Vissuto speziato

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"Un viaggio personale che si è trasformato in un nuovo modo di fare professione"

VISSUTO SPEZIATO DI SANDRA PASERIO

UNA

STORIADI

VITA

PER UNA GESTIONE STRATEGICA DELLE RISORSE UMANE


L'autrice

Sandra Paserio, Senior Partner e Fondatrice della Paserio & Partners. Consulente

del

Lavoro,

Business

Coach,

Problem Solver Strategico, Assessor certificato. Specializzata nella gestione strategica delle Risorse Umane.


Il guerriero comprende che il ripetersi delle esperienze ha un’unica finalità: insegnargli quello che non vuole apprendere

Paolo Coelho

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indice Capitolo 1. Sensazione di benessere .................................................................. 6 Capitolo 2. Il viaggio della scoperta .................................................................... 8 Capitolo 3. L'arte di gestire le persone .............................................................. 10 Capitolo 4. La calma dopo la tempesta ........................................................... 12 Capitolo 5. Sognare a occhi aperti ....................................................................... 14 Capitolo 6. Un passo indietro per guardare oltre ................................... 16 Capitolo 7. Trasformare il vuoto in pieno ....................................................... 18 Capitolo 8. Ascoltare il dolore dei nervi scoperti ..................................... 20 Capitolo 9. Il gioco continua ....................................................................................... 22

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Capitolo 1.

Sensazione di benessere Faccio un tuffo indietro di oltre 30 anni. Mi rivedo in un locale sotto casa. Una scrivania, una piccola fotocopiatrice di seconda mano, mezzo armadio per mettere i libri, il sole 24 ore come unica fonte di aggiornamento e una voglia matta di conquistare il mondo. È così che a 23 anni ho aperto il mio studio di consulenza del lavoro. 3 clienti e 1 sogno: esercitare la professione. Passavo le mie giornate a studiare aspettando che suonasse il telefono. Il mio sguardo si spostava dalle parole impresse sui libri universitari, alla lettura di norme inserite nel codice del lavoro. Al mattino aspettavo che mio padre, da buon commerciante, guardasse le quotazioni dell’argento, per poi tuffarmi nella lettura del Sole 24 Ore. Ritagliavo gli articoli che mi interessavano e li archiviavo con cura nella parte dell’armadio concessa in uso da mia sorella (l’altra parte era occupata dai giochi dei miei nipotini). Ho imparato rubando il lavoro agli altri. Nessuno mi ha insegnato nulla. Tutti erano gelosi del loro sapere. Appena potevo, sbirciavo quello che facevano i colleghi e cercavo di comprendere il funzionamento dei numeri impressi su centinaia di fogli che inondavano le loro scrivanie. Fogli, che poi ho scoperto essere “cedolini paga”. Allora c’era il libro paga manuale. In pochi elaboravano le buste paga con sistemi informatici. Dove ho fatto pratica, c’erano le perforatrici. Persone che trascorrevano le giornate imputando abilmente i dati che noi, dell’ufficio paghe, producevamo mensilmente per ogni dipendente (con i giorni retribuiti, le settimane coperte e la retribuzione lorda).

La velocità delle loro dita sulla tastiera era impressionante. I dati, una volta inseriti, andavano nella sala server (un locale con macchinari enormi che occupavano tutta la stanza) per poi essere memorizzati su delle bobine che sembravano quelle dei vecchi film delle sale registrazione. Ed ecco che dalle schede perforate (supporti di registrazione in cui le informazioni venivano memorizzate sotto forma di perforazioni in codice), i dati si trasformavano magicamente in cedolini paga a ricalco, stampati a striscia continua con le stampanti ad aghi. Solo a scriverlo, mi sento addosso almeno 100 anni. Ma, la cosa strana, era che, in quel periodo, tutto era in equilibrio. Non c’era stress. Non c’era paura del lavoro. Solo curiosità. Voglia di imparare e sete di sapere. Forse ero incosciente a causa dell’età. Non lo so. So solo che oggi, guardando i giovani, mi rendo conto che abbiamo guadagnato, ma anche perso molto. Abbiamo guadagnato tanto in termini di conoscenza, opportunità, apertura mentale, velocità, crescita, viaggi e contaminazione tra le persone (e non sto parlando del Covid-19). Nello stesso tempo, però, abbiamo perso i nostri valori, la semplicità, la capacità di gustarci le piccole cose, il tempo da dedicare a noi stessi e la nostra manualità. Non avendo un soldo in tasca, ricordo che molte cose le realizzavo direttamente io. Dai quadri, al muro da dipingere, al riciclaggio di ogni pezzo di carta e di ogni raccoglitore utilizzato in studio. Ci si arrangiava e si era felici. Non c’era la competizione distruttiva.

