoscia di morte bisogna considerarsi eterni, immortali, privi di bisogno o di desiderio, autosufficienti e onnipotenti. «Il dramma magico di cui parla Ernesto De Martino consiste proprio nel continuo ed angosciante tentativo dell’uomo di affermare la “volontà di esserci come presenza di fronte al rischio di non esserci”. La presenza dell’uomo e del mondo non rappresentano entità date e garantite ma costantemente fluttuanti tra il rischio di perdersi e il tentativo di riprendersi. La magia costituisce perciò una vera e propria difesa dell’uomo per il quale il mondo non è mai dato e l’essere non è garantito, dal momento che egli si trova costantemente di fronte alla drammatica minaccia di perdere la presenza. La creazione di forme culturali definite, quale risultato della risoluzione della crisi e dell’uscita dal caos, è perciò frutto del riscatto dell’uomo dal rischio della perdita totale di se stesso e del mondo»2

Nel mondo dello psicotico, o nella parte psicotica della nostra personalità, non esiste il caso. Ogni evento ha una sua ragione d’essere, una sua specifica causa e si lega ad ogni altro evento e accadimento: qualcuno 2

E. NONVEILLER, Tra sciamanismo e psicoanalisi, in www.psychomedia.it.


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che urla in strada o un rumore nella stanza o una folata di vento intendono comunicare qualcosa, sono messaggi in codice. Crescere consiste anche nel potere concepire e tollerare la casualità. È angosciante il non sapere cosa ci riserva il futuro e c’è chi resiste al dubbio del “dopo” solo attraverso immani sforzi e sofferenze implacabili. I riti ossessivi sono motivati anche dalla necessità di tenere tutto sotto controllo, dalla pretesa di potere impedire al caso di insinuarsi nella vita. Un mio paziente mi dice di non potere vivere perché sente (letteralmente) il suo cuore che batte, cioè egli non può vivere perché è vivo (il cuore batte ai vivi); è oppresso dalla constatazione di non potere ordinare al cuore di cessare di battere perché se ciò avvenisse egli morirebbe e così la notte, quando il cuore è più rumoroso, per non sentirlo, deve ingerire sonniferi in grande quantità in modo da “cascare in un sonno mortale”. Chi soffre di disturbi mentali non si libera di queste modalità arcaiche di pensiero. Chi ne è portatore risente del governo su di sé di processi di pensiero che si oppongono alla crescita e che impediscono alla mente di apprendere. Ma sarebbe illusorio ritenere che i cosiddetti “normali” si siano, come per un colpo di spugna, liberati del comune passato modo di leggere il mondo. In realtà la crescita, il normale sviluppo, mette in grado di contenere gli effetti dell’egocentrismo, dell’animismo e dell’onnipotenza ma non di eliminarli. Nell’adulto convivono due modi di pensare con il primato, in genere, di quello razionale e simbolico ma in condizioni particolari il primato si rovescia e tutti possiamo assistere, fin dentro le nostre stesse menti, all’effetto di modalità di pensiero che ci lasciano allibiti o infastiditi o divertiti. Magia e superstizione sono così diffuse perché ci sono oltremodo familiari, appartengono a tutti noi e si nascondono anche nelle maglie, nella filigrana di atti quotidiani che a prima vista ci possono sembrare veramente molto lontani dalle pratiche magiche. Per esempio possiamo attribuire a certi gesti una funzione propiziatoria o apotropaica senza neanche rendercene conto e così ci accade di non sentirci a nostro agio se dimentichiamo il cellulare. Il cellulare ci permette di metterci in contatto con gli altri, se lo abbiamo con noi siamo raggiungibili da una cattiva notizia che però, di solito, non arriva, ma se non abbiamo con noi il cellulare chi ci assicura che una cattiva notizia ci cerchi e non possa raggiungerci? Così averlo con noi impedisce alla cattiva notizia di prodursi.


Superstizione e magia

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Ci affacciamo spesso alla finestra per vedere se arriva chi stiamo aspettando invano, abbiamo come l’illusione che questo affacciarci possa anticipare l’arrivo, lo possa determinare. Un oggetto qualunque, anche uno scontrino o una chiave, deve sempre accompagnarci, se ci accorgiamo di averlo dimenticato ci sentiamo a disagio, ci percepiamo vulnerabili. Tutti vorremmo un’esistenza liscia, soffice, luminosa, profumata, dolce ma dobbiamo arrenderci all’evidenza che la vita non è mai priva di asperità, di difficoltà, di contrarietà, di dolore e sofferenza. La magia e la superstizione pretendono di rendere facile il vivere. Allora perché non approfittarne e attingere dalle pratiche magiche e superstiziose ogni sicurezza usandole come mezzi per rimettersi in contatto con l’epoca in cui ognuno di noi ha vissuto la magia del mondo? Regrediamo così fino all’onnipotente legame con la madre, dispensatrice di ogni bene e di ogni sicurezza. Il bambino che non sa ancora con certezza dell’esistenza di un mondo esterno, si sente, attraverso il profondo legame con la madre, in continuità con esso. È solo quando inevitabilmente questa fusione si interrompe che egli attribuirà ostilità agli oggetti che popolano il mondo esterno ma fino a quando ciò non si verificherà egli vivrà una condizione edenica. Si ricorre alla magia e alla superstizione per ritornare nella condizione di fusione con la madre che garantisce il dominio sul tempo, sullo spazio e sul mondo. Le arti magiche fanno coincidere la fantasia con la realtà, la parola con la cosa nominata, il vivo con l’inanimato, il passato con il futuro. Si ricorre alla magia quando la complessità del mondo sovrasta la capacità di adattamento dell’individuo e questi teme di confrontarsi con i propri limiti. I filtri d’amore, le fatture, i pantacoli, i talismani, si propongono come strumenti atti ad evitare un sostanziale confronto con la realtà. Anche la scienza e la religione rischiano, come ogni altra attività umana, di essere degradate ad attività magiche. Le formule e le preghiere possono diventare incantesimi e invocazioni. Del resto un fondo di irrazionalità convive sempre con i sistemi razionali. Si veda ad esempio l’uso della metafora nella scienza dove i “come se” permettono di creare modelli utili per fondare la ricerca (l’atomo è come se fosse un sistema solare) ma che rischiano di bloccarla con la reificazione della metafora (l’atomo è un sistema solare). Bisogna che il fondo di irrazionalità sia riconosciuto e


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accettato ma non avallato e promosso a guida del pensiero e dell’azione pena il blocco per entrambi. Ma l’ipotesi che intendo proporre è che noi siamo immersi senza accorgercene nella magia e che essa non consiste nelle pratiche magiche canoniche bensì nella tecnologia. Il primato che le viene riconosciuto deriva dalla constatazione che essa, sempre di più, alimenta un’illusione di onnipotenza e che la pratica che propone al comune mortale prescinde dalla conoscenza da parte di quest’ultimo del modo in cui essa ottiene i suoi risultati e del perché ciò sia possibile. Pochi sanno, ad esempio e tenendoci lontani dalle più recenti acquisizioni della tecnologia, come funzioni la radio e perchè. La tecnologia, che usiamo ma che non conosciamo intimamente, ci domina mentre pensiamo di dominarla. Essa ci è familiare e ci appartiene ma contemporaneamente ci è estranea e distante, è esotica, magica. Ci sono note le reazioni di sgomento, di sbigottimento se non di paura dei popoli cosiddetti primitivi posti di fronte ai prodotti della tecnologia occidentale ma quasi dimentichiamo la reazione che molti di noi hanno avuto assistendo per la prima volta ad un programma televisivo. L’incredulità, la sensazione di trovarci di fronte ad una stregoneria lasciarono spazio all’abitudine, ma non per questo morirono per sempre: in un angolo della nostra mente albergano sempre sopite per ricomparire in circostanze favorevoli. A settembre di quest’anno l’Italia è precipitata nel buio a causa di una interruzione dell’erogazione dell’energia elettrica che ha interessato tutto il territorio nazionale. Il buio ha risvegliato ogni sorta di angoscia e di paura che tutti abbiamo tentato di esorcizzare riproducendo atti che erano stati normali fino a pochi minuti prima ma che ora risultavano assurdi: c’è chi ha tentato comunque di accendere la luce, di bere una bevanda fredda presa dal frigorifero, di vedere la televisione, di usare lo scaldabagno elettrico ecc. ma tutti abbiamo dovuto constatare che nulla di ciò era possibile. Attraverso questi goffi tentativi di attivare i mezzi tecnologici in assenza di energia elettrica emerge la dimensione magica in cui ci troviamo inconsapevolmente immersi: le cose funzionano e basta, per magia, per incanto. In un attimo siamo precipitati nel vuoto dei riferimenti e delle chiavi di lettura, in un attimo tutta la nostra società, civiltà, cultura si è volatilizzata o è implosa, in un attimo e solo per un attimo ma è accaduto. Il giorno dopo i miei pazienti mi hanno parlato di paura, di vuoto, di sgomento, di orrore.


Superstizione e magia

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Nessuno, mi pare, si è reso conto che il buio ci avrebbe permesso di vedere ciò che la nostra abbagliante civiltà ci nasconde: le stelle. …e quindi uscimmo a riveder le stelle.



DIO E I MAGHI: QUALE SOVRANITÀ?

ROSARIO GISANA*

INTRODUZIONE Una riflessione biblica sul fenomeno magico non può fare a meno del confronto tra magia e religione: questione controversa che non può sottovalutare l’intrinseco legame che genera tale dinamismo. Grazie ai suoi procedimenti tecnici, la magia presenta una visione sincretista della realtà, capace di fondere concezioni religiose, filosofiche e misteriche, solitamente opposte. Nelle culture extrabibliche tale mescolamento è visto da R. Allier come un «glissement de la religion dans la magie»1. Ciò motiva la presenza di una mentalità magica all’interno della religione. Il connubio, tuttavia, sembra interrotto dal contributo testimoniale del culto jahvista e dell’avvento del cristianesimo. Con l’annuncio della sovranità di Dio, i redattori biblici pongono una tensione nel legame magia-religione, verso un modo alternativo di fare “religione”. L’esistenza del Dio biblico rappresenta, infatti, un’aperta opposizione a quelle credenze magiche che presumono di poter dare facili risposte agli enigmi della vita. La magia è, dunque, in antitesi con la religione, almeno nell’ambito biblico2, ove l’atto magico è esplicazione di un culto idolatrico. La visione *

Docente di Patrologia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. L’espressione di R. Allier è citata da R. WILL, Magie et religion. A propos d’un livre récent, in RHPhR 21 (1936) 25. Un’ottima sintesi sulla questione si ha in H.D. BETZ, Magic and Mystery in the Greek Magical Papyri, in Magica Hiera, Ancient Greek Magik and Religion, a cura di C.A. Faraone – D. Obbink, New York – Oxford 1991, 244-259. 2 A tal riguardo, sembra giusta la posizione di R. Will, il quale nel differenziare la magia dalla religione asserisce che «on ne peut parler ni d’une religion magique, ni d’une magie religieuse, mais tout au plus d’événements magico-religieux. La magie n’est pas une branche de l’arbre de la religion, mais une liane s’enroulant autour de son tronc et en suçant 1


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magica si evolve secondo una mentalità “prelogica”, tendente a soddisfare bisogni e a mostrare l’efficacia del suo intervento con l’esercizio di tecniche, il cui compito è quello di neutralizzare e dominare potenze soprannaturali. La magia non crede nell’esistenza di una divinità assoluta. Il principio causa ed effetto, che sta alla base della religione, è praticamente annullato, per cui l’istinto mira a sovrastare la ragione e i sentimenti a ricercare modalità sensazionali e appariscenti. Ne consegue che un oggetto materiale, come l’amuleto, il talismano o una statuetta evocano la manifestazione di forze occulte, idolatrate credenze superficiali. Chi viene in possesso di tale oggetto pensa di acquisire il potere della divinità stessa, fondando l’efficacia dell’atto magico sull’affermazione del gesto o della formula da recitare. È il cosiddetto «opus operatum»3 della magia: quello che conta è il raggiungimento dello scopo, poiché «la tecnica magica può essere impiegata non solo nelle più svariate forme di guarigione e liberazione da fastidi ma anche per nuocere al proprio nemico o creditore»4. La religione biblica, invece, educa ad una relazione “personale”, intesa come atteggiamento di «pietas» (eujlavbeia) nei confronti di Dio. La cura dell’interiorità, la riflessione, l’adorazione, l’ascolto sono modalità che i redattori biblici pongono a fondamento della loro testimonianza. Il contrasto con la magia nasce dall’evidente superiorità del potere di Dio. A lui vengono sottoposte tutte le forze soprannaturali, la cui energia è segno della manifestazione sovrana della sua potenza. I prodigi, che i redattori narrano come «mirabilia Dei», non delegano alcun potere. Il loro espletamento è attestazione dell’opera regale di Colui che domina ogni forza occulta con l’agire della sua parola: un potere che si prolunga nella testimonianza del Messia.

parfois la sève»: R. WILL, Magie, cit., 39. Cfr anche S. MOWINCKEL, Religion und Kultus, Göttingen 1953. 3 R. WILL, Magie, cit., 38. 4 H. C. KEE, Medicina, miracolo e magia nei tempi del Nuovo Testamento, trad. it., Brescia 1993, 182.


Dio e i maghi: quale sovranità?

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1. MAGIA E RELIGIONE BIBLICA La legittimità di un comportamento magico all’interno della bibbia è giustificato dalla fede nella potenza di Dio. Alcuni esempi dell’AT e NT dimostrano che la magia resta un fenomeno universale in contrasto con la religione biblica. La credenza magica nasce, infatti, da una reazione fondamentalmente istintiva di fronte ad eventi naturali che, per lo scatenamento di forze superiori, non possono non incutere tremore, obbligando all’affidamento in colui che è dotato di poteri straordinari. Ciò accade ad alcuni personaggi biblici, le cui storie di malattia o possessione vengono raccontate dai redattori senza contraccolpo della critica. In esse si scorge il segno di una fede “implicita”, che prende le mosse dall’appello di Dio. L’uso di forze soprannaturali per tornaconto personale è, invece, manifestazione di un comportamento dichiaratamente “magico”, che si oppone alla potenza di Dio. Sulla base di questo criterio, la magia è un esplicito atto d’idolatria, talora in veste religiosa, che tende ad escludere l’intervento divino.

1.1. La liceità di una prassi “magica” Alcune consuetudini, atteggiamenti e tradizioni all’interno d’Israele lasciano supporre l’esistenza di una mentalità magica, arricchitasi con l’assimilazione delle culture del Vicino Oriente. Una magia israelita5, autoctona e oggetto di invettiva da parte dei redattori biblici. Le vestigia di tale mentalità si colgono per esempio nell’antico carme di Nm 21,18, ove affiora la tradizione del bastone (mis#‘enet), simbolo delle forze occulte. L’efficacia dell’azione magica non dipende dallo strumento, bensì da colui che l’utilizza. In Gdc 6,21 è l’angelo del Signore che, apparendo a Gedeone, consuma il sacrificio con il tocco del suo bastone. Ghecazi, invece, servo di Eliseo, non riesce a guarire il figlio della Sunammita con 5 Alcuni studi, condotti su ambiti diversificati, da parte di J. Frazer sul folclore nell’AT, di M.F. Schwally sulle istituzioni belliche presso gli antichi semiti e di M. Gressmann sulle tradizioni riguardanti Mosé, dimostrano che l’opinione sull’importazione del magico «ne constitue qu’une vue beaucoup trop simpliste des choses»: A. LODS, La magie hébraïque et magie cananéenne et l’AT, in RHPhR 7 (1927) 2.


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il bastone del profeta (cfr 2Re 4,29). Occorre un rituale che, applicato nel modo giusto, possa convogliare le energie soprannaturali per l’adempimento del proprio desiderio6. A tal riguardo, il Deuteronomista narra: «[Il profeta] entrò, chiuse la porta dietro a loro due e pregò Yhwh. Poi, salì e si adagiò sul giovanetto; pose la sua bocca sulla bocca di lui e i suoi occhi sugli occhi di lui e i palmi delle sue mani su quelli di lui. Si curvò con forza e il corpo del giovanetto cominciò a rivivere» (vv 33-34). Tale atteggiamento sembra descrivere la tecnica di un atto magico, in cui è ravvisabile la propiziazione dell’essere invisibile; l’impiego di un procedimento che tende a far intervenire le forze divine ed infine l’opera di contatto che segna l’atto di trasmissione dell’energia vitale7. Una forma di rituale si intravede pure nel comportamento che l’angelo assume davanti al sacrificio di Gedeone. Il fuoco, scaturito dalla roccia e che consumerà il sacrificio, è simbolo della forza divina scatenatasi per l’azione dell’angelo, la cui efficacia si lega sempre al tocco di uno strumento: «stese l’estremità del bastone che era nella sua mano e colpì (wayyigga‘) la carne e le focacce azzime» (Gdc 6,21). Alcuni esempi del NT non si discostano da questa prassi “magica”, pur sempre legittima in quanto manifestazione dell’intervento di Dio. Nell’incontro dell’emorroissa con Gesù è possibile scorgere aspetti che rasentano l’atto magico. La ricerca di contatto con il taumaturgo e il timore che assale sono topici di una credenza superstiziosa. Nella redazione marciana, la donna riferisce: «se potrò toccare le sue vesti, sarò guarita» (5,28). L’atto del «toccare» è il segno di un’azione magica in corso, che si tramuta, tuttavia, in fede risanante. L’annotazione redazionale sulla «duvnami~» che esce dal taumaturgo (cfr Mc 5,30; Lc 8,46) sottolinea il superamento dell’equivoco magico. È l’intervento del messia che «redime

6 L’arte della magia consiste nella conoscenza di alcune formule, ma soprattutto nell’esercizio di un rituale che assicura l’efficacia dell’azione magica: cfr J.M. HULL, Hellenistic Magic and Synoptic Tradition, London 1967, 37-38. 7 È suggestivo il racconto dell’uomo che torna in vita per il semplice contatto con le ossa di Eliseo in 2Re 13,20-21. L’uso sintomatico del verbo «naga‘» rimanda ad un’azione che oltrepassa lo schema invocazione-richiesta-esaudimento, tipico del miracolo. L’oggetto magico questa volta è costituito dalle ossa di un profeta che in vita era potente dispensatore di miracoli nel nome di Yhwh.


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la capacità magica dell’uomo riferendola strettamente a Dio onnipotente»8. Un altro esempio di contatto magico è ravvisabilie in At 5,15, ove l’ombra di Pietro che si proietta sugli ammalati diventa causa di guarigione. Il senso logico del verbo «ejpiskiavzw», molto vicino a quello di «a[ptw», allude alla dottrina ellenistica sull’ombra del taumaturgo carica di mana: l’energia salvifica o malefica da cui prende le mosse un’azione miracolosa. L’ombra del taumaturgo è, così, riverbero della sua stessa personalità magica, capace di domare le forze della natura con la proiezione della propria immagine. Si attua qui un principio fondamentale della magia: una forza superiore prevale su quella inferiore, producendo l’effetto desiderato grazie all’efficacia della mediazione. Tale concezione, propria dei circoli ellenistici, è mutuata dal redattore per rilevare che quella potenza9 è inopinatamente espressione della «duvnami~» di Dio. All’opera teurgica di Pietro si affianca quella di Paolo. In At 19,11-12, il redattore presenta l’apostolo con poteri straordinari: la guarigione degli ammalati mediante fazzoletti e grembiuli, che toccano la sua pelle, lascia pensare alla potenza magica dell’amuleto, che assicura la trasmissione dell’energia vitale mediante contatto indiretto. L’espressione «ajpo; tou` crwto;~ aujtou`» del v 12 è da leggersi in parallelismo con il termine «skiav» di 5,15, ove il contatto magico tra l’ammalato e il taumaturgo è descritto in termini di mediazione. Tale contatto rammenta una particolare credenza su quelle energie soprannaturali che ineriscono con oggetti materiali o parti del corpo di un taumaturgo. Il v 11 dipana, tuttavia, la possibilità del fraintendimento magico: i miracoli di Paolo non sono quelli di un mago alla ricerca dell’autoaffermazione di potenza, bensì le dunavmei~ di Dio che agiscono in maniera sovrana attraverso il suo docile strumento10.

8 R. PESCH, Il vangelo di Marco, I, trad. it., Brescia 1980, 482. Nella redazione matteana, ove i segni di una mentalità magica sono assenti, l’incontro della donna con Gesù è visto inequivocabilmente in senso messianico: cfr J.M. HULL, Hellenistic Magic, cit., 136. 9 È significativa l’aggiunta del codice D al v 15: «ajphllavssonto ga;r ajpo; pavsh~ ajsqeneiva~ wJ~ ei[cen e[kasto~ aujtw`n», con la quale l’amanuense intende riferire al potere di Dio tutte le guarigioni, anche quelle che hanno senso magico. 10 Cfr J. ROLOFF, Die Apostelgeschichte, Göttingen 1981, 285; J.M. HULL, Hellenistic Magic, cit., 111.


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1.2. Il potere di Dio contro i maghi Dio è superiore al potere dei maghi. Nessuna azione magica può resistere o limitare l’intervento divino. Le guarigioni, mediate talvolta da fattori umani, sono l’esemplificazione della sua potenza taumaturgica, che opera a favore d’Israele a condizione che esso osservi il patto: «In quel luogo [il Signore] istituì per esso una norma e un diritto e qui lo mise alla prova dicendo: “se ascolterai con attenzione la voce di Yhwh, tuo Dio, e farai ciò che è giusto ai suoi occhi, se presterai orecchio ai suoi comandamenti e custodirai i suoi statuti, non infliggerò a te alcuna malattia che ho inflitto agli egiziani, perché io sono Yhwh che ti guarisce”» (Es 15,25b-26). Il richiamo all’alleanza e l’ubbidienza dei comandamenti segnano la distinzione tra il potere di Dio e il vaniloquio degli idoli e dei maghi. L’aggiunta deuteronomistica tende, infatti, ad evidenziare l’autorità di Dio, capace di dominare le forze occulte della malattia (kol hammahiala@h) che possono contrastare la sua sovranità. L’espressione «Yhwh ro@fe’eka» definisce così la natura del Dio d’Israele che, in qualità di creatore, domina le energie cosmiche. La loro potenza sfugge a quanti reputano di poterle governare senza la mediazione di Yhwh. L’immagine di Dio guaritore, così sovente nell’AT (cfr Dt 32,29; 2Cr 7,14; Is 30,26; 19,22; 53,5; 58,8; 61,1; Ger 3,22; 17,14; 30,17; Ez 47,8-12; Os 5,13; 6,1), sottolinea che egli è «colui che ordina e ristabilisce la vita umana, tanto individuale quanto collettiva; nessun agente umano […] può risolvere le difficoltà, alleviare le sofferenze o curare le malattie»11. Il potere di Dio, inoltre, è compimento del suo disegno redentivo: un’azione potente che si estende in favore del suo popolo, per il quale egli è «go@’e@l». L’epiteto, che il Deuteroisaia attribuisce a Yhwh (cfr Is 41,14; 43,14; 48,17; 49,7), mette in evidenza un’importante sfumatura del “Dio guaritore”: «in quanto go@’e@l [egli] non acquista un bene estraneo, ma semplicemente recupera ciò che da sempre […] gli apparteneva. Jahwe fa valere il suo antico diritto su Israele; egli avanza una pretesa legittima perché ha creato e scelto questo popolo e ne è il re»12. La redenzione di Dio 11

H. C. KEE, Medicina, cit., 38. J.J. STAMM, lan g’l redimere, in E. JENNI – C. WESTERMANN, Dizionario Teologico dell’AT, I, trad.it., Torino 1978, 339. 12


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diventa allora svelamento del suo potere. L’atto di liberazione, che allude al riscatto d’Israele dalla schiavitù d’Egitto (cfr Is 51,10), è attestazione della sua esistenza sovrana davanti a tutti i popoli (cfr Is 41,4; 45,6): «farò mangiare ai tuoi oppressori la loro carne, e come di vino si ubriacheranno di sangue. Allora ogni carne saprà che io sono Yhwh, tuo salvatore e redentore, il forte di Giacobbe» (Is 49,6; cfr 41,11; 42,12; 45,24). L’oracolo del Deuteroisaia contro Babilonia amplifica ulteriormente il giudizio sulla vacuità dell’azione magica (cfr Is 47,9). Il castigo di Dio si abbatte, perché la fiducia è riposta nei sortilegi dei maghi, i quali offrono una conoscenza insipiente, frutto di «saccenteria e attività intellettuale, specialmente di carattere magico»13. Da qui l’amara constatazione del fallimento della magia: «E ti accadrà improvvisamente una calamità di cui non avrai conoscenza» (Is 47,11). L’incapacità a prevedere gli avvenimenti futuri è l’oggetto dell’ironia profetica contro i maghi di Babilonia. Questi ultimi pretendono di eguagliare il successo della liberazione divina: «si presentino e ti salvino coloro che esercitano il sortilegio celeste (hoi @berê s#a@maîm), quelli che osservano le stelle e pronosticano ogni mese ciò che ti accadrà» (Is 47,13); ma la loro riuscita è simile alla paglia bruciata dal fuoco: «il fuoco li consuma: non possono salvarsi dalla mano della fiamma» (Is 47,14; cfr Ab 2,13). Davanti al potere di Dio, quello dei maghi si dissipa: la loro forza è soggiogata dalla sovranità divina. Tale signoria è riconosciuta persino da Balaam, l’indovino che esercita la magia sulle sponde dell’Eufrate. Dal pronunciamento del suo poema, si evince l’esaltazione della potenza di Dio e il rigetto di ogni azione magica da parte d’Israele: «perché non vi è incantesimo in Giacobbe (beya‘aqo@b) e non vi è magia in Israele (beyis!ra@’e@l). A suo tempo sarà detto a Giacobbe e a Israele che cosa ha operato Dio» (Nm 23,23). Un’altra attestazione ricorre in Gen 41,8. L’incapacità dei maghi a interpretare il sogno del faraone rappresenta una prova tangibile del potere assoluto di Yhwh: «Al mattino il suo spirito era particolarmente scosso, ed egli mandò a 13

L. ALONSO SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, I Profeti, Città di Castello 1984, 347. L’espressione «’e@n ro@’a@nî» di Is 47,10, equivalente ad una sorta di ateismo pratico, mette in evidenza la sicurezza del sapere di Babilonia, fondato sulla forza degli scongiuri magici. Tale concezione rammenta «the hope placed by the Mesopotamian peoples in the ability of the sorcerer to protect them from harm»: J. L. MC KENZIE, Second Isaiah, Garden City, New York 1968, 92; cfr anche J.D.W. WATTS, Isaiah 34-66, Waco (Texas) 1987, 171.


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chiamare tutti gli indovini d’Egitto e tutti i suoi sapienti. Il faraone raccontò loro il sogno, ma non vi fu nessuno capace di interpretarlo per il faraone». La ripetizione enfatica dell’aggettivo «kol» sta ad indicare che l’oniromanzia, oggetto della scienza umana14, è destinata a fallire di fronte al potere di Dio. Giuseppe ne è il destinatario privilegiato. L’asserzione del redattore al v 16: «Non fino a me (bil‘a@da@y): Dio risponderà della salvezza del faraone» sottolienea chiaramente «la differenza fra la divinazione professionale, che viene condannata a naufragare in pieno, e l’illuminazione carismatica che non ha bisogno di alcuna tecnica»15. Lo smascheramento della potenza magica, con le sue tecniche raffinate, porta all’esaltazione della sovranità di Dio. Suggestiva appare anche l’immagine del potere dei maghi, tratteggiato ironicamente dal redattore di Esodo con l’espressione «gli indovini d’Egitto fecero la stessa cosa con le loro arti segrete» (7,11.22; 8,3.14). La formula dimostra l’esistenza di un potere magico, capace di pareggiare quello di Dio. Ma il Sacerdotale ribadisce che la pratica della magia non ha un’efficacia propria: «il potere miracoloso ottenuto da “arti segrete” magiche ha […] determinati limiti quanto alla sua potenza. Il potere miracoloso legittimo di Dio gli è superiore»16. La consistenza di un atto magico dipende allora dalla sua origine, riconducibile unicamente alla sovranità di Yhwh. È quello che intende dimostrare il redattore con l’immagine del bastone di Aronne che prevale su quello dei maghi (cfr Es 7,12) e soprattutto con la resa di questi ultimi all’evidente potere di Dio: «E dissero gli indovini al faraone: è il dito di Dio» (Es 8,15). L’iperbole, che anticipa la scomparsa dei maghi dalla scena ed il loro definitivo fallimento (cfr 9,11), richiama gli effetti miracolosi dell’intervento di Yhwh: prodigi e segni attestano implicitamente la debolezza di ogni arte magica. Nel NT, la sovranità di Dio è mediata dalla figura di Gesù. La manifestazione della sua «ejxousiva» è compimento del messaggio veterotesta14 J. Scharbert afferma che i hartummîm appartengono ad un gruppo di sapienti d’Egitto, che esercita la divinazione a partire da una particolare tecnica magica, e aggiunge: «Als “Weise” bezeichnete man im Alten Orient nicht nur die Intellektuellen, die Lehrer, die die künftigen Beamten unterrichteten und die die sogenannten Weisheitsbücher schrieben, sondern auch alle Arten von Mantikern […] auch Ärzte»: J. SCHARBERT, Genesis 12-50, Würzburg 1986, 254. 15 G. VON RAD, Genesi, trad.it., Brescia 19782, 507. 16 M. NOTH, Esodo, trad. it., Brescia 1977, 88.


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mentario sul “Dio guaritore”. I miracoli sono il prolungamento messianico dell’opera di Yhwh. Nei racconti evangelici, ove l’opposizione ai maghi è assente, la vittoria di Gesù sulle malattie e il male demoniaco rappresenta simbolicamente l’inaugurazione di un nuovo eone: «Andando riferite a Giovanni quelle cose che state udendo e vedendo: i ciechi tornano a vedere, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati e i sordi odono, i morti sono risuscitati e i poveri sono evangelizzati» (Mt 11,4-5). L’opera di Gesù è svelamento della potenza di Yhwh che libera il popolo dall’oppressione del male (cfr Is 35, 1-10). Pertanto, «le guarigioni e gli esorcismi sono inseriti in una struttura più ampia, che vede questi fatti come segni e preludi di una nuova situazione in cui il piano di Dio verrà finalmente attuato nella sua creazione, e il suo popolo conoscerà la giustizia e la pace»17. Le guarigioni realizzate da Gesù tendono, infatti, ad una trasformazione esistenziale, il cui fine è la partecipazione fiduciosa al disegno di Dio (cfr Ef 2,18; 3,12; Eb 10,19-20). L’opera redentiva non appartiene all’azione magica, la quale affida al manuale la sua efficacia, con pratiche che rimangono ai limiti del fenomeno religioso.

1.3. Le aberrazioni dei maghi Nella tradizione profetico-sapienziale, la pratica della magia appartiene alle trasgressioni di carattere idolatrico. Colui che esercita il sortilegio si oppone a Dio e rinnega l’evidenza del suo potere. Secondo il primo Isaia, tale violazione attira il giudizio di Dio: «Hai abbandonato il tuo popolo, la casa di Giacobbe, perché trabocca di maghi orientali e di indovini filistei e abbonda di parti stranieri» (Is 2,6). L’affidamento al potere dei maghi, che l’oracolo colloca alla stregua di altre sicurezze umane (cfr vv 78), è una forma di idolatria: un potere che abiura la potenza di Yhwh ed esalta la superbia umana. La ricerca fiduciosa della pratica magica fomenta arroganza e chiusura nei confronti di Dio. L’illusione di poter contare sulle 17 H. C. KEE, Medicina, cit., 132. Per la questione sul potere di Gesù contro il male, a partire soprattutto dal senso che ne dà il verbo «ejpitimavw» in rapporto a «ga@ ‘ar» nella tradizione di Qumran: cfr H.C. KEE, The Terminology of Mark’s Exorcism Stories, in NTS 14 (1968) 232-246.


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mediazioni umane diventa così inganno. L’àugure inventa le divinazioni per sostituirsi alla potenza di Dio e presentare così se stesso come manufattore di realtà future. È qui che la divinazione coincide con l’idolatria: la fantasia del mago assume la portata di un atto religioso, in cui malie e sortilegi hanno il valore di una rivelazione. Ma Dio non si trova nel presagio, nella consultazione dei morti, nelle formule vacue degli indovini. Ad Israele — riferisce ancora il primo Isaia — sono date invece «l’istruzione della legge e la testimonianza» (Is 8,20). I segni autentici della rivelazione. Ogni decisione contraria diventa idolatria: «Certo vi diranno: consultate spiriti e indovini che mormorano e bisbigliano. Forse un popolo non può consultare i suoi dei, per i vivi i morti?» (Is 8,19). Quando un oracolo di Yhwh non soddisfa le proprie esigenze, Israele ricorre ai maghi, la cui consultazione è, però, oggetto di beffe da parte del profeta. I due verbi «s¢ips¢a@pa@h» e «ha@ga@h» richiamano l’inefficacia delle formule magiche, che fondano il successo di una consultazione sulla tecnica della ripetizione. Privilegiare la negromanzia e la consultazione degli spiriti costituisce un grave comportamento idolatrico: un atto aberrante che viola la legislazione mosaica (cfr Lv 19,31; Dt 18,10-11; 1Sam 28,7-20), collocando Dio al di sotto del potere dei maghi. In tal caso, il giudizio di Yhwh diventa improrogabile: egli «nasconde il suo volto alla casa di Giacobbe» (8,17), e, attraverso la testimonianza del profeta, dichiara che le tecniche magiche non possono avere consistenza: «Certo, essi diranno questa cosa: non c’è nessuna forza magica» (8,20)18. La falsa profezia è un aspetto sintomatico dell’azione magica. Essa rientra nel repertorio delle menzogne che gli indovini proferiscono per traviare Israele. Geremia esplicita così la posizione dei falsi profeti all’interno della cerchia degli àuguri: «E voi non ascoltate i vostri profeti né i vostri indovini né i vostri interpreti di sogni né i vostri stregoni né i vostri maghi» (Ger 27,9). Il tono ironico dell’oracolo, ravvisabile nella reiterazione del pronome possessivo, sottintende un pesante giudizio sul popolo 18

La traduzione del v 20b è molto controversa. L. Schökel – J.L. Diaz, traducendo «s#ahar» con «aurora», preferiscono leggerlo alla fine del v 22: cfr L. ALONSO SCHÖKEL – J.L. SICRE DIAZ, I Profeti, cit., 169. Seguendo invece il testo dei LXX che leggono «s#ahad» (dono) al posto di «s#ahar», il senso traslato potrebbe essere quello di «forza magica»: cfr J. BLENKINSOPP, Isaiah 1-39, New York 2000, 243; J.D.W. WATTS, Isaiah 1-33, Waco (Texas) 1985, 125.


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che aderisce ad una profezia disubbidiente. I pronunciamenti di essa hanno il valore del sortilegio, la cui fondatezza si commisura con la menzogna. Il termine «s#eqer» (27,10) equivale nel contesto profetico ad un atto di perfidia che tende a stravolgere il dato oggettivo della fede (cfr Is 57,4). Pertanto, il falso profeta, al pari dei maghi, è un idolatra che distoglie “perfidamente” il popolo dalla speranza nell’antica promessa: «Perché essi vi profetizzano menzogna, per allontanarvi dalla vostra terra ed io vi disperda e vi faccia perire» (27,10). La condanna raggiunge pure le profetesse che Ezechiele, a causa delle loro malie, annovera tra le fattucchiere del paese. Esse sono dichiaratamente idolatre, perché «profetizzano a partire dal loro cuore (hammitnabbe’ôt millibbehen)» (Ez 13,17), credono di poter disporre della vita e della morte (cfr 13,18) e soprattutto, profanando il Dio della vita, «mentiscono al mio popolo che ascolta le falsità» (13,19). L’idolatria è insita nella pratica di queste singolari divinazioni19, che esplicano sortilegi in nome di Yhwh (cfr Es 20,7; Dt 5,11) ed esercitano la magia con atti che simulano l’azione religiosa. Nel giorno della purificazione, tempo del riscatto di Yhwh, il potere dei maghi sarà definitivamente soppresso, insieme con il culto idolatrico delle sculture e le stele, opera della mano dell’uomo (cfr Mi 5,9-14)20. E tutto ciò — riferisce Zc 10,2 — «perché i feticci (tera@pîm) parlano invano e gli indovini vedono falsità, narrano sogni irreali, consolano inutilmente». L’accostamento della pratica divinatoria alla credenza nei «tera@pîm», le statuette ancestrali che hanno un alto valore idolatrico (cfr Gen 31,19; Gdc 17,5; 1Sam 19,11-17), è molto significativa. In 1Sam 15,23, la divinazione con l’uso dei «tera@pîm» è severamente proibita, perché essa induce alla ribellione e al rifiuto della parola di Dio. La combinazione del Deuteronomista con i termini «tera@pîm» e «’a@wen»,

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Secondo A. Lods, l’uso magico dei nastri attorno ai polsi e dei veli per le teste (cfr Ez 13,18) è confermato dalla scoperta di statuette votive con mani legate al petto presso il Tell Sandahianna in epoca seleucida. La condanna di Ezechiele, però, riguarda un’antica prassi magica probabilmente di origine ittita: cfr A. Lods, La magie hébraïque, cit., 12-14. 20 L’allusione dell’oracolo alle leggi di Dt 18,10 ed Es 22,17 lascia intendere che «the extraordinary tenacity of these proscribed practices in Israel seems to have been an integral part of persistent paganizing trends, with the making idols (v 12) as its most overt expression»: F.I. ANDERSEN – D.N. FREEDMAN, Micah, New York 2000, 491; cfr anche R.L. SMITH, Micah – Malachi, Waco (Texas) 1984, 48.


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che Zaccaria riprende per i suoi «tera@pîm», sottintende la fusione della magia con l’idolatria, il cui fine resta l’iniquità e la violenza (’a@wen). Il legame della magia con l’idolatria è dimostrato anche dall’autore di Sapienza. L’arte magica nei suoi procedimenti è simile alle tecniche umane utilizzate per fini idolatrici. In Sap 17,7 i trucchi ridicoli, «ejmpaivgmata», dei maghi sono fallimentari, alla maniera dell’idolatra che «reputa un gioco (paivgnion) la nostra vita […] fabbricando con materia terrosa vasi fragili e statue» (15,12-13). La tecnica magica (magikh; tevcnh) diventa così oggetto di polemica. Essa, vantando il possesso di un’intellegenza pratica, capace cioè di conoscere i segreti dell natura (frovnhsi~), mostra tuttavia la sua limitatezza “umana” e quindi la tensione all’inganno. L’utilizzo di quest’arte, che serve soltanto per costruire idoli e abbellire immagini, è fonte d’idolatria (cfr Sap 14,19). L’autore esplicita la stoltezza di quest’arte in 17,8: «Coloro che promettevano di eliminare timori e turbamenti di un’anima malata, si sono ammalati di una ridicola inquietudine». Il destino del mago, che pensa di poter dominare il potere Dio con i sortilegi, cade in un terribile castigo: diventa vittima del suo stesso intrigo. Il mago è posto così di fronte alla sua coscienza che lo accusa della sua empia distorsione (cfr 17,10-11), quella coscienza intesa «come elemento interno all’uomo ma in qualche modo collegato con il giudizio futuro e quindi con Dio […]. La coscienza diviene un testimone interiore della propria malvagità che consiste nel rifiuto di scorgere ciò che ha compiuto per il suo popolo il Dio d’Israele»21.

2. LA PROSCRIZIONE DELL’ATTO MAGICO La possibilità di poter mediare forze occulte in vista di un beneficio o maleficio e avviare una comunicazione con il soprannaturale, attraverso l’utilizzo di una tecnica, costituisce la grande pretesa della magia. Un’evidente requisizione di potere, con la quale si cerca di precludere o monopolizzare l’intervento di Dio. Ciò rientra in quello che i redattori 21 L. MAZZINGHI, Notte di paura e di luce. Esegesi di Sap 17,1-18,4, Roma 1995, 8889. Per un’esegesi più dettagliata della pericope con riferimenti ellenististico-filoniani: cfr ibid., 65-109.


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amano definire «sacrilegio» (Dt 18,12) di fronte a Dio. La deplorazione non riguarda, però, il comportamento magico in se stesso, che talvolta può apparire persino equivoco, bensì la ricerca di una mediazione pragmatica in antagonismo con la potenza di Yhwh. Una pratica totalmente estranea alla religione biblica: essa, nell’utilizzare strategie e tecniche magiche, favorisce credenze in sistemi impersonali. Alcuni testi dell’AT e NT22 rimarcano l’ina22 La ricchezza terminologica riguardante il campo semantico della magia è sorprendente. Essa si riferisce soprattutto all’AT. Il termine «kas#s#a@p» (mago) con i suoi derivati ricorre 13x (cfr Es 7,11; 22,17; Dt 18,10; 2Re 9,22; 2Cr 33,6; Is 47,9.12; Ger 27,9; Dn 2,2; Mi 5,11; Na 3,4.4; Ml 3,5). I LXX prediligono «farmakov~», un termine generico che sottintende l’esercizio di ogni forma di magia. Sinonimo di «kas#s#ap» è «’as#s#a@p», presente soltanto nel libro di Daniele (cfr Dn 1,20; 2,2.10.27; 4,4; 5,7.11.15), per il quale i LXX introducono «mavgo~» alternandolo con «sofov~» e «farmakov~». Del medesimo significato è «’e@t» (cfr Is 19,3), un hapax che i LXX traducono con la circolocuzione «tou;~ ejk th`~ gh`~ fwnou`nta~». Con il significato di «sapiente che pratica arti segrete» è «harto@m» sempre al plurale (cfr Gen 41,8.24; Es 7,11.22; 8,3.14.15; 9,11.11; Dn 1,20; 2,2) equivalente per i LXX a «ejxhghtaiv». Pertanto, in Dn 2,10.27; 4,4.6; 5,11 assume il senso traslato di «scriba». Per «yidde‘o@nî» (Lv 19,31; 20,6.27; Dt 18,11; 1Sam 28,3.9; 2Re 21,6; 23,24; 2Cr 33,6; Is 8,19;19,3) sinonimo di «qo@se@m» e del sintagma «qa@sam qesem» (Nm 22,7; Dt 18,10; 2Re 17,17; Ez 13,23; 21,26; ) si intende «colui che pratica la divinazione» e che i LXX rendono per lo più con «ejpaoidov~» (Lv 19,31; 20,6.27; 2Cr 33,6). Molto vicino a questo termine è il participio «‘ône@n» o «me‘ône@n» (cfr Dt 18,10.14; 2Re 21,6; 2Cr 33,6; Is 2,6; 57,3; Ger 27,9; Mi 5,11), il cui significato oscilla tra «fare un sortilegio», «prendere un augurio» e «presagire», diventando così sinonimo del verbo «nhs#» al piel (cfr Gen 30,27; 44,5.15; Lv 19,6; Dt 18,10; 1Re 17,17;20,33; 2Re 21,6; 2Cr 33,6) e che i LXX rendono con il verbo «oijwnivzomai». Anche «lhs#» al piel ha il significato di «fare incantesimo, sortilegio» (cfr 2Sam 12,19; Sal 41,8; 58,6). Pertanto, il sostantivo «lahas#» sembra sinonimo di «nahas#», il cui termine allude alla tecnica dell’incantare mediante divinazione (cfr Nm 23,23). Il sintagma «hôbe@r ha@ber» (cfr Dt 18,11; Sal 58,6), «colui che incanta, seduce, ammalia» è in parallelismo con «lhs#», mentre il sostantivo «heber» con il senso di «incantesimo» (cfr Is 47,9.12) si avvicina ai sostantivi «lahas#» e «nahas#». I LXX traducono il sintagma con l’espressione «ejpaeivdwn ejpaoidhvn», accostandolo piuttosto al verbo «qa@sam». La pratica della negromanzia è resa da espressioni che hanno per oggetto «’ôb» (spirito, negromante). Con il significato di «consultare gli spiriti» si trova il sintagma «da@ras# ’el ’ôb» (cfr Is 8,19) in parallelismo con «da@ras# ’el hamme@tîm» (cfr Dt 18,11), «qa@sam ba@’ôb» (cfr 1Sam 28,8), «s#a@’al ’ôb» (cfr Dt 18,11), «s#a@’al ba@’ôb» (cfr 1Cr 10,13). Con il senso generico di «negromante» e «negromanzia» si veda Lv 19,31; 20,6.27; 1Sam 28,3.7.9; 2Re 21,6; 23,24; 2Cr 33,6; Is 19,3. Tra le arti magiche si trova anche l’astrologia, praticata da «coloro che osservano il cielo» (cfr Is 47,13). Infatti, l’espressione «ho@berê s#a@maîm» è in parallelismo con «haho@zîm bakkôka@bîm» (coloro che osservano le stelle: cfr Is 47,13). Con il sintagma «he‘™bîr ba@’es#@» (far passare per il fuoco) si intende l’atto del sacrificio di un figlio in onore


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deguatezza di queste forme mediative, che fondano l’efficacia del loro esercizio sull’illusoria mercificazione di un “potere” che resta esclusivamente «dono di Dio» (cfr At 8,19).