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Non c’era il controllo ossessionato dei genitori. Non si creavano grandi aspettative e il livello di ansia da prestazione era quasi azzerato. Bastava poco. Ed è da qui che nasce la mia domanda. Una domanda per una riflessione collettiva: Che cosa possiamo tenere, di quello che abbiamo oggi, che facilita la nostra vita e cosa, invece, possiamo cambiare per ritrovare quella sensazione di benessere ed equilibrio che abbiamo provato nel passato? Una riflessione per ognuno di noi dovrebbe fare per migliorare la qualità della sua vita.

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Capitolo 2.

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Il viaggio della scoperta I primi 2 anni da libera professionista, li passai cercando di mettere insieme qualche soldo per acquistare l’attrezzatura che mi serviva per espandermi. Ero determinata ad acquistare un “vero” programma paghe. Non uno qualunque, ma il migliore che c’era sul mercato. Ricordo ancora quando chiesi a mio padre di accompagnarmi a Lodi per la trattativa commerciale. Era il 1990. Zucchetti non era la multinazionale di oggi. La persona che ci accolse in sede, ora occupa uno dei posti ai vertici aziendali. Mi consigliò al meglio e, a distanza di diversi anni, ebbi l’occasione di risentirlo. Si ricordava ancora di quel giorno. Di quando entrai in azienda. Ero una ragazzina. Una figura esile, con gli occhi da cerbiatto e un carattere da leone. Per me, quello era il mondo dei grandi. Ero inesperta, ma la passione e la tenacia erano talmente evidenti che mi trasformarono in una piccola combattente. Un atteggiamento di umiltà e forza che divenne poi il mio segno distintivo, anche quando andai alla ricerca del miglioramento continuo. Ecco quello che ricordo. Non ho mai avuto la fortuna di avere un padre, un mentore, un dominus o colleghi che mi insegnassero il lavoro. Mi sono sempre arrangiata, ma ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso lavorativo, diverse persone gentili, preparate e sorridenti che presidiavano gli sportelli degli istituti previdenziali e assicurativi che frequentavo. Per me, erano dei maestri, degli esperiti e dei punti di riferimento. A loro devo molto. Ogni settimana, partivo da Gallarate, imboccavo l’autostrada e andavo a Varese. Passavo dall’ufficio stampati per ritirare la modulistica da compilare e poi, tiravo dritto,

fino a raggiungere l’Ispettorato del Lavoro.

l’INPS,

l’INAIL

e

Arrivavo, mi mettevo in coda e, quando era il mio turno, trovavo visi amici, contornati da qualche ruga, sempre pronti ad aiutarmi e trovare soluzioni adeguate a risolvere il problema. Problema, che talvolta manco c’era. Spesso, infatti, andavo lì semplicemente per elemosinare informazioni e chiedere consigli. Arrivavo con il mio foglietto di domande, lo aprivo e loro sorridevano. Proprio come si fa con un bambino che ti incute tenerezza. Con pazienza, mi prendevano sotto l’ala protettrice e mi regalavano il loro tempo. Ascoltavo con attenzione, mi appuntavo le risposte e mi allontanavo trionfante con il bottino che mi ero portata a casa. Non so se quelli erano altri tempi. Sono cresciuta con dei genitori che mi hanno sempre insegnato ad essere autonoma e responsabile. Quando tornavo a casa con il viso imbronciato perché non sapevo come risolvere un problema, mi dicevano “se non lo sai, chiedi”. E io facevo così, andavo e chiedevo senza mollare il colpo. Oggi, vorrei portare questa storia agli occhi dei giovani. Solo come spunto di riflessione. La domanda che vorrei fare, sia a loro che a noi genitori, è: “Siamo sicuri che quando un ragazzo racconta che l’organizzazione in cui sta lavorando non gli permette di crescere, di formarsi, di imparare, il problema sia l’organizzazione stessa?”. Qual è il contesto in cui viviamo? Sicuramente non un contesto dove si devono elemosinare i consigli, bensì un contesto stimolante e tecnologico dove si trova velocemente qualsiasi informazione. Pensiamoci. È semplice, ad esempio, trovare:

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Leggi, sentenze, prassi, dottrina, sia in internet che nelle banche dati dove, addirittura, si possono rinvenire tutti i documenti correlati; Corsi di formazione. Se digitiamo su google “corso di formazione per…”si apre il mondo. Enti, associazioni e ordini professionali organizzano ogni sorta di incontri di aggiornamento professionale; Pareri di colleghi. Se vogliamo confrontarci con dei colleghi su alcune pratiche, è sufficiente partecipare a delle community di professionisti appartenenti alla nostra stessa categoria; Informazioni e pareri su prodotti e servizi collegati alla nostra attività professionale. Se dobbiamo fare degli acquisiti per il nostro studio, abbiamo a disposizione in internet informazioni tecniche, recensioni, blog e commenti di ogni genere che possiamo consultare; Confronto diretto tramite tavole rotonde o incontri virtuali. Se vogliamo collaborare con colleghi o collaboratori, ci basta organizzare un incontro su teams (o qualsiasi altro strumento similare) per condividere documenti e lavorare in simultanea su alcune pratiche. In questo contesto, quindi, quando i giovani esordiscono dicendo “Questa cosa non l’ho

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mai fatta. Non me l’hanno insegnata. Non mi hanno iscritto a un corso di formazione”, qual è secondo voi la risposta da dare? Prima di cadere nella trappola animata da scuse ed alibi, aiutiamo il giovane a vedere un diverso punto di vista, guidandolo verso la consapevolezza dell’esistenza della “scelta”. Invece di rispondere, proviamo a porre alcune domande potenti: Cosa ti impedisce di colmare questa carenza formativa? Cosa puoi fare per formarti, aggiornarti o acquisire le competenze che sono importanti per la tua crescita personale e professionale? Cosa puoi proporre al tuo datore di lavoro per attrarre e mantenere i talenti? Qual è la prima piccola azione che puoi mettere in atto per cambiare il tuo futuro dal punto di vista professionale? Prima daremo al giovane un grande specchio dove guardare il vero responsabile di quelle lamentele e, prima si renderà conto del grande potere che detiene. Il potere della scelta, per trasformarsi nel vero artefice del proprio destino.

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Capitolo 3.

L'arte di gestire le persone Gli anni ’90 erano anni d’oro. I clienti arrivavano senza fatica. Nessuna attività di marketing, solo passaparola.

Ed è con questa incoscienza, o meglio questa inconsapevolezza, che a 24 anni accolsi in studio la mia prima praticante.

In quegli anni, la facilità con la quale acquisivo nuovi clienti, compensava la difficoltà che mi trascinavo per la mancanza di affiancamento a un professionista durante il periodo di praticantato.

Ricordo ancora il suo stupore quando seppe di avere davanti la titolare dello studio. Si trovò davanti una ragazzina con qualche anno più di lei. Fortunatamente era una persona solare e il piacere di lavorare insieme, si trasformò in momenti di condivisione, quasi di gioco.

Mentre da una parte, il fatto di non aver vissuto un’esperienza concreta in uno studio professionale, mi servì a trovare le risorse per emergere, dall’altra costituì sicuramente una carenza importante, che si fece sentire soprattutto quando iniziai a strutturarmi. Ricordo che l’inesperienza mi faceva navigare a vista.

Il vero problema nacque qualche anno dopo, quando arrivò la prima dipendente. Avevo 28 anni, una bimba piccola e il pancione. La gravidanza a rischio e la mia assenza dallo studio, probabilmente contribuì ad acuire alcuni problemi, che già aleggiavano nell’aria.

Quando arrivò il momento di assumere del personale, la struttura vacillò. Stavano cambiando le regole del gioco. Si entrava nel mondo della relazione, dove il risultato non dipendeva solo da me, ma da altri giocatori. Il cambiamento consisteva, infatti, nel passaggio da un’autogestione (del tempo, del lavoro e del sapere), alla gestione di persone. Persone che, ogni mattina, entravano in studio con il loro vissuto, le loro credenze, i loro pregiudizi, le loro aspettative e soprattutto le loro emozioni. Ma io, di quelle dinamiche, non ne sapevo nulla. Ne ero assolutamente inconsapevole. Un’inconsapevolezza che abbracciava, non solo la conoscenza delle persone e delle neuroscienze, ma anche delle competenze manageriali in senso lato. Quelle competenze che permettono di: gestire e motivare il team negoziare e dirimere i conflitti rafforzare la leadership garantire un clima di benessere gestire i processi e i carichi di lavoro monitorare i risultati garantire un servizio di qualità.

Ricordo l’angoscia di quel periodo e la frase che spesso ripetevo “mi risulta più difficile fare il datore di lavoro che fare il genitore”. Vivevo quella conflittualità come un attacco personale. Era il mio percepito. La verità è che non sapevo gestire il team. Subivo i malumori e le battutine delle persone e, più li subivo, più mi arrabbiavo. Un circolo vizioso disfunzionale che intaccava il mio bilanciamento, trovando nel pianto una fonte di sfogo. Ero incastrata nel problema e non riuscivo a trovare una soluzione per sgrovigliare la matassa. A distanza di 25 anni, guardandomi indietro, darei un consiglio a quella giovane professionista “non esistono cose facili o difficili. Esistono solo cose che sai fare o che non sai fare”. Questo, mi avrebbe sicuramente fatto razionalizzare il problema e, invece che rifugiarmi nel pianto, mi sarei iscritta a un corso per acquisire competenze per gestire al meglio i miei collaboratori. Ma si sa, dagli errori si impara e forse è da qui, dal mio vissuto, che è nata la voglia di

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aiutare gli imprenditori a gestire le risorse umane in un clima di benessere collettivo. La vita insegna. Quello che per noi non ha un senso, forse un senso ce l’ha. Le difficoltà, la fatica e la continua ricerca di soluzioni, fanno crescere. Alimentano il tesoretto che ci portiamo dietro e che, con gli anni, si trasforma in saggezza. Sta a noi scegliere come spenderlo. Se tenerlo per noi o condividerlo con altri. In ogni caso, quello che ho imparato è che la gestione delle persone è un’arte. Un’arte che si apprende ogni giorno dall’ascolto delle persone e che rappresenta la chiave per il successo delle aziende. Soprattutto oggi, in un mercato, dove tutto è incerto, veloce e complesso, l’unica àncora, sono le persone. Persone sulle quali investire perché rappresentano il vero patrimonio aziendale.

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Capitolo 4.

La calma dopo la tempesta Dopo la nascita di mio figlio, passai degli anni in assoluta tranquillità. Lavoravo molto ma, avendo l’ufficio sotto casa e una tata meravigliosa che accudiva i bambini, ero riuscita a raggiungere un equilibrio, sia come mamma che come professionista. Ricordo che alla sera, alla fine della giornata lavorativa, lanciavo delle stampe e uscivo dall’ufficio. Salivo, cucinavo, scendevo le scale e staccavo quella pigna di fogli a striscia continua, che ogni tanto trovavo arrotolati sotto la stampante. Il tempo di una sistemata e di corsa risalivo i gradini, mettevo i pigiamini ai bimbi e, una volta a letto, leggevo gli articoli di giornale per non perdermi le novità in materia di lavoro. Il sabato e la domenica era dedicato alla casa, alla spesa ma soprattutto al gioco e al divertimento. Amavamo Art Attack e così, trascorrevamo intere giornate a dipingere, tagliare, incollare e manipolare ogni sorta di materiale malleabile. Momenti splendidi, di estremo benessere. Ma, proprio quando ti sembra che tutto fili liscio, ti rendi conto che sei caduta nella trappola della routine. E la routine, soprattutto per chi fa un lavoro in proprio come il mio, non porta nulla di buono. Ho imparato, col tempo, che “chi non progredisce, rallenta”. Rallenta, semplicemente per il fatto che il contesto in cui operi, progredisce. Andare alla stessa velocità in cui il mondo si muove, significa, quindi, evitare l’immobilismo che ti porta alla regressione. Questo l’ho provato sulla mia pelle. In quel periodo, infatti, ricordo che la mia rigidità mentale, mi faceva vedere le cose, bianche o nere. Non esistevano sfumature di grigio.

Quindi, quando il mio miglior cliente mi chiese di uscire dall’ufficio per andare in azienda e procedere con il licenziamento di alcuni dipendenti, inorridii. Non mi misi nei panni del cliente. Non pensai neppure un attimo a quello che potevano essere i suoi bisogni, le sue paure e i motivi della sua richiesta. Assunsi una posizione giudicante. Nella mia testa, il professionista doveva fare il lavoro dietro la scrivania e l’imprenditore doveva assumersi la responsabilità della gestione delle persone, decidendo e agendo in maniera diretta. Le parole che risuonavano nella mia testa erano chiare “Se non aveva il coraggio di licenziare alcuni dipendenti, il problema era suo, non mio”. Glielo dissi. Risultato, se ne andò. Nel giro di breve trovò un consulente, forse meno preparato professionalmente, ma pronto a rispondere a quel bisogno. Fu una grande lezione per me. All’inizio mi arrabbiai, cercai conforto e sostegno nelle persone care, ma poi, finito di raccontarmela, mi misi in discussione. Qual era il confine tra quello che erano i miei compiti e le mie responsabilità, rispetto quelle dell’imprenditore? Qual era il ruolo che dovevo assumere per dare valore al cliente? Era giusto rimanere incastrati nel concetto del giusto/sbagliato, vero/falso, ragione/torto o c’era un altro modo per andare oltre a questo tiro alla fune? Per trovare delle risposte a queste domande, mi iscrissi ad un corso di comunicazione che durò un anno. Eravamo 11 consulenti del lavoro intorno a un tavolo ma, invece di parlare di diritto del lavoro, il docente ci parlò di comunicazione efficace, di valori, di programmazione neuro linguistica. Argomenti per me ignoti, ma affascinanti.