2.1. Un abominio per Yhwh: Dt 18,9-15 La legislazione deuteronomica sulla magia appartiene alle riforme di Giosia (640-609) riguardanti la centralizzazione del culto di Yhwh in Gerusalemme. Un elenco di abominazioni che il Deuteronomista riporta pure in 2Re 23,10.24, a sfondo prettamente cultuale (cfr 2Re 17,2.17; 21,2.6.20). Queste pratiche vengono severamente bandite dal Codice di Santità: «Non vi rivolgerete ai negromanti, agli indovini. Non li interrogate contaminandovi con loro. Io sono Yhwh, vostro Dio» (Lv 19,31). Il divieto abbraccia l’esercizio di ogni forma di magia, in quanto esso “contamina” il rapporto di Israele con Dio. Il verbo «pa@na@h», che esprime un atto d’abbandono fiduciale in Yhwh (cfr Gb 5,1; Is 45,22), in riferimento ai maghi, fonda un’opzione idolatrica. La preferenza del potere divinatorio è sempre un’insidia subdola, che Israele rischia frequentemente di correre: il medium, con i suoi sortilegi e incantesimi, tende ad illudere il popolo su conoscenze che riguardano realtà future. Tutto ciò in contrasto con la prassi del culto jahvista. Per tale motivo, il redattore, utilizzando enfaticamente il verbo «bqs#», raccomanda di allontanare con tempestività gli indovini: la dipendenza da essi procura, infatti, un’impurità rituale (tum’a@h) che può compromettere la missione d’Israele e, quindi, quel rapporto che pone il popolo in attesa di una parola vera (cfr Es 33,7; Pr 28,5; Zc 8,21). Nella seconda parte del codice dell’Alleanza, la proibizione diventa persino di Moloch (cfr Lv 18,21; Dt 18,10; 2Re 17,17; 21,6; 23,10; 2Cr 33,6; Ger 32,35; Ez 20,26.31; 23,37), facendo della magia un esplicito atto di idolatria. Nel NT, con il termine «mavgo~» si intende: a) il sapiente dotato di una conoscenza particolare (cfr Mt 2,1.7); b) colui che esercita l’arte magica (cfr At 8,9.11); c) il falso profeta che confonde magia e religione (cfr At 13,6.8). Soltanto in un caso si usa il verbo «manteúomai» per indicare «colui che pratica la divinazione» (cfr At 16,16), mentre si preferisce il termine «farmakov~» e «farmakeiva» con il senso generico di magia, stregoneria in opposizione al potere di Dio (cfr Gal 5,20; Ap 9,21; 18,23; 21,8; 22,15). Cfr inoltre G. DELLING, mavgo~, in GLNT, VI, trad. it., Brescia 1970, 963-972.


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assiomatica: «non farai vivere colei che pratica la magia» (Es 22,17). L’espressione «lo@’ tehayyeh», che «non sembra equiparabile alla formula usuale môt yûma@t (sicuramente morire)»23, si riferisce al comando di Dio sulla cacciata dei popoli dalla terra promessa (cfr Nm 33,52). Un motivo che ingloba parallelamente anche coloro che esercitano la magia (cfr Dt 18,12). Il potere dei maghi, in opposizione all’opera di Yhwh, è un esplicito diniego della sua sovranità: un «sacrilegio». Con il termine «tô‘e@ba@h», molto frequente nel Deuteronomio, il redattore fissa un criterio di proibizione sull’uso dell’arte divinatoria. La magia è una pratica idolatrica e “multiforme”. Essa ha la pretesa di organizzare un “culto”, il cui esercizio diventa un abominio alla stregua delle manifestazioni idolatriche dei popoli. Un servizio empio che rientra nella prassi di coloro che adorano le immagini dei propri idoli (cfr Dt 7,2526), che custodiscono le tradizioni sui cibi immondi (cfr Dt 14,3) o praticano l’immolazione dei sacrifici impuri (cfr Dt 17,1): forme cultuali abominevoli di un ethos religioso che non riconosce il potere di Yhwh. Il redattore individua l’espletamento di questo culto aberrante nell’adorazione del dio Moloch (cfr Lv 18,21). È probabile, infatti, che la frase del v 10 «ma‘abîr benô ûbittô ba@’e@s#» non soltanto esplichi un culto idolatrico in opposizione a quello jahvista, ma introduca anche le sfumature di una confessione a sfondo magico. Così, la divinazione, il sortilegio, l’incantesimo, l’augurio, la consultazione dei morti e degli spiriti rappresenterebbero una ricca varietà di operazioni magiche, la cui mediazione tende ad evocare il potere di Moloch. La prassi di questo culto doveva apparire seducente ad Israele. Le sue tecniche di mediazione offrivano sicurezza, in contrapposizione alle modalità comunicative del culto jahvista. Quest’ultimo, infatti, inaugura l’eone della manifestazione di Yhwh, a partire dal quale «si può accantonare, come con un gesto della mano, il vistoso arsenale della pratiche divinatorie e occulte, tutti i tentativi di diventare partecipi dei poteri o della scienza divina. A Israele è data una possibilità del tutto diversa»24. Mediante la parola di un profeta, Dio attesta l’efficacia del suo potere e comunica la sua volontà. 23 B.S. CHILDS, Il libro dell’Esodo, trad. it., Casale Monferrato 1995, 485. Non così J.I. DURHAM, Exodus, Waco (Texas) 1987, 327; M. NOTH, Esodo, trad.it., Brescia 1977, 230. 24 G. VON RAD, Deuteronomio, trad.it., Brescia 1979, 138.


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Il contrasto è, dunque, cultuale. Le due forme magiche, la divinazione e l’incantesimo, che il redattore sinteticamente riprende al v 14, sono l’indizio di un’arte divinatoria molto comune al tempo in cui egli scrive. I termini «me‘o@nenîm» e «qo@semîm» richiamano un’antica prassi medianica, che formula presagi con l’uso di una tecnica speciale. Secondo il Deuteronomio però, la mediazione non si attua mediante la “tecnica”, ma nell’ascolto della parola di un profeta (cfr Es 20,19; Dt 5,27), di un vero profeta25, scelto da Dio per la fondazione di un rapporto “diretto” con il popolo. Egli è per Israele la «bocca» di Dio che parla non più con enigmi, ma nella «visione» dell’agire potente di Yhwh. Il profeta, come il servo Mosè (cfr Dt 34,10), «fissa lo sguardo sull’immagine di Yhwh» (Nm 12,8), per interpretare autenticamente gli eventi della storia. Inoltre, la vicinanza in favore del popolo (miqqirbbeka) e soprattutto l’atto di cooptazione tra i fratelli (me@’aheyka) costituiscono alcuni aspetti fondamentali per distinguere il profeta dai maghi. Egli non si presenta in qualità di “uomo divino”, alla maniera degli incantatori e indovini che esercitano la propria autorità con la tecnica della magia, bensì testimone del potere di un altro, quello di Yhwh, nel cui nome agisce e trasmette la parola. La dimensione d’ascolto diventa così l’unica possibilità mediativa per una comunicazione vera. Un atteggiamento di fiducia, sospinto dalla rettitudine interiore: «sarete integri con Yhwh vostro Dio» (v 13; cfr Dt 32,4). Il senso etico, che traspare dal termine «ta@mîm», allude a quella fermezza di comportamento, che contraddistingue il rapporto con Israele da parte di Dio, che è «giusto e retto» (Dt 32,4). Nel popolo, tale apertura si tramuta in risposta di fede autentica (cfr Sal 18,24.26; Pr 2,21).

25

L’espressione «na@bî’ka@mo@nî» di Dt 18,15 può avere anche un significato collettivo e riferirsi quindi all’istituzione profetica che nel giudaismo si tramuterà in attesa del profeta escatologico. Cfr l.c. In realtà, «The ambiguity of the individual and collective both being expressed in the grammatical singular is a common Old Testament device employed to afford multiple meanings or applications to prophetic texts»: E.H. MERRILL, Deuteronomy, Nashville 1994, 272.


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2.2. La bramosia di un potere indebito: At 8,9-13.18-24 Nel descrivere l’attività di Simone il mago, l’autore di Atti lascia intravedere il suo intento apologetico: «la superiorità dei miracoli cristiani su ogni forma di magia»26. Il successo di Filippo, che compie «segni e prodigi» (v 13), è infatti contrapposto all’apparente trionfo di Simone che attira una folla ingente e soprattutto anonima: «pavnte~ ajpo; mikrou` e{w~ megavlou» (v 10), ammaliata soltanto dai suoi incantesimi: «dia; to; iJkanw`/ crovnw/ tai`~ mageivai~ ejxestakevnai aujtouv~» (v 11). La combinazione del verbo «mageuvwn» con «ejxistavnwn» al v 9 dimostra che l’opera di Simone è quella di un ciarlatano che tenta con le sue malie di stupire e attirare l’attenzione su di sé. Pertanto, la magia, che nella tradizione ippocratica serviva per miracoli e guarigioni, diventa, per il redattore, un mezzo di manipolazione in contrasto con la signoria di Dio. L’azione subdola di Simone si scorge anzitutto nella dichiarazione della sua identità. Con l’espressione «ei\naiv tina eJauto;n mevgan» (v 9) il mago identifica se stesso con la divinità. Attribuendo a sé gli onori “dell’uomo divino”, attesta di essere l’incarnazione di una divinità, il cui titolo è «hJ duvnami~ tou` qeou` hJ kaloumevnh megavlh» (v 10). Il comportamento di Simone appare riprovevole e arrogante, denigrato persino dagli antichi27 e accostato da Luca a Teuda, il falso profeta, la cui autodesignazione è simile a quella del mago (cfr 5,36). Di fronte all’annuncio del potere di Dio, la sua attività è destinata allo smacco. La folla “anonima”, che per la forza delle sue magie lo ascoltava supinamente (v 11: prosei`con), comincia ad aderire in modo “personale” (v 12: a[ndre~ te kai; gunai`ke~) 26 G. SCHNEIDER, Gli Atti degli Apostoli, I, trad. it., Brescia 1985, 674. È difficile determinare il ruolo che Simone ha avuto nel contesto della tradizione gnostica. La questione sull’elaborazione di questo personaggio da parte dei padri della chiesa o dell’autore di Atti resta ambivalente. Si vedano i contributi di C.K. BARRETT, Light on the Holy Spirit from Simon Magus (Act 8,4-25) in Les Actes des Apôtres. Traditions, rédaction, théologie, a cura di J. Kremer, Gembloux-Louvain 1979, 281-295; E. HAENCHEN, Simon Magus in der Apostelgeschichte, in Gnosis und Neues Testament: Studien aus Religionswissenschaft und Theologie, a cura di K.W. Tröger, Gütersloh 1973, 267-280. 27 L’accusa di megalomania nei confronti dei maghi costituisce un luogo comune molto diffuso nell’antichità e appartiene ad una precisa invettiva ellenistica: cfr F. HEINTZ, Simon «le magicien», Paris 1997, 115-122.


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alla buona novella di Filippo. L’efficacia di tale predicazione è ravvisabile, infatti, nel tono ironico con cui il redattore tratteggia il fallimento di Simone. Quel mago, che aveva tentato di radunare adepti, è costretto, invece, a seguire l’evangelizzatore (v 13: h\n proskarterw`n) e a sottomettersi a lui per apprendere operazioni che nella sua mente restano ancora ambigue. I «segni e prodigi» di Filippo inaugurano l’avvento messianico di Gesù, la cui potenza è superiore ai sortilegi magici di Simone, il quale è obbligato a constatare l’evidenza dei fatti: «qewrw`n te shmei`a kai; dunavmei~ megavla~ ginomevna~» (v 13). Alla presunta grandezza delle sue magie si oppone, dunque, la poderosa forza di Dio. Ciò è ulteriormente dimostrato dall’uso del verbo «ejxivstamai» (uscire fuori di sé), con il quale Luca sottolinea il totale asservimento di Simone. Le sue tecniche divinatorie, con le quali egli stupisce (ejxistavnw) la folla, si presentano inabili di fronte all’azione taumaturgica di Filippo. L’incontro con gli apostoli diventa, però, risolutivo28. Simone è smascherato nella sua perfidia: «Il tuo cuore non è retto davanti a Dio» (v 21). Con l’esortazione di Pietro alla conversione, il redattore esprime il suo giudizio sulla malvagità del mago. Il termine «kakiva» (v 22a) in parallelismo con l’espressione «hJ ejpivnoia th`~ kardiva~» (v 22b) sottintende l’esercizio doloso della magia, mediante ragionamento e illusione. Una disposizione al male che Luca stigmatizza nella descrizione del mago Elimas, oppositore di Paolo: «O tu che sei pieno di ogni inganno e malvagità, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, non vuoi smettere di sovvertire le vie diritte di Dio?» (13,10). L’esercizio del mago è visto, pertanto, come un atto di perversione che acquista potere con il denaro. Simone è disponibile persino a investire le proprie ricchezze (crhvmata), pur di acquisire tale potere. Il topos lucano riprende, in realtà, un’opinione comune nel mondo antico, formulando tuttavia un criterio deplorativo molto duro nei confronti dell’attività magica. L’azione degli apostoli 28 L’intreccio redazionale del doppio incontro di Filippo e gli apostoli con Simone, il cui episodio appartiene probabilmente ad una tradizione prelucana (cfr R. PESCH, Atti degli apostoli, trad. it., Assisi 1992, 357-361), tende a mostrare la vittoria definitiva del potere di Dio su quello dei maghi. L’opera di Filippo, senza l’avallo della testimonianza apostolica, sarebbe apparsa parziale e come — giustamente ribadisce F. Heintz — la distinzione sarebbe rimasta «entre les miracles “légitimes” du premier et ceux, “illégitimes”, du second, mais elle n’est valable que du point de vue du locuteur»: F. HEINTZ, Simon, cit., 110.


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appartiene all’«ejxousiva» dell’evangelo, i cui effetti sfuggono alla ricca tecnica dell’arte divinatoria. Il mago non può competere con l’attività taumaturgica dei testimoni di Dio. Il suo potere non appartiene al «dono di Dio» (v 20), che, per il redattore, è lo Spirito Santo (cfr 2,38; 10,45; 11,17), elargito “gratuitamente” su chi confessa la propria sottomissione alla sovranità del Messia.

CONCLUSIONE La concezione che gli antichi hanno del fenomeno magico appare molto diversificata. Platone nell’Alcibiades I,122A definisce la magia «qew`n qerapeiva» (culto degli dei) e i maghi, eredi delle occulte conoscenze di Zoroastro. Essa assume così il valore di una “scienza” che forma e introduce al mondo soprannaturale, attraverso l’uso di tecniche divinatorie: una modalità empirica che cerca di influire sul corso degli astri e determinare la volontà degli dei. La pretesa di mediare e controllare forze ribelli la colloca nell’ambito di una religione superiore, «una sapienza sacerdotale», come la chiama Apuleio nell’Apologia 26. Di tutt’altro avviso sembra, invece, Plinio che nella sua Historia Naturalis 28,20 apostrofa la magia una subdola arte, tesa a «a commuovere gli dei, anzi a dare ordine agli dei»29. E ancora Platone scorge in essa il rischio di una degenerazione, quando la si riduce a strumento effimero e manipolatore per motivi di lucro: «poiché gli incantatori, mediante sacrifici, preghiere e canti magici, per amore di denaro trascinano alla distruzione i semplici, tutte le famiglie e le città arroccate»30.

29

Per la citazione di Plinio cfr H. C. KEE, Medicina, cit., 169. Un’ottima sintesi con riferimenti ai testi si trova in F. HEINTZ, Simon, cit., 36-54; cfr anche A.A. BARB, La sopravvivenza delle arti magiche, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a cura di A. Momigliano, trad. it., Torino 1975, 113-137; K. PRÜMM, Religionsgeschichtliches Handbuch für den Raum der altchristlichen Umwelt, Freiburg 1943, 393-394. 30 PLATONE, Leges X,909b: «wJ~ qusivai~ te kai; eujcai`~ kai; ejpw/dai`~ gohteuvonte~, ijdiwvta~ te kai; o{la~ oijkiva~ kai; povlei~ crhmavtwn cavrin ejpiceirw`sin kat’a[kra~ ejxairei`n». Cfr anche FILOSTRATO, Vita Apollonii, VIII,7; LUCIANO DI SAMOSATA, De morte Peregrini, 13.


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Con Filone, erede pedissequo del tardo platonismo, la magia chiarisce la sua posizione nell’ambito delle conoscenze empiriche. L’Alessandrino sostiene, infatti, l’esistenza di una magia “autentica”, quella di origine persiana, che sta alla base di «una visione scientifica, mediante la quale le operazioni della natura si presentano con un aspetto più chiaro»31. Una scienza universale, dunque, che non ha la pretesa di contrastare le culture o le religioni, ma con il fascino dei suoi incantesimi cerca di stabilire una relazione con il soprannaturale. Essa, tuttavia, si distingue da quella che gli indovini diffondono, mediante falsi sortilegi, come mistificazione (parakovmma) della vera magia equivalente a «una tecnica di bassa lega che ciarlatani e adulatori coltivano, [arte] ignobilissima della popolazione femminile e servile; essa dicendo parole magiche promette di purificare, mondare e, mediante alcuni filtri e sortilegi, trasformare l’amore in crudele ostilità e l’odio in straordinaria benevolenza»32. Per i redattori biblici non esistono mezzi termini. La magia in tutte le sue sfaccettature costituisce un’insidia al potere di Dio. Essa invade arbitrariamente uno spazio mediativo che non le appartiene. Nessuna tecnica divinatoria può fondare un rapporto personale e comunicativo con il divino. La sua azione resta, infatti, mistificatoria e l’orientamento che essa propone è sempre pragmatico, incentrato esclusivamente sulla figura dell’operatore. La magia si contrappone quindi alla sovranità di Dio e al suo strumento mediativo: la profezia. L’atto magico rientra, infatti, nell’ambito della falsa profezia. La divinazione, i sortilegi, gli incantesimi non mediano la voce di Dio, ma parole umane che illudono e disorientano. Il potere sulle forze soprannaturali è soltanto una questione di tecnica, il cui uso dipende dalla capacità del mago e dall’efficacia del suo rituale. Una riduzione aberrante che i redattori considerano «sacrilegio», giacché il potere di Dio

31

Filone, De specialibus legibus III,100: «ojptikh;n ejpisthvmhn ou\san h/| ta; th`~ fuvsew~ e[rga tranotevrai~ fantasivai~ aujgavzetai». 32 Ibid., III,101: «kakotecniva h}n mhnaguvrtai kai; bwmolovcoi metivasi kai; gunaivwn kai; ajndrapovdwn ta; faulovtata, perimavttein kai; kaqaivrein katepaggellovmena kai; stevrgonta~ me;n eij~ ajnhvkeston e[cqran misou`nta~ de; eij~ uJperbavllousan eu[noian a[xein uJpiscnouvmena fivltroi~ kai; ejpw/dai`~ tisin».


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non può essere manipolato dalle false macchinazioni, la cui pretesa resta la manifestazione di un’autorità assoluta. Da questo principio, si possono dedurre alcune considerazioni: ❏

L’atto magico è proibito dalla bibbia, perché la sua esplicitazione in tecniche divinatorie equivale ad un culto idolatrico, in cui si fa a meno di Dio e, in alternativa alla sua autorità, si confida supinamente nel potere di un mago. Nella magia non può sussistere una professione di fede, perché gli strumenti mediativi ricercano modalità empiriche e, dotate di un rituale, tendono ad illudere sull’efficacia dell’azione. L’obiezione dei profeti riguarda, invece, la novità di una proposta che esula da queste forme pragmatiche: l’ascolto fiducioso dispone, infatti, all’irruzione potente dell’autorità di Dio.

È possibile intravedere in alcuni personaggi biblici un comportamento magico, la cui credenza, senza l’esercizio di una pratica essenziale, resta superstiziosa. Ciò non scuote paradossalmente la sensibilità dei narratori, che vedono in tale apertura una dipendenza totale dal potere di Dio. Resta, allora, una distinzione basilare tra magia e comportamento magico. La prima è ricerca di tecniche, con le quali si tende a dominare il potere di Dio; il secondo è una proiezione instintiva che necessita di una purificazione razionale con i contributi della religione.

La tracotanza del mago, che identifica se stesso con una divinità, diventando medium e incarnazione di essa, allude al cosiddetto “culto della personalità”. Le azioni magiche tendono a porre l’attenzione sulla persona che le opera, impressionando così la sensibilità emotiva di coloro che ne restano ammaliati. Si prediligono, pertanto, forme che hanno del sensazionale, atteggiamenti arroganti di deificazione, modalità illusioniste che ingannano. La perfomance del mago risulta essenzialmente contraria all’atteggiamento di chi assume la responsabilità della testimonianza in favore del potere di Dio.


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Nel comportamento del mago, la bramosia del potere si traduce spesso in avidità di denaro. Un aspetto ricorrente che permette di commisurare il grado di “perversione” della sua losca attività. Il potere che egli esercita è illegittimo. Mediante il denaro, cerca di camuffare l’autorevolezza di chi, invece, lo possiede nella qualità di “dono” e diffonde l’idea di esserne detentore esclusivo, praticando un mercimonio che fomenta credenza nella sua sovranità assoluta. È da qui che nasce l’opera subdola del “plagio”: un’adesione spersonalizzante e massiva, tesa a generare dipendenza e asservimento mediante un potere, tutelato unicamente dalla forza prevaricatrice del denaro.


PIETÀ POPOLARE: DOMANDA RELIGIOSA ED ISTANZE MORALI NELLA CULTURA SICILIANA

PASQUALE BUSCEMI*

CHIARIFICAZIONI TERMINOLOGICHE E STATUS QUAESTIONIS

Dagli anni ’70 in poi il tema della pietà popolare ha conosciuto un interesse di proporzioni davvero vastissime. Sono tante le scienze che hanno preso in seria considerazione l’argomento (per es.: la sociologia, la psicologia, l’antropologia culturale, l’etica, la filosofia); gli studi che hanno analizzato questa realtà si sono moltiplicati sia in ambito ecclesiale, nell’ambiente laico1. Punto di partenza della mia riflessione sulla pietà popolare è il seguente: nonostante la presenza di elementi ambigui, contraddittori e a volte degenerati, la pietà popolare è da considerare un modo legittimo con cui il popolo esprime e vive il proprio rapporto con Dio, quindi le modalità con cui si realizza e i suoi simboli non vanno disprezzati, né eliminati, ma letti attentamente ed interpretati per coglierne il contributo di fede2. La pietà popolare ha una sua teologia, in un suo linguaggio mistagogico tradizionalmente fondato che occorre ricercare, saper leggere,

*

Docente di Teologia morale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Per una trattazione generale e un’essenziale bibliografia, cfr J. CASTELLANO, Religiosità Popolare e Liturgia, in Nuovo Dizionario di liturgia a cura di D. Sartore – A. M. Triacca, Roma 1984, 1168-1187; F.G.B. TROLESE, Contributo per una bibliografia sulla religiosità popolare , in AA. VV., Ricerche sulla religiosità popolare, Bologna 1979, 273325; AA. VV., La religiosità popolare tra manifestazione di fede ed espressione culturale, Bologna 1988. 2 Cfr S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della Conferenza Episcopale Italiana nei confronti della religiosità popolare, in Synaxis XVI/2 (1998) 537. 1


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Pasquale Buscemi

interpretate e riproporre, altrimenti si corre il rischio di emarginare il popolo di Dio, creativo della stessa teologia3. Il presente lavoro vuole essere solo un contributo alla comprensione del fenomeno della pietà popolare e alle istanze morali emergenti nella cultura siciliana. I termini che interessano sono i seguenti: pietà popolare, istanze morali e cultura siciliana. Preferisco parlare di pietà popolare più che di religiosità popolare sia perché il termine è entrato nel linguaggio teologico, grazie all’esortazione apostolica di Paolo VI, Evangelii Nuntiandi che al n. 48, dopo aver parlato degli aspetti più significativi di essa la definisce come la religione del popolo; sia perché il termine “pietà” più che “religiosità” fa riferimento alla coscienza religiosa cristiana e quindi alla sua dimensione ecclesiale che ha certamente legami con l’istituzione Chiesa; invece il termine “religiosità” richiama la dimensione antropologica, costitutiva, di ogni uomo aperta al sacro, senza alcun rapporto esplicito con l’esperienza cristiana e quindi con la Chiesa, esente da un discernimento e verifica ecclesiale. Anche il termine “popolare” va compreso nella sua specificità; infatti esso fa riferimento al popolo di Dio, non come entità sociologica, ma secondo l’accezione biblica e seguendo le linee determinanti presenti nel Concilio Vaticano II e soprattutto nella costituzione dogmatica Lumen Gentium I – II: il popolo di Dio che si concretizza in un luogo e in un tempo particolare; quindi la pietà popolare è quella propria di una determinata Chiesa particolare, o più Chiese geograficamente e storicamente accomunabili, che caratterizza un’area culturale più che un’altra, creando modelli comportamentali, stili di vita, scelte morali specifiche a quel luogo e a quel contesto socio-culturale. Infine parlo di cultura siciliana: cioè intendo riferirmi al modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide l’esperienza religiosa; sapendo che ad ogni cultura soggiacciono sistemi di

3

1992, 11.

Cfr S.B. RANDAZZO, Religiosità. Mistagogia e pietà popolare in Sicilia, Palermo


Domanda religiosa ed istanze morali nella cultura siciliana 85 [543]

valori, significati e visioni del mondo che vengono espressi visibilmente in linguaggio, gesti, simboli, riti e stili4. L’area culturale alla quale intendo richiamarmi è quella siciliana. Il momento storico che prendo in esame è quello contemporaneo, qualificato da alcuni studiosi come età del post-moderno5. Inoltre la lettura che intendo fare della pietà popolare vuole identificare alcune istanze morali emergenti da questo ambito: cioè cogliere la valenza etica della pietà popolare, in quanto essa è ricca di valori.

«La religiosità popolare si può dire, ha certamente i suoi limiti […] ma se è ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità, di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiormente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, noi la chiamiamo volentieri “pietà popolare”, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità»6.

1. PIETÀ POPOLARE E SUE DISTORSIONI NELLA SOCIETÀ E CULTURA SICILIANA In occasione del Convegno delle Chiese di Sicilia del 1985, il Card. S. Pappalardo parlando di religione, pietà popolare e delle conseguenze che esse hanno all’interno della società e cultura siciliana, così affermava: «La religiosità ha sempre plasmato la cultura dei siciliani e la ha permeata di tutta una serie di valori, quelli dei quali andiamo giustamente fieri e che 4

Cfr S. FEMMINIS, Lo stato attuale della società italiana per quanto riguarda la pluralità delle culture, in AA.VV. I cristiani in una società multiculturale, Roma 2002, 15. 5 Cfr Editoriale, in La civiltà cattolica, 1992, IV, quaderno 3418, 329-342; A. FRANCO, Prospettive etiche nel pensiero post-moderno, in AA.VV., Prospettive etiche della post-modernità, Cinisello Balsamo 1994, 9-17. 6 PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, 48.


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altri ci riconoscono: attaccamento alla famiglia, senso dell’amicizia, ospitalità, generosità […] Ma ci sono anche zone oscure, aspetti contraddittori e deformazioni di vario genere… fenomeni negativi che lasciano trasparire l’esistere nella mentalità popolare di fatalismo, individualismo, ateismo pratico; non è difficile collegare con questi aspetti deteriori anche i fenomeni della mafia, della violenza, della corruzione, della sete del potere […] Facendo riferimento e assegnamento sull’esistenza di questa religiosità popolare la Chiesa in varie epoche ha cercato di orientarla verso una fede convinta, una pratica sacramentale autentica e una vita morale animata dalla carità, ma tale azione non è stata mai forse sostenuta da una forte pastorale dell’annunzio»7.

Il Cardinale oltre a sottolineare il profondo legame esistente tra pietà popolare e cultura siciliana, mette in luce i valori morali da essa generati che caratterizzano la cultura siciliana con le sue conseguenze positive, ma anche con aspetti moralmente inaccettabili, giammai condivisibili, che sono soltanto delle gravi degenerazioni della pietà popolare. Si fa riferimento a esemplificazioni particolari: si prendano in esame le feste religiose che più che essere testimonianza di fede del popolo sono divenute espressioni vuote di fede, disincarnate, in stridente contrasto con la loro matrice e motivazione religiosa8. La pietà popolare che si realizza senza l’attenzione e le premure pastorali della Chiesa rischia di formare un cammino parallelo a quello della Chiesa, senza incontrarsi con la vita e l’attività della società civile: un’esperienza religiosa fine a se stessa, senza diventare culmine verso cui è orientata tutta l’azione della Chiesa ed anche fonte da cui promana tutta la sua vita e la sua virtù9. Il cammino della pietà popolare che adotta tali modalità si distanzia sempre più dalla vita liturgica della Chiesa che è attuazione dell’opera della Redenzione e contribuisce a che i fedeli esprimano nella

7

S. PAPPALARDO, Le Chiese di Sicilia: una presenza per servire, in CESI, Una presenza per servire. Le Chiese di Sicilia a 20 anni dal Concilio verso il 2000. Atti del Convegno delle Chiese di Sicilia, promosso dalla CESI, Acireale 25 febbraio – 1 marzo 1985, Palermo 1985, 49. 8 Cfr ibid., 49-50. 9 Cfr CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, 10.


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loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa10. La pietà popolare priva di contenuti evangelici, lontana dalla liturgia, trascurata dalla pastorale ecclesiale, diventa conservazione di riti, sempre più avulsi e distanti dalla vita e dalla sensibilità religiosa del popolo di Dio, incapace di promuovere lo spirito di preghiera e di alimentare il cammino di fede dei singoli e dell’intera comunità; impotente soprattutto nel rilevare le debolezze, le crisi di valori, il disorientamento morale di una società, in un atteggiamento di comprensione e disponibilità all’aiuto spirituale e morale; essa non è promotrice di cultura e formazione cristiana. Al contrario la pietà popolare adeguatamente indirizzata e sostenuta dalle premure della Chiesa è capace di essere incisiva all’interno di una cultura, per cui, non è possibile comprendere la realtà attuale della cultura siciliana abbastanza complessa, senza fare riferimento alla pietà popolare che la ha contrassegnata con i valori morali da essa veicolati, valori legati al senso religioso della vita, che si coniugano con atteggiamenti ambigui e negativi, da cui emerge una certa separazione tra religione e vita. Se nel corso dei secoli ci sono stati sforzi innumerevoli e illuminati per far penetrare i valori evangelici nel cuore della cultura siciliana, la persistenza fino ai nostri giorni nella mentalità popolare di forme di fatalismo, di individualismo, di diffidenza, di spirito di vendetta, di attaccamento alla ricchezza, di ateismo pratico, mostra come l’evangelizzazione non è riuscita a penetrare fino in fondo in larghi strati del nostro popolo11. Prevale sempre più, a volte anche con forme aggressive, la cultura secolarista, estranea al senso cristiano della vita ed anche a quei valori morali fermentati dal lievito evangelico. In molti battezzati l’esperienza della fede resta spesso estranea ed isolata rispetto alla vita concreta del proprio lavoro, della propria vita familiare, del proprio impegno sociale e politico, per cui cresce la separazione tra Vangelo e cultura, tra Chiesa e società12. Di fronte a questa situazione presente in Sicilia, come in tutto il nostro Paese, si impone la necessità di ristabilire un fecondo rapporto tra 10

Cfr ibid., II. Cfr M. PENNISI, Area culturale, in CESI, Una presenza per servire, cit. 109. 12 Cfr ibid., 110. 11


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Chiesa e società, cristianesimo e cultura in tutte le sue articolazioni e con tutti i fenomeni che la caratterizzano per realizzare un proficuo dialogo e una intensa sinergia tra Vangelo e cultura, adeguato alla realtà attuale e capace di rispondere alle nuove istanze culturali e morali della società contemporanea13.

2. SGUARDO AL PASSATO: GLI INTERVENTI DEI VESCOVI SICILIANI SULLA PIETÀ POPOLARE

È mia intenzione adesso rileggere il tema della pietà popolare fermando l’attenzione sul recente passato: il tema è così vasto ed è stato trattato abbondantemente da molti sinodi diocesani dell’isola, indice di una preoccupazione costante presente nelle chiese locali, anche se gli orientamenti sono di natura strettamente disciplinari con indicazioni normative riguardanti l’organizzazione del settore e soprattutto con la costante preoccupazione di evitare degenerazioni e rischi altamente compromettenti e deformanti14. Dal 1878 in poi fino al 1967 i sinodi diocesani e poi quelli regionali si sono susseguiti abbondantemente, e spesso il tema della pietà popolare ritorna con frequenza, ho ritenuto utile scegliere la lettera dell’Episcopato siculo dopo le conferenze tenutesi a Catania nell’aprile 1934, quale espressione dell’attenzione dell’episcopato siciliano al tema. La lettera, rivolta al clero e “ai Fedeli dilettissimi” si inserisce in un momento storico preciso: si è concluso da poco l’anno santo straordinario del 193315; lo scritto è espressione di vera collegialità e quindi di ecclesialità, sono presenti sia l’azione pastorale dei vescovi come anche la descrizione dei fatti ed eventi nella loro concretezza e problematicità. Essendo un documento pastorale, si trovano abbondati orientamenti e norme riguardanti la formazione e la vita del clero, le indicazioni per 13

L.c. R. FRATTALLONE, Vescovi siciliani e religiosità popolare, in AA.VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Cinisello Balsamo 1997, 108-109. 15 Cfr CESI, Lettera dell’Episcopato siculo dopo le conferenze tenutesi in Catania nella villa S. Saverio dal 16 al 21 aprile 1934, Palermo 1935, 3-4. 14


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impegni in campo socio-politico, la promozione di attività con finalità caritative e spirituali16. L’obiettivo più importante della celebrazione giubilare è stato quello di presentare la santità quale frutto del mistero della Redenzione operata da Cristo Gesù e quale impegno costante della vita cristiana17. Le tematiche affrontate sono le seguenti: istruzione religiosa; culto eucaristico; abusi del culto, carità. Innanzitutto l’istruzione religiosa viene concepita come la base della vita cristiana, la quale se è unione con Gesù Cristo, che ha i suoi inizi nella fede, questa a sua volta suppone sempre le cognizioni di ciò che si deve credere18. Se la vita cristiana è imitazione di Cristo, modello perfetto universale, questi non lo si può imitare senza conoscerlo. Il primo frutto della Redenzione da raccogliere nell’anno santo è “il culto del catechismo”19. Mancando lo studio del catechismo c’è soltanto l’ignoranza in fatto di religione e l’oscuramento delle coscienze. Il secondo frutto è una maggiore pietà eucaristica. L’Eucarestia nella Chiesa è attuazione perenne della Redenzione20. Per la vita cristiana l’istruzione religiosa è come il punto di partenza; l’Eucarestia, segna a sua volta il punto di arrivo. Quella ne è come la base, questa il vertice e come la corona di santità. I vescovi insistono perché la vita cristiana sia eucaristica, se questo è compito di tutti, a maggior ragione lo è dei sacerdoti che hanno l’obbligo di conoscere, di studiare, di imitare, di amare e di vivere per Gesù in sacramento21. Legato al culto eucaristico è la questione, ritenuta grave dai vescovi, della santificazione della festa; infatti viene denunciato il fatto che il riposo festivo non è osservato, la S. Messa è dimenticata e la parola di Dio è enormemente trascurata. Senza questi elementi importanti, la fiaccola della

16

Cfr R. FRATTALLONE, Vescovi siciliani e religiosità popolare, cit., 108-109. Cfr CESI, Lettera dell’Episcopato siculo, cit., 4-5. 18 Cfr ibid., 6-7. 19 Cfr ibid., 7. 20 Cfr ibid., 8-13. 21 Cfr ibid., 13-14. 17


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fede si estingue, si perde il contatto col Divino e si apre la strada del più abbietto paganesimo22. Un capitolo a parte è dedicato agli abusi del culto: se viene data tanta attenzione significa che è una problematica scottante e preoccupante da non sottovalutare; tra le righe possiamo anche cogliere gli aspetti positivi, ma soprattutto le devianze provocate dalla pietà popolare, nell’Isola. Si afferma a chiare lettere che esistono gravi e inveterati abusi, contro i quali i vescovi si sono schierati. Il culto esterno è naturale nel cuore dell’uomo; anche la Chiesa non disdegna ne sottovaluta le manifestazioni esterne, ma esige che sia fatto con dignità, che venga regolato con leggi liturgiche; l’ignoranza, l’irriflessione ed altre cause rendono inefficaci queste prescrizioni e così che si confondono atti e riti che dovrebbero essere distinti23. Un male presente nella mentalità comune, che viene addebitato al demonio, è l’instaurarsi di pratiche superstiziose e di vane cerimonie, come per esempio la confusione tra adorazione dell’unico Dio e venerazione degli angeli, dei santi, della Vergine Maria. Di tale confusione ne è testimonianza anche l’architettura di alcune Chiese che ha adornato altari di santi con pietre preziose ed elementi molto pregiati e l’altare dell’Eucarestia, trascurato e spoglio24. Con tono severo e chiaro vengono denunciati tutti gli abusi liturgici determinati da ignoranza e superficialità scandalosa: durante le celebrazioni c’è chi ride, chi se ne resta beatamente seduto. Nessuna dignità delle sacre funzioni; negletto il canto sacro. Bande musicali che suonano mottetti profani e ballabili durante le processioni; messe cantate da cantanti che mostrano soltanto virtuosità canore nell’esecuzione di composizioni di stile profano25. L’attenzione viene posta anche sulle manifestazioni esterne come le pubbliche processioni, ambito dove è facile cogliere la degenerazione della pietà popolare. Le processioni, secondo i vescovi dell’Isola, hanno una grande importanza, perché servono a ravvivare il sentimento religioso nel 22

Cfr ibid., 19-20. Cfr ibid., 21-22. 24 Cfr ibid., 21-23. 25 Cfr ibid., 23-24. 23


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popolo di Dio e a far vincere il rispetto umano e l’indifferenza al singolo; sono pubblici attestati di fede e di religiosità. Vengono apertamente denunciate quelle processioni organizzate da festaioli fattisi impresari di pubblici spettacoli, che non sono certamente di edificazione, ma anzi ridicole e di scandalo. Ci sono processioni fatte senza il clero, prive di canti e di preghiere; processioni interminabili dove la statua sacra viene portata in ogni via e viottolo, fermata davanti alle case del procuratore della festa o del Municipio o davanti alla casa di chi ci si attende una pingue offerta; processioni accompagnate da interminabili spari di fuochi d’artificio. Accade anche che la statua venga abbandonata in mezzo alla strada per permettere ai portatori di sgranchirsi e rifocillarsi e poi proseguire la via in stato di semiebbrezza. Sono da condannare anche come irreligiose le prove di forza e di destrezza di cui osano dare spettacolo certi portatori di statue e stendardi in corse sfrenate e pazzesche o in certe sarabande barbare di furiose marce in avanti e indietro nelle quali si compie in mezza giornata il percorso di un’ora26. Invece le processioni dovrebbero essere ordinate, fatte con canti sacri e accompagnate dalla preghiera, proibendo la chiacchiera, la confusione, lo stare col cappello in testa e peggio il fumare. I vescovi concludono con un’espressione molto laconica e severa: «Sono deformazioni turpissime che, come cristiani ci fanno arrossire e, come vescovi ci fanno piangere»27.

Una critica seria viene sollevata non soltanto nei confronti dell’organizzazione delle feste religiose, ma anche verso gli organizzatori; infatti i procuratori delle feste che dovrebbero essere tra le persone più pie e religiose della Parrocchia, vicine ai sacramenti, spesso presentano altre credenziali e questi diventano organizzatori assoluti della festa fino a scavalcare il clero, diventano “i padroni della festa”: chiamano i predicatori; invitano le autorità, stabiliscono le modalità delle funzioni, gli itinerari delle

26 27

Cfr ibid., 24-25. Ibid., 26.


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processioni, raccolgono le offerte, spendono il denaro come vogliono, senza essere o poter essere contraddetti da nessuno28. Le offerte raccolte per la festa che dovrebbero servire per il culto, per il restauro della Chiesa, per gli arredi, che vengono elargite talora con molta generosità a volte anche tra molte privazioni, vengono utilizzate dai procuratori per preparare i divertimenti in paese, per invitare le bande musicali, per fare i fuochi d’artificio, giochi sportivi, rappresentazioni cinematografiche. Il tutto senza l’ingerenza del clero29. I vescovi insistono ancora nel dire che non si può carpire la buona fede di coloro che hanno dato: se avessero offerto per i divertimenti, purché sani, non ci sarebbe nulla da dire, ma se sono offerti per la festa religiosa, devono servire anche per migliorare gli arredi sacri, gli edifici di culto, la predicazione, le opere di culto e di carità; altrimenti si cade nel sacrilegio obbrobrioso. I santi gradiscono le preghiere, la confessione con la comunione eucaristica, le opere buone verso i poveri, il resto disonora i santi e muove a sdegno Dio. Il proposito dei vescovi è quello di iniziare una sana riforma, approntando un regolamento che serva a correggere gli errori e a promuovere le sane ed autentiche motivazioni che devono accompagnare una festa religiosa, e di conseguenza curare e promuovere una sana pietà popolare30. La lettera si conclude con l’invito ad una conversione continua ed a una svolta morale profonda orientata a una vita morale più seria, caratterizzata da un distacco più netto dallo spirito del mondo31. «Noi assistiamo ad una rinascita del paganesimo nel mondo, tanto peggiore dell’antico in quanto questo è, in confronto di quello, più colpevole e più radicale. Il neopaganesimo infatti implica il volontario ripudio della verità conosciuta, il disprezzo dell’opera redentrice di Cristo, l’apostasia, l’odio ed anche la persecuzione più feroce e brutale contro la Chiesa cattolica, l’abo-

28

L.c. Cfr ibid., 26-27. 30 Cfr ibid., 29. 31 Cfr ibid., 34. 29


Domanda religiosa ed istanze morali nella cultura siciliana 93 [551] lizione di qualsiasi religione, la negazione dell’esistenza di Dio e di qualsiasi principio etico, anche di ordine puramente naturale»32.

La causa del decadimento morale, della perversione dei costumi e della legittimazione di ogni delitto viene identificata nella negazione di Dio e nella abolizione di qualunque sentimento religioso. Si fa riferimento all’opera di scristianizzazione che già da diversi decenni viene portata avanti con diaboliche arti, infatti le massime moderne hanno trionfato in campo intellettuale, artistico, morale e politico, fino a penetrare vita e costumi di tanti. Il decadimento morale si manifesta in diversi modi: nella moda invereconda, nell’educazione sfrenata dei bambini, nella ricerca smoderata di divertimenti, nella pratica anticoncezionale che rende il sacramento del matrimonio causa di perdizione, nel teatro e nel cinematografo strumenti che propagano vizi, delitti e volgarità, nella stampa che esalta le più ignobili passioni, nella sempre più perniciosa diffusione di sette protestantiche33.