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Da allora sono passati quasi 15 anni ma, nella mia mente, ringrazio ancora quel cliente. Cadere e sbucciarsi le ginocchia, fu la cosa migliore che mi potesse capitare. Quella lezione mi permise di fare la svolta, mettermi in discussione e intraprendere un percorso di crescita personale e professionale che cambiò la mia vita. Un percorso tormentato. Uscivo dagli incontri formativi del tutto destabilizzata, alcune volte entusiasta e pronta a spaccare il mondo, altre volte con l’umore sotto i piedi. Ma, si sa, il cambiamento non è un percorso lineare. Perdita di certezze e credenze sgretolate, lasciano il posto al nuovo. Un cambiamento di mentalità faticoso che ha aperto nuove opportunità: ©Paserio

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Nella mia vita familiare, perchè mi ha dato il coraggio di appoggiare mia figlia a partire per il Colorado a soli 16 anni, per diventare un cittadino del mondo; Nella mia vita personale, perché ho acquistato fiducia in me stessa e nelle mie capacità; Nella gestione dei miei collaboratori, perché ho portato in studio l’istituto della delega fiduciaria e ho investito nel capitale umano in maniera incondizionata; Nella gestione dei miei clienti, perché ho iniziato un percorso di ascolto e comprensione dei bisogni; Nei servizi offerti, perché sono uscita dagli schemi e ho pensato a un nuovo modo di fare professione. Un percorso. Un viaggio o semplicemente un gioco infinito a cui, ancora oggi, continuo a giocare.

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Capitolo 5.

Sognare a occhi aperti Dopo ogni periodo di impegno e fatica, inizia il momento più bello, quello della rinascita. Assapori con gusto i primi risultati del cambiamento: L’energia inonda il tuo corpo; La motivazione prende il sopravvento. E con queste premesse, sei pronto. Pronto a trasferire il cambiamento all’interno del tuo studio. Un momento magico. Uno dei più belli. Ricordo di essere tornata in ufficio, con 3 obiettivi: Far crescere i miei collaboratori; Informatizzare lo studio; Puntare all’eccellenza del servizio. Ed è così che mi misi al lavoro. Era il 2007. In quell’anno, e nei successivi, utilizzai l’istituto della delega fiduciaria, responsabilizzai i miei collaboratori e gli diedi fiducia. Erano tutte persone ligie al dovere ma erano ancorati a un raggio d’azione limitato. Vedevano il loro orticello agendo autonomamente nella sola zona di comfort. Il mio compito era accompagnarli fuori da quella zona. Il corso di comunicazione aveva rotto le catene che mi tenevano legata a vecchie convinzioni e schemi mentali. Avevo assaporato il gusto della libertà e, ora, volevo far vivere questa sensazione al mio team. Sapevo che avevano le carte in regola per andare oltre, vedevo il loro potenziale. Decisi così che, per migliorare la loro autostima, dovevo creare le condizioni per farli crescere e sperimentare. È così che: 1.Condivisi il percorso di cambiamento con altri colleghi, organizzando: Percorsi di aggiornamento professionale; Incontri formativi di crescita personale; Eventi annuali di allineamento e condivisione di obiettivi;

Procedure operative digitalizzate; Un centro acquisti per fornire strumenti adeguati ai miei collaboratori; Un percorso di condivisione per la certificazione di qualità ISO 9001. 2.Affrontai la paura di perdere il controllo, lasciando il palco ai miei collaboratori. Imparai a: Lasciargli risolvere i problemi dei clienti, andando oltre alla semplice elaborazione dei cedolini paga; Spostare il focus, dall’attribuzione del compito alla delega; Dirottare i clienti verso i miei collaboratori, dando esclusivamente un supporto consulenziale dietro alle quinte; Accettare gli errori come fonte di arricchimento e strumento di crescita. In una parola, imparai a fidarmi. Una fiducia che venne ben presto ripagata. Quelle persone, fiorirono. Si trasformarono in collaboratori autonomi, responsabili e altamente preparati. Collaboratori pronti a gestire il cliente fino alla consulenza ordinaria. Ed è da lì che compresi l’importanza della leva motivazionale e dello sviluppo delle risorse umane. Sperimentai il vero significato della formula indicata da Stephen M.R. Covey nel libro “La velocità della fiducia”, ove viene indicato come, il Risultato (R), dato da Strategia (S) per l’Esecuzione (E), è potenziato o depotenziato dal grado di Fiducia (F) che muove le persone all’interno delle organizzazioni. Infatti (SxE)F=R. Una scoperta illuminante che cambiò il mio punto di vista. Compresi che il mio ruolo stava cambiando. Dovevo acquisire nuove informazioni, strumenti e metodi per innovare la mia professione e trasformarmi in un agente di cambiamento per i miei clienti.

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Non sapevo ancora bene cosa mi servisse e come fare a realizzarlo. L’unica cosa che avevo, era un sogno. Nella mia mente iniziai a immaginarmi uno studio più innovativo, dove non si parlavano solo della materia di lavoro, ma di benessere, di crescita e sviluppo delle risorse umane. Un sogno a occhi aperti che, in quel momento, non sapevo ancora che sarebbe diventato presto realtà.

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Capitolo 6.

Un passo indietro per guardare oltre Quando si accende una lampadina e vedi il futuro, assapori la speranza. L’energia pervade il tuo corpo, l’adrenalina è in circolo. La tua mente è proiettata in avanti. Alterni momenti di ottimismo a momenti di paura. Vorresti essere lì, nel tuo immaginario, nel futuro. Ma ti rendi conto delle catene che ti legano. È quello il momento della frustrazione. Quando ti rendi conto che hai bisogno di acquisire nuove competenze, ma non ne hai il tempo. I clienti chiedono ancora di te. I tuoi collaboratori hanno bisogno della tua presenza, della tua approvazione, della tua guida. Nonostante il percorso di crescita e cambiamento, ti rendi conto che non è sufficiente quello che hai fatto. Hai bisogno di un alter ego, una persona di fiducia che condivida il tuo progetto. Una persona con le carte in regola, alla quale affidare i tuoi clienti e i tuoi collaboratori. Ed è lì che ti rendi conto del potere della mente. Ai tempi, non sapevo nulla di strategia. Non avevo ancora frequentato la scuola di Coaching e Problem Solving Strategico ma, in modo naturale, feci come Alessandro Magno. Alessandro Magno, era uno stratega. Durante una delle sue imprese in Oriente, insieme al suo consiglio di guerra, formato non solo da militari ma da ingegneri, sapienti e filosofi, si trovò davanti a una fortezza inespugnabile. Era incastonata sulla vetta di una montagna e difesa ai lati da altre due vette. Le pareti erano lisce. L’unico accesso alla fortezza era rappresentato da un sentiero molto stretto.

Questo permise al consiglio di guerra di spostare il focus per lasciare il posto all’intuizione. I pioli che sorreggevano le tende, si trasformarono in strumenti per scalare la parete. Attraverso l’anello, i militari fecero scorrere le funi e, una volta che i pioli furono piantati nella roccia, fu possibile effettuare la scalata in sicurezza, fino a raggiungere la cima. Senza saperlo, avevano inventato la scalata in cordata. Quando raggiunsero la vetta, le guardie della fortezza furono prese all’improvviso. Lo stupore fu talmente grande che si arresero immediatamente. La conquista passò alla storia come un’impresa che rappresenta appieno una strategia efficace volta a trovare soluzioni semplici a problemi complessi. Infatti, è proprio quando la determinazione e la flessibilità si incontrano con la capacità di problem solving, che l’impossibile diventa possibile. Una magia che nasce dall’esplosione delle risorse innate, spesso assopite negli anni, che ognuno di noi possiede. Ma, torniamo alla mia storia. Proprio come Alessandro Magno, quindi, in modo del tutto inconsapevole, spostai il focus da “come creare uno studio più innovativo” a “come trovare una persona a cui trasferire il mio sapere”. Ed è così che guardai con curiosità ai giovani che incontrai nel mio cammino professionale. Ero alla ricerca di talenti da far crescere all’interno dello studio. Inconsciamente mandai un input al mio cervello che, a sua volta, si attivò. Alla fine, trovai quello che cercavo. In quel periodo avevo assunto la carica di segretario dell’ordine dei consulenti del lavoro e mi venne proposto di gestire il “gruppo giovani”.