3. PREOCCUPAZIONI ED INDICAZIONI VESCOVO DI PIAZZA ARMERINA

PASTORALI DI

MONS. M. STURZO,

Alla lettera pubblicata dall’episcopato siculo, Mons. Sturzo ne fa seguire una propria, indirizzata alla sua diocesi, Piazza Armerina, con la quale riprende le tematiche trattate dalla lettera collettiva dei vescovi siciliani, sottolineando aspetti che interessano ancora di più il contesto socio-culturale e religioso della sua Chiesa particolare. Lo scritto di Sturzo è importante perché permette di avere una visione un po’ più particolareggiata di una diocesi siciliana, inoltre ci dà una lettura personale dello scritto dei vescovi. Per Mons. Sturzo la causa della decadenza religiosa e morale del popolo siciliano è l’ignoranza del catechismo e della storia sacra34. 32

L.c. Cfr ibid., 35. 34 Cfr M. STURZO, La pastorale collettiva degli arcivescovi e vescovi della Sicilia dopo le conferenze dell’aprile 1934 per la Quaresima del 1935, Asti 1935, 6. 33


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Gli errori dovuti all’ignoranza altrove hanno provocato la distruzione dei templi e la soppressione del culto; da noi ci sono altri effetti altrettanto gravi come: la profanazione e la sconsacrazione dei veri templi, la soppressione della vera vita di culto, l’atonia religiosa, la noncuranza dei doveri religiosi, un certo scetticismo pratico35. Sturzo si lamenta di una grave carenza nella sua diocesi: il popolo ha perduto il gusto della predicazione catechistica. La maggioranza delle persone e soprattutto gli uomini, non ascolta più la predica, non partecipa più all’Eucarestia domenicale e non frequenta i sacramenti36. Nel corso della lettera invita i parroci ad essere fedeli al dovere della predicazione; ma esorta questi ad adempiere il dovere di frequentare la predicazione catechetica quale fondamento della vita cristiana, che orientata all’Eucarestia, quale cibo dell’anima che comunica la vita nuova destinata a compiere opere buone37. Non potevano mancare nella lettera i riferimenti agli abusi del culto; anche se il tema sembra appena sfiorato, tuttavia è profondamente trattano. I disordini riguardanti il culto e la pietà popolare hanno delle cause che sono da addebitare all’ignoranza e alla malvagità del cuore umano. «Quale è dunque il rimedio al male degli abusi del culto? […] non è altro che adoperarsi con tutti i mezzi affinché la vita cristiana sia rimenata alla sua originaria purezza per mezzo dell’istruzione religiosa, dell’orazione mentale, del culto alla santissima Eucaristia»38.

Per il vescovo di Piazza Armerina è importante fare attenzione alla vita interiore, cioè alla vita cristiana che è vita in Dio, come rimedio a tutti i mali dell’uomo, della società e del culto. «La vita interiore è la vita essenziale, nel senso che è la vita che si svolge in rapporto a ciò che è veramente essenziale, e veramente essenziale alla vita non è che la sua piena attuazione, la sua piena integrazione nel consegui-

35

Cfr ibid., 8. Cfr ibid., 12. 37 Cfr ibid., 12-16. 38 Ibid., 72. 36


Domanda religiosa ed istanze morali nella cultura siciliana 95 [553] mento del vero fine che è Dio. E perciò la vita interiore è vita d’ordine, è l’attuazione progressiva ed ascendente dell’ordine morale come morale e come religione, o meglio, come morale nel senso pieno della parola che è religione […] che è la vera religione, che fa di tutti i doveri […] un solo dovere verso Dio, da cui tutto procede, a cui tutto è ordinato, a cui tutto tende…»39.

4. INDICAZIONI PASTORALI E RIFLESSIONE TEOLOGICA NEL DOCUMENTO DELLA CEI COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA Dopo l’esortazione apostolica di Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, il tema della pietà popolare ha interessato la teologia, la pastorale, ma anche la riflessione dell’intero episcopato italiano40. L’idea di fondo che accomuna i diversi documenti scritti dalla CEI può essere sintetizzata così: la religiosità popolare è da ritenersi un modo legittimo con cui il popolo esprime e vive il proprio rapporto con Dio; ragion per cui le sue espressioni e i suoi simboli non vanno disprezzati né eliminati, ma interpretati per scoprirne il contenuto di fede, anche se bisogna fare attenzione alla presenza di elementi ambigui, contraddittori, fuorvianti da purificare e contenuti buoni da riproporre e ripresentare41. L’ultimo documento pastorale della CEI del 200142 è importante perché si preoccupa di esaminare il cammino di fede della Chiesa italiana alla luce del contesto socio-culturale caratterizzato dal cambiamento. Invita a dare uno sguardo realistico al contesto nel quale siamo chiamati a vivere e ad offrire la nostra testimonianza: si tratta di scorgere l’oggi di Dio e le 39

Ibid., 74-75. Il Rinnovamento liturgico in Italia, in ECEI 3/123/1548; Vivere la fede oggi, in ECEI 1/3627-3711; Evangelizzazione del mondo contemporaneo, in ECEI 2/975-1140; Le attese della Chiesa in Italia, in ECEI 3/1081-1140; Sviluppo nella solidarietà. Chiese italiane e Mezzogiorno, in ECEI 4/1919-1988; Il rinnovamento della Catechesi, in ECEI 1/2362-2972; I problemi del Mezzogiorno, in ECEI 4/2793-2840; La Chiesa e il mondo rurale italiano, in ECEI 2/733-821. 41 Cfr S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della Conferenza Episcopale Italiana, cit., 537. 42 CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia,Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del Duemila, in Il Regno 46 (2001) 441-456. 40


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sue attese su di noi. Il tempo presente solleva interrogativi e offre indicazioni circa la “conversione pastorale” richiesta dalla chiamata a servire nel modo più adeguato l’annuncio del Vangelo oggi43. Il documento non trascura un aspetto importante che caratterizza la vita ecclesiale e che non poteva essere dimenticato: la pietà popolare. Nessuna parola di disprezzo o di sottovalutazione del fenomeno: anzi, richiamandosi all’esortazione di Paolo VI, ci si lamenta con quanto è stato fatto nel passato, poiché la pietà popolare è un fenomeno che va approfondito per scoprirne il contenuto di fede. «Le devozioni popolari arricchiscono la comunità nella misura in cui esprimono un desiderio di approfondimento religioso e di preghiera: si tratta infatti di un linguaggio che il popolo parla e comprende»44.

Per i vescovi la pietà popolare con le sue manifestazioni costituisce un aspetto importante dell’evangelizzazione che non può essere trascurato, ma riscoperto, perché al di là degli equivoci e delle contraddizioni, essa è da ritenersi il modo legittimo, naturale, con cui il popolo esprime e vive il proprio rapporto con Dio. Questa lettura positiva della pietà popolare non può far dimenticare il compito che la Chiesa ha di vigilare attentamente perché «non si sostituiscano ai momenti ordinari di vita liturgica della comunità parrocchiale, come pure alle forme di meditazione e di preghiera, personale e comunitaria, legate ai grandi filoni di spiritualità della tradizione cristiana»45.

I vescovi invitano a far rientrare la pietà popolare nel progetto di rinnovamento pastorale e a purificarla e correggerla per evitare quanto la storia purtroppo annota sulla pietà popolare; anzi essa vivificata da contenuti

43

Cfr ibid., Presentazione. Ibid., 55. 45 L.c. 44


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cristiani può essere luogo di incontro tra la fede matura e la vita concreta di tanta gente semplice e disponibile46. Compito assolutamente primario per la Chiesa, in un mondo che cambia e che cerca ragioni per gioire e sperare, è e resta sempre la comunicazione della fede, della vita in Cristo sotto la guida dello Spirito, della perla preziosa del Vangelo47. Al fine di comunicare il Vangelo agli uomini di oggi, per i vescovi è importante interrogarsi sull’oggi di Dio, sulle opportunità e sui problemi posti alla missione della Chiesa dal tempo in cui viviamo e dai suoi mutamenti. Occorre fare uno sforzo importante: mettersi in ascolto della cultura del nostro mondo, per discernere i semi del Verbo già presenti in essa, ascoltando le attese dei nostri contemporanei e prendendo sul serio desideri e ricerche, per capire che cosa fa ardere i loro cuori e cosa invece suscita paura e diffidenza48. La tentazione che permea la mentalità del mondo contemporaneo è l’incredulità; tuttavia ci sono delle potenzialità nell’italiano contemporaneo: il desiderio di autenticità, di prossimità, di incontro e di ricerca della pace; la rinnovata ricerca di senso che non si può identificare a un vago risveglio religioso, anche se sono molti quelli che si riavvicinano all’esperienza religiosa, manifestano un anelito alla trascendenza49. Non mancano però le ombre che caratterizzano l’odierna società, infatti accanto alle potenzialità riscontriamo rischi e problemi: sono in aumento le persone che si dicono “senza religione”; le giovani generazioni sono caratterizzate da un crescente analfabetismo religioso; nella mentalità comune e in ambito legislativo si diffondono posizioni lontane o contrarie al Vangelo. È in atto una vera e propria eclissi del senso morale con conseguente relativismo etico; c’è indifferenza diffusa circa le domande più radicali e profondo smarrimento all’interno di una società multimediale50. Se questa è la situazione socio culturale descritta, i vescovi delineano anche gli obiettivi da raggiungere in questo nuovo decennio, tra i primi c’è 46

L.c. Cfr ibid., 4: 32. 48 Cfr ibid., 34. 49 Cfr ibid., 36-38. 50 Cfr ibid., 40-41. 47


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la centralità dell’educazione alla fede e della sua comunicazione, la programmazione di itinerari formativi in grado di realizzare una nuova tipologia di cristiano51. «Abbiamo bisogno di cristiani con una fede adulta, costantemente impegnati nella conversione, infiammati dalla chiamata alla santità, capaci di testimoniare con assoluta dedizione, con piena adesione e con grande umiltà e mitezza il Vangelo»52.

Per raggiungere questi obiettivi così importanti ed essenziali è necessaria una conversione pastorale; l’attenzione va rivolta a due livelli specifici: la comunità eucaristica composta da quelli che frequentano con assiduità l’Eucarestia domenicale e i battezzati che hanno un rapporto sporadico con la comunità, rischiando di dimenticare il loro battesimo e di vivere nell’indifferenza religiosa.53 Un’occasione importante per comunicare il Vangelo è data dalla celebrazione eucaristica domenicale, quale momento forte della comunità ecclesiale e significativa educazione missionaria della stessa: la liturgia è un luogo educativo e rivelativo privilegiato54. «La celebrazione eucaristica chiede molto al sacerdote che presiede l’assemblea e va sostenuta con una robusta formazione liturgica dei fedeli. Serve una liturgia insieme seria, semplice, bella, che sia veicolo del mistero rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini»55.

I vescovi italiani si preoccupano di valorizzare la liturgia quale occasione provvidenziale per favorire la crescita cristiana e il rinnovamento della Chiesa intrapreso dal Concilio Vaticano II; essa in quanto luogo educativo e rivelativo può essere utile per superare limiti e devianze 51

Cfr ibid., 44. Ibid., 45. 53 Cfr ibid., 46. 54 Cfr ibid., 48-49. 55 Ibid., 49. 52


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provocate dalla pietà popolare. Inoltre la liturgia, compresa nella sua valenza originale, non aliena il credente dal rapporto vitale con il mondo, sottraendolo dagli impegni terreni, ma può favorire la crescita in questa dimensione di concretezza, rendendo più agevole la fedeltà ai valori evangelici56. Il documento della CEI propone la tipologia del cristiano dalla “fede adulta”, “pensata”, matura, in grado di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo. «Solo così i cristiani saranno capaci di vivere nel quotidiano, nel feriale, fatto di famiglia, lavoro, studio, tempo libero, la sequela del Signore, fino a rendere conto della speranza che li abita»57.

Alla maturità della fede si può pervenire solamente se si riesce a fare unità tra ascolto, celebrazione ed esperienza esistenziale di fede. A conclusione i vescovi offrono le coordinate perché ogni Chiesa locale sappia organizzare un suo cammino: tra gli impegni enunciati il primo è quello di una pastorale della santità, segue l’obiettivo della comunicazione del Vangelo a tutti; poi c’è quello del rinnovamento della vita della comunità attraverso la centralità data alla domenica, al primato dell’ascolto della Parola e alla vita liturgica; infine c’è l’impegno a percorrere le vie di comunione perché la Chiesa diventi scuola di comunione e testimonianza evangelica nei diversi ambienti di vita58.

5. PIETÀ POPOLARE RICERCA DI DIO E NUOVA DOMANDA ETICA Se negli anni ’30 dopo il grande giubileo del 1933 la Conferenza Episcopale Siciliana insisteva nel sottolineare l’importanza della formazione cristiana, attraverso una predicazione più seria e cammini catechetici più impegnativi, e richiedeva un’attenzione maggiore alla vita 56

Cfr ibid., 50. L.c. 58 Cfr ibid., 67. 57


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liturgica, alle celebrazioni dei sacramenti a alla pietà popolare, è perché attraverso questi elementi si voleva rispondere a diverse esigenze: aiutare il credente a cercare Dio e a vivere concretamente la scelta della fede; rinnovare la vita dei singoli all’interno della Chiesa, promuovendo stili di vita motivati dalla fede, in grado di combattere idee e valori morali non compatibili o contrari a quelli cristiani. La stessa preoccupazione la si ritrova all’indomani del giubileo di inizio del terzo millennio nel documento pastorale della CEI. Se aumenta il numero degli indifferenti, degli analfabeti in campo religioso e di coloro che si professano atei, certamente con scelte di vita non conformi più ai dettami della coscienza cristiana, la Chiesa non può restare indifferente, perché suo compito primario è quello di comunicare il Vangelo e illustrare con la catechesi ciò che l’accoglienza del Vangelo comporta. Se i vescovi parlano di eclisse del senso morale e del sacro, non mancano segnali confortanti legati ad un certo interesse verso la sfera del sacro, la ricerca religiosa e del senso di vita che permette a molti di avvicinarsi all’esperienza religiosa e in particolare a Gesù Cristo: oggi è rintracciabile un anelito alla trascendenza.59 Se è vero che “solamente” nel mistero del Verbo Incarnato, trova luce il mistero dell’uomo60 e che Cristo, il nuovo Adamo, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione e che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio, capace di conoscere e di amare il proprio creatore61; e se la ragione più alta dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio, tanto che fin dal suo nascere è invitato al dialogo con Dio e non esiste se non perché, creato per amore da Dio, da Lui conservato per amore e vive secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo creatore62: allora la ricerca di Dio è connaturale all’uomo stesso, e il vivere con Dio è l’aspirazione più segreta del cuore umano.

59

Cfr ibid., 38. CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 22. 61 Ibid., 12. 62 Ibid., 19. 60


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Il mistero di Dio è il fine ultimo personale dell’uomo, alla luce di tale mistero l’uomo è in grado di vedersi svelato il senso della propria esistenza, vale a dire la sua verità profonda. La Chiesa che ha ricevuto l’incarico di manifestare il mistero di Dio, sa bene che soltanto Dio è la risposta ai più profondi desideri del cuore umano; sa anche che l’uomo non potrà essere del tutto indifferente davanti al problema della religione; Dio è la risposta a tutti i suoi interrogativi inquietanti perché è Lui che lo ha creato, lo ha redento, tanto che chi segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo63. La sfera religiosa corrisponde ad una esigenza originaria dell’uomo. Per alcuni la persistenza delle religioni,in quanto soddisfa fondamentali esigenze umane è dovuta ad un bisogno inerente alla condizione dell’uomo, la religione, così è un mezzo per capire la realtà ultima e profonda dell’uomo64. La religione è uno schema interpretativo che munisce l’uomo di una mappa che lo mette in grado di orientare il suo cammino nelle aree di perplessità. Nonostante il cambiamento socio-culturale in atto, la pietà popolare costituisce un patrimonio ben radicato nella coscienza del popolo che nemmeno le ventate soffocanti della secolarizzazione o la tumultuosa industrializzazione hanno saputo sradicare. Anzi la stessa modernità si è fatta produttrice di nuove e complesse realtà religiose, compresa la presenza di fondamentalismi pericolosi65. La Chiesa è chiamata a fare attenzione a questi elementi che qualificano la vita dell’uomo, non può non vedere nella pietà popolare un “segno dei tempi” che la interpella ed esige la sua diaconia pastorale. Già Paolo VI a proposito della religiosità popolare parla di “carità pastorale” che invita ad essere sensibili ad essa per saper cogliere le sue dimensioni interiori e i suoi valori innegabili66.

63

Cfr ibid., 41. Cfr C. PRANDI, La religione popolare tra tradizione e modernità, Brescia 2002, 165. 65 Cfr ibid., 166; 9-10. 66 PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, 48. 64


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Anche Giovanni Paolo II sottolinea il grande contributo offerto dalla pietà e devozioni popolari all’educazione alla fede. L’insegnamento catechetico non può trascurare gli elementi validi della pietà popolare, riconoscendo pure che vi sono aspetti che vanno purificati, perfino rettificati. La pietà popolare trasmette e tramanda di generazione in generazione formule di preghiera facili da apprendere, pratiche importanti per il cammino di fede con la penitenza, sottolinea messaggi e valori evangelici forti come l’amore e la misericordia di Dio, l’incarnazione di Cristo, l’evento della Pasqua, l’azione della Spirito Santo, il mistero dell’aldilà, le virtù evangeliche da praticarsi, la presenza del cristiano nel mondo.67 Ritorna con insistenza quanto Evangelii Nuntiandi 48 aveva solennemente affermato sulla pietà popolare: «saper cogliere le sue dimensioni interiori e i suoi valori innegabili, essere disposti ad aiutarla a superare i suoi rischi di deviazione. Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più per le nostre massi popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo».

E sempre nello stesso paragrafo vengono messi in luce i valori validi che la pietà popolare può sottolineare se ben orientata e se aiutata da una pedagogia di evangelizzazione: Essa manifesta una sete di Dio […], rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo […]; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza; la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove […]; pazienza; senso della croce […], distacco, apertura agli altri, devozione.

Il testo propone una metodologia significativa orientata a vedere la religiosità aperta e propedeutica al Vangelo e l’evangelizzazione indispensabile a salvaguardarne l’autenticità e a prevenirla da degenerazioni, da forme magiche, superstizione e parassitarie.

67

GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Catechesi Tradendae, 54.


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L’attenzione a questa metodologia e a questi orientamenti pastorali salvaguarderanno i valori della pietà popolare sui quali si è posta l’attenzione: valori che illuminano la vita morale del credente.

CONCLUSIONI Volendo in conclusione raccogliere alcune indicazioni e orientamenti di natura pastorale sul tema della pietà popolare della domanda religiosa e delle istanze morali nella cultura siciliana, posso sottolineare i seguenti punti: 1. È stato superato l’atteggiamento di diffidenza o addirittura di deprezzamento della pietà popolare, considerandola semplice “folkore” senza fare attenzione alle dimensioni religiose e spirituali. Anche una visione di due linee parallele si va superando: come se vi fossero da una parte le azioni liturgiche che appartengono alle chiesa ufficiale e dall’altra le pratiche di pietà che sono coltivate dal popolo spontaneamente, solo ufficiosamente riconosciute e attenzionate dalle autorità . Se la pietà popolare caratterizza la vita religiosa di un popolo nel suo specifico, la pietà popolare in Sicilia determina la vita religiosa del popolo di Dio che qui vive, essa non può essere trascurata, dimenticata o disprezzata dalla Chiesa perché è da ritenersi un modo legittimo con cui il popolo esprime e vive il proprio rapporto con Dio. La Chiesa non può che farsi compagna di strada degli uomini e non può non condividere gioie e speranze, tristezze e angosce68. La pietà popolare può essere considerata un “segno dei tempi”, una possibilità per scoprire la voce di Dio, discernere la sua volontà e programmare l’attività pastorale della Chiesa tenendo conto della situazione socio-culturale e della maturità cristiana raggiunta dal popolo di Dio che vive in Sicilia. 2. Occorre programmare un’attività pastorale che possa accostarsi alla realtà della pietà popolare senza pregiudizi, con l’intento di svolgere un servizio pastorale al popolo di Dio, attraverso lo studio attento di tutte le 68 CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 1.


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componenti della pietà popolare, sapendo scoprire gradualmente i suoi grandi valori, le sue indiscutibili ricchezze senza trascurare di rilevare anche le contraddizioni e ambiguità. Nel passato è mancato il coraggio e la volontà di scegliere la via del rinnovamento serio, del discernimento oculato di ciò che è utile e necessario conservare e incrementare, perché ancora valido e vitale e ciò che invece bisogna tralasciare, perché privo di senso o addirittura pericoloso in quanto degenerato. 3. È importante evangelizzare le varie forme di pietà popolare; ciò significa sapere ordinare saggiamente tanti pii esercizi, sia nei contenuti che nelle formule. Molte forme di pietà popolare sono scadute in forme vuote e fuorvianti a causa dell’assenza di evangelizzazione o di indifferenza della pastorale distante dalla realtà concreta del popolo di Dio, incapace di comprendere, valutare, illuminare e guidare le sue esigenze e i suoi sentimenti, i suoi slanci e le sue contraddizioni. 4. È importante sottolineare il valore che ha la liturgia, la quale alla luce della riforma conciliare, va resa più viva e partecipata. Gli scarsi risultati ottenuti dalla riforma liturgica post-conciliare sono dovuti alle paure di fronte ai cambiamenti, di valorizzare adeguatamente le ricchezze di nuovi libri liturgici, di adattare poco la varietà di forme e formule alle diverse comunità cristiane, a volte con scarsa creatività in modo che possa rispondere meglio alle esigenze proprie dell’animo del popolo di Dio.


FIDUCIA NEL DIO DI GESÙ CRISTO E MODELLI DI ATTACCAMENTO

FRANCESCO FURNARI*

INTRODUZIONE Esiste, ormai, un ampio consenso circa il fatto che il fenomeno religioso nasce dentro un processo di sviluppo dell’orientamento coscienziale, processo che si stabilisce entro un quadro di riferimento in termini di spazio, tempo, valori e motivazioni1. La preghiera, la fede,la speranza, il senso di ringraziamento per i doni ricevuti, la sequela, etc., sono elementi funzionali tipici che ricorrono nel contesto della relazione e sono, nello sviluppo e processo coscienziale, tutti pezzi di vita così come esperiti soggettivamente. Nello sviluppo della coscienza, sviluppo evolutivo e dinamico, dove il religioso trova la sua linfa vitale, gli elementi psicologici soggettivi e quelli bioneurologici sono da vedere in un interscambio unitario2 non solo all’interno della psiche, ma anche con il mondo esterno3.

*

Docente di Psicologia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr CH. VERNOFF, Namimg the game: a question of the field, in Bulletin of the council of societies for the study of religion 14/4 (1983) 109-113; anche J. PLOTVOET, The definers defined:traditions in the definition of religion, in Method and theory in the study of religion 2/2 (1990) 180-212. 2 Cfr F.H. PETERS, Nerophenomenology, in Method and theory in the study of religion 12/3 (2000) 379. 3 Cfr G.M. EDELMAN, Il presente ricordato: una teoria biologica della coscienza, trad. it., Milano 1991; cfr I. ROSENFIELD, Lo strano, il familiare, il dimenticato: una anatomia della coscienza, trad. it., Milano 1992. 1


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È confutabile, oggi, la tesi secondo la quale i significati stanno nella ‘testa’: il significato è intenzionale ed è frutto di una continua contrattazione tra il parlante e il suo mondo4. Numerosi sono anche gli studi di psicologia contemporanea che mettono in evidenza la natura relazionale e non privata dell’origine del sé e della coscienza5. Tutto ciò ci induce a considerare la coscienza come una dimensione sovraordinata a quella del sé individuale. Non riguarda solo cose o memorie ma azioni e intenzioni dell’individuo. La coscienza è appunto intenzionale, nella terminologia filosofica di Brentano6, nel senso che ha sempre come punto di riferimento l’oggetto, una realtà diversa da se stessa. Essa così si rivela come volontà e libertà, come scelta o decisione consapevole fra piani di azione. Occuparsi della coscienza è anche occuparsi dei valori che determinano la selezione dei segnali che ci vengono dal mondo. Ed è in base ai valori che fondano la selezione delle esperienze coscienti che è possibile considerare la dimensione di responsabilità e libertà nel contesto della relazione tra sé e il mondo da cui la coscienza continuamente emerge. Il nostro contributo, anche se non affronta specificamente tutta l’ampia gamma della dimensione della coscienza, tuttavia — ed ecco il motivo per cui ci siamo un po’ soffermati sul tema della coscienza — cercherà di affrontare e di descrivere una delle condizioni necessarie per lo sviluppo della coscienza che sono quelle disposizioni innate, specialmente la fiducia, che formano le relazioni di attaccamento. Nella complessità che è il mondo in cui viviamo e che accoglie il bambino appena nato, la fiducia viene ad essere quasi come un meccanismo, un dispositivo di riduzione della complessità per poterla rischiare. È nella

4

Cfr H. PUTNAM, Representation and reality, Cambridge 1988. Cfr I. BRETHERTON, Attachment theory:retrospect and prospect, in I. BRETHERTON, E. WATERS (a cura di), Growing points in attachment theory and research, in Monographs of the society for research in child development 50 (1985) 3-35; cfr A. MARTINEZ-TABOAS, Multiple personality disorder as seen from social constructionist viewpoint, in Dissociation 4 (1991) 129-133; cfr anche G. LIOTTI, La dimensione interpersonale della coscienza, Roma 1998. 6 Cfr F. BRENTANO, Psicologia dal punto di vista empirico, trad. it., Gardolo 1989. 5


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tensione tra presente e futuro che si dispiega la funzione della fiducia. Fiducia è affidamento alle proprie aspettative dell’altro. È esposizione del sé e abbandono al sé, correndo il rischio e il dramma dell’esistere in un sistema di reti relazionali7. Non solo, dunque, il dialogo esterno con l’altro, in una rete relazionale complessa e di rapporti in cui il piccolo dell’uomo è inserito, ma anche il dialogo interno con l’altro interiorizzato hanno a che fare con la qualità dello stato di coscienza e ci invitano a considerare così le prime relazioni, che il neonato intrattiene con gli altri significativi, sulla base del sistema motivazionale dell’attaccamento8. Approfondendo, in ambito psico-religioso, il tema della fiducia in Dio, uno degli elementi funzionali tipici e di base nel contesto dell’appartenenza alla religione, nel nostro caso a quella cristiana, terremo in considerazione, nell’ambito della teoria delle relazioni oggettuali9, il modello teorico dell’attaccamento di Bowlby e le successive integrazioni10.

7 Cfr N. LUHMANN, La fiducia, trad. it., Bologna 2002; cfr P.MARRIS, The social construction of uncertainty, in C. MURRAY-PARKES, J. STEVENSON-HINDE, P. MORRIS (a cura di), Attachment across the life cycle, London 1993,78-90. 8 Cfr J. BOWLBY, Attaccamento e perdita, I: L’attaccamento alla madre, trad. it., Torino 1972; ID., Attaccamento e perdita, II: La separazione dalla madre, trad. it.,Torino 1975; ID., Attaccamento e perdita, III: La perdida della madre, trad. it., Torino 1980; cfr ID., Una base sicura, trad. it., Milano 1989. Sulla teoria dell’attaccamento, interessante è l’opera di J. HOLMES, La teoria dell’attaccamento. J. Bowlby e la sua scuola, trad. it., Milano 1994. Sugli influssi di J. Suttie, per quanto riguarda l’importanza delle relazioni oggettuali, dell’oggetto madre e dell’ambiente e per quanto riguarda il legame con Dio, cfr D.M. WULFF, Psychology of religion. Classic and contemporary, New York 19972, 330-335. Sull’influsso del Fairbairn sulla deprivazione materna come spiegazione dell’aggressività che il bambino può manifestare verso gli altri, cfr D.M. WULFF, Psychology of religion, cit., 335-337. Infine, un volume interessante, che prende in considerazione il nostro punto di vista teorico, è quello di J.W. JONES, Contemporary psychoanalysis and religion. Transference and transcendence. New Haven and London 1991. L’A., superando la dottrina di Freud sulla religione come transfert a senso unico, vede nella trascendenza, nell’Altro, negli altri la possibilità di potere costituire il senso, il significato di noi stessi attraverso i partners relazionali e interpersonali interiorizzati dal mondo esterno. 9 La teoria delle relazioni oggettuali nasce nel contesto anglosassone della scuola kleiniana, ed è portata avanti da Winnicott, Kohut, Bion. 10 Cfr L.A. KIRKPATRICK, An attachment theory approach to the psychology of religion, in The international journal for the psychology of religion 2 (1992) 3-28; cfr ID.,


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1. IL MODELLO DI ATTACCAMENTO DI BOWLBY Nella sua trilogia fondamentale11, Bowlby pone l’accento sullo status primario e la funzione di protezione e prossimità fra individui della stessa specie. Mentre per Freud l’organismo è guidato dall’impulso, dal bisogno di scaricare energia psichica (libido) su un ‘oggetto’, i teorici delle relazioni oggettuali considerano, cercano in modo primario “relazioni” con i loro oggetti. Pur mantenendo il concetto di impulso, di energia psichica, la Klein, correggendo in ciò Freud, pensa che tali impulsi o fattori motivazionali non sono, in sé e per sé, staccati dall’oggetto, ma sono inerenti e associati ad esso fin dall’inizio e sono, da essa, trattati come forze psichiche, cioè dell’ego anziché fisiche. Nel pensiero psicoanalitico c’è così una progressione che comincia con la teoria freudiana della scarica pulsionale, che passa per le relazioni oggettuali,nelle quali un individuo cerca la relazione con un “oggetto” (cioè non proprio una ‘persona’), fino alla reciprocità tra agente delle cure

the role of attachment in religious belief and behavior, in D. PERELMAN, K. BARTHOLOMEW (a cura di), Advanceas in personal relationships, London 1994, 239-265; ID., A longitudinal study of changes in religious belief and behavior as a function of individual differences in adult attachment style, in Journal for the scientific study of religion 36 (1997) 207-217; ID., Evolution, pair-bonding and reproductive strategies: a reconceptualization of adult attachment, in J.A. SIMPSON, W.S. RHOLES (a cura di), Attachment theory and close relationships, New York 1998, 353-393; ID., God as a sobstitute attachment figure: a longitudinal study of adult attachment style and religious change in college students, in Personality and social psychology Bulletin 24 (1998) 961-973; ID., Attachment and religious representations and behavior, in J. CASSIDY, TH. R. SHAVER (a cura di), Handbook of attachment. Theory, research and clinical applications, London 1999, 803-822; L.A. KIRKPATRICK, K.E. DAVIS, Attachment style, gender, and relationship stability a longitudinal analysis, in Journal of personality and social psychology 68 (1994) 502-512; L.A. KIRKPATRICK, G. HAZAN, Attachment styles and close relationships: a four-year prospective study, in Personal relationships 1 (1994) 123-142; L.A. KIRKPATRICK, P.R. SHAVER, Attachment theory and religion:childhood attachments, religious beliefs, and conversion, in Journal for the scientific study of religion 29 (1990) 315-334; L.A. KIRKPATRICK, P.R. SHAVER, An attachment theoretical approach to romantic love and religious beliefs, in Personality and social psychology bulletin 18 (1992) 266-275. 11 J.BOWLBY, Attaccamento e perdita, cit.


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materne e bambino implicita nella teoria dell’attaccamento e nella recente psicologia dello sviluppo. Attraverso l’interazione con la figura di attaccamento si sviluppa, a partire da una predisposizione biologica, il sistema motivazionale che è fondamentale alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. All’interno del sistema motivazionale di attaccamento, il bambino struttura gli schemi emotivi e cognitivi di percezione di sé e del mondo che fungono da mappe autoreferenziali che danno significato agli eventi, prevedono il futuro e organizzano i comportamenti. Sono questi i cosiddetti modelli operativi interni che il bambino si costruisce delle qualità attraverso l’interazione con la figura di attaccamento. Queste modalità relazionali si trasmettono a livello intergenerazionale. Al concetto di modello operativo è legato quello di risorsa (resilience) dell’io che dipende dalla sensibilità e dell’attenzione ricevute dal bambino dalla figura di attaccamento e di accudimento (caregiver). È la ricerca di prossimità, cura, protezione del bambino che determina, nella madre, l’attivazione del sistema motivazionale di accudimento che consiste, a livello comportamentale, in un insieme di risposte complementari e sincrone al bisogno dell’infante. All’inizio, questo legame riguarda solo la madre (visione ‘monotropica’ iniziale di Bowlby). Poi, più avanti, quando il bambino ha imparato a differenziare sé dagli altri, il legame riguarderà anche il padre e le altre figure significative familiari. Sono queste le cosiddette figure di attaccamento multiple12. Se l’attaccamento è stato sicuro, se il caregiver è stato “base sicura”13, allora il bambino introietta quelle strategie adeguate per far fronte agli eventi della vita quotidiana14, aiutandolo a superare l’angoscia o il 12

Cfr M.D.S. AINSWORTH, The development of infant-mother interaction among the Ganda, in B.M. FOSS (a cura di), Determinants of infant behavior, II, London 1963; cfr ID., Infancy in Uganda:infant case and the growth of love, Baltimore 1967; cfr H.R. SCHAFFER, P.E. EMERSON, The development of social attachments in infancy, in Monographs of the society for research in child development 29 (1964)1-77. 13 J.BOWLBY, Una base sicura, cit. 14 I .BRETHERTON, Young children in stressful situation: the supporting role of attachment figures of unfamiliar caregivers, in G.V. COELHO, P. AIMED (a cura di), Uprooting and development, New York 1980.


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rischio di depressione in seguito ad eventi sfavorevoli, quali lutti e separazioni15; se non è stato una “base sicura”, allora il bambino sviluppa strategie difensive atte a fronteggiare queste esperienze che possono essere di due tipi: di tipo insicuro- evitante e di tipo insicuro-resistente. Il primo tipo è legato ad un comportamento respingente da parte della madre durante il periodo dagli otto ai dodici mesi. I bambini evitanti sviano la vicinanza e il contatto. Anche se mostrano affetto, esprimono avversione per il contatto fisico e per la continuità della relazione intima. Il secondo tipo è associato con un comportamento materno incostante durante il primo anno di vita16. Il bambino resistente sembra incapace di sganciarsi dalla madre e reagisce alla sua imprevedibilità con ambivalenza, rabbia, oppure passività. Main e Salomon17 hanno poi introdotto una terza categoria per classificare i bambini che esibiscono comportamenti non attribuibili ai precedenti tipi: in loro si manifesta una chiara strategia comportamentale al momento del riavvicinamento con la madre: ansia, disorientamento, disorganizzazione. Non bisogna dimenticare,comunque, che, in tutto questo processo, rimane fondamentale il concetto di “base sicura”, cioè la capacità di potere usare, da parte del bambino, la madre come ponte, base per esplorare il mondo, la realtà esterna, l’ambiente. È questo della “base sicura”, un indicatore di attaccamento più affidabile rispetto alla comparsa degli schemi comportamentali di base dell’attaccamento, che sono invece dipendenti dal contesto o dalla situazione18.

15

Cfr G.W. BROW, T. HARRIS, Social origins of depression, London 1978. Cfr M.D.S. AINSWORTH, Attachment:retrospect and prospect, in C.M. PARKES, J. STEVENS-HINDE (a cura di), The place of attachment in human behaviour, New York 1982; cfr R.A. ISABELLA, Origins of attachment: maternal interactive behavior across the first year, in Child Development 64 (1983) 605-621. 17 Cfr M. MAIN, J. SOLOMON, Discovery of a disorganized/disoriented attachment pattern, in V.B. BRAZELTON, M.W. YOGMAN (a cura di), Affective development in infancy, Norwood, N.J. 1986. 18 Esistono alcuni strumenti di rilevazione della “base sicura”: quelli dell’“Attachment Q-sort” (=AQS) di E. WATERS, K.B. DEANS, Defining and assessing 16


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Il modo, poi, come sono organizzati i comportamenti di attaccamento stabilisce le differenze individuali nell’attaccamento19. Quando si acquisisce una “base sicura” si raggiunge un certo grado di autonomia e di indipendenza che ci permette di rischiare nella vita, esplorando l’ambiente esterno a noi, cercando modi nuovi e creativi di esistenza personale e comunitaria, sapendo che la madre, o qualcuno che si prende cura (caregiver), reale o immaginaria, in caso di bisogno, dopo certi eventi traumatici come la guerra, la violenza, l’abuso, etc., sarà disponibile per sostenere o per confortare.

2. DIO COME FONTE DELL’ATTACCAMENTO 2.1. Nella Sacra Scrittura Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana, così come ci si rappresenta nella Sacra Scrittura, è un Dio pietoso, premuroso, benevolo e che si piega verso qualcuno che si trova nella situazione di indigenza, facendosi vicino a lui e assistendolo con cura. Questo poi è un amore di benevolenza, un amore gratuito, un dono che proviene dalla sua disposizione misericordiosa20. individual differences in attachment relationships: Q-methodology and the organization of behavior in infancy and early childhood, in I. BRETHERTON, B. WATERS (a cura di), Growing point of attachment theory and research, in Monographs of the society for research in child development, 50/1-2 (1985) serie 209. Questo strumento serve per quantificare le differenze nel comportamento di base sicura, da utilizzare nella valutazione della sicurezza; e quello della “Adult Attachment Interview” (=AAI) di C. GEORGE, N. KAPLAN, M. MAIN, The Adult attachment interview, Berkeley 1988. In italiano esiste, sull’AAI, una traduzione dell’ottimo volume di P.M. CRITTENDEN, Attaccamento in età adulta. L’approccio dinamico maturativo all’Adult attachment interview, Milano 1999. Questo strumento serve a valutare l’atteggiamento dell’adulto nei confronti delle proprie esperienze infantili. 19 Cfr L.A. SROUFE, E. WATERS, Attachment as an organizational construct, in Child Development 48 (1977) 1184-1199. 20 La radice ebraica rhm richiama un sentimento localizzato nella parte più profonda della persona e del suo corpo: le viscere ed indica una forte partecipazione affettiva. Affine a rhm è la radice hnn che evoca l’atto di piegarsi verso qualcuno che si trova nel bisogno.


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È questa una qualità costitutiva, incancellabile del suo essere e del suo agire21. Una pienezza che, nonostante le infedeltà del popolo ebraico, fa dire al Signore “Io li guarirò dalle loro infedeltà, li amerò di vero cuore”22. Il fondamento di questo legame è fornito dall’evento dell’alleanza (berit) ed è spesso riferito all’amore coniugale, quindi, all’amore di Dio per il suo popolo23 e al favore che ne consegue24. All’interno dell’alleanza, la grazia (hesed) evoca forti contenuti affettivi25 ed è collegata al patto coniugale e alle sue conseguenti qualità: impegno e fedeltà. All’hesed di Dio fa riscontro quello di Israele come obbedienza, fiducia, amorevolezza e servizio verso il prossimo26. Nell’AT, hesed ricorre moltissime volte e con maggiore frequenza nei Salmi ed è spesso unita a fedeltà (emet): “I sentieri del Signore sono unità e grazia”27. “Bontà e verità si incontreranno”28. “Grazia e fedeltà precedono il tuo volto”29. Potere confidare nella benevolenza del Signore e farvi continuamente appello è, nei salmi, chiaramente espresso dal ritornello liturgico: “Eterno è il suo amore per noi”30. “Perché eterna è la sua misericordia”31. 21 Il verbo ebraico raham significa essere benevolenti, sentire compassione (per chi è nel bisogno). 22 Os 14,5. 23 Sal 136,1-26; Ger 31,3. 24 Sal 18,51; Es 20,6; Dt 5,10; 2Sam 22,51; Ger 31,18. 25 Ger 2,2. 26 Os 6,6. Nel NT, in linea con le radici rhm e hnn, il termine Splagchna sottolinea un forte coinvolgimento affettivo. La benevolenza di Dio è a volte espressa con Chrestotes, mentre hesed è tradotto con èleos. Le rispettive forme verbali esprimono il concetto di prendersi cura, farsi carico, soccorrere, muoversi a compassione e vivere l’esperienza del sentirsi amato, come evento di grazia, come dono. In tale manifestazione deve corrispondere una benevolenza misericordiosa tra gli uomini (Lc 16,24), per potere trovare benevolenza presso Dio (Lc 18,33; Mt 5,7). 27 Sal 25,10; 46,11-12; 57,4. 28 Sal 85,11. 29 Sal 89,15. 30 Sal 100,5; 106,1; 107,1. 31 Sal 103,17.


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I Salmi32 sono permeati dell’atteggiamento interiore di fiducia e di riconoscenza e ringraziamento, ma solo in alcuni33 ciò diventa quasi tematico. Nei salmi cosiddetti di fiducia non si richiede o si vuole da Dio nulla di particolare, se non la fiducia come cibo che produce pace e serenità. Questo cibo è la speranza nell’amore misericordioso di Dio che è fedele sempre e ti si fa vicino. La fiducia in Dio è una relazione personale come un destinatario di un dialogo di affetto, di amore. La fiducia in Dio, nella rispondenza della fedeltà di Dio nei confronti di Israele, è non solo personale, ma comunitaria. È dall’amore stesso, quasi fisico, di Dio che Israele è stato portato in grembo e partorito34. La metafora della madre emerge nell’espressione “le mie viscere fremono”35, Il ricorso alle ‘viscere’ rimanda con evidenza all’intimità dell’affetto e fonda una relazione “come di un bambino svezzato in braccio a sua madre”36. Dio dimostra una premura e una preoccupazione senza limiti sostenendo i figli nella fatica del cammino della vita37, correggendoli38, e facendo, come un’aquila, guida forte e sicura, rifugio accogliente e amorevole39. La benevolenza di Dio, poi, è superiore a ogni infedeltà del popolo e dei suoi membri40, perché non si è dimenticato, e ne ha quasi nostalgia, dell’impegno preso, quando la fidanzata lo seguiva nel deserto41. 32

Cfr B. RAVASI, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, 3 voll., Bologna 19998; cfr ID., I Salmi. Lode, lamentazione, ringraziamento: le parole degli uomini a Dio, Casale Monferrato 1996; cfr A. WENIN, Entrare nei Salmi, trad.it., Bologna 2002. 33 Possiamo elencare i seguenti Salmi fiduciali: 4,11,16,23,27,46,62,125,131. Ci soffermeremo, a titolo di esempio, sul salmo 131. 34 Is 66,13. 35 Ger 31,20. 36 Sal 131,2. 37 Sap 14,3. 38 Tb 13,4; Pr 3,12; Sap 11,10. 39 Gb 31,18; Ger 31,9-10; Sal 91,4; Is 31,5; Sal 36,6-10; Dt 32,21; Mt 23,37; Lc 13,34. 40 Sal 7,6; Is 64,7-8; Ger 3,4.11-20; Mal 1,6. 41 Os 2,21; Ger 2,2.


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Nel Salmo 23, la bontà e la fedeltà amorevole, virtù tipiche dell’Alleanza, stimolano il fedele a ritornare nella casa del padre, che resta come un punto nostalgico da tenere fisso, pur nel turbinio delle preoccupazioni della vita quotidiana. Dalla casa non ci si vorrebbe distaccare, ma abitare. L’icona della madre che tiene in braccio un bimbo che dorme, dopo essere stato allattato, e il tutto espresso in tre parole: anima, bimbo-madre, anima (v 2), è, tra i salmi di fiducia, quello più tenero. Nel silenzio-intimità relazionale, viscerale del bambino con la madre alberga la fede, mentre nell’orgoglio-azione attraverso gli occhi e i piedi, che indicano un’attitudine di esaltazione per proclamare la propria tronfia autosufficienza, alberga il peccato. Solo la povertà (e, quindi, un ‘bimbo svezzato’) lascia posto all’azione di Dio e del suo amore, invece un bimbo non svezzato, ma pieno di sé, presuntuoso,orgoglioso, è un bambino che non ha bisogno del rapporto perché presume di essere autosufficiente, per paura del legame, che è dato solo dalla fiducia-speranza di Israele in Jahweh (v 3). Il Bambino svezzato, protagonista del salmo, è legato alla madre, così come abbiamo visto nella teoria dell’attaccamento di Bowlby, come ad una “base sicura”, in un rapporto di intimità profonda, che non è regolata dal bisogno istintivo della fame. Quando gli avversari interni ed esterni ci assalgono, dentro di noi si può affacciare lo spettro di una solitudine angosciosa a cui diamo nome di lontananza da Dio, per cui sentiamo la durezza del mondo e la scomparsa di quel Dio che ci ha fatto sentire come bambini svezzati “in braccio alla madre”. Per evitare la tentazione verso la violenza e per non trasformarci in combattenti neuroticamente cinici e disperati, il Dio che tace, questo padremadre interno, deve essere pregato, invocato, atteso. Questo atteggiamento di fiducia, di preghiera, che ci evidenzia la nostra premura verso le nostre parti più deboli e fragili, ci evita la caduta depressiva Come il popolo di Israele, il bimbo è una creatura fragile42 che deve essere protetta e per questo deve sentire il legame forte di attaccamento con la sua mamma-padre-Signore, da cui trae vita, energia, speranza. 42 Os 11,4; Is 66,12-13; Sal 62,9; 115,9-11; Sal 28,1; Sal 27,10, 6; Sal 56,5.10. Cfr P. CATTORINI, I Salmi della follia. Disturbi mentali e preghiere di liberazione, Bologna 2002.


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È attraverso questo legame, cioè la speranza-fiducia di Israele in Dio, che il funzionamento interno bimbo-madre-anima può generare dal cuore azioni sicure e non evitanti o disorganizzate, come nella terminologia psicologica della teoria dell’attaccamento, che portano ad intenzioni personali, interpersonali e comunitarie positive.