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Accettai con entusiasmo. Ho sempre visto nei giovani il futuro della nostra professione. La loro energia, vitalità e la sete di sapere mi riempiono il cuore. Ed è proprio in uno di questi incontri che conobbi Giulia. Rimasi stupita dalla sua abnegazione. Puntava all’eccellenza in tutto quello che faceva. La misi alla prova e compresi che era una persona affidabile, con le idee chiare e grandi potenzialità. La coinvolsi nel progetto. Sentivo che era la persona giusta. A quel punto spostai nuovamente il focus. Investii il mio tempo e le mie energie per trasformare quella fanciulla in una bellissima farfalla colorata, che potesse spiccare il volo. Le insegnai tutto quello che sapevo. Alla sera ci fermavamo spesso dopo il lavoro. Parlavamo del suo percorso di crescita e mi trasformavo nel suo coach. Il mio ruolo era cambiato. Non ero più una professionista. Ero un leader che aveva il compito di crescere un altro leader. Stavo trasferendo lo scettro, mettendo in sicurezza clienti e collaboratori. Un’esperienza unica, mistica, che ha funzionato grazie all’impegno di questa giovane donna che ha saputo cogliere quell’opportunità. Si è fidata e si è impegnata con passione e determinazione in un progetto, dai contorni sbiaditi, ma illuminato da un forte bagliore. Proprio partendo da qui, da questa esperienza personale, che vorrei dare un messaggio a tutti gli imprenditori con qualche capello bianco, che hanno dedicato la vita alla loro azienda e ora sono chiamati a cambiare il proprio ruolo. La paura di perdere lo scettro li porta a ©Paserio

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mantenere lo status quo. Vogliono fare il bene dell’azienda ma poi, nei fatti, non lo fanno. A ottant’anni sono ancora lì, i primi ad arrivare in azienda. A illudersi che gli altri non ce la fanno senza di loro. Un autoinganno disfunzionale che non permette all’azienda di innovarsi. È a loro che vorrei porre alcune domande: Qual è il motivo per cui avete costituito la vostra azienda? Qual è il piacere che traete ogni giorno, quando varcate la porta della vostra organizzazione? Potreste provare lo stesso piacere, insegnando ad altri come diventare i leader di domani? Vorreste essere ricordati, come coloro che hanno permesso di dare continuità alla vostra azienda o coloro che l’hanno portata all’estinzione? Domande forti. Potenti. Che servono per rompere uno schema e affrontare quella paura che io stessa ho provato. Per farlo, occorre partire dalle proprie emozioni cambiando quello che è il proprio punto di vista. Non vedere questo cambiamento come a una perdita di potere, ma come la conquista di un potere più grande. Oggi Giulia è un’eccellente professionista. Quel ruolo le calza a pennello. Delegare competenze tecniche, è la cosa giusta. Quella che bisogna tenersi stretta è l’esperienza, per trasformarla in saggezza e usarla nella guida del cambiamento aziendale. Un passo indietro del nostro IO per un NOI più forte.

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Capitolo 7.

Trasformare il vuoto in pieno Per trasformarmi in un agente di cambiamento dovevo prepararmi. Fiutavo ogni corso. Ero alla ricerca di nuove competenze. L’obiettivo era quello di comprendere meglio le persone, il loro modo di pensare, di agire e le leve necessarie per muoverle. Ed è così che mi iscrissi alla scuola per diventare Business Coach. Imparai il vero significato dell’ascolto attivo, della comunicazione efficace, della capacità di andare in guida e di quello che rappresentava il magico mondo delle emozioni. La programmazione neuro linguistica mi affascinava. Quel mondo era come le ciliegie. Più ne assaporavo le potenzialità e il mistero, e più ne volevo. Un corso tirava l’altro. Andavo alla ricerca di tasselli, pezzi del puzzle da mettere insieme per comprendere la mente umana. Un’immagine che ogni giorno prendeva forma, anche se non era sufficiente a comprenderne i dettagli. Mi serviva un modello ripetibile, replicabile e autocorrettivo. Avevo bisogno di strumenti per mettere a terra quello che avevo appreso. Nelle aziende non c’era il tempo sufficiente per accompagnare le persone in un percorso di consapevolezza. Mi iscrissi al Master di Problem Solving Strategico Aziendale. Il modello utilizzato dal Prof. Giorgio Nardone, noto psicologo e psicoterapeuta italiano, si basa su tecniche brevi strategiche e sull’analisi delle tentate soluzioni che ostacolano la risoluzione del problema stesso. Tecniche, inizialmente usate in terapia, ma poi allargate alle organizzazioni. Era proprio quello che cercavo. Una scoperta importante, che determinò la svolta trasformando qualcosa di aleatorio in una metodologia concreta applicabile in tempi brevi.