2.2. Nella ricerca psicologica Nel cristianesimo, la fede è fede in un Dio personale, incarnato, storico, ma che mantiene il mistero della trascendenza. La fede nel Dio di Gesù Cristo nasce da un incontro ed è sostanziata dall’avvenire della relazione43. Sia la percezione di un Dio personale sia l’amore di Dio aiutano fortemente nella vita quotidiana44. Dio è percepito psicologicamente come una figura genitoriale e l’emozione che si prova nella relazione con Lui, e che sostanzia tutto il sistema di credenza dell’uomo di fede, è il sentimento dell’amore, che è paragonato a quello materno45 o a quello del genitore preferito46 o, comunque, ad una combinazione di elementi che sono tratti sia dalla figura materna sia da quella paterna47.Certo è, comunque, che l’immagine di Dio che suscita fiducia non è, né si può ridurre ad una figura esaltata del padre o della madre, ma è molto simile ad una figura di attaccamento Alcune ricerche,che hanno applicato l’analisi fattoriale, hanno trovato che il primo fattore trovato “ il Dio benevolente” includeva descrizioni come confortante, amorevole,protettivo e, al contrario, descrizioni come distante, impersonale, inaccessibile. Dio è così visto 43 Cfr P.J. HUGHES, The australian clergy:report from the combined cherchÈs survey for faith and mission, Melbourne 1989. 44 Cfr L.A. KIRKPATRICK, P.R. SHAVER, An attachment-theoretical, cit. 45 Cfr A. GREELY, The catholic myth: the behavior and beliefs of american catholics, New York 1990; cfr A. GODIN, M. HALLEZ, Parental images and divine paternity, in A. GODIN (a cura di) From religious expression to a religious attitude, Chicago 1965. 46 Cfr M.O. NELSON, E.M. JONES, An application of the Q-technique to the study of religious concepts, in Psychological Reports 3 (1957) 293-297. 47 Cfr A. VERGOTE, A. TOMAYO (a cura di), The parental figures and the representation of God, The Hague 1981.


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come quella ‘persona’ che dà conforto, come un rifugio nel pericolo, sempre pronto ad ascoltare e perdonare, che ci aspetta sempre e che si prende cura di noi48. Quelle persone che sentono Dio come compagno e amico di viaggio e come genitore attento e sensibile si percepiscono come più vicini a Dio perché lo sentono realmente più accessibile. Un’importante funzione biologica del sistema comportamentale dell’attaccamento è quella di mantenere, per quanto possibile e ricorrendo a tutti gli espedienti, quali quello del gridare, del piangere che fa il bambino, la prossimità con la figure protettiva. Crescendo in età e sviluppando le abilità cognitive, spesso poi veniamo soddisfatti dal contatto di tipo verbale o visivo e conoscitivo. Una via privilegiata per mantenere la prossimità è la preghiera. Le ricerche evidenziano due tipi di preghiera: una di tipo ‘ contemplativo’, come tentativo di relazionarsi più intimamente con Dio, l’altra di tipo ‘meditativo’, sulla consapevolezza della relazione con Dio. In altri termini, la preghiera diventa per il bambino, come per l’adulto nella fede, un referente sociale a cui ricorrere, per essere sicuro che la figura di attaccamento è ancora attenta nei miei confronti e potenzialmente disponibile49. Ci sono delle situazioni della vita in cui il bambino si può sentire indifeso, come quando si imbatte in ambienti ed in eventi che gli suscitano allarme, come la malattia, la fatica, la separazione, il lutto, la violenza, l’abuso. In queste situazioni, un Dio che è percepito e visto come salvezza è sempre di conforto. Molte ricerche, a partire dalla affermazione teorica di Freud che la religione è legata ai bisogni protettivi e di sicurezza, confermano tale assunto, quando eventi stressanti e dolorosi intaccano la nostra esistenza, rivolgersi a Dio, attraverso la preghiera, diventa un fatto rappacificante50. 48 Cfr R. L. GORSUCH, The conceptualization of God as seen in adjective ratings, in Journal for the scientific study of religion 7 (1968) 56-64; cfr anche A. TOMAYO, J. DESJARDINS, Belief system and conceptual images of parents and God, in Journal of psychology 92 (1976) 131-140. 49 Cfr R.W. HOOD, B. SPILKA, R. HUSBERGER, R. GORSUCH, Psicologia della religione. Prospettive psicosociali ed empiriche, trad. it.,Torino 2001. 50 Cfr M. ARGYLE, B. BEIT-HALLAHMI, The social psychology of religion, London 1975.


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Le risposte che vengono date nei momenti di perdita e di dolore sono in genere in relazione con i tipi di attaccamento. Il tipo “sicuro”, che crede nella misericordia di Dio, pur nel dolore, si affida alla grazia e volontà di Dio, perché vivere nell’amore di Dio è fondamentale. Il tipo “insicuro”, invece, realizza comportamenti di tipo difensivo ed evitante. Anche la maturità spirituale51 è legata alle prime esperienze relazionali delle persone dove si formano i modelli operativi interni, quello della rappresentazione di sé e degli altri, sia nella teoria di Bowlby sia nella teoria delle relazioni oggettuali52. Si crede che le prime rappresentazioni hanno un grande impatto sul futuro sviluppo dell’immagine e della relazione con Dio. Come conseguenza delle ripetute esperienze nell’interazione con le proprie figure di attaccamento, i bambini sviluppano credenze e aspettative, modelli operativi mentali di attaccamento legati ai modelli mentali del sé, circa la disponibilità (avaliability) e la sensibilità (responsiveness) di chi si prende cura di loro. Tutto ciò,poi, guida le future ed adulte risposte comportamentali, emotive e cognitive alle interazioni sociali. Dunque, le credenze su che cosa Dio sia simile, amorevole, controllante, etc., sembrano correlarsi con i modelli mentali del sé: chi vede se stesso come capace di essere amato, accudito vede e sente Dio come accudente e amante. Le credenze in una relazione personale con Dio sono, invece, correlate al modello che ciascuno ha degli altri. Ciò dipende dal grado in cui le figure di attaccamento sono percepite come partners affidabili e degni di essere seguiti e dal grado in cui le relazioni intime sono altamente desiderate e volute53. 51 Cfr J.K. TENELSHOF, J.L. FURROW, The role of secure attachment in predicting spiritual maturity of students at a conservative seminary, in Journal of psychology and theology 2 (2000) 99-108. 52 Cfr A.M. RIZZUTO, La nascita del Dio vivente. Studio psicoanalitico, trad. it., Roma 1994; cfr ANCHE B.F. BROKAW, K.J. EDWARDS, The relationships of God image to level of object relations development, in Journal of psychology and theology 22 (1994) 352-371; cfr T.W. HALL, B.F. BROKAW, The relationship between spiritual maturity and level of object relations development, in Pastoral psychology 43 (1995) 373-391. 53 Cfr L.A. KIRKPATRICK, P.R. SHAVERS, An attachment-theoretical, cit.; ID., God as sobstitute, cit.


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3. LE BASI PSICOLOGICHE DELLA FIDUCIA IN DIO Abbiamo visto, nella teoria e nelle ricerche, come una “base sicura” funziona molto bene, per prevenire la paura e l’ansia. Credere in Dio, come ad una figura di attaccamento, arreca alla persona certi benefici psicologici, sia per quanto riguarda l’impegno religioso sia per quanto riguarda l’autostima, sia per quanto riguarda le esperienze della perdita, del lutto e del dolore. La teoria dell’attaccamento di Bowlby ci ha fornito un modello teorico per comprendere la continuità degli stadi di sviluppo nelle relazioni umane e, quindi, anche dell’attaccamento e della relazione con Dio54. L’attaccamento, così come opera nei primi anni di vita, è un modello che si mantiene attivo lungo tutto l’arco dell’esistenza, anche se attraverso incrinature ed eventi stressanti a cui il divenire della persona può essere soggetto. La continuità di questo modello operativo è dovuta principalmente alla persistenza dei modelli mentali del sé correlati tra loro e la vita sociale, all’interno del contesto abbastanza stabile del quadro familiare55. Un fattore di vulnerabilità dell’io può essere costituito, come abbiamo visto, dalla probabilità di avere relazioni che sono caratterizzate dall’attaccamento ansioso, soprattutto quando ci si viene a trovare di fronte ad avvenimenti stressanti, lutti, perdite, separazioni. Quando il processo evolutivo viene minato dalla precoce impossibilità di regolare, a partire dall’infanzia, le proprie funzioni, in relazione con le figure di attaccamento primario, il bambino allora non è in grado di sviluppare le proprie capacità di automonitoraggio ed autoregolazione, autocontrollo e autonomia. Tra i sintomi che possono sviluppare, significativi sono l’instabilità affettiva, l’impulsività, la carenza di insight, di autoriflessività, la globalità del pensiero e la difficoltà nel delineare i confini del sé56. 54

Cfr ID., Attachment theory and religion, cit. Cfr L. CARLI (a cura di), Dalla diade alla famiglia. I legami di attaccamento nella rete familiare, trad. it., Milano 1999. 56 Cfr L. SANDER, Infant and caretaking environment: investigation and conceptualization of adaptive behavior in a system of increasing complexity, in E.J. ANTHONY (a cura 55


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Il tipo di attaccamento disfunzionale prevalente sarebbe quello “insicuro-evitante”, che porta a fare assegnamento su una strategia di esclusione difensiva dal legame affettivo in atto, sentito,percepito come datore di informazioni negative, limiti, sacrifici, impegno etc. La ribellione, l’aggressività o il contrasto con la legge potrebbero essere tra gli effetti negativi dovuti a questa esclusione difensiva. La ricerca sostitutiva che possa, anesteticamente, calmare l’ansia e colmare il vuoto, potrebbe essere quella di trovare ad identificarsi in degli idoli, o attraverso la magia e riti magici, che possano dare sensazioni di sicurezza, onnipotenza, mantenendo una visione idealizzata delle figure di attaccamento, ma rifiutando l’angoscia personale, dovuta alla presa di coscienza che passa attraverso l’accettazione dei limiti e della responsabilità. Possiamo tentare di dire che quanto descritto in precedenza possa essere un’interpretazione plausibile del percorso evolutivo del popolo ebraico sperimentato nell’Esodo: dall’Egitto alla terra promessa, passando attraverso le regressioni, le crisi, i tradimenti e l’idolo consolatorio del vitello d’oro, perché non si sono fidati ed hanno avuto paura di credere nelle promesse del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Mostrarono di stancarsi ed hanno voluto fare da sé, cercando la soddisfazione compensatoria immediata. Un Esodo che continua ancora oggi come frutto di un deficit di regolazione del sé e del legame con l’A(a)ltro. La sensibilità ebraica sembra segnata intimamente dalla divisione e dall’erranza,dove pensieri rimossi vengono proiettati o fuori di sé o destinati all’alienazione. Afferma il Rocchetta57 che “Antropologicamente, psicologicamente e culturalmente il processo della formazione del sé, e quindi della personalizzazione, passa successivamente dal movimento del tu verso l’io (dono) e dell’io verso il tu (accoglienza), e richiede la disponibilità a mettere in comune ciò che si è e ciò che si fa (condivisione)”. La formazione del sé, della propria identità, è un movimento, un processo dinamico che parte dall’oggetto del desiderio (tu) verso un di), Exploration in child psychiatry, New York 1975. H. A. HOROWITZ E ALTRI, nel loro articolo, Comorbid adolescent substance abuse: a maladaptive pattern of self-regulation, in Adolescent psychiatry 18 (1992) 465-483, parlano di una distorsione nello sviluppo del sistema autoregolativo del sé. 57 C. ROCCHETTA, Teologia della tenerezza. Un Vangelo da scoprire, Bologna 2000, 38.


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soggetto desiderante (io) e dall’io verso l’altro da sé, o gli altri, passando attraverso il vissuto dell’accoglienza, dell’essere stati attesi, amati, voluti bene. È questa, poi, la caratteristica fondamentale dell’acquisizione del senso della “base sicura”, o della fiducia, espressa ed interiorizzata attraverso le cure, la sensibilità e la disponibilità della madre o delle figure significative dell’attaccamento di cui un bambino ha bisogno, “per affacciarsi nel mondo e a cui possa ritornare, sapendo per certo che sarà il benvenuto, sarà nutrito sul piano fisico, emotivo, confortato se triste, rassicurato, se spaventato”58. Il formarsi della nostra personalità è, dunque, un processo relazionale e complesso che, partendo dalla relazione diadica io-tu, madrebambino, si estende agli altri. O, in altri termini, ma che esprime la stessa sostanza, l’altro è l’inizio e il fine, il sistema dentro cui l’io, il soggetto può crescere e maturare. Questo schema di attaccamento tra il bambino e il genitore accudente è la base che fa scattare la costruzione dei modelli operanti, che dipendono dall’introiezione del modo in cui una madre guarda, accudisce e comunica con il proprio figlio, insieme ai modelli complementari del sé nell’interazione con gli altri, che si incontrano nel cammino della vita. Questa costruzione che avviene nei primissimi anni di vita tende a stabilizzarsi come struttura cognitiva influente sulle relazioni future e, quindi, anche con Dio come fonte della vita e dell’amore59. Le basi psicologiche dell’atteggiamento di fiducia, che si estendono alla relazione con Dio, si possono compendiare in tre punti:a) “la capacità di stringere legami emotivi intimi con altre persone, talvolta nel ruolo di chi richiede le cure, talvolta nel ruolo di chi le fornisce”60; b) la capacità di “allontanarsi dalla propria figura di attaccamento”61 per esplorare l’ambiente, il mondo. Questo è possibile se il bambino si è sentito amato da un genitore sensibile e disponibile. Un bambino insicuro, o perché evita o 58

J. BOWLBY, Una base sicura, cit., 20. Cfr M. MAIN, N. KAPLAN, J. CASSIDY, Security in infancy, cit.; cfr J. BOWLBY, Una base sicura, cit.,10. 60 Ibid.,117. 61 L.c. 59


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perché resiste in modo angoscioso al conflitto dell’attaccamentoseparazione, avrà rapporti ambivalenti o di negazione anche con Dio, nel campo religioso. c) un terzo elemento importante, affinché i primi due si realizzino è dalla parte della madre o della coppia: “la quantità di sostegno emotivo o la sua mancanza che la madre stessa sta ricevendo al momento”62. La maturità personale nei genitori e la loro relazione nel sistema familiare stimola, così, la formazione dell’io personale del figlio nel suo percorso di crescita e maturazione, sviluppando una positiva relazione con gli altri e con Dio, come donazione, accoglienza e condivisione.

CONCLUSIONE Alla ricerca di Kikpatrick63, che ha esteso la teoria dell’attaccamento di Bowlby, allo studio dei legami tra lo sviluppo precoce e la religione e le loro implicazioni per la vita del bambino e dello stesso adulto, si può evincere che l’attaccamento “postula l’esistenza nell’infante di un sistema biosociale comportamentale primario, stabilito dall’evoluzione al fine di mantenere il bambino vicino alla prima figura di affidamento e proteggendolo così dalla predazione e da altri pericoli naturali”. Le ricerche considerate nel nostro studio hanno evidenziato che, tra attaccamento e religione o fiducia in Dio, c’è un legame significativo. Alcuni autori parlano di “ipotesi compensatoria”, secondo cui chi non ha avuto una “base sicura” dalle figure genitoriali può compensarsi, in modo difensivo, con la fede in un Dio personale, disponibile,pieno d’amore; altri,invece, di ipotesi del “modello mentale”, in cui i modelli funzionali delle relazioni di attaccamento precoce di un soggetto possono fornire la base per la costruzione dell’immagine di Dio64. Inoltre, l’attaccamento a Dio può fornire quei benefici psichici associati con un attaccamento interpersonale sicuro. Tra i due modelli si richiede un’integrazione ulteriore che altre ricerche sul campo dovranno verificare. 62

Ibid., 121. L.A. KIRKPATRICK, An attachment theory, cit., 4. 64 Cfr L.A. KIRKPATRIK, P.R. SHAVERS, Attachment theory and religion, cit. 63


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Se, per esempio, il cambiamento religioso, nel nostro caso l’atteggiamento di fiducia, è motivato da un attaccamento interpersonale insicuro,l’orientamento verso l’attaccamento interpersonale, cambia, dunque, conseguentemente? Un altro problema da risolvere concerne i limiti della teoria dell’attaccamento nel campo della psicologia della religione. Oltre quello che abbiamo considerato in questo nostro studio, ci potrebbero essere altre applicazioni della teoria dell’attaccamento alla religione: l’attaccamento ai leaders e ai gruppi religiosi. Anche se questi fenomeni religiosi possono essere visti come analoghi in certo qual modo all’attaccamento, tuttavia essi riflettono, più che l’attaccamento, le operazioni dei processi e dei sistemi psicologici. Per esempio, la relazione di attaccamento con i leaders religiosi può essere guidata da meccanismi che hanno a che fare con lo status,il potere, il prestigio, mentre l’attaccamento, l’orientamento verso gruppi religiosi può includere dei meccanismi verso il cambiamento sociale o quello della formazione oppure quello della coalizione. Sono convinto che il ruolo che ha la fede, la fiducia nel Dio di Gesù Cristo è di base e di completamento nel modello delle relazioni interpersonali adulte. Se nelle relazioni adulte di attaccamento mettiamo dentro l’attaccamento religioso, possiamo dare delle risposte a quesiti lasciati aperti nella letteratura sull’attaccamento concernenti il contenuto e la struttura dei modelli operativi interni, con i processi dinamici che sottostanno al cambiamento nei patterns di attaccamento e ai modelli operativi. Ancora, il ruolo che ha Dio e la religione può aiutare ad illuminare i processi di sviluppo come la transizione dagli attaccamenti genitoriali a quelli tra pari durante l’adolescenza, e le risposte alla perdita degli attaccamenti significativi nella vita adulta. Gli studi e le ricerche di Kirkpatrick e di altri autori, così come abbiamo evidenziato nel nostro studio, hanno mostrato il grosso potenziale che la teoria dell’attaccamento di Bowlby ha nella comprensione, così come per altro verso quella degli stili cognitivi di Piaget, degli aspetti relativi alla crescita e maturazione religiosa.


L’ALLEANZA: RECIPROCA APPARTENENZA DI DIO E IL SUO POPOLO

ATTILIO GANGEMI*

L’alleanza tra Dio e il suo popolo è il punto fondamentale su cui poggia tutto il messaggio biblico. Dio, da parte sua, si impegna ad appartenere ed essere Dio di un popolo che egli si è scelto; chiede al popolo di appartenere a Lui e di essere il suo popolo.

1. L’ALLEANZA VETEROTESTAMENTARIA In Es 19,4-6, un testo di indole deuteronomista, abbiamo quasi una sintesi solenne del rapporto di alleanza tra Dio e l’antico popolo di Israele. Dio evoca anzitutto l’evento di salvezza da lui compiuto: «voi stessi avete visto ciò che ho fatto agli egiziani, vi ho condotto su ali di aquila e vi ho fatto venire a me». In questa evocazione storica sono indicati i tre momenti dell’esodo: il punto di partenza, la liberazione dall’Egitto operata con mano forte e grande potenza; il cammino intermedio, in cui Dio ha condotto il suo popolo con velocità ed arditezza, facendogli superare ogni ostacolo che avrebbe potuto intralciarlo, il termine del cammino, la terra promessa o Lui stesso al Sinai, dove egli attendeva il suo popolo, per unirlo stabilmente a sé. Nell’evento di salvezza Dio si è manifestato veramente il Dio del suo popolo. Il popolo, da parte sua, è chiamato ad accettare Dio come suo Dio ed ad entrare in questo rapporto di reciproca appartenenza. Dio stesso gli indica il modo, l’osservanza dei comandamenti. Continua infatti in Es 19,5: «ora,

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Ordinario di Esegesi biblica nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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se ascolterete la mia voce e osserverete il mio patto, voi sarete a me un popolo di possesso peculiare tra tutti i popoli». La “voce” del Signore e il suo “patto” concretamente si identificano con i comandamenti, e infatti, poco dopo, nel seguente c 20 si introduce il decalogo, seguito da una serie lunga serie di norme e prescrizioni. È interessante osservare che nel testo di Esodo su citato Dio non parla di “leggi” o di “comandamenti”, termini che potrebbero avere un tono più giuridico. Parla invece di “voce” e “patto” che richiamano un aspetto più personale. Dando i suoi comandamenti, Dio non intende soggiogare un popolo e ridurlo in schiavitù, ma intende stabilire con esso un rapporto personale di reciproca appartenenza. Operando l’evento di salvezza Dio ha mostrato di appartenere al suo popolo ed essere il suo Dio; adesso chiede al popolo di appartenere a lui e di essere il suo popolo, precisamente mediante l’osservanza dei suoi comandamenti. In questo senso, i comandamenti sono la via concreta, che Dio stesso indica, mediante la quale il popolo può concretizzare la sua appartenenza a lui come suo popolo. È significativa l’espressione: «sarete a me», dove le parole «a me (yil)» indicano possesso e appartenenza: Dio dichiara che il popolo apparterrà a lui se ascolta la sua voce e osserva le clausole del suo patto. Se il popolo invece non osserva tali clausole, automaticamente esprime la propria decisione di non volere appartenere a Lui. Il popolo apparterrà a Dio in maniera peculiare. Tutto infatti appartiene a Lui, sia la terra sia anche i popoli. Nello sfondo di tale appartenenza universale, Israele emerge come un possesso particolare. Si direbbe che egli è la realtà più preziosa che Dio possiede. Simile rapporto di reciproca appartenenza era stato già instaurato con i patriarchi. In Gen 17,1-2 Dio stipula la sua alleanza con Abramo. Egli si impegna ad essere Dio suo e della sua discendenza (v 7). Promette di dare a lui e alla sua discendenza la terra di Canaan come possesso perenne (v 8) e di essere loro Dio. Ad Abramo Egli chiede, come segno di appartenenza a Lui, la circoncisione: ogni maschio, all’ottavo giorno, dovrà essere circonciso (vv 12-14). La stessa promessa di alleanza è fatta al figlio che nascerà dalla sterile Sara. Nel v 21 Dio solennemente dichiara ad Abramo: «Io stabilirò la mia alleanza con Isacco che Sara ti partorirà». L’alleanza che Dio ha


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stipulato è sancita poi da Abramo mediante la circoncisione di tutti i maschi della sua casa. Anche a Giacobbe Dio si manifesta come il «Dio di Abramo, tuo Padre, e il Dio di Isacco» (Gen 28, 10ss). A Giacobbe Dio rinnova le promesse fatte ad Abramo. Soprattutto gli assicura la sua perenne presenza e protezione. Possiamo dire che l’alleanza di reciproca appartenenza, stipulata da Dio con i patriarchi, in certo senso prelude e fonda quella seguente con tutto il popolo di Israele. A Mosè infatti Dio si presenta come «il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe (Es 3,7)». Il Dio che ha promesso fedeltà ai padri, ora scende a liberare i loro figli nell’afflizione. Leggiamo infatti in Es 2,21 che: «Dio ascoltò il loro lamento (cioè dei figli di Israele oppressi in Egitto) e si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe». Un testo molto importante, che è quasi una sintesi di tutta la storia della salvezza, è Es 6,1-8. Dio evoca anzitutto il suo rapporto con Abramo, Isacco e Giacobbe. A loro si era manifestato e con loro aveva pure stabilito la sua alleanza, impegnandosi a dar loro la terra dove essi soggiornarono come stranieri (vv 1-4). Proprio quell’alleanza stipulata con i padri non permette a Dio di restare indifferente di fronte all’afflizione dei loro figli. Essa in certo senso lo obbliga ad accogliere il loro lamento. In forza dell’alleanza stipulata con i padri, Dio scende a liberare i loro figli. Abbiamo così la solennissima descrizione contenuta nei vv 6-8, dove Dio annunzia tre cose: Anzitutto la liberazione dall’Egitto: «vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù, vi libererò con braccio teso e grandi castighi».Inoltre il rapporto di reciproca appartenenza tipico dell’alleanza: «io vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio»; la prova che Dio è il Dio del popolo sarà appunto la liberazione dai gravami degli egiziani. Infine il dono al popolo di quella terra che Dio ha giurato con mano alzata di dare ad Abramo, Isacco e Giacobbe. La storia dell’esodo descrive appunto la realizzazione di quanto Dio aveva promesso. La storia delle dieci piaghe, fino all’ultima, la strage cioè dei primogeniti, si muove nella prospettiva della fedeltà di Dio all’alleanza. Menzionando le dieci piaghe, il narratore biblico vuole sottolineare la potenza del faraone, che però, confrontata con quella di Dio, risulta


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inferiore. La potenza di Dio è messa a servizio della sua fedeltà. Egli ha prevalso sul faraone ed ha liberato il suo popolo. La potenza di Dio non si ferma nemmeno di fronte agli ostacoli del cammino. L’episodio più importante è il passaggio del mare (Es 14). Stretti, come in una morsa, tra gli egiziani e il mare, gli Israeliti mormorarono contro Dio; ma Egli aprì il mare e travolse gli egiziani. Possiamo dire che in quest’episodio la fedeltà di Dio riporta una triplice vittoria: sul mare, sugli egiziani e sull’incredulità del suo popolo. È significativo il fatto del passaggio del mare. Quali che siano stati all’origine i fatti reali e qualunque sia stato il modo come essi vennero trasmessi attraverso i secoli dal popolo, il passaggio del mare acquista, nella penna del narratore, un profondo significato teologico. Anticamente, in una stipulazione di alleanza, si squartavano degli animali e i contraenti passavano attraverso le parti squartate. Tale prassi è ricordata in Es 15,6-8 a proposito dell’alleanza stipulata con Abramo; inoltre è ricordata anche in Ger 34,18. Per stipulare l’alleanza con il suo popolo, Dio non squarta alcun animale, ma divide addirittura il mare. Il popolo che, a piedi asciutti, attraversa il mare, è il popolo che entra nell’alleanza di Dio. Dal momento che Dio, operando l’evento di salvezza, si è manifestato veramente come il Dio di quel popolo, ha diritto di esigere da esso che permanga nella sua alleanza mediante l’osservanza dei comandamenti. Leggiamo così in Lv 11,45: «io sono il Signore vostro Dio che vi ho fatto uscire dal paese di Egitto, per essere il vostro Dio». In questo evento Egli si è manifestato come il Dio santo; può esigere perciò dal popolo che sia pure un popolo santo, cioè che appartenga a lui appunto mediante l’osservanza dei comandamenti. La prospettiva dell’alleanza torna ancora in Lv 26,12, quasi a conclusione di tutto l’elenco di effetti benefici che provengono al popolo dall’osservanza dei comandamenti. Questi effetti però sono parziali, e convergono e si riassumono in quello fondamentale presentato appunto nei vv 11-12: «stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e non vi respingerò. Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo». Dio si mostra Dio di quel popolo nel fatto che stabilirà la sua dimora in mezzo ad esso e non lo respingerà, il popolo deve mostrarsi popolo di Dio nell’osservanza delle sue prescrizioni.


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A questi testi fa eco anche il Deuteronomio. In Dt 26,17-18 leggiamo: «Tu hai sentito oggi dichiarare che Egli sarà il tuo Dio, ma solo se tu camminerai per le sue vie e osserverai le sue leggi […]; ti ha fatto oggi dichiarare che tu sarai per lui un popolo particolare […] solo se osserverai i suoi comandamenti». L’osservanza dei comandamenti da parte del popolo appare così come la condizione necessaria e indispensabile perché Dio continui ad essere il Dio del popolo e il popolo continui ad essere il popolo di Dio. Ciò significa che, se il popolo trasgredisce le leggi del Signore, cessa di essere il suo popolo e Dio, di conseguenza, non si sente più impegnato ad essere il suo Dio. Il Deuteronomio risente, in diversi stadi, dei due esili che, in epoche diverse, sconvolsero la vita di Israele, quello in Assiria prima nel 720 che toccò il Regno del Nord, e quello in Babilonia nel 586 poi che toccò il Regno del Sud. I deuteronomisti si affrettarono a spiegare che la colpa dell’esilio non è di Dio bensì del popolo. Avendo esso trascurato i comandamenti, egli non si è comportato da popolo di Dio e Dio, di conseguenza, non si è sentito più impegnato ad essere il Dio di quel popolo. Si è ritirato perciò il dono della terra promessa ai padri ed ha cacciato il popolo in terra di esilio. Nello stesso tempo i deuteronomisti lanciano un messaggio: tornare alla legge del Signore, perché egli è fedele ed usa benevolenza fino alla millesima generazione. Se il popolo, mediante l’osservanza dei comandamenti, tornerà ad essere il popolo di Dio, si può sperare che Dio torni ad essere suo Dio. L’alleanza è menzionata ancora in 29,11-12. In questa prospettiva possiamo capire il decalogo nella sua duplice redazione di Es 20 e Dt 5. In entrambi i testi esso è introdotto mediante l’espressione: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto (Es 20,1; Dt 5,6). Dal momento che ha operato l’evento di salvezza facendo uscire il suo popolo dall’Egitto, Dio ha diritto a proporgli i suoi comandamenti. Questi, più che prescrizioni imposte, appaiono così come delle clausole da osservare. Dal momento che Dio si è manifestato come Dio del popolo, questo è stato costituito come popolo di Dio. Nella lista dei comandamenti, Dio indica le cose che sono incompatibili con la nuova condizione di popolo di Dio. Ciò emerge anche dalla forma apodittica negativa con cui i comandamenti sono introdotti. Dal momento che Dio è il Dio del popolo e il popolo è diventato popolo di Dio, è impossibile che


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egli abbia altro Dio oltre che Lui, che bestemmi il suo santo nome, che uccida, che commetta adulterio, che rubi. In questa prospettiva si può anche percepire tutta la gravità del peccato che il popolo ha commesso costruendosi nel deserto il vitello d’oro. Mentre Dio sulla montagna proclama di essere il Dio che ha fatto uscire dal paese di Egitto e propone, in nome di questa prerogativa, i suoi comandamenti, giù il popolo, dopo essersi costruito il vitello d’oro, proclama: Ecco il tuo Dio, Israele, che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto. Il popolo pecca non solo ponendo un’altra divinità di fronte a Dio, ma addirittura riferendo all’idolo lo stesso evento di salvezza. Non è stato Dio a salvare, bensì l’idolo. E perciò egli non ha alcun diritto ad imporre i suoi comandamenti. Il fatto che Mosé rompe le tavole della legge, indica che già l’alleanza è stata violata fin dal suo stesso nascere.

2. L’ANNUNZIO DELLA NUOVA ALLEANZA Come abbiamo già osservato, i vari esili, prima quello in Assiria e poi quello in Babilonia, sconvolsero la vita del popolo. In terra di esilio il popolo si sentì abbandonato, quasi tradito, dal suo Dio, che aveva permesso una situazione che, per tanti suoi aspetti, richiamava l’antica schiavitù in Egitto. I profeti però, mentre denunziarono le sue colpe come la vera causa, tuttavia aprirono il popolo alla speranza, annunziando la ricostituzione dell’antica alleanza. Così il profeta Osea, che profetizza probabilmente prima e dopo la caduta di Samaria. Se in un primo momento il profeta deve denunziare le colpe del popolo compiendo addirittura l’azione profetica di sposare una prostituta, in seguito annunzia la ricostituzione dell’alleanza. Leggiamo infatti in Os 2,23(25): «A non-mio-popolo dirò: popolo mio, ed egli mi dirà: mio Dio». In 1,9, a riguardo del figlio concepito da Gomer la prostituta, Dio aveva comandato: «chiamalo: non-mio-popolo, perché voi non siete mio popolo ed io non esisto per voi». Più significativo e anche più importante è il profeta Geremia, che profetizza circa 100 anni dopo Osea e sulla sua scia. Profetando probabilmente per le tribù del nord deportate 100 anni prima in Assiria, il


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profeta propone, verso la fine del sec VII, una serie di oracoli, raccolti e contenuti nel c 31. Questi oracoli, in parte in poesia e in parte in prosa, probabilmente sono stati raccolti e messi assieme dal profeta stesso. Essi sono introdotti da un’espressione che sembra costituire il tema del capitolo: «il quel tempo — oracolo del Signore — Io sarò Dio per tutte le tribù di Israele ed esse saranno il mio popolo (Ger 31,2)». Facilmente riconosciamo in questa espressione, adattata, l’antica formula dell’alleanza. Ciò significa che tutti gli oracoli seguenti convergono e si riconducono allo stesso aspetto tematico: Dio restaurerà la sua alleanza, ovviamente richiamando il suo popolo dall’esilio. Ma l’oracolo più importante è indubbiamente quello che parla esplicitamente dell’alleanza, anzi che ne annunzia una nuova. Si tratta dell’oracolo in prosa, contenuto nei vv 31-34. Il profeta annunzia la stipulazione di una nuova alleanza. Non si tratta della ricostituzione dell’antica alleanza sinaitica, ma della stipulazione di una totalmente nuova. A scanso di qualsiasi equivoco, il profeta stesso si premura di precisare che non si tratta dell’alleanza che Dio stipulò con i padri quando li prese per mano per farli uscire dal paese di Egitto, cioè dell’alleanza sinaitica. Quell’alleanza è stata violata e non esiste più. É necessario perciò adesso ristipularne una nuova. Tale annunzio è coraggiosissimo. Annunziando la nuova alleanza, il profeta afferma in pratica che è finita la funzione dell’alleanza sinaitica. In questo modo egli dichiara che ormai quell’alleanza, cuore di tutta la religione vetero testamentaria, ha finito il suo scopo. Tale annunzio è anche unico in tutta la Bibbia. nessuno dopo Geremia, fino al NT, parlerà più di una alleanza nuova diversa da quella sinaitica. Questa alleanza è nuova non solo nel tempo ma anche nell’indole. Essa non sarà la semplice ripetizione dell’alleanza sinaitica, ma poggerà su nuovi e diversi presupposti, che il profeta si premura di descrivere. Le caratteristiche della nuova alleanza sono quattro, di cui le prime tre sono positive, nel senso che si verifica positivamente una realtà, la quarta invece è negativa, nel senso che un’altra realtà invece è eliminata. La quarta caratteristica, quella negativa, appunto per la sua caratteristica negativa, si intende meglio come la condizione previa perché le tre positive precedenti possano realizzarsi.


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Questa quarta caratteristica è la remissione dei peccati. La sua necessità previa è evidente. Dio non potrà agire in favore del suo popolo finché esiste il peccato che lo separa da lui. È necessario prima che esso sia tolto. Ciò potrà avvenire soltanto se Dio lo perdona. Per questo dichiarando la nuova alleanza, Dio annunzia la remissione dei peccati: «poiché sarò propizio alle loro colpe e dei loro peccati non mi ricorderò più». Le tre caratteristiche positive sono: la legge scritta nel cuore, il rapporto di reciproca appartenenza, la diretta conoscenza di Dio. Queste tre caratteristiche sembrano presentare un crescendo tematico. Avendo la legge scritta nel cuore, l’uomo la conoscerà e la osserverà. Osservando la legge, egli realizza il rapporto di reciproca appartenenza contenuto della formula: «io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo». In seguito a questo rapporto, Dio diventa oggetto diretto di conoscenza, al punto che non sono più necessari maestri o mediatori. È utile fermare più specificamente l’attenzione sulla prima clausola: la legge scritta nel cuore. Emerge subito il contrasto con l’antica alleanza sinaitica. Questa prevedeva la legge scritta su tavole di pietra; la nuova alleanza la prevede invece scritta nel cuore. Il fatto che la legge era scritta su tavole di pietra, significa che questa era scolpita in maniera indelebile. Le tavole potevano essere rotte, ma la legge non poteva essere cancellata. Essa, più che scritta, era scolpita su quelle tavole. Benché incancellabile, la legge sinaitica era e restava esterna all’uomo. Questo, alla luce della nuova alleanza, sembra costituire il suo grande limite, al punto da essere inosservata. Conosciamo infatti la dinamica del cuore umano, istintivamente portato a trasgredire tutto ciò che gli viene imposto dall’esterno. Come dirà Paolo nella lettera ai Romani, la legge esterna non solo non incoraggiava l’uomo alla sua osservanza, ma addirittura determinava la conoscenza del peccato (Rm 3,20). Proibendo, la legge faceva conoscere che esiste la possibilità della sua trasgressione e l’uomo finisce così per desiderare ciò che è proibito. Al contrario, scritta nel cuore umano, essa diventa oggetto di tutte le sue potenzialità. Il cuore umano è la sede dell’intelligenza, della volontà e degli affetti. Avendo la legge scritta nel suo cuore, l’uomo la conosce, la


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ama, la vuole, desidera osservarla. In certo senso, mediante linteriorizzazione della legge, anche il cuore umano sarà trasformato. Emergono però tre problemi: qual è questa legge scritta sul cuore umano? Quando essa sarà scritta? Come essa sarà iscritta? A queste domande probabilmente il profeta non sa dare alcuna risposta. Forse a riguardo della legge pensa a quella sinaitica, al decalogo, di cui richiama alcuni comandamenti nel c 7. Si può però obiettare che difficilmente delle norme giuridiche, fossero anche date da Dio, quali i comandamenti, possono essere scritte nel cuore umano ed essere oggetto della sua volontà e dei suoi affetti. Il cuore umano porta dentro di sé, desidera ed ama soltanto una persona. Tuttavia il profeta prevede, nella nuova alleanza, un rapporto strettissimo ed indissolubile tra Dio e il suo popolo. In 32,40, con diverso linguaggio, Geremia esprime questa stessa realtà. Egli scrive da parte di Dio: «porrò nel loro cuore il mio timore e da me più non si allontaneranno». Per “timore di Dio” qui non si intende certo la paura, ma un senso di profonda adesione a lui, per cui Dio è al centro dei desideri e degli affetti. Nel testo di 32,40 il profeta lascia intuire che nel cuore entrerà la stessa persona di Dio; sarà lui l’oggetto dei desideri e degli affetti, il popolo aderirà a lui con tutta l’anima e troverà gioia nell’osservanza dei suoi comandamenti. Dio stesso così decide di entrare nel cuore del suo popolo e questi da lui non si allontanerà. Circa cinquant’anni dopo, in terra di esilio, un altro profeta, Ezechiele, dopo la caduta di Gerusalemme, annunzia la salvezza che Dio opererà in favore del suo popolo. Nel c 36 Dio si lamenta contro il suo popolo perché a causa di esso il suo santo Nome è bestemmiato tra le genti. Queste vedono il suo popolo in esilio e concludono che il tanto decantato Dio Jahvè non è poi così grande come si diceva. Se il suo popolo è in esilio, vuol dire che il suo Dio non ha voluto o, forse, non ha potuto salvarlo dalla potenza dei babilonesi Per questo Dio decide di santificare il suo santo Nome, mostrando a tutte le genti la sua potenza, precisamente liberando il suo popolo dall’esilio e richiamandolo in patria. Emerge però un problema. Dio non può riportare così semplicemente il popolo in patria. Se poi questo torna a peccare, Egli sarà costretto ancora una volta a cacciarlo dalla terra. Egli invece deve riportare in patria un


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popolo che non pecca. Ma il peccato nasce dal cuore umano e il popolo peccherà sempre finché rimane in lui il cuore cattivo che si ritrova. Si richiede allora un cambiamento radicale del cuore. Per questo, in 18,31, Dio esorta gli israeliti a formarsi un cuore nuovo ed uno spirito nuovo. La trasformazione e il rinnovamento del cuore sono però delle realtà che superano ogni capacità umana. L’uomo non potrà mai cambiare il suo cuore se Dio stesso non glielo cambia. Proprio questa allora sarà l’opera fondamentale di Dio e il profeta, in 36,26, lo annunzia: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo». Ciò implica un’opera di sostituzione: il cuore vecchio sarà completamente tolto e sostituito dal cuore nuovo. Per questo, subito dopo, il profeta continua: «toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne». Il cuore di pietra è innaturale nell’uomo fatto di carne. Simile cuore è incapace di battere, di desiderare il bene, di amare; è privo di qualsiasi sensibilità. Il cuore di carne invece è quello consono all’uomo e questo esso sarà capace di desideri e di affetti. Dio opererà simile trasformazione mediante il suo Spirito. Il profeta infatti continua: «porrò il mio Spirito dentro di voi e farò sì che camminiate nei miei comandamenti». Rinnovato nel cuore, il popolo sarà capace di amare Dio e di aderire profondamente a Lui e ai suoi comandamenti. In questo modo Dio ha creato un popolo che non pecca, e allora potrà riportarlo nella sua terra. Il profeta Ezechiele in parte si ricollega a Geremia ma in parte anche lo supera. Si ricollega in quanto riprende la tematica del cuore; lo supera in quanto non parla più di legge scritta nel cuore, bensì della stessa sostituzione del cuore. In questo senso Ezechiele si rivela più radicale di Geremia. Nemmeno Ezechiele rivela quando avverrà tale sostituzione. Indica però il modo come essa si verificherà, mediante lo Spirito. Continua infatti Dio per mezzo del profeta: «porrò il mio Spirito dentro di voi». Sarà perciò lo Spirito ad operare tale profonda trasformazione. Direttamente però il profeta ricollega il dono dello Spirito alla capacità di osservare i comandamenti; il testo continua infatti: «e farò sì che camminiate nei miei precetti». Nel seguente c 37, nella visione delle ossa aride, la loro rivitalizzazione è attribuita ancora allo Spirito che il profeta deve invocare perché entri in esse. Triplice allora sarà l’opera dello Spirito: operare il cambiamento del


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cuore da cuore di pietra in cuore di carne, rendere capaci di osservare i comandamenti di Dio, dar vita alle ossa aride. Emerge così tutto un cammino di profonda trasformazione interiore dell’uomo operata dallo Spirito. Avendo un cuore nuovo, l’uomo sarà capace e desidererà osservare i comandamenti di Dio; osservando i comandamenti, egli potrà vivere e Dio potrà ricondurlo in patria. Con questa trasformazione interiore, Dio ricondurrà in patria un popolo che veramente non pecca, osserva i suoi comandamenti e da lui non si separerà più. Il profeta Ezechiele, come abbiamo già detto, progredisce oltre Geremia. Il NT poi rileggerà insieme i due profeti e ne farà una sintesi. Sulla scia di Geremia, annunzia che Dio scriverà la sua legge nel cuore dell’uomo; sulla scia di Ezechiele però dichiara che tale legge sarà iscritta dallo Spirito, o anche sarà lo Spirito stesso, effuso nel cuore umano, ad essere la legge nuova del cristiano, guidandolo non più dall’esterno con precetti e norme, ma spingendolo e orientandolo dall’interno che deve invocare come Padre.

3. L’ALLEANZA NEL NUOVO TESTAMENTO Il NT eredita le tradizioni veterotestamentarie dell’alleanza, rileggendole però alla luce dei nuovi eventi di Cristo. Gesù stesso, nella sua cena pasquale, dichiara inaugurata la nuova alleanza del suo sangue. In ciò egli, mettendo insieme ambedue le tradizioni, si ricollega sia all’antica alleanza sinaitica di Es 24 sia anche alla nuova alleanza preannunziata da Geremia. L’allusione alla nuova alleanza di Geremia appare più chiara nella tradizione lucano paolina. Sia Luca infatti, nell’istituzione del calice (Lc 22,20), sia anche Paolo, nel contesto della sua rievocazione della cena del Signore (1Cor 11,25), parlano esplicitamente della “nuova alleanza”. Matteo e Marco (Mt 26,28; Mc 14,24) invece parlano soltanto di “alleanza”, ma essi dichiarano che il sangue di Gesù, che è il sangue dell’alleanza, è versato per la remissione dei peccati. La remissione dei peccati era appunto prevista, come condizione previa, dall’annunzio di Geremia. Annunziando la nuova alleanza, il profeta non aveva previsto che essa sarebbe stata stipulata mediante un sacrificio, come quella sinaitica, anzi il testo di Geremia lascerebbe supporre il contrario, che cioè il


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sacrificio è escluso. Il NT invece, ricollegandosi sia a Geremia sia anche all’esodo, dichiara che la nuova alleanza, così come sarà ampiamente sviluppato dalla lettera agli Ebrei, è stipulata mediante un sacrificio, non più però quello di animali bensì quello di Gesù. Oltre la remissione dei peccati, ripetutamente sottolineata anche dalla prima lettera di Giovanni, il NT riconosce che anche la legge di Dio, così come Geremia aveva preannunziato, ha raggiunto il cuore umano. Notiamo anzitutto un cambiamento della stessa legge: essa non è più il decalogo, bensì la sua pienezza e il suo compimento, cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo (Mt 22,37-39; Mc 12,30-33; Lc 10,27). Ma soprattutto la legge nuova non è più una norma giuridicamente formulata bensì è una persona, la persona stessa di Gesù o del Padre. Nel contesto del discorso della montagna, in Mt 5-7, ripetutamente Gesù propone il Padre come modello di comportamento. Bisogna persino amare i nemici perché così fa il Padre. Il suo modo di agire diventa legge per i discepoli di Gesù. Nel vangelo di Giovanni poi Gesù esorta all’amore vicendevole che propone anche come suo comandamento. La vera legge però non è la formula: «amatevi gli uni gli altri (Gv 15,17)», bensì l’evento stesso dell’amore di Gesù: «come io ho amato voi». La stessa prospettiva emerge nella prima lettera di Giovanni: i discepoli dovranno amarsi perché Dio ha amato per primo (1Gv 4,7ss). L’amore vicendevole allora non è il vero comandamento ma la risposta al vero comandamento che consiste nell’evento dell’amore di Gesù o del Padre. Questa legge nuova è entrata veramente nel cuore umano. In Rm 5,5 Paolo scrive: «l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato». Non si tratta di un amore vago e generico ma di quello specifico e concreto che storicamente si è manifestato nell’evento della morte di Gesù (Rm 5,8). Ancora Paolo, in Gal 4,6, ci informa che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio che grida: Abbà, o Padre. Ma in Rm 8,2ss poi l’apostolo stabilisce una contrapposizione tra «la legge dello Spirito della vita» e «la legge del peccato e della morte». Alla legge esterna, quella sinaitica, che provoca il peccato che conduce alla morte, è subentrata la legge (Ger 31,33), che è lo Spirito (Ez 36,26-27) che dona la vita (Ez 37,111). Ancora in Ef 3,17 l’apostolo esorta a che «Cristo abiti mediante la


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fede nei vostri cuori». In questi testi la menzione del cuore richiama l’oracolo di Geremia. La legge così ha raggiunto veramente il cuore umano. Non si tratta più di una norma bensì di una persona: si tratta dello stesso amore di Dio, cioè di Dio che ama e in quanto ama, si tratta della stessa persona di Gesù che ha manifestato l’amore di Dio nella storia umana, si tratta dello Spirito Santo, che ha effuso l’amore di Dio che si è manifestato in Cristo. L’alleanza che Dio offre agli uomini, fin da quella sinaitica e, prima ancora, da quella stipulata con Abramo e con gli altri patriarchi, ma, più a monte, anche fin da quella stipulata con Adamo, è una tematica che, in maniera trasversale, ripercorre tutta la Scrittura, fino all’alleanza in Cristo. Le prime erano soltanto prefigurazioni ed annunzi progressivi. La vera alleanza invece è quella stipulata con la chiesa e anche con tutti gli uomini nel sangue di Cristo. Quest’alleanza, oltre che la vera, è anche la definitiva: dopo di essa infatti non c’è da attendersi altra, sia perché in essa si ottiene pienamente la salvezza, nel suo duplice aspetto di remissione dei peccati e di accesso a Dio, sia perché un mediatore superiore a Cristo che stipuli un’altra alleanza è semplicemente impensabile. Questa nuova e definitiva alleanza è destinata in linea di principio, a tutti gli uomini; essa li raggiunge nell’intimo del loro cuore, di modo che essi, spinti interiormente dalla potenza dell’amore di Dio nello Spirito, si orientino sinceramente a Cristo nella chiesa e, con lui, possano raggiungere il Padre, ottenendo così quella pienezza di vita eterna per la quale Gesù è venuto nel mondo ed ha donato se stesso.



MAGIA, SUPERSTIZIONE E CRISTIANESIMO. PUNTO DI VISTA DOGMATICO

MAURIZIO ALIOTTA*

INTRODUZIONE Questo contributo ha un limite preciso: considerare la magia alla luce della fede cristiana. Altri vedranno le implicanze antropologiche e sociologiche della magia, la potranno considerare anche da un punto di vista psicologico. Il contributo del teologo dogmatico è semplicemente quello di cogliere il senso dell’aspirazione dell’uomo di risolvere i suoi bisogni o i suoi desideri ricorrendo alla magia e presentare quell’altra esperienza di conoscenza di se stessi e della realtà che si realizza nella relazione con Dio. È opportuno tuttavia indicare alcune coordinate fondamentali entro le quali il contributo teologico si delinea. Innanzi tutto l’explicatio terminorum, per magia intendo il tentativo dell’uomo di conoscere le forze e le energie della natura, al fine di utilizzarle a proprio vantaggio1. Si tratta

*

Ordinario di Antropologia soprannaturale nello Studio Teologico S. Paolo di

Catania. 1 «La magia così come la conoscenza e la religione, è uno dei modi in cui si determina storicamente presso i diversi popoli della terra la concezione dell’uomo e dei suoi rapporti con la realtà, naturale e sovrannaturale. In ogni società è presente un complesso di conoscenze, un “corpus” ideologico che serve a giustificare e a indirizzare il comportamento del gruppo, a livello individuale e collettivo. La magia, nel suo significato più ampio, è l’arte di dominare le forze misteriose della natura e della vita, dovute all’azione di spiriti individuale e delle cose» (P. GARAGUSO, Magia, in Dizionario di sociologia, a cura di F. Demarchi e A. Ellena, Cinisello Balsamo 1976, 704). Su magia ed esoterismo, nel loro rapporto col cristianesimo, ampia informazione bibliografica nell’introduzione di P. A. GRAMAGLIA, Esoterismo, magia e cristianesimo, Casale Monferrato 1991, 5-25.


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di una definizione simile a quella che alcuni hanno dato, oggi, di scienza2. Rispetto alla scienza però, la magia, abbraccia un campo più vasto, perché giunge al divino e, in ciò, è affine alla religione3. Pretende, infatti, di piegare al volere dell’uomo anche la sfera del divino. Si tratta di un divino, comunque, non necessariamente trascendente, ma sempre riconducibile in qualche modo alla sfera antropologica. Ciò si spiega pensando all’origine del ricorso alla magia: i bisogni che scaturiscono dalla ricerca del benessere/salute fisica e psichica del singolo individuo. A questi bisogni anche la scienza cerca di rispondere. Inoltre scienza e magia in comune hanno pure un risvolto strumentale economico. Nell’accezione moderna di scienza, comunque, è contenuta una differenza fondamentale con la magia. Le asserzioni scientifiche sono tali perché si possono sottoporre ad una verifica empirica, in termini popperiani ad una falsificazione4. La magia, invece, è per definizione non sottoponibile ad una verificazione empirica, nel senso di una “falsificazione” dei suoi enunciati. Pretende, infatti, di operare nell’ambito del simbolico e dell’esoterico – escludendo per ciò stesso una verifica di tipo sperimentale, pena la perdita di credibilità e delle condizioni fondamentali per essere efficace. La plausibilità della magia si colloca sul piano dell’efficacia in relazione ai risultati. In questo c’è un’affinità con la scienza, ma nella magia le condizioni esterne sono determinanti per la sua stessa riuscita. 2

«Obiettivo e risultato della ricerca scientifica è ottenere la comprensione e il controllo di una qualche parte dell’universo» (A. ROSEMBLUTH – W. WIENER, Il ruolo dei modelli nella scienza, in La filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale, a cura di V. Somenzi e R. Cordeschi, Torino 1986, 76). 3 «Anche se la religione e la magia costituiscono due modi profondamente diversi di orientare il pensiero e il comportamento del gruppo, possono coesistere in un medesimo rituale o in una medesima istituzione. Esiste quindi una continuità e non una contrapposizione fra i due ordini di fenomeni. La loro distinzione va perciò considerata da un punto di vista dinamico, essendo entrambi modi diversi di intervenire sul soprannaturale. Ciò che contraddistingue la magia, anche nei confronti della religione, è la natura dell’azione alla quale dà luogo. L’azione magica ha effetti automatici e diretti, senza il ricorso a forze sovrannaturali o divine intermedie» (P. GARAGUSO, Magia, cit.). Non da ultima, la differenza sta pure nella natura “individualista” dell’azione magica, diversamente dall’esperienza religiosa (cristiana in particolare); sulla natura individuale della magia, cfr E. DURKHEIM, H. HUBERT, M. MAMS, L’origine dei poteri magici, Torino 1965). 4 La concezione di Popper è così rigorosa e coerente che vengono escluse dall’ambito scientifico tutte le asserzioni del campo matematico, psicologico, metafisico e teologico.


Punto di vista dogmatico

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Altro elemento di differenziazione è il riconoscimento della scienza del suo limite. Sostanzialmente la scienza è “umile”, perché riconosce i suoi limiti e la sua responsabilità5. La magia si basa su una pretesa onnipotenza delle azioni che la costituiscono. Gli elementi accessori del mondo magico, inoltre, sono riconducibili alla superstizione, da cui rifugge ogni asserzione scientifica.

1. LE MOTIVAZIONI DEL RICORSO ALLA MAGIA Il ricorso alla magia esprime sempre alcuni bisogni radicali dell’uomo (salute, lavoro, amore) che nessuna condizione può reprimere. La risposta ad essi ricorrendo alla magia (con le forme di superstizione che ad essa sono collegate) si può sintetizzare in una formula: “La ricerca di una via si salvezza, individuata e realizzata dall’uomo stesso”. Che si tratti della ricerca di una via di salvezza è dimostrato dal fatto che il ricorso alla magia, nelle sue varie forme, è dettato da un bisogno riconducibile ai tre ambiti su menzionati dell’amore, della salute, del lavoro. Si cerca cioè di rimuovere gli ostacoli che impediscono o compromettono la realizzazione della propria esistenza in ciò che l’esperienza comune ritiene essenziale: amore, salute, lavoro. Se la magia postula un ricorso al divino, o almeno a forze trascendenti, ciò avviene fuori dall’orizzonte della gratuità, tipico della rivelazione biblica. Fuori dalla prospettiva della gratuità della salvezza, di fronte a un mondo che lo schiaccia e degli esseri che gli incutono paura o che desidera dominare, l’uomo cerca di acquisire un potere che oltrepassi le sue sole forze e che lo renda padrone della divinità e perciò stesso del proprio destino. Il desiderio di dominare l’ignoto è da sempre radicato nel cuore dell’uomo e porta a pratiche sostanzialmente simili a se stesse pur nelle diverse epoche. Una prima differenza tra magia, superstizione e fede cristiana sta dunque nella dimensione della gratuità.

5 Sui limiti e la responsabilità della scienza, cfr P. B. MEDAWAR, I limiti della scienza, Torino 1985.


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Secondo la nota definizione di R. Bultmann, l’uomo che crede è “a mani vuote”, come “sospeso in aria”6. Eppure è nella natura della fede biblica il poggiare sicuri su di un solido fondamento7, che è Dio stesso. L’uomo debole si appoggia su Dio forte: la salvezza dell’uomo si fonda sulla forza di Dio8. Il “poggiare su Dio” rimanda proprio alla debolezza dell’uomo e alla forza di Dio non come realtà antitetiche, concorrenziali, piuttosto allude al rapporto personale dell’uomo con Dio. Non si tratta di catturare la forza di Dio per piegarla al nostro volere oppure per riempirci della sua “energia”. Il “poggiare su Dio” rimanda alla fiducia dell’uomo in Lui. Figura tipica di questa fiducia è Abramo, che «credette a YHWH che glielo ascrisse a giustizia» (Gn 15, 6). La fede di Abramo è, innanzi tutto, fiducia nella parola divina e, poi, certezza del suo adempimento. Abramo è giusto per questa sua fede; essere giusto significa che assume la “giusta” posizione di fronte alla parola divina. Tipico della fede biblica è anche il suo carattere dinamico. Negli avvenimenti, infatti, si sperimenta la presenza di Dio, il Dio liberatore che interviene nella storia del popolo che ha eletto a “suo popolo”. Non si da presenza liberatrice di Dio all’interno di un quadro metafisico, garanzia di certezze assolute; si tratta piuttosto della sicurezza del bambino portato per mano dai genitori e, per questo, la fede biblica è così vicina alla speranza. Ancora, la fede biblica è un “vedere”, là dove altri non vedono. In altri termini vi è come una forma di conoscenza che deriva dalla fede che fa “vedere” la realtà che altrimenti non si resterebbe ignota. Non è, di per sé, una conoscenza finalizzata al controllo delle cose, semmai al dominio di sé. Infatti si tramuta in consapevolezza del proprio limite, entro l’orizzonte 6 «L’uomo che vuol credere in Dio […] deve sapere di non avere in mano nulla su cui poter appoggiarsi per credere, deve avere la consapevolezza di trovarsi come librato in aria, senza poter esigere alcuna prova che gli attesti la verità della parola da cui è interpellato. La sicurezza la trova soltanto chi abdica ad ogni sicurezza» (R. BULTMANN, Zum Problem der Entmythologisierung, in H. W. BARTSCH, Kerygma und Mythos, 2, Hambourg 1952, 207). 7 Dalla radice aman, che significa “essere saldo, fermo, sicuro”, deriva la forma verbale hiph. heemin, che ordinariamente è tradotta con “aver fede”, “credere”. Aver fede in YHWH è “stare saldi in Lui” (heemin le [o be] YHWH, Gen 15,6; Es 14,31; Nm 14,11; 20,12; Dt 1,32; 9,23; 2Re 17,14; Is 43,10; Gn 35; Sal 78,22; 106,12.24; 2Cr 20,20). 8 Is 12,2; 30,8-15; 45,14; Ab 2,4; 3,12; Sal 28.


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più ampio della realtà. La soggettività credente non cerca di superare il limite di cui è consapevole mediante l’onnipotenza dominatrice, ma mediante la relazione di obbedienza che esprime la fede e l’amore di Dio. La tradizione ebraico-cristiana ha certo conosciuto al suo stesso interno tentativi di concepire la possibilità di captare la forza di Dio per conseguire il fine dell’unione piena con Lui, sviluppando una teoria delle tecniche di captazione del divino ricorrendo alle pratiche magiche. Nella Cabbalà abbiamo un esempio della concezione dell’inabitazione del divino nel mistico attraverso pratiche magiche: «Il fondamento delle miswot e delle buone azioni che l’uomo compie in questo mondo è quello di predisporre la sua anima e di ordinare le grandi e buone imprese nell’alto, in modo da attrarre su di sé l’impulso della luce dell’emanazione divina»9. Questa concezione suppone la convinzione che l’uomo sia capace di captare l’influsso divino su di sé. In seno al giudaismo l’uso magico della pratica della captazione divina ha un’antica tradizione. Secondo M. Idel si può prendere in seria considerazione «la possibilità che il servizio al Tempio avesse come fine di indurre la presenza della Shekinà nel Sancta sanctorum; in tal modo anche il servizio può essere considerato un’attività teurgica»10. Vi è una forma specifica di captazione della Shekinà che riveste per noi un particolare interesse: «Secondo alcuni testi, la struttura non sarebbe un edificio, ma il corpo umano, statua vivente nella quale prenderebbe dimora la Shekinà; questa concezione è attestata in antichi testi giudaici»11. La Cabbalà magica considerò l’uomo dotato di poteri superiori che gli consentivano di dominare la natura, gli angeli, i demoni e anche Dio12. L’interesse sta nel fatto che queste testimonianze confermano che talvolta c’è un confine non ben definito tra la religione e la superstizione magica. Non deve meravigliare, perciò, il ricorso della magia alla simbologia cristiana o religiosa in genere. Chi pratica la magia e l’occultismo, in verità, utilizza la dimensione religiosa naturale dell’uomo per realizzare i propri fini, che in genere sono di natura economica. Non si può tacere, a questo 9 MOSHÈ DE LEON, Sheqel ha-qodesh, 70, cit. in M. IDEL, Cabbalà. Nuove prospettive, Firenze 1996, 161. 10 M. IDEL, Cabbalà, cit., 161. 11 L.c. 12 Ibid., 242.


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proposito, l’ambiguità della prassi pastorale che può favorire la separazione dei sacramenti e dei riti dalla fede, legandoli contemporaneamente ad una retribuzione per il ministro che li “amministra”; in tal modo si favorisce una mentalità della commercializzazione del sacro. Un posto particolare occupa la ritualità nell’azione magica, anzi ne è il contorno indispensabile, sia per creare l’ambiente idoneo alla credulità di chi ricorre alla magia sia per rispondere al bisogno di affermare la capacità dell’uomo di manipolare — precisamente attraverso la ritualità — le forze naturali e divine. In che misura la ritualità dell’azione magica e quella liturgica, propria del cristianesimo, siano vicine o distanti si può vedere se consideriamo la natura e il significato della ritualità liturgica cristiana. L’ambito celebrativo che consideriamo è quello dei sacramenti, che sovente vengono vissuti quasi come delle azioni magiche. Ora, vi è una diversità sostanziale tra il rito sacramentale e un’azione magica: questa è posta tutta nella logica di causa ed effetto, l’altra no. Secondo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino, infatti, il sacramentum est in genere signi. L’importanza della formula è evidente se si considera la sua genesi nel pensiero dell’autore. Si trova, infatti, nella Summa e rappresenta una correzione di quanto Tommaso aveva in precedenza espresso nel Commento alle Sentenze, dove il sacramento era posto in genere causae et signi13. È una correzione perché il cambiamento è intenzionale: Tommaso, infatti, evidenzia che «la causalità mai è un carattere costitutivo di una essenza» (H. F. Dondaine) e perciò può scartarla dall’essenza dei sacramenti. Lo può fare tanto più facilmente perché simultaneamente pone come primo dei loro effetti la santificazione: signum rei sacrae in quantum est sanctificans homines14. Il cambiamento indica la coscienza che Tommaso ha dei sacramenti come di una causa sui generis: la causalità sacramentale non è più per lui semplicemente dispositiva, ma perfettiva: i sacramenti esercitano il loro effetto proprio, ma totalmente subordinati a Dio, che è la causa principale, sono quindi compresi come strumenti15. Il sacramento indica l’espressione visibile del mistero di Dio in Cristo. 13

In IV Sent. I, I, I; St. III, 60, 1. III, 60, 2. 15 III, 62, 1. 14


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Il Concilio Vaticano II, col movimento teologico che l’ha preceduto, ha posto l’accento sui sacramenti come segni più che come cause o mezzi di salvezza, senza tuttavia rinnegare quest’ultima caratteristica. Tra le ricadute pastorali positive di questo fatto vi è pure la più chiara distinzione tra i sacramenti e le azioni magiche, perché si supera la tendenza cosificante, puntualista e individualistica della liturgia e della teoria sacramentaria che vi stava dietro e che poteva indurre a confondere i “segni” sacramentali con azioni magiche caratterizzate da un automatismo soteriologico. Strettamente legato alla ritualità sta il problema del “linguaggio” efficace per l’azione magica e la celebrazione sacramentale. I lavori di etnologia sulla ritualità hanno mostrato che vi è un “gioco linguistico” specifico, sia nella ritualità dei sacramenti sia nella ritualità della magia, proveniente da un fondo arcaico proprio. La linguistica, da parte sua, condusse verso una presa di coscienza della varietà estrema di atti di linguaggio (o quasi linguaggio, intendendo con ciò le modalità non verbali di espressione che sono i gesti e le posture) nella liturgia, della distinzione tra “discorso” e “racconto”, … La teologia in genere, e la sacramentaria in particolare, hanno potuto beneficiare di queste ricerche etnologiche e linguistiche, oltre che di quelle sociologiche e psicologiche (soprattutto, ovviamente, hanno beneficiato delle problematiche che hanno suscitato quelle ricerche). Si è potuti giungere così alla conclusione che le leggi della ritualità16 applicate ai sacramenti cristiani mettono in luce la loro natura di esperienze di azioni che nascono dalla libera iniziativa di Dio e dalla libera risposta dell’uomo. Rispetto ad altra esperienze similari e in specie proprio la magia, i sacramenti non si giustificano a partire da una antropologia, quale che sia. Gli stessi scolastici l’avevano compreso, parlando solamente di “convenienza” dei sacramenti in relazione alla “natura umana”. Essi non potevano giustificarsi che per un riferimento, tutto contingente, alle Scritture e dunque, in fine, alla loro “istituzione” da parte di Cristo, sullo sfondo della tradizione giudaica. Questo significa che il loro presupposto essenziale è la fede. Infatti tra quello che può dire lo storico circa, per es., il rapporto tra il Gesù prepasquale e il battesimo, tra il battesimo di Giovanni e quello di 16 Cfr L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Torino-Leumann 1990.


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Gesù e il riconoscimento che si tratti di un sacramento, vi è di mezzo la risurrezione, dunque necessariamente la fede. Ciò che si può scoprire con l’esegesi riguardo all’annuncio che Gesù fa sul Regno che sta per venire attraverso di lui, non può essere riconosciuto come “sacramento”, cioè a dire come avvenimento escatologico di questo stesso Regno ormai inaugurato in lui, se non mediante una ermeneutica propriamente cristiana che deriva dalla Chiesa come comunità confessante. In altri termini essi si collocano interamente entro lo spazio del dono dall’alto e, quindi, della gratuità Non a caso la teologia sacramentaria afferma che i sacramenti cristiani sono innanzi tutto parola, Parola-evento, e in essi il linguaggio rituale non diventa sacramento se non è convertito da questa Parola, resa viva nella memoria della Chiesa dallo spirito Santo. In questa prospettiva, la soggettività credente, consapevole del limite creaturale non cerca di superarlo, tentando di possedere l’onnipotenza dominatrice, che si ottiene incapsulando la divinità nel tempio o nel corpo umano. Cerca, invece, l’incontro con Dio nell’esperienza vivente, nella vita e nella storia personale e della comunità.

2. MAGIA, FEDE E SALVEZZA ALLA LUCE DELLA SCRITTURA La logica della fede è quella della gratuità della relazione di Dio con noi. Questa relazione non nasce dal desiderio dell’uomo, da un bisogno dell’uomo da soddisfare, ma solo dalla libera e gratuita iniziativa di Dio, che si rivela nella storia del popolo di Israele. Certo, l’azione gratuita di Dio s’incontra con la libertà dell’uomo. Come ha ricordato A. J. Heschel, «vi è la parola che Dio ha rivoltò all’uomo, ma vi è anche quella che l’uomo ha rivolto a lui e su di lui; non solo la rivelazione di Dio ma anche l’intuizione dell’uomo»17. Per comprendere l’incontro di Dio con l’uomo, è la logica della fede, non si deve seguire un procedimento filosofico o scientifico. Non si devono leggere i fatti a partire dalla legge della causalità, secondo cui all’interno di un tutto [universale] immutabile si esaminano due fatti mutevoli [causa ed effetto] che spiegano il nascere di un processo. Si tratta di comprendere un’esperienza, un evento che irrompe nella storia, magari 17

A. J. HESCHEL, Dio alla ricerca dell’uomo, Milano 1969, 44.


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generando una rottura, segnandone in ogni caso una svolta. Non si persegue, in altri termini, una “conoscenza” dei fatti; una conoscenza che di per sé libera o salva; non una conoscenza di pochi destinatari. Siamo invece investiti dal “dono”, il dono dello Spirito che ci viene da Dio in Cristo. La logica della fede è la logica del dono. Pensare di potersi salvare con le proprie forze oppure salvarsi sì per opera di Dio, ma col concorso delle proprie forze (per esempio pensando di conquistarsi la salvezza compiendo alcune opere da mostrare a Dio per averne una ricompensa, cioè la salvezza) significa negare che la salvezza sia opera esclusiva di Dio, della sua misericordia che si è manifestata per noi in un evento storico preciso, la nascita e la morte di Gesù di Nazaret. Questo motivo, però, non è solo una riflessione teologica o una verità dottrinale, è quanto scaturisce dalla Scrittura. Dalla Bibbia, infatti, ricaviamo la condanna più ferma della magia o di ogni forma di altra forza superstiziosa simile. Le varie superstizioni e le numerose pratiche magiche vengono considerate, nella Scrittura, una forma di idolatria, perché mettono le creature al posto del Creatore. Ora, noi sappiamo che solo Dio è reale, mentre gli idoli non esistono, se non nella mente degli uomini, come dice il salmista: “gli idoli non solo nulla” (Sal 81, 10). Ogni forma di idolatria, perciò, come le pratiche magiche, significa legarsi al nulla. È la peggiore sorta di schiavitù, perché si fonda sulla propria convinzione, su qualcosa che non esiste, ma che noi rendiamo reale. In questa situazione è facile, per chiunque assoggettare gli altri e imporre la propria volontà. L’apostolo Paolo, poi, associa l’idolatria al culto dei demoni. Per lui sacrificare agli idoli significa sacrificare ai demoni (1 Cor 10, 20s). Si può giungere così ad un legame radicale col male. In maniera generale, egli denuncia il peccato degli uomini che, invece di riconoscere il creatore attraverso la sua creazione, hanno barattato la gloria di Dio incorruttibile con una rappresentazione delle sue creature; di qui il loro decadimento in tutti i campi (Rm 1,18-32). Oltre alle pratiche superstiziose sono vere forme di idolatria il denaro (Mt 4,24), il vino (Tt 2,3), la cupidigia, che è volontà di dominare il prossimo (Col 3,5; Ef 5,5), la potenza politica (Ap13,8), il piacere, l’invidia e l’odio (Rm 6,19; Tt 3,3). Dietro questi vizi si cela il disconoscimento del Dio unico che, solo, merita la nostra fiducia. Inoltre ogni sorta di


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schiavitù e, in modo specifico, la schiavitù del peccato, contraddice il fondamentale messaggio di liberazione di Gesù Cristo. Restano i bisogni fondamentali dell’uomo, che va alla ricerca di risposte. L’uomo creato libero e padrone di scegliere Dio o rifiutarlo, da Dio riceve pure la responsabilità di fronte al mondo. Non ha bisogno quindi di ricorrere alla magia, questa pratica ibrida che cerca di fondere artificiosamente religione e scienza esoterica, ma non riesce che a parodiare la natura e a corrompere gli effetti della fede.


MAGIA, SUPERSTIZIONE E CRISTIANESIMO. INDICAZIONI DEL MAGISTERO E DELLA LITURGIA DEL VATICANO II

GIANBATTISTA RAPISARDA*

INTRODUZIONE In questi ultimi decenni, nell’affrontare i problemi quotidiani della vita, è sempre più diffuso il fenomeno del ricorso a pratiche di magia o di superstizione. È urgente, pertanto, che i credenti cristiani siano illuminati sui concetti di culto, liturgia, benedizione, esorcismo, per superare il rischio incombente, e oggi ancor più ricorrente, di ridurre il culto cristiano e i sacramenti — con il ricco, autentico e tradizionale patrimonio di segni, valori e teologia — a livello di “surrogati” della liturgia, con gradazioni sempre più devianti e devastanti: dal ritualismo alla superstizione, dalla magia al satanismo. La riforma liturgica del Vaticano II — con i suoi libri liturgici —, l’insegnamento della Chiesa — con il suo Catechismo — e i documenti pastorali dei vescovi italiani, già a partire dagli anni ’70 del sec. XX appena concluso, hanno chiaramente dato un impulso più solido e suggerito un equilibrio più visibile nel rapporto necessario tra evangelizzazione, Parola di Dio, fede adulta e Liturgia, almeno a livello teorico di pronunciamenti ufficiali della Chiesa. Sul tema “magia, superstizione e cristianesimo”, oggetto del nostro studio ci sembra opportuno conoscere sotto il profilo liturgico-pastorale:

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Docente di Liturgia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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I. Le Fonti del Magistero e gli Studi più recenti. II. Le indicazioni di tre documenti liturgici che interessano particolarmente il problema pastorale della magia e della superstizione e che paradossalmente sono stati meno studiati e divulgati dopo la loro pubblicazione, anzi il secondo piuttosto boicottato, cioè: — 1. Il De Benedictionibus (1984); ed. it. Benedizionale (1992). — 2. Il De exorcismis et supplicationibus quibusdam (1998); ed. it. Rito degli esorcismi e preghiere per circostanze particolari (2001); — 3. Il Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti (2002). III. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992). IV. Le indicazioni teologico - pastorali dei Vescovi italiani che con sapienza pastorale hanno scritto nella presentazione delle edizioni italiane dei suddetti libri liturgici. V. Le problematiche e le proposte pastorali.

I. FONTI E STUDI a. Fonti RITUALE ROMANUM, De benedictionibus, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, 1985; ed. it.: CEI, Benedizionale, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1992. RITUALE ROMANUM, De exorcismis et supplicationibus quibusdam, Typis Polyglottis Vaticanis 1998; ed. it.: CEI, Rito degli esorcismi e preghiere per circostanze particolari, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2001. CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, Libreria Editrice Vaticana, Roma 1993; Parte II: La celebrazione del mistero cristiano; Cap. IV: Le altre celebrazioni liturgiche; art. 1: I sacramentali, nn.1667- 1679. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2002.


Indicazioni del Magistero e della Liturgia del Vaticano II

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b. Studi RIVISTA LITURGICA 73/2, 1986: numero dedicato ad una prima lettura dell’editio typica del De Benedictionibus. RIVISTA LITURGICA 81/4, 1994: numero dedicato all’edizione italiana del Benedizionale. RIVISTA DI PASTORALE LITURGICA 24/3, 1986, n. 136: Benedire e benedizione nella prassi ecclesiale; 31/2, 1993, n. 177: Il nuovo benedizionale italiano. AA. VV., Anamnesis. Introduzione storico-teologica alla Liturgia, VII, I sacramentali e le benedizioni, Genova 1989. R. KACZINSKI, Le benedizioni, in AA.VV., La Liturgia della Chiesa. Manuale di scienza liturgica, 9 voll: Celebrazioni sacramentali – III, Leumann 1994, 341-392. J. LOPEZ MARTIN, Le benedizioni, in D. BOROBIO (ed.), La celebrazione della Chiesa, 3 voll: Ritmi e tempi della celebrazione, Leumann 1994, 613-624. D. SARTORE - A. M. TRIACCA - C. CIBIEN (a cura di), Nuovo dizionario di liturgia, Cinisello Balsamo 2001, Voci: M. SODI, Benedizionale e Benedizione, 235-256; A. M. TRIACCA, Esorcismo, 711-735; A. N. TERRIN, Religiosità popolare e liturgia I, Dal punto di vista delle scienze umane; J. CASTELLANO, Religiosità popolare e liturgia II. Dal punto di vista della teologia e della pastorale liturgica, 1595-1626.

II. INDICAZIONI DEI DOCUMENTI LITURGICI I libri liturgici riformati del Vaticano II hanno tenuto presente le tre costanti necessarie per garantire un’autentica liturgia cristiana: — la proclamazione e l’ascolto della Parola di Dio, — la preghiera della Chiesa che lodando intercede per l’umanità intera, — la fede della comunità e del singolo cristiano. È opportuno cogliere le linee biblico-teologico-liturgiche presenti nei tre documenti liturgici, nei loro Praenotanda e nelle proposte celebrative,


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in particolare il concetto di benedizione come viene proposto dalla divina Rivelazione, dall’insegnamento e dalla tradizione della Chiesa. In questa prima parte ci limitiamo solo a fare un’antologia di testi del Magistero per una visione completa e organica dell’insegnamento e della lex orandi della Chiesa, anche se può essere alquanto pesante.

1. Dai Praenotanda del Benedizionale 1.1. La benedizione nella storia della salvezza 1. Origine e fonte di ogni benedizione è Dio, benedetto nei secoli, che è al di sopra di tutte le cose; lui solo è buono e ha fatto bene ogni cosa, per colmare di benedizioni tutte le sue creature, e sempre, anche dopo la caduta dell’uomo, ha continuato a effonderle in segno del suo amore misericordioso. 2. Quando poi venne la pienezza del tempo, il Padre mandò il suo Figlio, e per mezzo di lui, fatto uomo, benedisse di nuovo gli uomini con ogni benedizione spirituale. Così l’antica maledizione si cambiò per noi in benedizione, quando «spuntò il sole di giustizia; Cristo nostro Dio, che tolse la condanna e recò agli uomini la benedizione». 3. Cristo Signore, che, è la massima benedizione del Padre, volle manifestarsi nél Vangelo in atto di benedire i fratelli, specialmente i più piccoli, e di rivolgere al Padre la sua preghiera di benedizione. In ultimo, glorificato dal Padre e asceso al cielo, effuse sui suoi fratelli, acquistati con il suo sangue, il dono del suo Spirito, perché da lui guidati, lodassero e inagnificassero in tutte le cose Dio Padre, lo adorassero, gli rendessero grazie, e nell’esercizio delle opere di misericordia meritassero di venir annoverati tra i benedetti nel regno dei cieli. 4. Per opera dello Spirito Santo, la benedizione di Abramo raggiunge in Cristo il suo pieno compimento, e da lui viene trasmessa ai figli, chiamati a vita nuova «in pienezza di benedizione»; resi così membra del corpo di Cristo, essi hanno il compito di diffondere largamente i frutti dello Spirito, per risanare il mondo con la divina benedizione.


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5. Volgendo lo sguardo alla venuta di Cristo Salvatore, il Padre avèva già confermato, con molteplice effusione di benedizioni, la prima alleanza del suo amore con gli uomini. In questo modo egli preparò il popolo eletto ad accogliere il Redentore e lo rese di giorno in giorno più degno della sua alleanza. E il popolo, camminando per le vie della giustizia, poté con la bocca e con il cuore rendere onore a Dio, divenendo così, nel mondo, segno e sacramento della divina benedizione. 6. A sua volta Dio, dal quale discende ogni benedizioni, già fin d’allora concesse che specialmente i patriarchi, i re, i sacerdoti, i leviti, i genitori innalzassero al suo nome lodi e benedizioni divine agli uomini e alle cose create. Quando Dio o direttamente o per mezzo di altri benedice, sempre viene assicurato il suo aiuto, annunziata la sua grazia, proclamata la sua fedeltà all’alleanza sancita. E quando sono gli uomini a benedire, essi lodano Dio e inneggiano alla sua bontà e misericordia. Dio infatti benedice comunicando e preannunziando la sua bontà. Gli uomini benedicono Dio proclamando le sue lodi, rendendo a lui grazie, tributandogli il culto e l’ossequio della loro devozione; quando poi benedicono gli altri, invocano l’aiuto di Dio sui singoli e su coloro che sono riuniti in assemblea. 7. Secondo la testimonianza della Sacra Scrittura tutte le cose che Dio ha creato e che sempre conserva nel mondo con la sua provvidenza e il suo amore, attestano la benedizione di Dio e devono, a loro volta, indurre a innalzare la benedizione. Ciò è da tenersi presente specialmente dopo che il Verbo si è fatto carne e con il mistero della sua incarnazione ha dato inizio alla santificazione di tutte le cose create. Tutte le benedizioni sono anzitutto e principalmente rivolte a Dio, di cui esaltano la grandezza e la bontà, ma poiché comunicano i benefici divini, si riferiscono anche agli uomini, che Dio sostiene e protegge con la sua provvidenza; e non escludono nemmeno le cose create, perché la loro molteplice varietà costituisce per l’uomo una benedizione di Dio.

1.2. Le benedizioni nella vita della Chiesa 8. Obbediente alle parole del Salvatore, la Chiesa partecipa al calice della benedizione, rendendo grazie a Dio per il dono ineffabile per la prima volta ricevuto nel mistero pasquale, e a noi comunicato nell’Eucaristia. Dal


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mistero eucaristico la Chiesa attinge la grazia e la forza, per effetto delle quali diventa anch’essa benedizione e come sacramento universale di salvezza esercita sempre tra gli uomini e per gli uomini l’opera di santificazione, e con Cristo capo, nello Spirito Santo, dà gloria al Padre. 9. Molte volte la Chiesa compie, sotto l’azione era dello Spirito Santo, questo suo ministero: perciò ha istituito svariate forme di benedizione con le quali essa chiama gli uomini lodare Dio, li invita a chiedere la sua protezione, li esorta a meritare, con la santità della vita, la sua misericordia, e innalza preghiere per ottenere i benefici divini, in modo che le sue invocazioni ottengano l’effetto sperato. Queste dunque le finalità delle benedizioni istituite dalla Chiesa, che sono segni sensibili, per mezzo dei quali «viene significata, e nel modo ad essi proprio, realizzata» quella santificazione degli uomini in Cristo e quella glorificazione di Dio, che costituisce il fine cui tendono tutte le altre attività della Chiesa. 10. In quanto segni che si basano sulla parola di Dio e si celebrano in forza della fede, le benedizioni intendono mettere in luce e manifestare quella vita nuova in Cristo, che nasce e si sviluppa in forza dei Sacramenti della Nuova Alleanza, istituiti da Cristo Signore. Inoltre le benedizioni, istituite in certo qual modo a imitazione dei Sacramenti, si riportano sempre e principalmente a effetti spirituali, che ottengono per impetrazione della Chiesa. 11. Convinta come è di questa verità, la Chiesa vuole che la celebrazione di una benedizione torni veramente a lode ed esaltazione di Dio e sia ordinata al profitto spirituale del suo popolo. E perché questa finalità risulti più evidente, per antica tradizione le formule di benedizione hanno soprattutto lo scopo di rendere gloria a Dio per i suoi doni, chiedere i suoi favori e sconfiggere il potere del maligno nel mondo. 12. La Chiesa, intenta come è a glorificare Dio in tutte le cose e specialmente a porre in risalto la manifestazione della sua gloria agli uomini che, in grazia del Battesimo, sono rinati o prossimi a rinascere alla vita nuova, con le sue benedizioni per essi e con essi, in circostanze particolari della loro esistenza, loda il Signore e invoca su di essi la sua grazia. Talvolta poi la Chiesa benedice anche le cose e i luoghi che si riferiscono all’attività umana, alla vita liturgica, alla pietà e alla devozione, sempre però tenendo presenti gli uomini che usano quelle determinate cose e operano in quei determinati luoghi. L’uomo infatti, per il quale Dio ha voluto e ha fatto tutto ciò che vi


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è di buono, è il depositario della sua sapienza e con i riti di benedizione attesta di servirsi delle cose create, in modo che il loro uso lo porti a cercare Dio, ad amare Dio, a servire fedelmente Dio solo. 13. I fedeli, guidati dalla fede, rinvigoriti dalla speranza, spinti dalla carità, non solo sono in grado di scorgere saggiamente in tutte le cose create l’impronta della bontà di Dio, ma anche nelle opere dell’attività umana cercano implicitamente il Regno di Cristo e inoltre considerano tutti gli eventi del mondo come segno di quella paterna provvidenza con la quale Dio regge e sostiene tutte le cose. Sempre quindi e dappertutto si offre l’occasione di lodare, invocare e ringraziare Dio per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo, purché si tratti di cose, luoghi o contingenze che non siano in contrasto con la legge o lo spirito del Vangelo. Pertanto ogni celebrazione di benedizione dev’essere sempre vagliata in base a criteri pastorali, specialmente se ci fosse motivo di prevedere un eventuale pericolo di sconcerto da parte dei fedeli e degli altri presenti. 14. L’impostazione pastorale di queste benedizioni concorda con le parole del Concilio Ecumenico Vaticano II: «La liturgia dei Sacramenti e dei Sacramentali offre ai fedeli ben disposti la possibilità di santificare quasi tutti gli avvenimenti della vita per mezzo della grazia divina che fluisce dal mistero pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo; mistero dal quale derivano la loro efficacia tutti i Sacramenti e Sacramentali. E così quasi ogni retto uso delle cose materiali può essere indirizzato alla santificazione dell’uomo e alla lode di Dio». In tal modo, per mezzo dei riti delle benedizioni, gli uomini si dispongono a ricevere l’effetto principale proprio dèi Sacramenti, e vengono santificate le varie circostanze della loro vita. 15. «Al fine di ottenere però questa piena efficacia, e necessario che i fedeli si accostino alla sacra Liturgia con retta disposizione di animo». Pertanto coloro che chiedono la benedizione di Dio per mezzo della Chiesa, intensifichino le loro disposizioni, lasciandosi guidare da quella fede alla quale tutto è possibile, facciano leva sulla speranza che non delude, siano animati soprattutto da quell’amore che spinge a osservare i comandamenti di Dio. In tal modo gli uomini, intenti alla ricerca della volontà di Dio, comprenderanno in pieno e otterranno davvero la benedizione del Signore.


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1.3. Uffici e ministeri 16. Le benedizioni dalla Chiesa sono azioni liturgiche; pertanto la celebrazione comunitaria che è talvolta richiesta, meglio risponde all’indole della preghiera liturgica, e mentre la preghiera della Chiesa propone ai fedeli una verità, i presenti son condotti a partecipare con il cuore e con le labbra alla voce della Madre. Per le benedizioni di maggiore importanza che riguardano la Chiesa locale, è bene che si riunisca la comunità diocesana o parrocchiale, sotto la presidenza del vescovo o del parroco. Conviene però che anche nelle altre benedizioni siano presenti dei fedeli: ciò che si compie per un gruppo, rifluisce in qualche modo su tutta la comunità. 17. In mancanza di un gruppo di fedeli, colui che vuol benedire Dio o chiedere la divina benedizione, o anche il ministro che presiede la celebrazione ricordino che essi rappresentano la Chiesa celebrante: la loro comune implorazione otterrà che ”mediante l’uomo, ma non dall’uomo”, discenda la benedizione, quale “dono spiritualmente condiviso di santificazione e di grazia”. La celebrazione di una benedizione di cose e di luoghi non si faccia di norma senza la partecipazione di almeno qualche fedele. 18. Il ministero della benedizione si collega a un esercizio particolare del sacerdozio di Cristo; in base quindi alla posizione e all’ufficio proprio di ciascuno nell’ambito del popolo di Dio, questo ministero viene così esercitato: a) Al vescovo spetta presiedere specialmente quelle celebrazioni che riguardano tutta la comunità diocesana e che si svolgono con particolare solennità e con grande concorso di popolo: pertanto il vescovo può riservare alla sua persona alcune celebrazioni, specialmente se svolte in forma più solenne. b) Ai presbiteri, come richiede la natura del loro servizio verso il popolo di Dio, spetta presiedere le benedizioni, quelle specialmente che riguardano la comunità al cui servizio essi sono dedicati; possono quindi celebrare tutte le benedizioni contenute in questo libro, a meno che non sia presente e presieda il vescovo. c) Ai diaconi, quali aiutanti del vescovo e del suo presbiterio come ministri della Parola, dell’altare e della carità, spetta presiedere alcune celebrazioni, come indicato a suo luogo.


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Tutte le volte però che è presente un sacerdote, è più opportuno che proprio a lui venga affidato il compito di presiedere: il diacono gli presterà servizio, esercitando nell’azione liturgica le proprie mansioni. d) Agli accoliti e ai lettori, che in base alla loro “istituzione” svolgono nella Chiesa un ufficio particolare, viene giustamente conferita, a giudizio dell’Ordinario del luogo, la facoltà di impartire di diritto, a preferenza degli altri laici, alcune benedizioni. Anche altri laici, uomini e donne, in forza de sacerdozio comune, di cui sono stati insigniti nel Battesimo e nella Confermazione, - a condizione che esista un compito specifico (quello, per esempio, dei genitori verso i figli), o l’esercizio di un ministero straordinario, o lo svolgimento di altri uffici particolari nella Chiesa, come avviene in alcune regioni per i religiosi o i catechisti - a determinate condizioni e a giudizio dell’Ordinario del luogo e purché sia notoria la loro necessaria preparazione pastorale e la loro prudenza nel compimento delle mansioni loro affidate, possono celebrare alcune benedizioni con il rito e il formulano per essi previsto, come indicato nel rituale di ogni benedizione. Se però è presente un sacerdote o un diacono, si deve lasciare a lui il compito di presiedere. 19. La partecipazione dei fedeli sarà tanto più attiva, quanto più accurata sarà la formazione ad essi impartita sull’importanza delle benedizioni. Pertanto i presbitcri e i ministri, sia nel corso delle celebrazioni sia nella predicazione e nella catechesi, spieghino ai fedeli il significato e l’efficacia delle benedizioni. È infatti di somma importanza che il popolo di Dio sia istruito sul genuino significato dei riti e delle preghiere di cui la Chiesa si serve nell’impartire la benedizione, per evitare che si introduca nella sacra celebrazione qualche elemento che indulgendo a concezioni superstiziose o a vane credenze, possa intaccare la purezza della fede.

2. Dal Rito degli esorcismi 2.1. La vittoria di Cristo e il potere della Chiesa sui demoni 1. La Chiesa crede fermamente che c’è un solo vero Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, un solo principio, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. Tutto ciò che ha creato (cfr Col 1,16), nella sua provvidenza Dio lo conserva e lo governa. Nulla egli ha fatto che non sia buono. Anche «il


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diavolo [...] e gli altri demoni sono stati da Dio creati buoni per natura, ma essi si sono resi cattivi per propria responsabilità». Sarebbero anch’essi buoni se fossero rimasti nello stato in cui erano stati creati; ma avendo abusato della loro naturale perfezione e non avendo perseverato nella verità (cfr Gv 8,44), pur non mutando natura, si sono separati dal sommo Bene al quale dovevano restare fedeli. 2. L’uomo è stato creato ad immagine di Dio «nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24) e la sua dignità ríchiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, Ma, istigato dal Maligno, egli ha usato male del dono della libertà e, per colpa della sua disobbedienza (cfr Gen 3; Rm 5,12), è caduto in potere del diavolo e della morte ed è diventato schiavo dei peccato. Come conseguenza, “tutta la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta che, cominciata fin dalle origini del mondo, durerà, come dice il Signore (cfr Mt 24,13; 13,24-30.36-43) fino all’ultimo giorno”. 3. Il Padre onnipotente e misericordioso ha mandato nel mondo il suo Figlio amatissimo per liberare gli uomini dal potere delle tenebre e trasferirli nel suo regno (cfr Gal 4,5; Col 1,13), Così Cristo, «primogenito di ogni creatura» (Col 1,15), per rinnovare l’uomo vecchio si è rivestito della carne del peccato “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo» (Eb 2,14); per il dono dello Spirito Santo Egli ha stabilito la natura umana ferita nella condizione di nuova creatura. grazie alla sua Passione e Risurrezione. 4. Durante la sua vita terrena il Signore Gesù, vincitore della tentazione nel deserto (cfr Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13), con la sua autorità ha scacciato Satana e gli altri demoni imponendo loro la sua volontà (cfr Mt 12,27-29; Lc 11,19-20), Beneficando e risanando tutti coloro che erano sotto il potere dei diavolo (cfr At 10, 38), rese manifesta l’opera della sua salvezza destinata a liberare l’uomo dal peccato e dalle sue conseguenze, come pure dall’autore del primo peccato, omicida fin dall’inizio e padre della menzogna (cfr Gv 8, 44), 5. Giunta l’ora delle tenebre, il Signore, «facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,8), respinse l’assalto supremo dì Satana (cfr Lc 4,13; 22,53) con la potenza misteriosa della croce, riportando il trionfo sulla superbia della antico avversario. La vittoria di Cristo si rese manifesta nella sua


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gloriosa risurrezione, quando Dio lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, tutto sottomettendo ai suoi piedi (cfr Ef 1,21-22). 6. Durante il suo ministero Cristo diede agli Apostoli e agli altri discepoli il potere di scacciare gli spiriti immondi (cfr Mt 10,1-8; Mc 3,14-15; 6,7.13; Lc 9,1; 10,17.18-20). Promise loro lo Spirito Santo Paraclito che procede dal Padre attraverso il Figlio, allo scopo di convincere il mondo quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato (cfr Gv 16,711). E nel vangelo la cacciata dei demoni fa parte dei segni che avrebbero accompagnato quelli che credono (cfr Mc 16,17). 7. Fin dal tempo degli Apostoli la Chiesa ha esercitato il potere ricevuto da Cristo di scacciare i demoni e di respingere il loro influsso (cfr At 5,16; 8,7; 16,18; 19,12). Perciò essa prega con fiducia e perseveranza «in nome di Gesù» di essere liberata dal Maligno (cfr Mt 6,3) e, in quello stesso nome, per la forni dello Spirito Santo, comanda in vari modi ai demoni di non ostacolare l’opera di evangelizzazione (cfr 1Ts 2,18) e di restituire “al più Forte”(cfr Lc 11,21-22) il dominio sul creato e su ogni uomo. «Quando la Chiesa comanda pubblicamente e con autorità, in nome di Gesù Cristo, che una persona o un oggetto sia protetto contro l’influenza del Maligno e sottratto al suo dominio, si parla di esorcismo».

2.2. Gli esorcismi nella Missione santificante della Chiesa 8. Per antichissima e ininterrotta tradizione, la Chiesa ha ordinato il cammino dell’iniziazione cristiana in modo da esprimere con chiarezza e dare effettivo inizio alla lotta spirituale contro il potere del diavolo (cfr Ef 6, 12), Gli esorcismi che si compiono in forma semplice sugli eletti durante il catecumenato, ossia gli esorcismi minori sono preghiere con cui la Chiesa chiede che essi prendano coscienza dei mistero di Cristo che libera dal peccato, siano liberati dalle conseguenze dei peccato e dall’influsso diabolico, siano rinvigoriti nel loro cammino spirituale e aprano il cuore ad accogliere la grazia del Salvatore. Nella celebrazione del Battesimo, poi, i battezzandi rinunciano a Satana, alle sue opere e alle sue seduzioni, e gli contrappongono la loro fede nel Dio uno e trino. Anche nel Battesimo dei bambino dei bambini si recitano preghiere di esorcismo chiedendo che, protetti contro le lusinghe del mondo e nella lotta contro le insidie del demonio, siano fortificati dalla grazia di Cristo nel cammino della loro vita.


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Per il Battesimo che lo rigenera, l’uomo partecipa alla vittoria di Cristo sul diavolo e sul peccato passando “dalla condizione in cui nasce figlio del primo Adamo allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio ad opera del secondo Adamo, Gesù Cristo”; in tal modo ottiene la liberazione dalla schiavitù del peccato in forza di quella libertà con la quale Cristo ci ha liberati (cfr Gal 5,1). 9. 1 fedeli, anche se rinati in Cristo, sperimentano tuttavia le tentazioni del mondo: devono perciò vigilare con la preghiera e con la sobrietà della vita, perché il loro nemico, «il Diavolo, come leone ruggente, va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8). A lui devono resistere forti nella fede, «sostenuti dalla forza del Signore e dal vigore della sua potenza» (Ef 6, 10) e sorretti dalla preghiera della Chiesa, con la quale essa chiede che i suoi figli siano sicuri da ogni turbamento. Per la grazia dei sacramenti e specialmente dalla celebrazione frequente della Penitenza, acquistano forza per arrivare alla piena libertà dei figli di Dio (cfr Rm 8, 21). 10. Più difficile da capire è per noi il piano della misericordia divina quando, Dio permettendo, si dà il caso di una particolare vessazione o possessione da parte dei diavolo verso un membro del popolo di Dio che Cristo ha illuminato perché proceda verso la vita eterna come figlio della luce. Allora il mistero di iniquità che opera nel mondo (cfr 2Ts 2, 7) si manifesta con particolare evidenza (cfr Ef 6, 12), anche se il diavolo non può oltrepassare i limiti fissati da Dio. Questa forma di potere del diavolo sull’uomo è diversa da quella che deriva dal peccato originale, Che è peccato per antonomasia. In queste circostanze la Chiesa interviene implorando Cristo Signore e Salvatore e, sostenuta dal suo potere. offre al fedele tormentato o posseduto dal Maligno diversi aiuti perché sia liberato dalla vessazione od ossessione diabolica. 11. Tra questi aiuti si distingue l’esorcismo solenne, che è una celebrazione liturgica. detto anche «grande esorcismo». L’esorcismo, che «mira a scacciare i demoni o a liberare dall’influenza diabolica mediante l’autorità spirituale che Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa» è una preghiera del genere dei sacramentali, ossia segno sacro per mezzo del quale «sono significati e, per impetrazione della Chiesa, vengono ottenuti effetti soprattutto spirituali». 12. Negli esorcismi maggiori la Chiesa, unita allo Spirito Santo, supplica lo stesso Spirito di venire in soccorso alla nostra debolezza (cfr Rm 8,26) per


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scacciare i demoni e impedire loro di nuocere ai fedeli. Confidando nel soffio con il quale il Figlio di Dio dopo la risurrezione donò lo Spirito,, la Chiesa agisce negli esorcismi non in nome proprio ma unicamente nel nome di Dio o di Cristo Signore, al quale tutti gli esseri, diavolo e demoni compresi, devono obbedire.

3. Dal Direttorio su pietà popolare e liturgia Giovanni Paolo II nel suo messaggio all’Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti del 21.09.2001, in occasione della presentazione del suddetto Direttorio e riportato dallo stesso afferma: «La religiosità popolare, che sì esprime in forme diversificate e diffuse, quando è genuina, ha come sorgente la fede e deve essere, pertanto, apprezzata e favorita. Essa, nelle sue manifestazioni più autentiche, non si contrappone alla centralità della Sacra Liturgia, ma, favorendo la fede del popolo che la considera una sua connaturale espressione religiosa, predispone alla celebrazione dei sacri misteri» (n. 4).

Il papa continua al n. 5: «Il corretto rapporto tra queste due espressioni di fede deve tener presenti alcuni punti fermi e, tra questi, innanzitutto che la Liturgia è il centro della vita della Chiesa e nessun’altra espressione religiosa può sostituirla od essere considerata allo stesso livello. È importante ribadire, inoltre, che la religiosità popolare ha il suo naturale coronamento nella celebrazione liturgica, verso la quale, pur non confluendovi abitualmente, deve idealmente orientarsi, e ciò deve essere illustrato con un’apposita catechesi. Le espressioni della religiosità popolare appaiono talora inquinate da elementi non coerenti con la dottrina cattolica. In tali casi esse vanno purificate con prudenza e pazienza, attraverso contatti con i responsabili e una catechesi attenta e rispettosa, a meno che incongruenze radicali non rendano necessarie misure chiare e immediate…».


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Rileggiamo ora alcuni numeri del Direttorio che interessano il nostro discorso: 11. L’eminenza della Liturgia rispetto ad ogni altra possibile e legittima forma di preghiera cristiana deve trovare riscontro nella coscienza dei fedeli: se le azioni sacramentali sono necessarie per vivere in Cristo, le forme della pietà popolare appartengono invece all’ambito del facoltativo. Prova veneranda è il precetto di partecipare alla Messa domenicale, mentre nessun obbligo ha mai riguardato i pii esercizi, per quanto raccomandati e diffusi, i quali possono tuttavia essere assunti con carattere obbligatorio da comunità o singoli fedeli. Ciò chiama in causa la formazione dei sacerdoti e dei fedeli, affinché venga data la preminenza alla preghiera liturgica e all’anno liturgico su ogni altra pratica di devozione. In ogni caso, questa doverosa preminenza non può comprendersi in termini di esclusione, contrapposizione, emarginazione. 12. La facoltatività dei pii esercizi non deve quindi significare scarsa considerazione né disprezzo di essi. La via da seguire è quella di valorizzare correttamente e sapientemente le non poche ricchezze della pietà popolare, le potenzialità che possiede, l’impegno di vita cristiana che sa suscitare. Essendo il Vangelo la misura ed il criterio valutativo di ogni forma espressiva — antica e nuova — di pietà cristiana, alla valorizzazione dei pii esercizi e di pratiche di devozione deve coniugarsi l’opera di purificazione, talvolta necessaria per conservare il giusto riferimento al mistero cristiano. Vale per la pietà popolare quanto asserito per la Liturgia cristiana, ossia che «non si può assolutamente accogliere riti di magia, di superstizione, di spiritismo, di vendetta o a connotazione sessuale». 48. La storia mostra anzitutto che il corretto rapporto tra Liturgia e pietà popolare viene turbato allorché nei fedeli si attenua la coscienza di alcuni valori essenziali della Liturgia stessa. Tra le cause di tale affievolimento vengono elencate: — la debole consapevolezza o la diminuzione del senso della Pasqua e del posto centrale che essa occupa nella storia della salvezza, della quale la Liturgia cristiana è l’attualizzazione; dove ciò accade, i fedeli orientano quasi inevitabilmente la loro pietà, senza tener conto della «gerarchia delle verità», verso gli altri misteri salvifici della vita di Cristo e verso la beata Vergine Maria, gli Angeli e i Santi; — l’affievolimento del senso del sacerdozio universale in virtù del quale i


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fedeli sono abilitati a «offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» e a partecipare pienamente, secondo la loro condizione, al culto della Chiesa; tale affievolimento, accompagnato spesso dal fenomeno di una Liturgia guidata da chierici anche in parti non riguardanti le funzioni proprie dei 8 sacri ministri, fa sì che talora i fedeli si orientino verso la pratica dei pii esercizi, dei quali si sentono partecipanti attivi; — la non conoscenza del linguaggio proprio della Liturgia — la lingua, i segni, i simboli e i gesti rituali… —, per cui ai fedeli sfugge in gran parte il significato della celebrazione. Ciò può ingenerare in essi l’impressione di essere estranei all’azione liturgica; allora sono facilmente indotti a preferire i pii esercizi, il cui linguaggio è più conforme alla loro formazione culturale o le particolari devozioni più rispondenti a esigenze e situazioni concrete della vita quotidiana. 50, capov. 2-3: …bisogna anzitutto evitare di porre la questione del rapporto tra Liturgia e pietà popolare in termini di opposizione, come pure di equiparazione o di sostituzione. Infatti la coscienza dell’importanza primordiale della Liturgia e la ricerca delle sue più genuine espressioni non devono condurre a trascurare la realtà della pietà popolare e tanto meno a disprezzarla o a ritenerla superflua o addirittura dannosa per la vita cultuale della Chiesa. La non considerazione o la disistima nei confronti della pietà popolare denunciano una inadeguata valutazione di alcuni fatti ecclesiali e sembrano suggerite più da pregiudizi ideologici che non dalla dottrina della fede. Esse costituiscono un atteggiamento che: — non tiene conto che la pietà popolare è anch’essa una realtà ecclesiale promossa e sorretta dallo Spirito, sulla quale il Magistero esercita la sua funzione di autenticazione e di garanzia; — non considera sufficientemente i frutti di grazia e di santità che la pietà popolare ha prodotto e continua produrre nella compagine ecclesiale; — è non di rado espressione di una ricerca illusoria della “Liturgia pura” la quale, a parte la soggettività dei criteri con cui viene stabilita la puritas, è — come insegna l’esperienza secolare — più un’aspirazione ideale che una realtà storica; — è portato a confondere una nobile componente dell’animo umano, ossia il sentimento, che legittimamente permea molte espressioni della pietà liturgica e della pietà popolare, con la sua degenerazione, cioè il sentimentalismo.


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51. Ma nel rapporto tra Liturgia e pietà popolare si riscontra il fenomeno opposto, cioè una tale valutazione della pietà popolare che in pratica è a scapito della Liturgia della Chiesa. Non si può tacere che dove ciò avvenga, o per una situazione di fatto o per una pretesa scelta teorica, si dà luogo a una grave deviazione pastorale: la Liturgia non sarebbe più «il culmine verso cui tende la vita della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù», ma una espressione cultuale ritenuta estranea alla comprensione e alla sensibilità del popolo e che, quindi, viene negletta, relegata a un ruolo secondario, oppure riservata a gruppi particolari. 58. Liturgia e pietà popolare sono due espressioni legittime del culto cristiano, anche se non omologabili. Esse non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare come viene descritto nella Costituzione liturgica: «I pii esercizi del popolo cristiano […] siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano». Liturgia e pietà popolare sono quindi due espressioni cultuali da porre in mutuo e fecondo contatto: in ogni caso tuttavia la Liturgia dovrà costituire il punto di riferimento per «incanalare con lucidità e prudenza gli aneliti di preghiera e di vita carismatica» che si riscontrano nella pietà popolare; dal canto suo la pietà popolare, con i suoi valori simbolici ed espressivi, potrà fornire alla Liturgia alcune coordinate per una valida inculturazione e stimoli per una efficace dinamismo creatore. 65. Il Magistero, che mette in luce gli innegabili valori della pietà popolare, non trascura di segnalare alcuni pericoli che possono minacciarla: l’insufficiente presenza di elementi essenziali della fede cristiana, quali il significato salvifico della Risurrezione di Cristo, il senso dell’appartenenza alla Chiesa, la persona e l’azione del divino Spirito; la sproporzione tra la stima per il culto dei santi e la coscienza dell’assoluta sovranità di Gesù Cristo e del suo mistero; lo scarso contatto diretto con al sacra Scrittura; l’isolamento dalla vita sacramentale della Chiesa; la tendenza a separare il momento cultuale dagli impegni della vita cristiana; la concezione utilitaristica di alcune forme di pietà; la utilizzazione di «segni, gesti e formule, che talvolta prendono una importanza eccessiva, fino alla ricerca dello spettacolare»; il rischio, in casi estremi, di «favorire l’ingresso delle sette e portare addirittura alla superstizione, alla magia, al fatalismo o all’oppressione».


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4. L’insegnamento della Chiesa nel Catechismo della Chiesa cattolica Il CCC ha dedicato diversi numeri al tema della superstizione, della magia e della divinazione. Circa la superstizione, la magia e la divinazione leggiamo: 2111. La superstizione è la deviazione del sentimento religioso e delle pratiche che esso impone. Può anche presentarsi mascherata sotto il culto che rendiamo al vero Dio, per esempio, quando si attribuisce un’importanza in qualche misura magica a certe pratiche, peraltro legittime o necessarie. Attribuire alla sola materialità delle preghiere o dei segni sacramentali la loro efficacia, prescindendo dalle disposizioni interiori che richiedono, è cadere nella superstizione. 2115. Dio può rivelare l’avvenire ai suoi profeti o ad altri santi. Tuttavia il giusto atteggiamento cristiano consiste nell’abbandonarsi con fiducia nelle mani della Provvidenza per ciò che concerne il futuro e rifuggire da ogni curiosità malsana a questo riguardo. L’imprevidenza può costituire mancanza di responsabilità. 2116. Tutte le forme di divinazione sono da respingere: ricorso a Satana o ai demoni, evocazione dei morti o altre pratiche che a torto si ritiene che “svelino” l’avvenire. La consultazione degli oroscopi, l’astrologia, la chiromanzia, l’interpretazione dei presagi e delle sorti, i fenomeni di veggenza, il ricorso al medium occultano una volontà di dominio sul tempo, sulla storia ed infine sugli uomini ed insieme un desiderio di rendersi propizie le potenze nascoste. Sono in contraddizione con l’onore e il rispetto, congiunto a timore amante, che dobbiamo a Dio solo. 2117. Tutte le pratiche di magia e di stregoneria con le quali si pretende di sottomettere le potenze occulte per porle al proprio servizio ed ottenere un potere soprannaturale sul prossimo – fosse anche per procurargli la salute – sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancor più da condannare quando si accompagnano ad una intenzione di nuocere ad altri o quando in esse si ricorre all’intervento dei demoni. Anche portare amuleti e biasimevole. Lo spiritismo spesso implica pratiche divinatorie. Pure da esso la Chiesa mette in guardia i fedeli. Il ricorso a pratiche magiche dette tradizionali non legittima né l’invocazione di potenze cattive, né lo sfruttamento della credulità altrui.


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Circa le benedizioni ancora il Catechismo afferma: 1671. Fra i sacramentali ci sono innanzi tutto le benedizioni (di persone, della mensa, di oggetti, di luoghi). Ogni benedizione è lode di Dio e preghiera per ottenere i suoi doni. In Cristo, i cristiani sono benedetti da Dio Padre “con ogni benedizione spirituale” (Ef 1,3). Per questo la Chiesa impartisce la benedizione invocando il nome di Gesù, e facendo normalmente il santo segno della croce di Cristo. 1673. Quando la Chiesa domanda pubblicamente e con autorità, in nome di Gesù Cristo, che una persona o un oggetto sia protetto contro l’influenza del Maligno e sottratto al suo dominio, si parla di esorcismo. Gesù l’ha praticato; è da lui che la Chiesa deriva il potere e il compito di esorcizzare. In questa forma semplice, l’esorcismo è praticato durante la celebrazione del Battesimo. L’esorcismo solenne, chiamato “grande esorcismo”, può essere praticato solo da un presbitero e con il permesso del vescovo. In ciò bisogna procedere con prudenza, osservando rigorosamente le norme stabilite dalla Chiesa. L’esorcismo mira a scacciare i demoni o a liberare dall’influenza demoniaca, e ciò mediante l’autorità spirituale che Gesù ha affidato alla sua Chiesa. Molto diverso è il caso di malattie, soprattutto psichiche, la cui cura rientra nel campo della scienza medica. È importante, quindi accertarsi, prima di celebrare l’esorcismo, che si tratti di una presenza del Maligno e non di una malattia.

Il CCC, infine, dedica i seguenti numeri al tema della religiosità popolare: 1674. Oltre che della Liturgia dei sacramenti e dei sacramentali la catechesi deve tener conto delle forme della pietà dei fedeli e della religiosità popolare. Il senso religioso del popolo cristiano, in ogni tempo, ha trovato la sua espressione nelle varie forme di pietà che circondano la vita sacramentale della Chiesa, quali la venerazione delle reliquie, le visite ai santuari, i pellegrinaggi, le processioni, la “via crucis”, le danze religiose, il rosario, le medaglie, ecc. 1675. Queste espressioni sono un prolungamento della vita liturgica della Chiesa, ma non la sostituiscono: «Bisogna che tali esercizi, tenuto conto dei tempi liturgici, siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra


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liturgia, derivino in qualche modo da essa, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano». 1676. È necessario un discernimento pastorale per sostenere e favorire la religiosità popolare e, all’occorrenza, per purificare e rettificare il senso religioso che sta alla base di tali devozioni e per far progredire nella conoscenza del Mistero di Cristo. Il loro esercizio è sottomesso alla cura e al giudizio dei vescovi e alle norme generali della Chiesa.

5. Le indicazioni dei vescovi italiani 5.1. Dalla Presentazione del Benedizionale I vescovi italiani nella Presentazione dell’edizione italiana del Benedizionale affermano: 3. Ogni parte del “Benedizionale” si articola in un movimento ascendente e discendente, come nella tradizione dell’AT e del NT. Dio è benedetto e benedicente. Sullo sfondo è il santo scambio dell’Eucaristia, dove i doni della creazione, il pane e il vino sono trasformati per opera dello Spirito Santo nel corpo e sangue di Cristo, e offerti al Padre diventano per noi fonte di grazia e pegno di benedizione per tutto il creato. 4. La Chiesa, partecipe del calice di benedizione, per la potenza dello Spirito si fa intermediaria di questo flusso di grazia, che scaturisce dalla divina sorgente. A conferire autenticità ed efficacia ai molteplici riti di benedizione, annoverati fra i sacramentali, è la ministerialità della Chiesa esercitata da sacerdoti e diaconi e in casi particolari, non senza uno speciale mandato del vescovo anche laici, uomini e donne, in forza dei Sacramenti che consacrano il loro stato di vita e la loro missione… L’uso discreto e illuminato di questo vademecum potrà avere anche un ruolo promozionale nell’educare i credenti a riacquistare il gusto e la pratica della preghiera di lode, l’ammirazione e il rispetto per tutto il creato, la riscoperta della gioia di vivere, il respiro della speranza che proviene dalla fede pasquale in Cristo “cuore del mondo”. 5. Nella trama di questo libro si coglie una sensibile attenzione all’uomo del nostro tempo, con le sue tensioni e contraddizioni: sviluppo tecnico e regresso spirituale, cultura di massa e solitudine individuale, anelito a


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sempre nuove conquiste e ricaduta nella paura e nell’angoscia. È diffusa la constatazione che, mentre si accresce la conoscenza dei mezzi, va diminuendo la percezione dei fini e dei valori. Alla nostra era secolarizzata, più che mai bisognosa di aprirsi a una religiosità autentica, per non cadere a livello di surrogati — quali la magia, la superstizione, l’oroscopomania… — il Benedizionale offre un forte richiamo alla fede rivelata, che illumina e redime la tragica situazione di un mondo sottomesso alla caducità a causa del peccato…

Infine, i vescovi italiani individuano i frutti positivi che si possono avere dall’uso pastorale del libro delle Benedizioni: 6. Un uso non episodico di questo manuale offrirà occasione e stimoli per promuovere: — l’ampliamento della catechesi in situazioni e ambienti non raggiunti dalla prassi attuale; — un primo incontro evangelizzante con persone e categorie lontane dalla Chiesa e da una visione di fede; — l’osmosi disciplinata e vitale fra le celebrazioni liturgiche e le forme di religiosità popolare; — un’esperienza di preghiera che lievita la vita quotidiana ed emergente dell’uomo che soffre e gioisce, studia e lavora, lotta e spera; — la riacquisizione di un rapporto, attivo e contemplativo, con la realtà ambientale e cosmica in virtù di un’ecologia illuminata dalla sapienza che viene dall’alto; — un’apertura della vita familiare e sociale verso nuovi spazi ed opere di carità.

5.2. Dalla Presentazione del Rito degli esorcismi I vescovi italiani nella Presentazione dell’edizione italiana del Rito degli esorcismi e preghiere per circostanze varie (2001), che purtroppo inspiegabilmente è scomparso dalle librerie, richiamano con puntualità: il contesto culturale e religioso italiano, i principi della vigilanza cristiana nei confronti del Maligno e le attenzioni pastorali oggi necessarie per un’autentica evangelizzazione:


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a. Il contesto culturale e religioso italiano 2. Il nuovo Rito degli esorcismi vede la luce in una situazione culturale segnata da una larga diffusione di pratiche deviate e apertamente superstiziose. La carenza in molte persone di un’incisiva esperienza di fede e di solide convinzioni religiose, la perdita di alcuni importanti valori cristiani e l’oscurarsi del senso profonda della vita concorrono a creare un clima di incertezza e di precarietà, il quale a sua volta favorisce il ricorso a forme di divinazione, a pratiche religiose venate di superstizione, a espressioni rituali di magia e talora perfino a riti estremamente aberranti, come quelli del culto di satana. 3. Dall’esperienza pastorale risulta che, in alcuni ambienti, la superstizione e la magia convivono con il progresso scientifico e tecnologico: la cosa non sorprende più di tanto se si considera che la scienza e la tecnica non sono in grado di dare risposte ai problemi ultimi dell’esistenza, non essendo competenti sui fini, ma solo sui mezzi. Anzi non è escluso che l’efficienza scientifica e tecnica, stimolando la bramosia del successo, possa in certi casi predisporre l’animo alla ricerca dell’efficienza magica, conferire alla pratiche superstiziose una patina di scientificità e rispettabilità, suggerendo collegamenti con la medicina, la psicologia, la psichiatria, l’informatica, offrire infine alla magia il supporto per un sviluppo imprenditoriale di vaste dimensioni con un movimento di cospicui capitali. 4. Nell’attuale temperie culturale si riscontra un diffuso e malsano interesse per la sfera del demoniaco al quale i mezzi di comunicazione sociale contribuiscono a dare risonanza e supporto. D’altra parte in ampi settori della cultura contemporanea viene spesso sottovalutata e negata la presenza e l’azione di Satana nella storia e nella vita personale. Spesso si prende pretesto del linguaggio, immaginoso e mitico, di cui a volte si servono la Scrittura, la Tradizione e la predicazione popolare, per rifiutare, senza il necessario discernimento, insieme all’involucro verbale anche il reale contenuto della Rivelazione e della dottrina della Chiesa.

b. La vigilanza cristiana 7. La vigilanza deve essere esercitata soprattutto nei confronti dell’azione ordinaria di satana, con la quale egli continua a tentare gli uomini al male.


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Proprio la tentazione è il pericolo più grave e dannoso in quanto si oppone direttamente al disegno salvifico di Dio e all’edificazione del Regno. Satana riesce ad impadronirsi davvero dell’uomo in ciò che ha di più intimo e prezioso quando questi, con atto libero e personale, si mette in suo potere con il peccato. Per questo il credente vigila per non essere ingannato e prega ogni giorno con le parole suggerite da Gesù: “Padre, non abbandonarci alla tentazione, ma liberarci dal male”. Invece i fenomeni diabolici straordinari della possessione, dell’ossessione, della vessazione e dell’infestazione sono possibili, ma di fatto, a parere degli esperti, sono rari. Provocano certo grandi sofferenze, ma di per sé non allontanano da Dio e non hanno la gravità del peccato. Sarebbe quindi da stolti prestare tanta attenzione all’eventuale presenza del Maligno in alcuni fenomeni insoliti e non preoccuparsi affatto della realtà quotidiana della tentazione e del peccato, in cui Satana, “omicida fin dal principio” e “padre della menzogna”, è sicuramente all’opera.

c. Attenzioni pastorali 8. È necessario da parte dei pastori d’anime: — richiamare, con sapienza e prudenza, i fedeli a non ricercare il sensazionale e ad evitare sia la stolta credulità che vede interventi diabolici in ogni anomalia e difficoltà, sia il razionalismo preconcetto che esclude a priori qualsiasi forma di intervento del Maligno nel mondo; — mettere in guardia i fedeli nei confronti di libri, programmi televisivi, informazioni dei mezzi di comunicazione che a scopo di lucro sfruttano il diffuso interesse per fenomeni insoliti o malsani; — esortare i fedeli a non ricorrere mai a coloro che praticano la magia o si professano detentori di poteri occulti o medianici o presumono di aver ricevuto poteri particolari. Nel dubbio circa la presenza di un influsso diabolico è necessario, rivolgersi prima di tutto al discernimento dei sacerdoti esorcisti e ai sostegni di grazia offerti dalla Chiesa soprattutto nei Sacramenti; — presentare il significato autentico del linguaggio usato dalla sacra Scrittura e dalla Tradizione e far maturare nei cristiani un atteggiamento corretto riguardo alla presenza e all’azione di satana nel mondo; — ricordare nella catechesi e nella predicazione che la superstizione, la magia e, a maggior ragione, il satanismo sono contrari alla dignità e razionalità dell’uomo e alla fede in Dio Padre onnipotente e in Gesù Cristo nostro Salvatore.


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I vescovi italiani indicano la risposta unica, perenne e certa che la Chiesa ha sempre dato per lottare le insidie del Maligno: 9. La genuina vita cristiana è abbandono fiducioso all’amore paterno e provvidente di Dio, obbedienza alla sua volontà. Si fonda sul Battesimo, si alimenta con la lettura assidua della Parola di Dio e con la frequente partecipazione all’Eucaristia; si restaura con il sacramento della Riconciliazione; riceve ulteriore sostegno e specificazione dagli altri sacramenti senza dimenticare infine i sacramentali, riti di benedizione istituiti dalla Chiesa per lodare Dio e invocare la sua protezione nelle diverse situazioni della vita. Il discepolo di Cristo, per superare le difficoltà e realizzare desideri e progetti onesti, unisce alla fiducia in Dio un impegno previdente e responsabile, ricorrendo opportunamente ai mezzi a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico. Egli sa che la fede cristiana è incompatibile con la superstizione, la magia ed il satanismo, e che essa è invece la migliore alleata dell’impegno responsabile dell’uomo.

6. Le problematiche e le proposte pastorali L’antologia dei documenti del Magistero recente della Chiesa, che abbiamo riletto, ci permette di rilevare l’enorme ricchezza di principi teologici e di indicazioni pastorali, a cui oggi possono attingere pastori e fedeli. È indubbio che nella prassi pastorale e nella mentalità più diffusa dei fedeli le benedizioni e i tanti riti di devozione popolare e di esorcismi pongono problemi e difficoltà. È opportuno chiedersi come i principi e le indicazioni del Magistero sono stati recepiti e trasmessi nel concreto tessuto della comunità cristiana e della prassi pastorale. L’impressione diffusa, soprattutto in questi ultimi anni, è quella di una recrudescenza di pratiche religiose e cultuali, come pellegrinaggi, benedizioni, statue, oggetti sacri ecc., che non sempre sono in armonico equilibrio con la fede illuminata dalla Parola di Dio, dalla Tradizione della Chiesa , dalla catechesi e ratificata da una vita consona ai Comandamenti e al Vangelo. A nessun operatore di pastorale sfugge l’esagerata richiesta di segni e forme religiose, come benedizioni di oggetti sacri (rosari, immagini), di


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case, di persone, di luoghi ecc., fuori dai sacramenti e staccati dalla pratica cristiana, dalla vita comunitaria e dall’eucaristia domenicale, a cui si dà un’importanza di gran lunga superiore alla “Benedizione” per antonomasia, cioè l’Eucaristia della domenica. È evidente la carenza di gerarchia di valori e la scarsa formazione dei fedeli su quanto è fondamentale per la fede e la vita cristiana e quanto è solo accessorio e secondario. È anzitutto necessario rieducare i fedeli al concetto di benedizione come scaturisce dal dato biblico (cfr Premesse del Benedizionale sopra citate), cioè la benedizione come lode e ringraziamento per tutto ciò che Dio ha operato e continua ad operare per la vita e la salvezza della sua creatura e come ricordo-anamnesi delle mirabili opere di Dio nella storia dell’uomo, che spinge il credente ad un atteggiamento di fiduciosa domanda e filiale supplica. È un lavoro pastorale paziente e faticoso che spetta a quanti sono chiamati a guidare e formare il popolo santo di Dio. È, quindi, da evitare da parte dei cosiddetti operatori pastorali sia la sopravvalutazione e il demagogico proliferare di benedizioni, di riti e di forme di devozioni che alienano i fedeli dalla vera fede, lasciandoli in uno stato di illusione, sia la sbrigativa e superficiale svalutazione o il disprezzo imprudente delle tradizionali forme di devozioni popolari e di benedizioni con conseguente scandalo dei fedeli più deboli e bisognosi d illuminazione e di catechesi. Un corretto e costante uso della Parola di Dio (cfr il ricco Lezionario del Benedizionale e del Rito di esorcismo) permetterà di dare significato ad ogni forma di benedizione e aiuterà a far comprendere meglio il valore delle benedizioni e di tutte le forme popolari di devozione. Inoltre, una celebrazione, anche della più semplice delle benedizioni, deve essere sempre fatta con la dovuta calma e in un clima di preghiera, per evitare che un frettoloso rito di benedizione possa essere considerato un gesto magico o superstizioso che produce l’ effetto desiderato solo automaticamente senza l’impegno e la fede personale. Un altro aspetto da richiamare e recuperare è il contesto ecclesiale e comunitario in cui ogni segno sacramentale e ogni benedizione deve collocarsi. È sempre la Chiesa nel nome del suo Maestro e Salvatore che agisce nella fede, nella preghiera filiale e nell’impegno di vita cristiana. Al di fuori di questo contesto è facile snaturare, non solo le benedizioni, ma gli


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stessi sacramenti, riducendoli da segni di fede e della salvezza del Signore a riti magici di sapore idolatrico e pagano. Sembra necessario, pertanto, che pastori, catechisti e operatori pastorali conoscano bene le indicazioni del Magistero e si adoperino con costanza e sintonia pastorale ad illuminare i fedeli e a valorizzare le tante richieste di riti e di forme religiose con il recupero del senso biblico ed ecclesiale. È urgente, in particolare, che i luoghi di pellegrinaggio, i santuari e altri luoghi, in cui si ha il fenomeno di affluenza di fedeli, divengano luoghi di vera e solida formazione alla fede e alla vita cristiana, che esige sempre conversione, catechesi, impegno di vita, esperienza sacramentale assidua, soprattutto consuetudine seria con i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Un cammino di educazione cristiana deve essere costantemente proposto nella catechesi permanente degli adulti e delle famiglie, nella predicazione, nelle concrete richieste di sacramentali o di altri riti in cui, con l’aiuto dei libri liturgici, si può educare i fedeli a celebrare il rito richiesto in un clima comunitario e familiare di preghiera, di ascolto e di fede. Solo alla luce della celebrazione i sacramentali acquistano tutto il loro significato e la loro vitalità, poiché è in essi che si scopre l’importante dimensione della fede viva nel contesto ecclesiale. È impossibile percepire il significato autentico di un sacramentale o di un qualsiasi rito religioso se lo si isola dal contesto della comunità e della sua celebrazione. I sacramentali, dal momento che vivono del grande mondo della liturgia e in esso trova la sua linfa e la sua vitalità, si devono necessariamente relazionare ai sacramenti, in particolare all’Eucaristia nel contesto vivo della comunità cristiana. Mi piace concludere con un classico testo di S. Agostino citato dal compianto prof. A. M. Triacca1, che afferma: «Una delle migliori sintesi dei “dinamismi” propri della benedizione, di cui si vorrebbe dire diffusamente, è di S. Agostino, ed afferma: “L’anima

1

A. M. TRIACCA, in AA.VV., Anamnesis, VII, I sacramentali e le benedizioni, 113.


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nostra benedica il Signore, e Dio ci benedica. Quando Dio ci benedice noi cresciamo; e quando noi benediciamo il Signore, noi ancora cresciamo: ambedue le realtà ci giovano. Precede la benedizione del Signore nei nostri riguardi, e segue — come logica conseguenza — che noi benediciamo il Signore”».

In nota il Triacca aggiunge: «Riportiamo il testo latino pù incisivo di qualsiasi altra traduzione: “Benedicat anima nostra Dominum, et Deus benedicat nos. Cum benedicit nos Deus, nos crescimus et cum benedicimus nos Dominum, nos crescimus: utrumque nos prodest. Prior est in nobis benedictio Domini, et consequens est ut et nos benedicamus Dominum” (cfr AGOSTINO, Enarratio in Ps., 66,1: CCL 38, 856; PL 36, 802)».


RIPENSARE IL SIGNIFICATO DELLA VITA: DALLA PROPIZIAZIONE ALL’IN-VOCAZIONE, DAL POSSESSO AL DONO

CORRADO LOREFICE*

INTRODUZIONE La concezione antropologica biblica, rivisitata dalla riflessione teologica, guarda all’uomo come a colui che è essenzialmente capace di risposta1. L’uomo biblico è l’“uomo vocato”, proprio perché contrassegnato dalla relazione dialogica con quel Dio che lo ha pensato e creato come suo partner donandogli la vita e il suo imperscrutabile mistero2. La Bibbia custodisce la storia di una vocazione — la “vocazione divina dell’uomo” in Cristo, come ama definirla il Vaticano II3 — e racchiude la memoria di tante risposte, dalla chiamata di Adamo, fino a quella di Gesù di Nazaret4 e di quanti, dietro il suo esplicito invito, hanno lasciato tutto per seguirlo: Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni… (cfr Mt 4, 18-22).

*

Docente di Teologia morale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. Cfr H. W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, Brescia 1975; K. H. SCHELKLE, Teologia del Nuovo Testamento, III: Ethos cristiano, Bologna 1974. 2 Come esemplificazione è sufficiente considerare il noto testo genesiaco: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gn 2,7-9). 3 Cfr CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 22, in EV 1/1385. 4 «Anche Gesù infatti, per primo, ha avuto ed ha espresso una vocazione, cioè ha fatto della sua stessa esistenza una precisa risposta nei confronti di una chiamata da parte 1


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Il vissuto di un’esistenza credente si dipana e si snoda sempre dentro quell’insondabile abisso di grazia e libertà, di chiamata e risposta che consegna l’uomo ad una relazione personale e diretta con il Dio tre volte Santo (qadosh = separato), che in Cristo, da “separato” (santo) diventa il “collocato”, il totalmente “compromesso” nel mondo dei peccatori (“peccato”5). Così la sua vita, considerata prima un geloso “possesso” da porre sotto la protettiva “tutela divina”, ormai unita nello Spirito a quella del Cristo e perciò liberata della paura della “precarietà” dell’esistenza umana, esprimerà lo stato adulto del dono di sé, dell’esserci-per-l’Altro/altri. Il culto che egli deve offrire a Dio non è il mero rito alienante, celebrato in uno spazio e in un tempo marginali rispetto alla vita, ma è l’impegno di un’esistenza “respons-abile”. La sua storia e il suo mondo diventano l’altare su cui offrire il culto della vita6.

del Padre suo. […] Si potrebbe anche dire che è l’incarnazione stessa il senso primo e ultimo della risposta che Gesù da’ alla sua singolare vocazione: “Allora ho detto: ‘Ecco, vengo (nel rotolo del libro è scritto di me) per fare, o Dio, la tua volontà’ ” (Eb 10,7)» (W. MAGNI, Aspetti teologici ed ecclesiologici della vocazione e delle vocazioni, in Vocazioni 20 (2003) 5, 27-28. 5 Secondo quanto si legge in 2Cor 5,19-21: «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato Dio lo fece peccato (amartían epoíesen) in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio». 6 Resta, a tal proposito, significativo quel celebre testo conciliare che, in una rinnovata concezione della liturgia, richiama i cristiani a superare il divario tra fede-culto e vita “quale — al dire dell’apostolo Paolo — sacrificio spirituale gradito a Dio” (Rm 12, 2): «La liturgia spinge i fedeli, nutriti dei “sacramenti pasquali”, a vivere “in perfetta unione”; domanda che “esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede”» (CONCILIO VATICANO II, Costituzione su la sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 10, in EV 1/17).


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1. ANTROPOLOGIE A CONFRONTO: SFASATURE E PROVOCAZIONI 1.1. Dentro il monologo della vita Oggi, nonostante la ricomparsa di una contraddittoria mentalità magico-sacrale7, si afferma sempre più un modello antropologico segnato da una forte accentuazione immanentistica. Il “trascendente”, poiché non può cadere sotto l’indagine della scienza, non fa più parte della realtà; al più, ridotto a un’indefinita “potenza divina”, è da relegare nell’interiore sfera emotivo-sentimentale. La vita umana è così privata della dimensione “misterica” e l’uomo assurge a signore assoluto della propria esistenza. Nell’enciclica Evangelium Vitae, Giovanni Paolo II registra questa forte riduzione antropologica operata dall’uomo contemporaneo. Forte di quelle lapidarie, quanto attuali, parole della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes:

7

Su questo argomento rimandiamo agli altri contributi del presente volume. Il processo della secolarizzazione ha conosciuto, soprattutto negli ultimi decenni, un andamento di profondo mutamento interno e un travolgente e diffuso “ritorno al sacro”. Tuttavia tale evoluzione, al di là di ogni previsione, — ed è questo l’elemento di maggiore novità rispetto alla secolarizzazione dell’Ottocento e del primo Novecento — non ha assunto la forma del ritorno al cristianesimo, ma piuttosto quella di un’operazione sincretistica grazie alla quale componenti del cristianesimo si sono combinati con altre proposte religiose, sia di origine orientale sia di più recente elaborazione come le nuove sette, new age, ecc. Ne è così derivata una conseguenza che i teorici della secolarizzazione della seconda metà del novecento non avevano previsto: dopo il cristianesimo non si ha la radicalizzazione della secolarizzazione ma un ritorno ambiguo, confuso, contraddittorio ad un “religioso” segnato da una forte componente magico-superstiziosa che non coincide più con la fede cristiana. A tal riguardo conserva sempre un’indubbia attualità l’analisi fatta da M. Eliade: «La maggioranza dei “senza-religione” non sono veramente liberi da comportamenti religiosi, da teologie e da mitologie. Talvolta si trascinano tutto un ingombrante bagaglio magicoreligioso, deformato fin quasi alla caricatura, quindi difficilmente riconoscibile. Il processo di desacralizzazione dell’esistenza umana è giunto a volte a forme ibride di magia minore e religiosità scimmiesca. Non parliamo delle numerosissime “piccole religioni” che pullulano in tutte le città moderne, le chiese, le sètte, e le scuole pseudoocculte, neospiritualiste o sedicenti ermetiche, perché tutti questi fenomeni appartengono sempre alla sfera della religiosità, anche se quasi sempre si tratta di aspetti aberranti di pseudomorfosi» (M. ELIADE, Il sacro e il profano, Torino 1981, 130).


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«La creatura senza il creatore svanisce… Anzi l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa»8,

con lucidità di analisi, afferma che l’uomo «Chiuso nel ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a “una cosa” e non coglie più il carattere “trascendente” del suo “esistere come uomo”. Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà “sacra” affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole cura, alla sua “venerazione”. Essa diventa semplicemente “una cosa”, che egli rivendica come esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile»9.

È di sicuro questo uno dei motivi per cui nel sentire dell’uomo ordinario, ma anche nella visione antropologica della filosofia esistenzialista, si dà enorme rilievo alla progettualità come equivalente secolarizzato del termine “vocazione”10. In questo modo si è affermata la figura del manager, dell’homo faber, dell’uomo che pianifica. L’esistenza umana sta sotto il segno della progettualità; è la programmazione che dà senso alla vita. Ma il fattore progetto, pur manifestando la nota dell’autonomia e della creatività — un bene d’altronde irrinunciabile! — se viene esasperato induce il soggetto all’autorealizzazione e all’autoreferenzialità e quindi alla solitudine, proprio perché non c’è più l’idea del Creatore e, dunque, della “chiamata”, della relazione, del dialogo, della reciprocità, dell’attuare una “vocazione”. L’uomo si trova immerso nel mondo e nella storia e qui è all’opera nel libero esercizio della sua libertà, impegnato a tracciare da solo il sentiero della sua vita. A partire da questa visione, è significativo il fatto che, in Così parlò Zaratustra, F. W. Nietzsche, riferendosi agli uomini “ridivenuti pii”, ardisce

8

Gaudium et Spes, n. 36, in EV 1/1432. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Evangelium Vitae, n. 22, in EV 14/2234. 10 Non viene qui affrontata la questione della mutazione semantica del termine vocazione determinatasi nel secolo scorso e la sua conseguente equivocazione (vocazione intesa come attitudine o capacità personale). Su tale problematica cfr W. MAGNI, Fare pastorale vocazionale oggi, in La rivista del Clero Italiano 6 (1991) 426-435. 9


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affermare che «è una vergogna pregare»11. Non c’è spazio per il “colloquio” in questa antropo-logia, in questa “parola-sull’uomo”. Non c’è “responsabilità”; non il dialogo, bensì il monologo. Al gesto dell’“alzare le mani” per accogliere con gratitudine il dono della vita corrisponde un indefinito atto “mani-polativo” consumato nell’illusorio “laboratorio” del suo irrefrenabile dominio dove vuole essere, come afferma il Vaticano II, «unico artefice e demiurgo della sua storia»12. Non serve la preghiera per “maneggiare” la vita. Occorre solo “propiziarsi” le “potenze” più influenti per procedere indisturbati verso il buon esito del programma.

1.2. L’oblio dell’ “in-vocazione” La preghiera, oltre ad essere un bisogno dell’uomo religioso, è una sorta di metafora della vita. Se questa è dono quella è relazione in atto, dialogo tra Dio e l’uomo suo somigliante partner. Ha dunque una forte valenza teo-antropologica che riguarda la qualità della vita umana stessa. La mancanza di apertura al “mistero” e al “trascendente”, come afferma il Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa Nuove Vocazioni per una Nuova Europa, «è una sensibilità e mentalità che rischia di delineare una sorta di cultura antivocazionale. Come dire che nell’Europa culturalmente complessa e

11 F.W. NIETZSCHE, Così parlò Zaratustra, Milano 1985, 183. L’affermazione nell’economia dell’opera si trova nella parte III, Degli apostati, 2: «“Noi siamo ridivenuti pii” — confessano questi apostati, e molti di loro non lo confessan neppure, tanto son vili. Ma a costoro io guardo negli occhi, e dico loro in faccia, e al rossore delle loro guance: voi siete di quelli che pregano di nuovo! Ma è una vergogna pregare! Non per tutti, ma per te e per me, e per tutti quelli che han la loro coscienza nella testa. Per te è una vergogna il pregare! Tu lo sai bene: il vile demonio ch’è in te, che ama congiungere le mani, e starsene con le mani in mano, e avere la vita comoda: è questo vile demonio che ti dice: “v’è un Dio”. Ma tu appartieni con ciò a coloro che temon la luce, cui la luce non lascia riposo; ora dovrai, di giorno». 12 Gaudium et Spes, n. 20, in EV 1/1376.


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priva di precisi punti di riferimento, simile a un grande pantheon, il modello antropologico prevalente sembra essere quello dell’uomo senza vocazione»13.

Se l’uomo è senza vocazione, la vita non è un dono, e, dunque, non ha né risposta, né meta. Egli è un nomade soggetto alle intemperie dei suoi (angusti!) e altrui (bramosi!) bisogni e perciò esposto alla fagocitazione e alla superstizione14. La vita esautorata dalla sua dimensione misterica diventa tronfio “progetto” (ripiegamento egoistico) o puro bios (biologismo) Si è o soggetti di una programmazione squilibrata (individualismo assoluto) o oggetti di una pianificazione dispotica (manipolazione mentale oltre che genetica). Così, catapultati nella vita, si “vaga” senza meta, abilmente pilotati da “onnipotenti” programmatori. L’uomo che concepisce la vita come semplice “prodotto” e non come “dono” non ha motivo di pregare; non ha vocazione e quindi una meta ultima. Vive il frammento come se fosse il “tutto”. Se invece la vita è un dono di Dio, essa smette di essere un monologo divenendo piuttosto una “risposta” personale e creativa ad una chiamata, uno spazio di autentica realizzazione della libertà. Se essa è vocazione è relazione, se è semplice progetto umano è “regressione soggettivistica” e “ripetitiva manipolazione”. Siamo dinanzi alla conseguenza esistenziale della visione laica di vocazione e cioè dell’uomo ritorto sul “suo” progetto. Possiamo trovarne un manifesto programmatico in J. P. Sartre nella sua opera L’essere e il nulla. Libertà e progettualità sono termini cari al grande filosofo francese. «[Ne segue che] la mia libertà è l’unico fondamento dei valori, e che niente, assolutamente niente, mi giustifica e adotto questo o quest’altro valore,

13

POVE, Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa Nuove Vocazioni per una Nuova Europa, 6 gennaio 1998, Città del Vaticano 1998, n. 11c. 14 Non sarà forse anche questo uno dei motivi che ha determinato la vertiginosa rinascita della superstizione e della magia unitamente ad alcune forme di sincretismo religioso? L’uomo della ragione strumentale che vive nel tempo dello strapotere dell’autocrazia cibernetica non presenta anche i sintomi di un’irrazionale creduloneria e ingenuità che lo fa andare incautamente dietro alle tante chimere allestite dai numerosi ciarlatani che si susseguono sulla scena della società contemporanea?


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questa o quella scala di valori […] Emergo solo, e nell’angoscia di fronte al progetto unico e primo che costituisce il mio essere, tutte le barriere, tutti gli ostacoli crollano, annullati dalla coscienza della mia libertà»15.

Ma, essendo la libertà estrapolata dal contesto dialogico tipico della divina chiamata, non essendoci più “nulla in cielo”, né bene né male, essa diventa un peso insopportabile nella tragedia della vita. L’uomo, ripiegato egoisticamente in sé, demiurgo e artefice di se stesso, si vede “condannato ad essere libero”. Deve inventare da solo il suo cammino. Dimentico di Dio resta schiavo del suo medesimo io: «L’angoscia è dunque l’autopercezione riflessiva della libertà…»16.

Non gli resta come espediente che rifugiarsi nell’illusorio tempio del “magico” ove innalzare squallidi riti propiziatori per accattivarsi il primo idolo di turno che promette esoterici approdi e rassicuranti certezze. Per questo, inaspettatamente, l’uomo d’oggi si rivolge ai riti propiziatori e abbandona l’in-vocazione liturgica.

1.3. La provocazione dell’in-vocazione Certo, in questa visione del pensiero moderno possiamo trovare anche degli elementi positivi che rimandano alla visione antropologica biblica. Oggi l’uomo nel comprendere se stesso prende le mosse dal concetto di libertà e di storicità e dunque non solo a partire da ciò che egli è metafisicamente, dalla sua “natura”, ma molto più in base a ciò che aspira a divenire con l’esercizio della sua libertà. L’uomo secondo il pensiero biblico non “ha” solo una vocazione ma “è” vocazione. L’indole relazionale, come si apprende dall’antropologia biblica, è una componente strutturale della persona ed affonda le sue radici proprio nell’atto creativo di Dio: “creò l’uomo a sua immagine” (Gen 1,27). È l’esplicitazione tangibile della sua somiglianza con Dio. L’uomo è creato 15 16

J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla, Milano 19755, 76-77. Ibid., 78.


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da Dio per entrare in “comunione con” (“rispondere a”) Dio. Nell’atto creativo è insito quello “vocativo”. La “responsorialità” così costituisce e struttura l’essere dell’uomo. Come sostiene E. Chiavacci «ogni essere umano è essenzialmente un “chiamato”. Nella Bibbia non vi è mai una definizione filosofica esaustiva di “uomo”, del tipo “l’uomo è un essere ragionevole composto di anima e di corpo”. L’uomo è sempre definito nel suo rapporto con Dio, e trova la sua ragion d’essere (il senso dell’esistenza) nel rispondere alla chiamata di Dio»17.

Se c’è una relazione, se l’uomo nella sua concreta vita trova un “Emmanuele”, un Dio-compagno, la sua storia non è una condanna ma luogo di incontro e dunque, grazie all’esercizio della respons-abilità, di futuro. Stare davanti a Dio, prestare ascolto e rispondere, “obbedire” a un Dio che entra nella sua storia e che nei diversi eventi dispiega un disegno unitario verso un futuro di pienezza (oboedi@re: o*b = verso; audi@re = ascoltare: ascoltare verso; dialogare con) non risulta essere limitativo. Creato “a sua immagine”, l’uomo è chiamato a divenire “somigliante a Dio”. Per questo è obbediente, vuole ciò che vuole Dio, ed è capace di dirgli un “sì” definitivo di risposta. La chiamata rivolta a tutti gli uomini, “la” vocazione universale, è quella di entrare in comunione con Dio e divenire simili a lui. Afferma Giovanni Paolo II: «Nella narrazione biblica la distinzione dell’uomo dalle altre creature è evidenziata soprattutto dal fatto che solo la sua creazione è presentata come frutto di una speciale decisione da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello stabilire un legame particolare e specifico con il Creatore: “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen 1,26). La vita che Dio offre all’uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla creatura. […] La vita che Dio dona all’uomo è ben più di un esistere nel tempo. È tensione verso una pienezza di vita; è germe di un’esistenza che va’ oltre i limiti stessi del tempo: “Sì Dio ha creato l’uomo per l’incorrutti-

17

E. CHIAVACCI, Invito alla teologia morale, Brescia 19962, 25.


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bilità; lo fece a immagine della sua natura” (Sap 2,23). […] Fatto da Dio, portando in sé una traccia indelebile di Dio, l’uomo tende naturalmente a lui. […] Quanto mai eloquente è l’insoddisfazione di cui è preda la vita dell’uomo nell’Eden fin quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale e animale (cf. Gen 2,20). Solo l’apparizione della donna, di un essere cioè che è carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cf. Gen 2,23), e in cui ugualmente vive lo Spirito di Dio Creatore, può soddisfare l’esigenza di dialogo interpersonale che è così vitale per l’esistenza umana. Nell’altro, uomo o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di ogni persona».18

Essendo l’uomo un vocato, e proprio questa sua identità lo costituisce in pienezza nella sua altissima dignità, allora l’in-vocazione diventa concretizzazione della libertà, motiva, nutre, sostiene e accompagna il suo impegno nel mondo. Non solo non lo aliena ma lo “in-carna”, lo rende capace di adesione alla sua storia, partecipe della “vicenda” degli uomini suoi compagni di viaggio. È significativa a tal proposito la sollecitazione che ci arriva da D. Bonhoeffer quando constata, soprattutto nell’Etica, come in forza di Cristo il mondo e la storia siano divenuti un “luogo teo-antropologico” per cui è impossibile pensare a Dio e al mondo come realtà reciprocamente separate, tanto meno estranee, e all’uomo come un “irresponsabile” che vive ai margini della storia. «V’è un luogo in cui Dio e la realtà del mondo sono riconciliati, in cui Dio e l’uomo sono diventati uno: per questo e per nessun altro motivo è possibile abbracciarli con un unico sguardo. Questo luogo non è al di là della realtà, nel regno delle idee, ma è un miracolo di Dio che esiste nella storia e si trova in Gesù Cristo, in colui che riconcilia il mondo […]. Chi guarda Gesù Cristo vede realmente Dio e il mondo con un solo sguardo, e d’ora innanzi non può più vedere Dio senza il mondo né il mondo senza Dio [...]. Dio è divenuto uomo: questo è l’unico fatto che permette di conoscere

18

Evangelium Vitae, n. 35, in EV 14/2281-2284.


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l’uomo nella sua realtà senza disprezzarlo. L’uomo reale può ormai vivere dinanzi a Dio, e noi possiamo lasciarlo vivere accanto a noi dinanzi a Dio, senza disprezzarlo né divinizzarlo […]»19.

Pertanto, a partire dalla visione antropologica biblica, storia e preghiera vengono saldate, vita e in-vocazione si incontrano. La vita di ciascuno e la vita comunitaria includono una chiamata: quel disegno di Dio che la preghiera ricerca e celebra come dono e dischiude come responsabilità. La preghiera non aliena l’uomo ma lo aiuta ad interpretare il disegno di Dio dispiegato nel mondo e nella storia. A tal riguardo, in un suo lucido scritto sulla preghiera, il padre A. Louf sostiene che «A una preghiera vera non si può mai rimproverare di essere fuori della vita o di perdersi nell’irreale. Una preghiera che meritasse questo rimprovero per ciò stesso non sarebbe più preghiera. Non sarebbe altro forse che puro formalismo o introspezione sterile. Una preghiera vera si tiene sempre un po’ “nel cuore della terra” (Mt 12,40). È motore di ogni essere, è la forza segreta della sorgente che sostiene le cose nell’esistenza. Un’anima di preghiera, è nel senso più letterale l’anima del mondo. Più vive esclusivamente dello Spirito di Dio, tanto più intensamente vive del mondo e per il mondo»20.

Etica, Milano 19833, 61; 65. E ancora: «Finché Cristo e il mondo sono visti come due sfere che si contrappongono e si escludono mutuamente, all’uomo rimane un’unica possibilità: rinunciare alla totalità della realtà, collocarsi in una delle due sfere, e avere Cristo senza il mondo o il mondo senza Cristo. Nei due casi inganna sé stesso […]. Non esistono due realtà, ma una sola, e precisamente la realtà di Dio che in Cristo si è rivelata nella realtà del mondo. Se siamo partecipi di Cristo ci troviamo al tempo stesso nella realtà di Dio e in quella del mondo. La realtà di Cristo racchiude in sé la realtà del mondo. Il mondo non ha una propria realtà indipendente dalla rivelazione di Dio in Cristo. Voler essere “cristiani” senza vedere e riconoscere il mondo in Cristo significa negare la rivelazione di Dio in Cristo. Non esistono dunque due sfere ma una sola, quella della realizzazione di Cristo, in cui la realtà di Dio e la realtà del mondo sono unite l’una all’altra» (Ibid., 166; cfr 164). 20 A. LOUF, Signore insegnaci a pregare, Casale Monferrato 1976, 121. 19


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2. UNA

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RILETTURA CRISTOLOGICA DELLA VITA: CONSIDERAZIONI A PARTIRE

DALLA GAUDIUM ET

SPES21

I documenti del Vaticano II sono parte di un evento che va oltre quanto in essi è stato decretato22. Il concilio ha dischiuso alla Chiesa pellegrinante di fine II millennio gli orizzonti di una sua presenza nella storia che non la vede concorrente bensì compagna dell’uomo “secolare” che, avendo desacralizzato il mondo, rivendica autonomia e libertà. Una compagnia offerta non per opportunistico accomodamento ma perché, alla luce dell’Evangelo e dell’esperienza umana, essa stessa, guidata dallo Spirito, ha compreso nuove prospettive della rivelazione di Dio in Cristo Gesù, Verbo incarnato, morto e risorto per testimoniare a tutti gli uomini la “misericordia continua”del Padre. Ed è propriamente a partire dal mistero del Verbo incarnato che, secondo la Costituzione pastorale Gaudium et Spes, prende giusta luce il «mistero dell’uomo»23 e dunque il senso più profondo della vita umana. La Chiesa conciliare non solo abbandona la visione negativa e l’approccio ostile nei confronti del mondo moderno24 ma fonda l’inaliena21 Non è oggetto della nostra ricerca approfondire l’antropologia della Gaudium et Spes né tanto meno entrare nel dibattito teologico su tale argomento. Ci basta solo sottolineare la chiara intenzione cristocentrica dell’antropologia presente nella costituzione. Per un primo approfondimento cfr V. CAPORALE, Antropologia e cristologia nella “Gaudium et Spes”, in Rassegna di teologia 2 (1988) 142-165; P. CODA, L’uomo nel mistero di Cristo e della Trinità. L’antropologia della “Gaudium et Spes”, in Lateranum 1 (1988) 164-194; L. LADARIA, L’uomo alla luce di Cristo nel Vaticano II, a cura di R. Latourelle, Vaticano II. Bilancio e prospettive, Assisi 1987, 939-951; A. SCOLA, “Gaudium et Spes”: Dialogo e discernimento nella testimonianza della verità, in Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, a cura di R. Fisichella, Cinisello Balsamo 2000, 82-114: 92-102. 22 La realtà del Vaticano II è più ampia rispetto alle singole decisioni finali e della loro formazione e persino anche dell’intero corpo dei dettati conciliari. Sull’utilizzo della categoria “evento” per un’ermeneutica del Vaticano II cfr M.T. FATTORI-A. MELLONI, L’evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del Concilio Vaticano II, Bologna 1998; G. RUGGIERI, Per una ermeneutica del Vaticano II, in Concilium 35 (1999) 1, 18-34. 23 Gaudium et Spes, n. 22, in EV 1/1385. 24 «La novità principale del Vaticano II è piuttosto costituita dalla considerazione stessa della storia nel suo rapporto con il Vangelo e la verità cristiana. Mentre per lo più nel passato si aveva consapevolezza che la storia vissuta dagli uomini fosse ultimamente indif-


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bile dignità dell’uomo proprio a partire dalla rivelazione cristiana. Questa infatti non “oscura” l’uomo e non ne limita le capacità, bensì gli dà pienezza e compimento. A tal proposito è di una grande efficacia quanto afferma lo stesso documento conciliare: «Cristo… svela anche pienamente (plene manifestat) l’uomo all’uomo e gli fa nota (patefacit) la sua altissima vocazione»25.

Cristo, dunque, non soffoca l’essere umano; non è il suo concorrente, non gli si pone in alternativa; anzi, lo costituisce nella sua specifica e irripetibile identità. L’uomo rinviene in Cristo e nell’Evangelo il significato supremo della sua esistenza e il suo pieno compimento. In lui conosce la sua ultima vocazione, cioè il suo vero nome, la sua identità. Scrive S. Frigato in un suo saggio: «Nella riflessione cristologia del Nuovo Testamento, Cristo, vera immagine del Dio invisibile, è il rivelatore del pieno significato di Gen 1,26: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. Dal momento che tutto è stato creato per mezzo di lui, in quanto “generato prima di ogni creatura”, Cristo è il primogenito, il prototipo di ogni uomo e per questa ragione rivelatore ultimo e definitivo del mistero della vita umana»26.

Con l’incarnazione si svela palesemente che l’uomo sussiste nella relazione con Dio. Nel volto umano del Figlio gli uomini hanno conosciuto il volto paterno di Dio e dunque, come afferma la Gaudium et Spes, il «suo amore»27. Essendo Cristo «l’immagine del Dio invisibile » (Col 1,15), nella ferente per la comprensione del Vangelo (parlo di “consapevolezza”, giacché “in realtà” non è mai stato così), la grande questione del Concilio Vaticano II fu invece proprio qui, anche se le parole usate (pastoralità, aggiornamento, segni dei tempi) non furono subito lucidamente compresi da tutti» (G. RUGGIERI, Per una ermeneutica del Vaticano II, cit., 22). 25 Gaudium et Spes, n. 22, in EV 1/1385. 26 Vita in Cristo e agire morale. Saggio di teologia morale fondamentale, Leumann (Torino) 1994, 147 27 L.c. Nello stesso documento viene ribadito che: «Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, fattosi carne lui stesso e venuto ad abitare sulla terra degli uomini,


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sua umanità e nella sua carne, è stata assunta, senza essere annientata, ogni carne umana e «innalzata a una dignità sublime»28.

Ciò vuole dire la fede della Chiesa quando, con le parole del concilio, confessa che «Nascendo da Maria vergine, egli [il Figlio di Dio] si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato»29.

E ancora, «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo ad ogni uomo»30.

L’uomo così è reso partecipe della somiglianza divina e della dignità filiale propria del Verbo incarnato. Porta inscritto nella sua stessa identità la relazione con Dio. Per questo giustamente il Vaticano II sottolinea che Dio è la massima aspirazione dell’uomo e la sua piena realizzazione31. Ma Cristo, essendo nella sua natura umana e visibile l’immagine di Dio, ha dato piena realizzazione al piano creativo di Dio deformato a causa

entrò nella storia del mondo come uomo perfetto, assumendo questa e ricapitolandola in sé. Egli ci rivela “che Dio è carità” (1Gv 4,8) e insieme ci insegna che la legge fondamentale della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento dell’amore» (Ibid., n. 38, in EV 1/1437). 28 Ibid., n. 22, in EV 1/1385. 29 L.c. 30 L.c. 31 «Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, “il punto focale dei desideri della storia e della civiltà”, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (Ibid., n. 45, in EV 1/1464).


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del peccato. Egli è l’uomo compiuto, «l’uomo perfetto»32, che ha scardinato lo strapotere del peccato, causa della deturpazione del volto dell’uomo33. Ma in che cosa consiste la perfezione umana di Cristo che ha permesso questa meravigliosa opera di ricostituzione dell’identità originaria dell’uomo; da che cosa è data e in che cosa si rivela? Che cosa significa che in lui non c’è peccato e proprio per questo ha potuto restituire agli uomini peccatori la dignità di figli? Perché in Cristo l’uomo può ritrovare la somiglianza divina e dunque può ritrovare in pienezza se stesso? La risposta a questa questione nodale è racchiusa nelle parole di Giovanni Paolo II quando ha richiamato la Chiesa a proclamare con parresia l’Evangelo della vita: «Gesù, che entrando nel mondo aveva detto: “Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (cfr Eb 10,9), si rese in tutto obbediente al Padre e, avendo “amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine” (Gv 13,1), donando tutto se stesso per loro. Lui, che non era “venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto di molti” (Mc 10,45), raggiunge sulla croce il vertice dell’amore. “ Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Ed egli è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori (cfr Rm 5,8). In tal modo egli proclama che la vita raggiunge il suo centro, il suo senso e la sua pienezza quando viene donata»34.

Cristo è l’uomo riuscito (l’Uomo); è la Vita perfettamente compiuta a motivo del fatto che ha consegnato tutto se stesso al Padre e agli uomini facendo della sua esistenza un dono totale. Ecco perché il concilio, guardando a Cristo come all’uomo perfetto, afferma che chi lo segue «diventa lui pure più uomo (ipse magis homo fit)»35. 32 Ibid., n. 22, in EV 1/1385. Di Cristo come «l’uomo perfetto» nella Costituzione pastorale, oltre in questo numero, se ne parla anche ai nn. 38; 41; 45. 33 Afferma il testo conciliare: «Egli è “l’immagine dell’invisibile Iddio” (Col 1,15) è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato» (L.c.). 34 Evangelium Vitae, n. 51, in EV 14/2337-2339. 35 Gaudium et Spes, n. 41, in EV 1/1446.


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3. IL “PER-DONO” DELLA VITA E SUA CONSEGUENZA ETICA Il Verbo incarnato, unendosi all’uomo fino all’ignominia della morte in croce, gli certifica il perdono e la misericordia di Dio. Lo libera così dalla falsità della logica della preda, del ripiegamento egocentrico, che è imperfezione, incompiutezza umana. Tale infatti è fondamentalmente il peccato, un di meno di vita e di umanità e dunque “immaturità”, crescita bloccata, fallimento d’umanità, aborto di vita. L’uomo è così riconsegnato alla verità della sua identità: il dono di sé. Per questo l’Evangelium Vitae afferma che «Dalla croce, fonte di vita, nasce e si diffonde il “popolo della vita”»36.

La verità della vita è dunque il “per-dono”, l’essere un dono. Solo nel dono di sé l’uomo riflette l’Immagine di Dio che è Cristo, l’Uomo donato, Verità e Vita. L’uomo, unito a lui, è nella Verità e possiede la Vita. E la Verità, rivelata definitivamente sul legno del Golgota, è questa: bandire la logica del possesso e vivere nel dono di sé. Vita è il “per-dono”; il “perdono” della vita. L’uomo smette di essere uomo, è imperfetto e incompleto, quando abbandona la logica del dono, quando vive nella rapina e non nell’offerta, quando non comprende la sua vita come «bene ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato […] Se c’è un dono all’inizio dell’esistenza dell’uomo, che lo costituisce nell’essere, allora la vita ha la strada segnata: se è dono sarà pienamente se stesso solo se si realizza nella prospettiva del donarsi; sarà felice a condizione di rispettare questa sua natura. Potrà fare la scelta che vuole, ma sempre nella logica del dono, altrimenti diventerà un essere in contraddizione con se stesso, una realtà “mostruosa”; sarà libero di decidere l’orientamento specifico, ma non sarà libero di pensarsi al di fuori della logica del dono»37.

36

Evangelium Vitae, n. 51, in EV 14/2337-2339. POVE, Documento finale del Congresso sulle Vocazioni al Sacerdozio e alla Vita Consacrata in Europa Nuove Vocazioni per una Nuova Europa, cit., n. 36b. Cfr A. CENCINI, Famiglia e giovani in un mondo che cambia: come educare ed accompagnare alla risposta vocazionale?, in Vocazioni 2 (2003) 62. 37


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Dunque l’uomo non realizza la sua identità-vocazione se non attraverso il dono sincero e totale di sé. La vita è perciò un dono ricevuto e un bene da donare. Dio crea l’uomo guardando al Figlio da sempre totalmente donato al Padre. Nell’economia della redenzione egli è il “per-dono” di Dio. Incarnandosi, il Verbo ricompone la verità dell’uomo e la sua perfezione, che è racchiusa nell’attitudine a fare di tutta la vita, lungo l’intero arco dell’esistenza terrena, un dono totale. Per questo, in Cristo, l’uomo diventa “più uomo”, esalta in sé la vita. La mancanza dell’imperfezione del peccato in Cristo non è da intendere esclusivamente in senso morale ma nel senso che in lui non c’è stato mai spazio per la logica della rivendicazione e del possesso. Paolo in Fil 2,5-11 annunzia che Cristo Gesù, nell’assumere la natura umana, ha spogliato se stesso, non rivendicando la sua natura divina. E i vangeli sinottici, come anche il IV evangelo seppur con un linguaggio diverso, attestano che Gesù manifestava uno stile di vita inconsueto. Egli infatti, pur essendo Signore e Maestro stava in mezzo ai suoi discepoli come colui che serve (cfr Mc 10, 45) ed esprimeva dei gesti che indicano la totale e gratuita condivisione della sua esistenza con quanti gli erano stati dati: il pane spezzato e la lavanda dei piedi nell’ultimo convito con i suoi (cfr Lc 22,1427; Gv 13,1-20). Cristo scardina la logica di Adamo che pensa di percorrere la via della rivendicazione e del possesso “progettando” di diventare come Dio e rinunziando all’“in-vocazione”, dunque alla sua identità di partner di Dio, alla sua relazionalità dialogica. Così Adamo fallisce umanamente, vivendo relazioni imperfette, impacciate e faticose con se stesso (deve nascondersi), con la donna (non più il dialogo ma l’accusa), con la terra (ormai gli comporterà dolore e sudore), con Dio (non può più vivere nel giardino dove lo “incontrava”)38. Egli manca della pienezza della vita. Il peccato prima di essere una trasgressione della norma morale è una diminuzione di umanità in quanto esprime la scelta del possesso e della rapina, del ripiegamento su se stessi. Colui che di sé ha detto: “io sono la Vita” (Gv 11,25) è anche fonte della vita (Gv 10,10: “Io sono venuto perché 38 È ciò che rivela una più attenta lettura del testo genesiaco della caduta così come viene riportato al capitolo 3.


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abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”), perché sulla croce, abbracciata liberamente e per amore, ha espresso il dono massimo di sé al Padre e agli uomini dando così il colpo letale alla radice del peccato che è la logica del possesso e della brama. È opportuno a questo punto della nostra riflessione riportare una sagace pagina tratta dalla recente pubblicazione di G. Ruggieri: «Davanti al Crocifisso, al dono-per noi senza riserve, al per-dono che costituisce la logica profonda della consegna assoluta del Figlio di Dio che per noi fu fatto peccato e maledizione, noi scopriamo la profondità del peccato che è tutta nella logica della “preda” (harpagmos: Fil 2,6), del possesso geloso di ciò che siamo e che ci è stato dato. Noi che veniamo dagli altri, che scopriamo noi stessi solo perché gli altri ci guardano, nel peccato invece possediamo noi stessi e gli altri a partire da noi. […] Il peccato è tutto nello stravolgimento del dono che noi siamo, corrompendolo in autopossesso. Il peccato sorge in quell’intreccio, analizzato nel Discorso sul metodo di Descartes con straordinaria eloquenza, che sorge quando l’uomo, per raggiungere la certezza, parte dalla sua attività pensante: io penso e quindi sono. Il peccato è questa conquista predatrice (perché essa è violenza radicale che esclude l’altro) mediante la quale affermiamo noi stessi ignorando la nostra origine, il fatto che siamo stati dati a noi stessi, il dono che ci ha costituito. Allora facciamo partire la realtà dalla nostra visione delle cose, dal nostro pensare, dal nostro agire, dal nostro io. Il peccato sorge quando, invece della gratitudine e del sì all’altro, per raggiungere la certezza di sé e della realtà, l’uomo si pone senza o contro l’altro. È questa falsità radicale, questa predazione, figlia del bisogno di certezza, che ha bisogno di essere per-donata dalla Verità. […] La trasformazione dello statuto della verità in quello della certezza che possiede il suo oggetto, la decadenza della confessione della verità nella sua definizione, costituiscono il logos, la struttura costitutiva, del peccato stesso, come l’invocazione del per-dono e la confessione dell’essere posseduti da Dio e donati a noi stessi costituiscono il logos, la struttura costitutiva, della giustificazione dal peccato. Quando l’uomo ritrova la capacità di confessare la misericordia continua di Dio, allora soltanto ritrova se stesso come dono, come grazia, e vive nella gratitudine e nella gioia che nasce da essa, quella gioia che abbiamo sperimentato fin da bambini quando siamo stati perdonati da coloro che ci amavano»39. 39

G. RUGGIERI, Cristianesimo, Chiese e Vangelo, Bologna 2002, 187-188.


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Cristo quindi permette di cogliere il significato più profondo della vita a partire dalla cifra del “per-dono”. La visione di essa come “prodotto” o “cosa” da possedere porta alla riduzione manipolativa dell’uomo, unitamente alla contraddittoria tendenza verso una religiosità propiziatoria a motivo della paura originata dalla sua stessa filosofia e prassi di vita. Il cristiano invece interpreta il significato della vita a partire dall’Uomo crocifisso sul Golgota sotto Ponzio Pilato, risorto e apparso a Cefa e ai Dodici (cfr 1Cor 15,5). Sa che in lui morto e risorto si è aperta la possibilità di una “esistenza in-vocazione”. La vita, in Cristo, è vocazione al dono. Essa è dunque, risposta, preghiera, “in-vocazione”. Dire che la vita è dono significa dire che essa è tutta preghiera, risposta orante, offerta gradita a Dio. Poche pagine “teologiche” a tal riguardo risultano essere efficaci come questi appunti per un progetto di studio scritti in carcere da D. Bonhoeffer con l’inchiostro della sua stessa vita di testimone di Cristo crocifisso: «Chi è Dio? Anzitutto, non una fede generica in Dio nella sua onnipotenza ecc. Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. Incontro con Gesù Cristo. Esperienza del fatto che qui è dato un rovesciamento completo dell’essere dell’uomo per il fatto che Gesù “esiste per altri”, esclusivamente. L’“esserci-per-altri”di Gesù è l’esperienza della trascendenza! Solo dalla libertà da se stessi, solo dall’“esserci-per-altri” fino alla morte nasce l’onnipotenza, l’onniscienza, l’onnipresenza. Fede è partecipare a questo essere di Gesù. (Incarnazione, croce, risurrezione). Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto “religioso” con un essere, il più alto, il più potente, il migliore che si possa pensare — questa non è autentica trascendenza — bensì è una nuova vita nell’ “esserci-per-altri”, nel partecipare all’essere di Gesù. Il trascendente non è l’impegno infinito, irraggiungibile, ma il prossimo che è dato di volta in volta, che è raggiungibile. Dio in forma umana! non il mostruoso, il caotico, il lontano, l’orribile in forma di animale, come nelle religioni orientali; ma neppure nelle forme concettuali dell’assoluto, del metafisico, dell’infinito, ecc.; e neppure la greca forma divino-umana dell’“uomo in sé”, bensì “l’uomo per altri”!, e perciò il crocifisso. L’uomo che vive a partire dal trascendente»40. 40 D. BONHOEFFER, Progetto per uno studio, in ID., Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di E. Betghe, Cinisello Balsamo 1988, 462.


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Ogni uomo proprio perché è stato creato in Cristo porta iscritta nella profondità del suo essere una tensione alla pienezza che non potrà conseguire «se non attraverso un dono sincero di sé»41,

che non sopporta l’astrazione o il paternalismo. Dono di sé significa collocarsi realisticamente nella vita dell’altro con l’unica cifra della gratuità e del “sino alla fine” (Gv 13,1); è assunzione di “respons-abilità”. La risposta totale a Colui che ci ha chiamati passa sempre attraverso il nostro essere a favore degli altri. L’altro/gli altri sono il tempio dove il Dio tre volte santo vuole essere incontrato e servito con un culto che abbraccia tutta la vita. È Cristo stesso che fonda e affida la comprensione ultima della vita come “vocazione al dono di sé”; perché l’uomo è stato pensato e creato in lui, che è la Parola creatrice fattasi carne. Proprio come è accaduto ai discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35), al suo cospetto gli occhi si aprono. Nel momento in cui Gesù compie il gesto eucaristico dello spezzare il pane, annunziando nel simbolo la sua morte oblativa in favore degli uomini peccatori, comprendono la Verità della Vita: morendo a se stessi e alla logica della rapina, si è nella vita e si dona vita. In lui e con lui si solca compiutamente il sentiero della Vita. Egli che è Verità e Via, dischiude il significato ultimo della Vita (cfr Gv 14,6) e chiama a ripercorrere le sue stesse orme avendo lasciato a noi l’esempio: «Cristo infatti patì per voi lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme» (1Pt 2,21).

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Gaudium et Spes, 24, in EV 1/1395.



ITINERARIO DI FEDE CHE AIUTA A RISCOPRIRE IL SENSO DEL DONO

ALBERTO NEGLIA O. CARM.*

Per cercare di offrire delle tracce per un cammino di fede che aiuti a riscoprire il senso del dono, è necessario superare una certa impostazione di itinerario di fede o itinerario spirituale che un passato non lontano ci ha consegnato.

1. IMPOSTAZIONE DEL PASSATO Il pensiero cristiano, infatti, maturato entro il solco della filosofia greca — nella sua fondamentale versione platonica o neoplatonica — ha offerto al cristianesimo un disegno complessivo di realtà: quel disegno che pur con varianti e modulazioni diverse, si struttura attorno all’immagine dell’uomo come desiderio di Dio, della vita umana come ritorno a Dio, suo bene supremo unicamente vero. In questa prospettiva l’uomo è protagonista, soggetto, mentre Dio è oggetto del suo desiderio. In questo orizzonte l’uomo tende a autoperfezionarsi per raggiungere Dio e contemplare la sua bellezza. Questa prospettiva facilmente dà adito a una concezione meritocratica del cammino di fede mettendo in oblio la consapevolezza del dono. In questo orizzonte è possibile che si affacci la tentazione di accaparrarsi Dio, di renderlo benevolo con comportamento corretto, ma anche con una preghiera interessata, caricandola di attesa miracolistica e magica. Questa attesa miracolistica e magica è stata presente nel passato e lo è ancor di più oggi perché, nella diffusa domanda religiosa è presente il *

Docente di Teologia spirituale nello Studio Teologico S. Paolo di Catania.


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Alberto Neglia o. carm.

bisogno di sicurezza e di punti di riferimento più affidabili: spesso è presente il desiderio di una religione consolatoria e intimistica, di esperienza di sensazioni emotive forti, effervescenti di tipo miracolistico. In questo fenomeno alcuni vi leggono una forma di riflusso: nel senso di una pericolosa regressione nel sacro infantile e securizzante, una involuzione verso il “divino immediato” e l’intimismo dimissionario, per l’incapacità di affrontare la storia con pazienza e con responsabilità. È il tentativo dell’uomo, contrariamente alla proposta biblica dove è Dio che fa l’uomo a propria immagine e somiglianza, di fare Dio a somiglianza dell’uomo e delle creature. È sempre un Dio funzione, maschera della propria autosublimazione.

2. LA PROPOSTA BIBLICA La riflessione teologico-spirituale contemporanea, rivisitando il dato rivelato e il pensiero dei Padri della Chiesa, sta riscoprendo che nell’orizzonte biblico, Dio non è prima di tutto oggetto del desiderio dell’uomo, ma soggetto di una iniziativa d’amore perdonante che a Israele, sposa infedele, offre la riconciliazione e la ricostruzione. Ora, questa differenza non è una variante all’interno di una sostanziale identità di Dio; è, invece, il capovolgimento della intenzionalità che comanda il rapporto tra Dio e l’uomo. Nell’orizzonte biblico, quindi, prima di tutto c’è Dio amante. E questo amore di Dio è il luogo in cui tutti i temi acquistano la loro identità biblica, l’asse attorno a cui si organizzano per riceverne posizione e funzione, stato e ruolo. Questo volto di Dio amante traspare da ogni pagina della Bibbia, soprattutto attraverso i simboli e in particolare della simbologia nuziale tanto cara ai profeti (Osea cc 1-2; Isaia 54; 62,1-5; Ezechiele 16) ma anche ai libri sapienziali (Cantico dei cantici) e poi a Gesù (parabole nuziali: Mt 22,1-4; 25,1-13) e all’Apocalisse, dove la Gerusalemme celeste è vista come la sposa dell’Agnello. Tutto il discorso simbolico trova una dizione esplicita, un canto esplicito nel Salmo 136 che dopo ogni versetto scandisce: “perché eterno è il suo amore” (la sua misericordia). Israele intende mettere sotto il segno dell’amore di Dio ogni tappa della propria storia e ogni struttura della


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creazione, così che quell’amore risulti a un tempo generale e capillare, globale e dettagliato, fondante e accompagnante. Creazione e storia, e il loro confluire nel pane quotidiano a tutti i viventi (v 25), sono gli ambiti su cui l’amore di Dio ha esercitato la sua efficacia e la sua sempre nuova fedeltà. Il luogo del primo incontro è stato la storia: non una storia universale, ma la concreta storia particolare di una minoranza etnica guidata da Dio, che cerca e trova liberazione e si costituisce come popolo sotto il segno della sua Alleanza1. Ma sotto quest’incontro faccia-a-faccia, nella chiarezza dell’Alleanza e della responsabilità, Israele scopre lentamente una presenza sotterranea che aveva preparato da lontano le stesse condizioni di possibilità dell’esistenza sua e di ogni altro popolo, una presenza che aveva fatto sbocciare il primo dei giorni, la luce, e aveva abbozzato e promesso l’ultimo, e il sabato del Signore. Storia e Creazione in cammino dicono, insieme, che l’amore di Dio è sempre particolare e al tempo stesso universale, singolarissimo senza essere esclusivo, personale e dentro l’immensa fraternità del genere umano e del cosmo. Caratteristica fondamentale di questo amore di Dio, nel senso preciso che sta a fondamento di tutte le opere di Dio, è la sua gratuità. Non c’è nulla dietro l’amore di Dio, che ne determina il sorgere; nulla davanti a Lui che ne solleciti l’iniziativa. Né una causalità che lo produca, né un obiettivo da raggiungere, ma la pura libertà che vuol donare senz’altra ragione che quella immanente al dono. Israele non ha né qualità naturali che lo facciano emergere sugli altri popoli, né meriti morali da esibire: ma l’amore divino è motivazione autosufficiente: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli — siete infatti il più piccolo di tutti gli altri popoli — ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento

1 Cfr A. RIZZI, Dio in cerca dell’uomo. Rifare la spiritualità, Cinisello Balsamo (MI) 1987, 35.


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fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re d’Egitto» (Dt 7,7-8)2.

Questa prospettiva biblica non è indifferente in ordine al discorso sul cammino di fede, anzi è decisiva per una corretta spiritualità. Contro ogni tendenza “meritocratica” o volontaristica la Bibbia afferma il primato della grazia, dell’opera divina, della salvezza. Dio è il primo e l’ultimo (Is 41,4; 44,6) è l’alfa e l’omega di ogni itinerario di fede (Ap 1,8).

3. “NOI VERREMO A LUI E PRENDEREMO DIMORA PRESSO DI LUI” Dio non solo ci fa dei doni, ma ci consegna se stesso. In ogni promessa, si compromette sempre anche colui che promette. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna»(Gv 3,16).

E il Figlio che è “consegnato” ci rivela: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).

E ancora, «Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,25-26).

Gesù ci rivela che il Dio che ci offre se stesso è Dio Trinità. Ci rivela che questo Dio-Agàpe è Padre Figlio e Spirito Santo. Noi siamo abituati, da una certa mentalità scolastica, a pensare l’essenza di Dio come qualcosa di impersonale, di statico, insomma come 2

Cfr ibid., 35-36.


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“l’Essere assoluto”. La rivelazione cristiana invece, non ci ha svelato un Essere assoluto e supremo, una Sostanza impersonale. Il messaggio cristiano ci svela una meravigliosa ed esaltante realtà che ci coinvolge personalmente. Il Dio che ci ha manifestato Gesù Cristo è un Dio la cui essenza è la comunione, cioè la Trinità. La sua vita intima, eterna, ciò che lo costituisce Dio, è il suo essere in comunione3. Questa affermazione è assolutamente vitale per noi. Tutto sta in piedi o cade, secondo che la realtà di Dio sia o non sia Trinità. Infatti, se l’essenza di Dio è comunione, allora la vita dell’uomo sarà caratterizzata dalla comunione; se Dio è soggetto a un rigido monoteismo, allora la vita dell’uomo sarà caratterizzata dall’individualismo, con tutte le sue conseguenze4. La Rivelazione, infatti, non solo ci svela il volto di Dio, ma manifestandoci il volto di Dio trinitario, in esso e per esso rivela anche il volto dell’uomo e il senso della storia. L’uomo infatti, è stato plasmato a immagine e somiglianza del Creatore: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”» (Gn 1,26),

3

Per indicare questa comunione i teologi orientali, soprattutto con S. Giovanni Damasceno introdussero il termine pericòresi. È un termine molto denso, di difficile traduzione, ci apre a una proficuua comprensione del dinamismo trinitario. Pericòresi significa anzitutto l’azione di coinvolgimento di una Persona con le altre due. Ogni Persona divina penetra l’altra e si lascia da essa penetrare. Questa interpretazione è espressione dell’amore e della vita che costituiscono la natura divina. È proprio dell’amore comunicarsi: è naturale che la vita si espanda e voglia moltiplicarsi. Così i divini Tre si incontrano da tutta l’eternità in un infinito sbocciare di amore e di vita in direzione l’uno dell’altro. L’effetto di questa reciproca interpenetrazione è che ogni Persona è presente nell’altra. Questo è il secondo significato di pericòresi. In parole semplici significa che il Padre è sempre nel Figlio e gli comunica la vita e l’amore. Il Figlio è sempre nel Padre conoscendolo e riconoscendolo amorosamente come Padre. Padre e Figlio sono nello Spirito Santo come espressione vicendevole di vita e di amore. Lo Spirito Santo è nel Figlio e nel Padre come fonte e manifestazione della vita e dell’amore di questa fonte abissale. Tutti sono in tutti. (Cfr L. BOFF, Trinità: la migliore comunità, Assisi 1990, 35-36; cfr anche ID., Trinità e società, Assisi 1987, 171-174). 4 Cfr Y. SPITERIS, Salvezza e peccato nella tradizione orientale, Bologna 1999, 19-20.


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per cui la visione che la fede cristiana ha dell’uomo è propriamente trinitaria. L’uomo è immagine del Dio Trinitario5. L’uomo, quindi, abitato dallo Spirito Santo, che scende e inabita il suo cuore imprimendo in esso l’immagine del Figlio, attirando dietro di sé il Padre stesso, egli, nella sua costituzione fondante, è a impronta dell’immagine trinitaria, ha un carattere dunque relazionale, dove la relazione non può essere intesa solo a livello psicologico-sociologico, riducibile quindi a qualcosa di accidentale, ma è ontologica, dal momento che egli esiste in quanto lo Spirito gli partecipa l’amore personale di Dio, facendo sì che nell’uomo, a livello creaturale, si realizzi la stessa impronta delle Persone divine. L’uomo si scopre così come un essere che esiste in quanto creato da una relazione fondante del Creatore che non viene mai troncata6.

4. IL DINAMISMO TRINITARIO NELL’UOMO In forza del suo rapporto costitutivo con la Trinità santa l’uomo è dunque fondamentalmente chiamato a vivere la relazione presente nella vita divina che gli è partecipata. 5 A S. Maria Maddalena de’ Pazzi, mistica del ’500, tutta l’opera della Trinità si presenta come un’offerta di pace, di amore riconciliato, che sorge dal Padre e, per il Verbo, attraverso l’opera dello Spirito fino alla creatura, e, tutto ciò che è vita trinitaria e è offerto alla creatura che diventa “trinità creata”. La Santa dando voce a Dio padre dice: «Fu data questa pace in paradiso, nel trono della Trinità dall’eternità. Fu data nello spirare del Padre nel Verbo, e del Verbo nel Padre e nello Spirito. E fu data questa pace nello spirare che avviene tra noi tre Persone divine e una per essenza, e in essa, fu concepito e destinato di creare i puri spiriti degli Angeli. Ma molto maggiore fu questa pace , quando nel guardare che rivolse una Persona nell’altra, si concepì il già concepito uomo. In quello sguardo, ci invaghimmo tanto della grandezza e bontà nostra che, senza desiderare, desiderammo d’un desiderio immenso, di comunicare questa nostra bontà. E non trovando chi fosse capace di poter ricevere tale comunicazione, deliberammo di creare l’uomo a nostra immagine e somiglianza, mostrando in ciò il più grande amore che potessimo portare ad una creatura nel farla simile a Dio. E così, fu creata una nuova trinità, perché anche in essa, si potesse dare questa pace. (…) E tutto fu fatto, perché la trinità creata potesse godere la Trinità increata»(S. MARIA MADDALENA DE’ PAZZI, Revelatione e intelligentie, a cura di P. Visentin, Firenze 1964, 76-77 ) 6 Cfr M. RUPNIK, Teologia Spirituale, in Teologia, a cura di G. Barbaglio, G. Bof, S. Dianich, Cinisello Balsamo (Mi) 2002, 1765.


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È chiamato ad esprimere il volto del Padre, il quale essendo, nell’amore eterno, sorgività pura dona alla creatura umana di essere nel tempo sorgente di amore. Questo significa che l’uomo è costitutivamente capace di amare, chiamato a donare l’amore: amato dall’eternità, egli è fatto per amare. È chiamato ad esprimere il volto del Figlio, il quale essendo accoglienza pura del progetto del Padre, rende l’uomo recettivo, capace di accogliere, fino alla più alta trasparenza possibile nel creato, l’amore eternamente amante. In questa recettività, ad immagine del Figlio, l’uomo scopre continuamente la necessità dell’amore degli altri: in quanto segnato costitutivamente dalla recettività l’uomo ha bisogno dell’altro. Il suo essere non è l’incomunicabile solitudine della sostanza individuale, né il solitario autopossesso del soggetto, ma è, nel senso relazionale della storia trinitaria, l’essere con gli altri nella comunione dell’amore. Gli altri non sono dunque il limite del proprio esistere, ma la soglia dove si comincia veramente ad esistere. Nel più profondo del suo essere creaturale l’uomo ha bisogno dell’altro. È chiamato da esprimere il volto dello Spirito Santo, il quale imprime nella creatura umana un certo riflesso di quello che Egli è nel mistero di Dio. Egli essendo tra il Padre e il Figlio l’eterno legame di unità ed insieme colui che fonda l’apertura infinita del loro amore, diventa nell’uomo Spirito di unità e di uscita da sé. Così l’uomo è abilitato ad essere soggetto e oggetto d’amore, unità vivente di questo duplice movimento dell’amore: amando, egli si fa amare; lasciandosi amare, egli ama. Quest’unità di sorgività e di recettività è il fondamento di quella reciprocità delle coscienze in cui si realizza pienamente la persona umana7.

7 Cfr B. FORTE, Trintà come storia. Saggio sul Dio Cristiano, Cinisello Balsamo (MI) 1985, 174-178.


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5. NEL BATTESIMO IL CREDENTE È INIZIATO AL DINAMISMO TRINITARIO

«La vita divina trinitaria, un mistero di luce a noi inaccessibile, ci viene dallo Spirito resa percettibile e comunicata nella carne del Cristo»8.

Essa, quindi, giunge a noi con una connotazione cristologica che rimane una caratteristica tipica e indelebile a tutti i livelli della vita cristiana. Nel mistero pasquale, in particolare, che è evento Trinitario, Dio manifesta il suo volto e segna definitivamente del suo divenire eterno la vita dell’uomo che accoglie il suo respiro. La fede cristiana, poi, coglie l’atto decisivo del coinvolgimento della Trinità nella vita dell’uomo nella celebrazione del battesimo nel nome della Trinità (Mt 28,19). Nella vita di colui che viene battezzato viene a comunicarsi la vita divina dei Tre9, la loro natura (2Pt 1,4), e perciò a narrarsi nel tempo la storia eterna del loro amore. Col battesimo l’uomo è immerso nel mistero di Gesù, nella sua morte e resurrezione (Rm 6,3-5), egli diventa figlio di Dio, nell’unico Figlio (Gal 3,26) e nel dono dello Spirito Santo, è rigenerato e rinnovato (Tt 3,5) e può ormai rivolgersi a Dio chiamandolo Padre (Rm 8,15-26). L’esistenza battesimale, quindi, è radicata e fondata nella Trinità e si esplica in un dinamismo, che porta in sé l’analogia della vita intradivina. L’evento battesimale, quindi, può definirsi un essere iniziati al vissuto caritativo trinitario offerto nella forma cristica pasquale dallo Spirito. Segnato da questa presenza, il credente non è più come prima, è abbracciato e chiamato a vivere nella storia il dinamismo trinitario, avendo come modello dinamico Gesù di Nazareth. La sua vocazione intrinseca è quella di essere nella storia riflesso della Trinità. Per cui vivere la relazione 8

T. GOFFI, L’esperienza spirituale, oggi, Brescia 1984, 28 Scrive Elisabetta della Trinità, in una lettera alla mamma: «Col battesimo la Santissima Trinità scende nell’anima» (ELISABETTA DELLA TRINITÀ, Scritti, Roma 1988, 292). E nella lettera a una amica aggiunge:«È il battesimo che ti ha fatto figlia d’adozione e ti ha segnato del sigillo della Trinità Santa» (ibid., 473). 9


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nella gratuità, farsi dono, accogliere, vivere un rapporto di reciprocità sempre aperto, sentirsi responsabile dell’altro, non è più un optional ma una necessità intrinseca alla sua dignità di persona abitata, negarsi a tutto questo significherebbe negarsi alla vita e alla vita riuscita, vissuta in pienezza.

6. ASSENSO VITALE ALLA FEDELTÀ TRINITARIA

«Essere cristiani, quindi, è un dono e una chiamata, ma anche una scelta, una risposta libera e una conquista: il battezzato non è ancora cristiano a pieno diritto, ma un candidato a diventarlo in forma piena. […] È chiamato a realizzare nella vita ciò che è diventato germinalmente nel sacramento»10.

Questo vuol dire che il dono gratuito ricevuto va continuamente coltivato in un itinerario di crescita umana e di fede, in modo da diventare sempre più, qualunque siano le scelte vocazionali, «conformi all’immagine del Figlio…, il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).

È alla luce di Gesù risorto, allora, che va ridisegnata una seria prospettiva educativa alla fedeltà evangelica. E Gesù, con il suo stile, scoraggia qualsiasi evasione verso il prodigioso e il meraviglioso, lo stesso dramma della croce non lo vive da eroe esaltato, ma con consapevolezza accompagnata dalla paura e dal tormento che un tale evento normalmente comporta (Mc 14, 33-36; 15,34). Si tratta di educarsi, in contrapposizione alle scelte dell’uomo che sembrano ispirate dal desiderio di potere e dalla preoccupazione di emergere sugli altri con tutti i mezzi a disposizione, leciti e illeciti, ad imitare Cristo, a rendere presente la sua prassi messianica che senza forzature può essere definita come prassi del dono, dove, cioè, i rapporti sociali siano fondati sul dare, sul condividere, sull’estendere agli altri ciò che è proprio. Una prassi, 10 P. SORCI, Iniziazione: una chiarezza ritrovata, in Rivista di Pastorale Liturgica 196 (1996) 21.


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cioè, capace di porre dei segni di un altro tipo di convivenza fra gli uomini e di stimolare conseguentemente la ricerca di nuovi paradigmi. Ciò che il cristiano può infatti offrire, come risposta all’amore di Dio che lo fa vivere e sperare nonostante tutto, è un donarsi senza limiti, un donarsi che è tale solo se non rivendica nulla, ma semplicemente fa dire al credente, in qualsiasi situazione si trovi, “eccomi”11. Si tratta, in altri termini, di risignificare la propria esistenza, cioè, comprenderla ed esplicitarla a partire dall’incontro con Cristo morto e risorto, e da quello che comporta la decisione di affidarsi totalmente a lui e appassionarsi alla sua causa. Grazie a questa risignificazione è possibile prendere coscienza delle proprie possibilità creative e dire sì a una vita differente, a una vita non alienata e non atrofizzata in angusti limiti, ma aperta a tutte le vicissitudini del quotidiano e coinvolta nel processo di trasformazione della storia, nella logica della gratuità e del dono, come gratuita e consegnata è stata la vita di Gesù. È chiaro che vivere questo atteggiamento radicale, fondato sulla donazione assolutamente gratuita di Dio sull’uomo, che fa scaturire un obbligo e una responsabilità verso ogni essere umano per il solo fatto che è essere umano senza che abbia ad intervenire nessun’altra condizione o qualsiasi fondazione, passa attraverso un severo percorso educativo.

7. IL PERCORSO EDUCATIVO Questo percorso educativo nel suo dinamismo, non può venire tratteggiato come una ascesa graduale e armonica. Si direbbe piuttosto un incrocio di vie: quella tracciata dalla storia del mondo, quella liturgica percorsa dalla comunità ecclesiale, quella personale e irripetibile del singolo con i suoi problemi e i suoi limiti, con le sue riserve vitali e i doni di grazia a lei offerti dal Dio della salvezza12. Questo processo educativo passa attraverso un’intensa vita liturgica, l’assimilazione progressiva della Parola di Dio e degli atteggiamenti evangelici, la preghiera 11

Cfr M. CUMINETTI, Gratuità prassi del dono, in Servitium 83 (1992) 12-13. Cfr S. DE FIORES, Itinerario spirituale, in Nuovo Dizionario di Spiritualità a cura di S. De Fiore e T. Goffi, Roma 1979, 800-801. 12


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personale, ma anche l’impatto con la storia e l’apertura alle sue interpellanze, che aiutano il credente ad avere una più ricca e consapevole conoscenza di sé, una profonda armonia personale, e una attitudine a saper fare dono di sé nell’amore. Questo itinerario educativo, se vissuto con fedeltà, lentamente consentirà al credente di acquisire una fede salda e personale, la libertà dei figli di Dio, la capacità di accogliere e farsi carico in modo responsabile dell’altro e di essere presente nella Chiesa e nel mondo con spirito critico e creativo.

7.1. Una fede salda e personale Mentre la fede infantile è instabile (Ef 4,14) e bramosa di carismi vistosi (1Cor 12,31), la fede matura è caratterizzata da saldezza di convinzioni e da fiduciosa adesione di tutto l’essere alla persona di Gesù. Il credente, maturando nella fede, ritrova in Cristo lo spazio vitale nel quale pensa, ama, opera. Egli si rende conto che il Dio che lo colma della sua presenza lo espropria, lo strappa a se stesso ma avverte anche che non può fare a meno di questo nuovo ambito vitale che lo salva, lo rende capace di accogliere la vita con le sue vicissitudini, e di farsi dono agli altri.

7.2. La libertà dei figli di Dio Consegnato in modo consapevole allo Spirito del Risorto, il credente dallo stesso Spirito è reso “pasta nuova” (1Cor 5,7), “creatura nuova” (2Cor 5,17), figlio nel Figlio, vive quindi la situazione gioiosa, creativa, propria della libertà dei figli di Dio. Questa libertà di figlio gli consente di «discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2),

di farsi


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«mediante la carità servo degli altri» (Gal 5,13),

ma anche di guardare in faccia con lucidità gli idoli, divoratori subdoli degli spazi di libertà dell’uomo, le strutture sociali inique o quei “circoli diabolici della morte” quali: la povertà determinata da sfruttamento, il potere nelle sue forme di dittatura, la cultura mafiosa, la cultura di guerra, la cultura razzista che manipola l’uomo, la distruzione industriale della natura, il non senso della vita, da cui nasce l’apatia. Da uomo libero, illuminato dalla Parola, egli non guarda con rassegnazione a questa logica di morte, né pretende che Dio in modo miracolistico magico debba intervenire per risolvere i drammi dell’umanità, ma consapevole che il progetto di Dio non si vive saltando la storia con tutte le sue nefandezze, ma assumendola, se ne fa carico nel suo impegno quotidiano per darle un senso nella logica del regno e della gratuità.

7.3. Integrare l’altro Man mano che il credente acquista consapevolezza della propria identificazione soggettiva, è messo in grado di aprirsi a un corretto rapporto con gli altri. Diventa, così, capace di sfaldare la corazza che tutela il proprio narcisismo e piano piano emigra dal proprio io, dall’individualità verso l’altro, nella consapevolezza che l’altro diviene il “significante” della propria vita13 Questo cammino di maturazione è un processo molto delicato perché pur riconoscendo l’altro come il significante della propria vita ci si rende conto subito che l’altro è “diverso” e quindi viene percepito come un concorrente, un aggressore che raggiunge la propria vita, la scuote, la rende vulnerabile e quindi è inevitabile che con lui si entri in conflitto. Accedere all’alterità quindi non è facile, ma il credente, consapevole che si matura solo se in risposta a un appello si vive una vera relazione, si attiva per far crollare i muri dell’isolamento che lo porterebbero ad eseguire la funebre 13

1992, 8

Cfr C. YANNARAS, Variazioni sul Cantico dei cantici, Cernusco (MI) Schio (VI)


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lamentazione della morte e si apre alla reciprocità della relazione che gli consente di accedere alla pienezza della vita. Questo accesso alla vita adulta nella fede vi verifica sempre attraverso la dinamica del “chicco di grano” che deve morire per portare frutto, ma è l’unica strada che consente all’uomo di scoprire l’altro come dono e come dono originale e irrepetibile che lo risveglia alla vita nella dialettica/conflitto del quotidiano.

7.4. Nella chiesa da responsabili Il credente, che si esercita in un serio processo educativo, guarda in faccia la tentazione che insidia chi respira la cultura del postmoderno e che ha incidenza anche nell’ambito della fede: quella del privato che induce ad appartenenze parziali e di comodo, alla ghetizzazione e quindi al rifiuto di coinvolgimento globale e fedele nel tempo. Per ovviare a simile tentazione, egli si coinvolge nella vita della comunità ecclesiale assumendo impegni e responsabilità e promuovendo all’interno della stessa la valorizzazione di tutte le vocazioni. Egli sa che la chiesa è santa ma è anche peccatrice eppure la ama, la guarda come madre che l’ha generato alla fede, e come sacramento dell’amore di Dio per tutta l’umanità. Amare la Chiesa in modo maturo significa camminare insieme con essa, farsi carico anche dei suoi lati oscuri; ma vuol dire anche non essere ingenuo, non chiudere gli occhi sui lati meno evangelici della stessa, e saper esercitare quell’aspetto delicato della carità che è la correzione fraterna. In questa logica l’adulto impara a scrutare ciò che vede e a dinsincrostare abitudini e modi di fare che non consentono alla profezia evangelica di esplodere nei dinamismi della comunità. Impara, rifuggendo dalla cortigianeria ossequiosa ed ipocrita, a parlare con ‘parresia’ e a prendere posizione per rispondere alla propria vocazione. Parlare, prendere posizione, a volte è rischioso, è come imparare a morire, ma è l’unico modo per infrangere facili uniformità che l’egoismo del forte, il conformismo del debole o l’ideologia dell’utopia vorrebbere imporre o mimare14; uniformità 14

Cfr M. DE CERTEAU, Mai senza l’altro, Magnano (VC) 1993, 47.


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artificiose ricalcate su spiriti pusillanimi e infantili che certamente non giovano alla causa del regno. L’adulto nella fede impara a stare nella comunità, con dignità, consapevole che il Padre gli ha affidato una missione, parla e si coinvolge, ma coltiva anche un atteggiamento di ascolto perché sa che attraverso la voce dell’altro il Padre raggiunge la sua esistenza e lo coinvolge verso orizzonti nuovi.

7.5. Nella società con spirito creativo Un serio itinerario di fede educa il credente a vivere un rapporto intenso con Cristo. La sua presenza unifica la sua vita e non gli consente fughe dalla storia, anzi lo impegna, nella logica dell’incarnazione, a prendere sul serio il mondo e la sua vicenda. È una presenza quella di Cristo che lo fa attento alla condizione degli oppressi e degli emarginati e lo appassiona con fedeltà creatrice a promuovere il bene comune con i suoi valori di uguaglianza, fraternità, giustizia sociale, libertà. È una presenza che attiva nel credente una prassi di pace. Una pace, che non è risultato di alleanze strategiche, di equilibrio di forze e di armi, di alchimie politiche e del buon senso dei “grandi” di questo mondo, ma dono accolto nella fede. Dono, portato nella fragilità della propria carne, dono che invita a farsi carico della violenza del mondo e ad accettare anche la ‘martyria’ e la follia della croce perché questo dono diventi patrimonio dell’umanità.

8. IL CORAGGIO DELLA CROCE È da sottolineare, infine, che questo processo educativo che porta il credente a diventare nella storia riflesso del divenire trinitario, declinata nella relazione gratuita, richiede il coraggio di consegnarsi alla logica imprevedibile della croce. Sembra un paradosso ma è così. È stato così per Gesù: Egli, deciso a portare a compimento il progetto del Padre, impegnato a dare un respiro all’uomo, si è trovato davanti un cammino segnato dalla croce, e, nella fedeltà al padre e all’uomo, ha vissuto l’evento croce non


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come fatalità storica, ma come libertà che mette a rischio la vita stessa per testimoniare l’amore all’uomo e per abilitarlo alla vita. Il credente che mette i piedi sulle orme di Gesù sa che è associato alla sua stessa sorte e sperimenta che la croce è la sua silenziosa compagna quotidiana. Questa croce, però, è grazia che «scalza il dispotismo dell’ego incurvato, sgretola le basi del personaggio narcisista con cui ci veneriamo per aprirci alla vita che è relazione, rispetto, condivisione»15.

15

CRUPPO DE “IL GALLO”, Vivere il quotidiano, Leumann (TO) 1988, 174.



NEL SEGNO UMILE DELLA BELLEZZA DI DIO PER UNA RILETTURA DELLA DEVOZIONE DELLO SCAPOLARE DEL CARMINE

EGIDIO PALUMBO*

1. TRA VERA DEVOZIONE E MAGIA Si sa, la Devozione dello Scapolare del Carmine è una delle forme di pietà popolare più diffuse, non solo in Sicilia e nel centro-sud d’Italia, ma un po’ in tutto il mondo cattolico. Al riguardo è significativo quanto attesta al n. 205 il recente Direttorio su pietà popolare e liturgica: «Nella storia della pietà mariana si incontra la “devozione” a vari scapolari, tra cui spicca quello della beata Vergine del Monte Carmelo. La sua diffusione è veramente universale e anche ad essa si applicano senza dubbio le parole conciliari sulle pratice e i pii esercizi “raccomandati lungo i secoli dal Magistero” (LG 67; cfr PAOLO VI, Lettera al Card. Silva Henríchez. Legato pontificio al congresso mariologico di S. Domingo, in AAS 57 [1965] 376-379).

Lo Scapolare carmelitano è una forma ridotta dell’abito religioso dell’Ordine dei Frati della beata Vergine del Monte Carmelo: divenuto una devozione molto diffusa, anche al di là di un legame con la vita e la spiritualità della famiglia carmelitana, lo Scapolare conserva con questa una sorta di sintonia»1.

* Docente di Teologia della Vita consacrata e di Arte e Teologia nello Studio Teologico S. Paolo di Catania. 1 CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Direttorio su pietà popolare e Liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano 2002, 169-170.


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Egidio Palumbo

Lo Scapolare del Carmine, istituito dalla Chiesa come sacramentale, viene consegnato al fedele con un rito proprio dell’Ordine Carmelitano, approvato dalla Chiesa, il quale evidenzia: l’affidamento alla Vergine Maria del Monte Carmelo, il ricordo della sua presenza nell’impegno a rivestirsi interiormente di Cristo e a testimoniarlo per il bene della Chiesa e dell’intera umanità, l’aggregazione alla famiglia carmelitana con la partecipazione allo stesso spirito contemplativo e apostolico dell’Ordine2. Tale diffusione e rilevanza liturgica e spirituale, tuttavia, non pone questa devozione al riparo da atteggiamenti di tipo magico-miracolistico. Infatti, non è raro incontrare ancora oggi in qualche foglietto divulgativo affermazioni di questo tenore: «Molti pensano, erroneamente, che indossare il Santo Scapolare senza comportarsi da buoni Cristiani sia un sacrilegio e quindi che sia inutile, cioè non salvi comunque dall’inferno. Non ci può essere errore più grande! La Santissima Vergine, infatti, nell’Appparizione a S. Simone Stock, affermò solennemente: “Coloro che moriranno rivestiti di questo Santo Scapolare non patiranno il fuoco dell’inferno”. Cioè la Santissima Vergine chiese solo di indossare giorno e notte il Santo Scapolare fino al momento della morte, per essere certi di essere salvati dall’inferno. Nostra Signora fa capire questo concetto ancor meglio nell’Apparizione successiva, quando istituisce il Privilegio Sabatino, in cui promette a coloro, che oltre ad indossare il Santo Scapolare, si comportano da bravi Cristiani, patiranno le sofferenze del Purgatorio al massimo per una settimana».

Sembra che nulla o quasi sia cambiato, se, come scrivono i nostri storici, nella Roma di fine ’600 si levarono forti polemiche a motivo di una prostituta che, senza abbandonare la sua professione, riteneva di essere già salva poiché indossava lo Scapolare del Carmine; e di un negoziante che non si faceva problemi di rubare sul peso della carne perché lui portava sempre lo Scapolare del Carmine3. 2

Cfr ID., Rito della Benedezione e imposizione dello Scapolare della B. V. Maria del Monte Carmelo, in Analecta Ordinis Carmelitarum 48 (1997) 26-36; per quanto riguarda il Benedizionale Romano, cfr RITUALE ROMANO, Benedizionale. Benedizione e imposizione di uno scapolare, Città del Vaticano 1992, 723. 3 Cfr E. BOAGA, La Signora del Luogo. Maria nella storia e nella vita del Carmelo, Roma 2001, 106.


Rilettura della devozione dello Scapolare del Carmine

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È allora d’obbligo discernere gli errori e gli squilibri teologicospirituali.

2. AL VAGLIO DELLA CRITICA STORICA Va innanzitutto precisato che la devozione dello Scapolare del Carmine non nasce alle origini dell’Ordine, ovvero tra il 1206 e il 1214 quando il Patriarca Alberto di Gerusalemme scrisse e consegnò la Regola alla prima comunità fondatrice dei frati-eremiti del Monte Carmelo, né alcuni anni dopo quando — come attesta la testimonianza esterna di un itinerario di pellegrini, intitolato La citez de Jerusalem, redatto tra il 12201229 — fu costruita la prima chiesetta al Monte Carmelo, dedicata a “Nostra Signora”, la Madre di Gesù4; e nemmeno quando fu istituita la Solenne Commemorazione di S. Maria del Monte Carmelo, ovvero nel secolo XIV, in un primo periodo celebrata il 17 luglio, poi trasferita al 16. Soltanto a partire dal secolo XV si inizia a porre in relazione la B. V. Maria con lo Scapolare, già ritenuto “abito dell’Ordine” che simboleggiava il “giogo” di Cristo, cioè l’obbedienza a Lui, mentre la cappa bianca o mantello bianco era “segno dell’abito”5. La connessione ScapolareMaria la troviamo per la prima volta in una leggenda tramandata dal Catalogo dei Santi Carmelitani (inizi XV sec.), dove si narra di una apparizione della Madonna al priore generale S. Simone Stock, la quale, consegnandogli lo Scapolare, garantiva la perseveranza finale a chi lo avesse indossato degnamente e regolarmente. Nelle varie recensoni più ampie raccolte dallo stesso catalogo e in quelle tramandate da altri autori carmelitani, alla narrazione della “visione” dello Scapolare segue l’elenco di miracoli accaduti a S. Simone Stock e ad altri personaggi, come a confermare le virtù soprannaturali dello scapolare6.

4

Cfr L. SAGGI, Santa Maria del Monte Carmelo, in Santi del Carmelo, a cura di L. Saggi, Roma 1972, 110-111. 5 Cfr ibid., 129; N. GEAGEA, Maria Madre e Decoro del Carmelo. La pietà mariana dei Carmelitani durante i primi tre secoli della loro storia, Roma 1988, 631-632 6 Per lo studio delle varie recensioni della “visione di S. Simone Stock”, cfr B. XIBERTA, De visione Sancti Simonis Stock, Roma 1950.


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Riguardo a questa “visione”, che chiamiamo “visione di S. Simone Stock”, la critica ritiene poco attendibile l’esistenza storica di questo personaggio e nutre seri dubbi sulla storicità della “visione” stessa7. «Non è provato — scrive L. Saggi — che essa sia falsa. Però le prove addotte per la sua storicità non soddisfano»8. Sempre dal punto di vista storico risulta invece verosimile, secondo le ricerche di un recente studio, che la diffusione della devozione dello Scapolare del Carmine si sia mossa in maniera parallela alla diffusione del culto di S. Simone Stock9. Infine, va tenuto presente che nel medioevo tra i Benedettini, i Cistercensi, i Premostratensi, gli Agostiniani, i Domenicani, i Francescani e i Servi di Maria circolavano visioni simili a quelle di Simone Stock, dove all’uso fedele dell’abito religioso si connetteva una promessa di salvezza eterna: un modo per evidenziare l’itinerario della vita religiosa come itinerario verso la salvezza10. Probabilmente in questo consisteva il “privilegio” che Simone Stock, o chi per lui, impetrava da Maria per l’Ordine Carmelitano. Ma la tradizione del Carmelo tramanda anche un’altra “visione”, quella attribuita a papa Giovanni XXII, cui apparve la Madonna promettendo la liberazione dalle pene del purgatorio nel sabato dopo la morte a chi avesse professato tra i Carmelitani e a chi dei cristiani laici avesse portato il “segno dell’abito”, cioè il mantello bianco. Questa promessa è stata denominata “privilegio sabatino” e il documento attribuito a Giovanni XXII “Bolla Sabatina”. La critica storica, per merito degli studi approfonditi di L. Saggi11, afferma che la “Bolla Sabatina”, oltre a presentare varie contraddizioni interne dal punto di vista teologico e storico, è senza dubbio un falso storico, probabilmente compiuto in Sicilia nel secolo XV. 7 Cfr L. SAGGI, Santa Maria del Monte Carmelo, cit., 130-132; ID., Simone Stock, santo, in Santi del Carmelo, cit., 320-322; E. BOAGA, La devozione dello Scapolare del Carmine: contenuti e prospettive, in Rivista di Vita Spirituale 3 (2001) 316-319; ID., La Signora del Luogo, cit., 95-102; N. GEAGEA, Maria Madre e Decoro del Carmelo, cit., 615630, con una posizione un po’ diversa sul personaggio Simone Stock. 8 L. SAGGI, Santa Maria del Monte Carmelo, cit., 131. 9 Cfr R. COPSEY, Simon Stock and the Scapular Vision, in Carmelus 49 (2002) 47-83. 10 Cfr E. BOAGA, La devozione dello Scapolare del Carmine, cit., 318-319. 11 Cfr L. SAGGI, La “Bolla Sabatina”: ambiente, testo, tempo, Roma 1967; ID., Santa Maria del Monte Carmelo, cit., 132-134; E. BOAGA, La Signora del Luogo, cit., 102-108; ID., La devozione dello Scapolare del Carmine, cit., 320-322.


Rilettura della devozione dello Scapolare del Carmine

213 [671]

A giudizio di L. Saggi «il significato centrale della “bolla” pare sia quello di assicurare i “mantellati” (cioè i membri della confraternita dell’Ordine che portavano il mantello — “signum abitus” — e non solo lo Scapolare — “abitus” —) circa il godimento dei privilegi dell’Ordine (che qui vengono elencati), a condizione che restino fedeli agli obblighi fondamentali del proprio stato»12.

La “bolla”, quindi, aveva la finalità di far partecipare i cristiani laici della Confraternita dell’Ordine al privilegio della vita religiosa come itinerario di salvezza sicuro ed ecclesialmente riconosciuto. Riguardo al contenuto spirituale della Bolla, il cosiddetto “privilegio sabatino”, esso è stato confermato dai Papi, da Clemente VII, nel 1530, e in seguito da altri suoi successori. Importante fu il decreto del S. Uffizio del 1613, riconfermato da Benedetto XIV e rinnovato da Pio X nel 1908 e nel 1910. Il decreto permetteva ai Carmelitani di predicare, senza fare riferimento alle indulgenze, la liberazione dal purgatorio, specialmente al sabato — giorno particolarmente mariano — a motivo della maternità spirituale di Maria e della sua intercessione; proibiva inoltre qualsiasi accenno alla bolla come documento papale e alla visione di Giovanni XXII; infine disponeva che l’iconografia doveva rappresentare le anime portate in cielo dagli angeli per intercessione di Maria e non per la sua discesa in Purgatorio. A giudizio di E. Boaga «si tratta di un decreto che non ha avuto successo: i Carmelitani hanno continuato da allora fino ad oggi a predicare e scrivere ripetendo spesso questi fatti non veritieri. È giunto il momento di obbedire, basando quindi la predicazione del cosiddetto “privilegio sabatino” sulla maternità spirituale di Maria verso gli uomini e sulla sua mediazione universale, senza riferirsi alla “bolla” di papa Giovanni XXII e alla visione della Madonna che avrebbe avuto questo stesso Papa perché agisse a favore dei Carmelitani»13.

12 13

L. SAGGI, Santa Maria del Monte Carmelo, cit., 133. E. BOAGA, La devozione dello Scapolare del Carmine, cit., 321.


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Vi è una immagine di “Maria Virgo Virginum Carmelita” che rappresenta la “visione di S. Simone Stock” e la “visione di papa Giovanni XXII”, collocate in un programma iconografico finalizzato a rappresentare visivamente il Carmelo e la sua spiritualità mariana. Si tratta della Tavola di Tommaso de Vigilia dipinda nel 1492 e conservata nella Chiesa del Carmine di Corleone14. Al centro domina la figura di Maria che iconizza la “Donna vestita di sole” di Ap 12; con il braccio sinistro sorregge il Bambino Gesù benedicente, con la mano destra mostra il seno che evoca la sua maternità divina e spirituale. È la rappresentazione della Madre di Dio, della Vergine Purissima Fiore del Carmelo (la sua veste contiene motivi floreali), della Donna Nuova, ovvero della Risorta nel Signore e assunta in cielo. Nella parte centrale superiore sono stati collocati i profeti Elia ed Eliseo — modelli biblici di riferimento della spiritualità carmelitana —, i quali, volgendo il loro sguardo verso Maria, sorreggono due cartigli: in quello di destra è scritto «Maria, Virgo virginum Carmelita», in quello di sinistra «Gloria Libani data est ei Decor Carmeli» (Is 35,2). Nella parte centrale inferiore a destra (di chi guarda) viene rappresentato S. Brocardo15 con il libro della Regola del Carmelo, sullo sfondo il primo convento e la prima chiesetta del Monte Carmelo, al fianco di S. Brocardo abbiamo forse la più antica rappresentazione della “visione di Maria” a S. Simone Stock con la consegna dello Scapolare. A sinistra (di chi guarda), sempre nella parte centrale inferiore, sono raffigurati i primi due santi carmelitani siciliani: S. Angelo di Sicilia e S. Alberto di Trapani. Ai lati del quadro centrale ora descritto, vi sono otto quadretti che rappresentano la vicenda del “privilegio sabatino” con la “visione” di Giovanni XXII, corredati con scritte esplicative in siciliano popolare. Per la lettura si parte dal primo quadretto in alto a destra (di chi guarda) e si prosegue in senso orario fino all’ottavo quadretto in alto a sinistra (di chi guarda), dove Maria presenta alla SS. Trinità le anime liberate dal Purgatorio16. Forse non è per semplice coincidenza che l’ottavo quadretto 14

Cfr ID., La Signora del Luogo, cit., 188-190. La tradizione lo indica come il primo priore della comunità fondatrice del Carmelo. 16 Ecco le scritte esplicative. I e II quadretto: «Comu li frati andaru a papa Ioanne per confermari la Religioni del Carmine»; III quadretto: «Comu la Virgini Maria apparsi di notti 15


Rilettura della devozione dello Scapolare del Carmine

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corrisponda all’ “ottavo giorno”, al giorno escatologico che non ha fine davanti alla presenza del Signore.

Tavola di Tommaso de Vigilia (xv secolo). La Vergine Maria Immacolata, Madre di Dio, vestita di sole, è venerata anche come Madre del Carmelo. In questa immagine vi è la più antica raffigurazione della pia tradizione della consegna dello Scapolare a san Simone Stock da parte della Madonna. I pannelli attorno all’immagine centrale sono una spiegazione visiva della devozione del Carmine. a papa Ioanne 22 e cumandau: conferma la mia Religioni per multi rispetti»; IV quadretto: «Comu papa Ioanni confirma la Religioni della Virgini Maria»; V quadretto: «Comu i frati vestinu li frati et soru del habitu della Vergini Maria»; VI e VII quadretto: «Comu la Virgini Maria trai l’animi de frati et soru lu primu sabatu del Purgatorio»; VIII quadretto: «Comu la Virgini Maria porta li animi di frati e soru in Paradisu e ricomanda a Cristu». 17 Oltre a L. Saggi, E. Boaga e N. Geagea (vedi nota 5), va senz’altro citato B.


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3. L’ HABITUS MARIAE COME FORMA VITAE La Tavola del de Vigilia è di per sé una lettura ermeneutica della Devozione dello Scapolare del Carmine; in esso sono contenuti gli elementi spirituali fondamentali (dono dell’abito di Maria, speranza nella salvezza, maternità divina e intercessione di Maria, aggregazione dei cristiani laici all’Ordine) che saranno in seguito approfonditi dagli storici e teologi dell’Ordine, fino ai nostri giorni17. Qui vorremmo proporre una breve lettura ermeneutica teologicospirituale del testo della leggenda della “visione di S. Simone Stock”. Lo studio della questione storica è importante, è stato fatto e l’abbiamo riassunto nel paragrafo precendente, tuttavia è insufficiente a correggere alcuni squilibri teologici e frenare la deriva magico-miracolistica. Bisogna decodificare il testo della leggenda e aprirlo a significati teologico-spirituali fedeli alla tradizione e nel contempo in sintonia col sentire teologico odierno. Al riguardo, sono attinenti le indicazioni del già citato Direttorio su pietà popolare e liturgia, che al n. 12 ha cura di evidenziare che nel rinnovamento post-concliare delle varie forme di pietà popolare si deve percepire l’afflato biblico, l’afflato liturgico, l’afflato ecumenico, l’afflato antropologico. Riguardo all’afflato antropologico, molto opportunamente afferma «che si esprime sia nel conservare simboli ed espressioni significative per un dato popolo evitando tuttavia l’arcaismo privo di senso, sia nello sforzo di interloquire con sensibilità odierne»18. Per il testo della leggenda esamineremo soltanto il racconto della visione, ponendo a confronto la recensione brevissima (che è la più antica) con la recensione più lunga (che è la più recente), secondo l’edizione di Xiberta.

Xiberta (vedi nota 6) e in particolare E. Esteve per il grande influsso che ebbe nell’Ordine: cfr E. ESTEVE, De valore spirituali devotionis S. Scapularis, Roma 1953; ID., Lo Scapolare della Madonna del Carmine. Note di pastorale, in Studi Frncescani 65 (1968) 386-391. 18 CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Direttorio su pietà popolare e liturgia, cit., 24. 19 B. XIBERTA, De visione Sancti Simonis Stock, cit., 102.


Rilettura della devozione dello Scapolare del Carmine

217 [675]

Ecco la recensione brevissima: «Sanctus Simon natione Anglicus, vir magnae sanctitatis et devotionis, qui semper in orationibus suis Virginem deprecabatur ut ordinem suum aliquo singulari privilegio dotaret. Cui Virgo gloriosa apparuit portans scapulare in manu, dicens: Hoc tibi et tuis privilegium: in hoc moriens salvabitur»19.

Ecco la recensione più lunga: «Undecimus fuit sanctus Simon Stock natione anglicus sextus generalis ordinis. […] Saepius vero Virginem gloriosam Dei Genitricem patronam ordinis deprecabatur ut suo titulo insignitos communiret privilegio dicens cotidie voce devotissima in suis orationibus: Flos Carmeli, vitis florigera, splendor caeli, Virgo puerpera singularis, Mater mitis sed viri nescia, Carmelitis da privilegia, stella maris. Beata Virgo cum multitudine angelorum beato viro apparuit scapulare ordinis in manibus suis tenens et dicens: Hoc erit tibi et cunctis Carmelitis privilegium: In hoc moriens salvabitur»20.

Diamo sinteticamente la nostra lettura. Il testo presenta Maria che appare nella Gloria, vale a dire nella Santità e Bellezza di Dio. La recensione più lunga esplicita meglio questo dato, sia con la frase «Beata Virgo cum multitudine angelorum beato viro apparuit», sia con la preghiera di S. Simone Stock, il Flos Carmeli, preghiera che canta e contempla la Bellezza di Maria, riflesso della Bellezza di Dio21. Dentro tale contesto, viene donato lo Scapolare per le mani di Maria. Tutta la tradizione del Carmelo ha letto in questo gesto il dono dell’ “abito di Maria”, ovvero il suo “habitus”, la sua “forma vitae”22 di Madre Vergine 20

Ibid., 99-100. Cfr J.-PH. HOUDRET, Flos Carmeli, une prière mariale du Carmelo, in Carmel 108 (2003) 21-32; E. ESTEVE, La devozione del S. Scapolare e la mediazione universale di Maria, in Con Maria sulle vie di Dio. Antologia della marianità carmelitana, a cura di E. Boaga, Roma 2000, 325-328. 22 Dando la sua versione della “visione” A. Bostio scriveva: «Quod ipse Simon cum gratiarum actione a Domina nostra benigne suscipiens, caputium suum grossum cum 21


[676] 218

Egidio Palumbo

e Discepola del Signore. Indossare l’ “abito di Maria”, lo Scapolare, è gesto “poetico” umile e finissimo che iconizza l’affidamento reciproco tra la Madre e il discepolo che Gesù amava, affidamento voluto dal Figlio Innalzato sulla Croce: «Donna, ecco il tuo figlio […] Ecco la tua Madre […] E da quell’Ora il discepolo la prese con sé» (Gv 19,27)23. Possiamo affermare, allora, che il “dono dello Scapolare” — che per rispetto dello statuto della vita cristiana non deve mai “oscurare” la veste battesimale né mai sostituirsi ad essa, ma a questa deve essere direttamente orientato — è essenzialmente il dono di Maria come modello di vita cristiana e carmelitana; è il dono di Colei che è stata consegnata a noi come Maestra di vita spirituale, come Madre e Sorella nella fede, affinché la bellezza della sua forma vitae ci insegni a vivere la sequela di Colui che è il più bello tra i figli dell’uomo (cfr Sal 45,3): Cristo Gesù, nostra salvezza. Ecco, chi riceve lo Scapolare, “abito di Maria”, si impegna a dare alla sua vita cristiana anche un orientamento mariano, nella prospettiva di una fede vissuta nell’ascolto assiduo della Parola, nella fraternità ecclesiale, nel servizio umile e generoso, nella contemplazione gioiosa delle grandi opere di Dio nella storia. Non certamente nella paura e negli squilibri magicomiracolistici per nulla attinenti all’ “habitus” di Maria e alla bellezza della sua vita di credente.

scapulari seu cuculla sua deposuit, et caputium cum scapulari iuxta formam sicuta a b. Virgine receperat, deinceps induit» (riportato in B. XIBERTA, De visione Sancti Simonis Stock, cit., 114). 23 È questa la felice intuizione di Giovanni Paolo II espressa nella Lettera inviata a tutti e due i rami della Famiglia Carmelitana, l’antico e il riformato, in occasione del 750° anniversario della consegna dello Scapolare: GIOVANNI PAOLO II, Il provvidenziale evento, n. 5.


ho theológos nuova serie Quadrimestrale della Facoltà Teologica di Sicilia «S. Giovanni Evangelista» anno XXI - 2003 - numero 1

sommario studi M. Naro, «Perché il Libro resti aperto». Il magistero spirituale di Placido Rivilli 3 G. Raspanti, Ricchezza e povertà in Ambrosiaster, Girolamo, Ambrogio 29 F. Brancato, Morte e immortalità in Michele Federico Sciacca 49 note e discussioni A.S. Lipari, Vita consacrata e sfide del millennio P. Sorci, L’eucaristia cena pasquale cristiana interventi G. Baldanza, La Facoltà Teologica di fronte ad alcuni compiti per i nostri tempi M. Crociata, Sullo statuto della teologia delle religioni S. Natoli, Il Dio crocifisso C. Naro, Il discorso della Chiesa sulla pace nel ’900

81 91

101 115 121 129

cronaca M. Crociata, Convegno a Marsiglia su «Dialogo e verità»; C. Peri, Dottorato honoris causa in Teologia a mons. Crispino Valenziano; M. Di Tora, Stipulato un protocollo d’accordo e di cooperazione con l’Università Islamica Al-Zaitouna di Tunisi; A.S. Lipari, I docenti a colloquio sul metodo teologico.

139

recensioni A. Spilla, L’affidamento della parrocchia “in solidum” (S. Falzone); P. Palazzotto - C. Scordato, L’Oratorio del Rosario in San Domenico (F. P. Massara); G. Trabucco, La verità della fede. Spunti di teologia spirituale (A. Raspanti).

149

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ho theológos nuova serie Quadrimestrale della Facoltà Teologica di Sicilia «S. Giovanni Evangelista» anno XXI - 2003 - numero 2

sommario studi F.S. Cucinotta, Identità e appartenenza nelle Chiese cattoliche orientali 163 G. Gioia, Esperienza mistica e discorso in Divo Barsotti 215 M.A. Montalbano, La questione del diaconato sacramentale alle donne 233 note e discussioni G. Bellia, Chiese rupestri e monaci in Sicilia 253 S. Abruzzese, Sociologia delle religioni e pastorale: appunti di riflessione a margine delle indagini 259 interventi C. Peri, L’uomo l’ultima creatura: il fondamento della responsabilità in E. Lévinas

269

cronaca M. Di Tora, «Al cospetto di Dio»: l’uomo come creatura nelle religioni di tradizione monoteistica; M. Naro, Le «domande radicali» degli scrittori siciliani contemporanei; M. Di Tora, Il Convegno di studi con l’Università Az-Zitûna di Tunisi

289

recensioni G. Canobbio - P. Coda (a cura), La teologia del XX secolo. Un bilancio (M. Naro); B. D’Acquisto, Trattato dei sacramenti della legge evangelica (M. Naro); S. Zucal (a cura), Cristo nella filosofia contemporanea (G. Trapani); Aa. Vv., Koinè devota. Il Presepe tra Napoli e Sicilia (F.P. Massara); D. Castanetto - A. Margaritti - A. Piovano, La qualità della preghiera cristiana (A. Raspanti); M. Fumagalli Beonio Broccheri, L’estetica medievale (M.A. Spinosa); J. Meyerowitz, Città e destino (A.P. Viola)

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ho theológos nuova serie Quadrimestrale della Facoltà Teologica di Sicilia «S. Giovanni Evangelista» anno XXI - 2003 - numero 3

sommario studi G. Bellia, Bilancio provvisorio della Third Quest G. Trapani, Cristo nella filosofia. L’apporto di X. Tilliette alla «cristologia filosofica» A. Patschovsky, Svolta costantiniana e coscienza politica medievale M. Naro, Guardare la fede. Tradizione ecclesiale e arte cristiana a Monreale

323 343 369 389

note e discussioni S. Privitera, La recta ratio del dialogo etico fra le religioni S. Corso, Bonagia/tutti i santi: titolo paleocristiano

417 427

interventi F.G. Brambilla, La parrocchia del futuro: confronti e prospettive

443

cronaca V. Trapani, Il presbitero nella Chiesa dopo il Vaticano II

457

recensioni C. Peri, L’uomo è un altro come se stesso. Saggio sui paradigmi in antropologia (M.A. Spinosa); S. Leone, La prospettiva teologica in Bioetica (R. Frattallone); S. Leone, Manuale di Bioetica (P.A. Iacobelli)

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Collane di Synaxis

«NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900 AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgicocelebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale AA. VV., Sezione miscellanea


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«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare AA. VV., Sezione miscellanea


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«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna AA. VV., Sezione teologico-morale AA. VV., Sezione miscellanea


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli


«QUADERNI DI SYNAXIS»

AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito)

AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184

AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito)

AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138

AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito)

AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334


AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264

AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170

AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190

AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136

AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160

AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280

AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427

AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288

P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158

A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524


G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418

A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244

A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032

G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere (in corso di pubblicazione)






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