Dopo il master, continuai il percorso. Tutto il mio tempo libero era canalizzato a frequentare corsi, a leggere libri ed approfondire tematiche collegate alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane. Ascoltai con entusiasmo le storie raccontate dai responsabili HR delle multinazionali associate ad AIDP, l’associazione dei direttori del personale. I loro racconti mi trasportarono in un mondo diverso rispetto la consulenza del lavoro tradizionale. Parlavano di cambiamento, mappatura delle competenze, attrazione di talenti, percorsi formativi strutturati e assessment per facilitare la selezione del personale. Ed è grazie a loro che compresi che quel mondo, quelle soluzioni e quei percorsi potevano essere revisionati e riproposti alle PMI. Dovevo trovare il giusto equilibrio tra costi e benefici. Non potevo andare dalle PMI chiedendo un investimento cospicuo. La cultura imprenditoriale era ancora legata alla macchina, alla produttività, ai numeri e a risultati a breve termine. Far passare messaggi più complessi e far percepire un investimento sulle persone come un modo per distinguersi sul mercato, non lo vedevo percorribile. “Misurare” divenne la chiave di lettura. Dovevo trovare un modo per rendere tangibile l’intangibile, ed è così che la misurazione del ROI (Ritorno sull’Investimento) divenne un punto focale. Avevo bisogno di acquisire competenze e strumenti per misurare il miglioramento delle persone. Mi approcciai quindi al mondo dell’assessment. Iniziai con Six Seconds, una multinazionale con esperienza consolidata. Mi avvicinai, quindi, all’intelligenza emotiva e al mondo delle neuroscienze per poi allargare il raggio d’azione alla mappatura delle competenze e del potenziale della Scuola di Palo Alto.

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Un mondo affascinante, magico e infinito, che mi ha insegnato diverse cose: 1. La prima lezione è che nulla succede per caso. La nostra capacità di rimanere focalizzati sull’obiettivo, ci permette di trovare sul nostro cammino: persone, dati e informazioni utili per raggiungere la meta e mettere luce all’immagine sbiadita del momento; 2. La seconda lezione è che bisogna aprirsi all’ignoto e allenarsi continuamente. La curiosità di imparare cose nuove e giocare ogni giorno una partita diversa, permette di ampliare il raggio d’azione; si parla infatti di plasticità del nostro cervello. Un cambiamento geometrico esponenziale che travolge qualsiasi cosa: noi stessi, la nostra vita privata e quella lavorativa; 3. La terza lezione è che non ci si può improvvisare. Per essere credibili occorre investire tempo e risorse in competenze e professionalità; 4. La quarta lezione è che la passione, la voglia di condividere e aiutare le persone, sono un’arma vincente. Aver chiaro qual è il nostro perché, ossia il motivo per cui facciamo le cose, permette di metterci in moto. Ognuno di noi è disposto a sacrificare il proprio tempo se c’è qualcosa di più grande che lo anima; qualcosa che lo muove; 5. La quinta lezione è la capacità di diventare un moltiplicatore del sapere, un leader che cresce altri leader. Per farlo, ho imparato che bisogna acquisire diverse competenze.

Saper: Rallentare; Ascoltare; Fermarsi ed analizzare cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato; Fidarsi delle persone; Condividere e trasmettere il proprio sapere; Lasciar andare, consapevoli che il vuoto che inizialmente provi quando passi lo scettro, diventa il pieno per i futuri leader.

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Capitolo 8.

Ascoltare il dolore dei nervi scoperti Dopo aver acquisito nuove competenze, iniziai a sperimentarle all’interno delle aziende. Appena entrata, mi resi conto che manager e imprenditori navigavano a vista nella gestione delle risorse umane. Ancorati a vecchi modelli di business e a un’organizzazione ormai obsoleta, i vertici aziendali continuavano imperterriti a riproporre vecchi schemi all’interno delle loro organizzazioni. Intrappolati nell’illusione del successo degli anni passati, invece di studiare una strategia per attrarre giovani talenti, si ostinavano a mantenere lo status quo, sostenute da figure senior ormai vicine alla pensione. Uno scollamento importante, acutizzato con l’avvento del Covid-19, che ha messo in evidenza i nervi scoperti delle aziende: Mentalità; Digitalizzazione; Gestione delle Risorse Umane. Nervi scoperti che, durante il periodo emergenziale, hanno prodotto un dolore lancinante nelle aziende. Alcune di loro hanno preso semplicemente un analgesico; altre ne hanno studiato la causa, mettendo in moto un percorso di cambiamento strutturato con un approccio lean. Si sono messe all’ascolto del dolore e sperimentato nuove strategie. Ed è qui che noi facilitatori in ambito HR entriamo in campo. Il nostro compito è sedersi al fianco di questi manager e imprenditori fortemente determinati a risolvere la causa della nevralgia, per guidarli verso il cambiamento. Ognuno ha la sua sintomatologia. Ognuno ha la sua terapia. Per scegliere, però, bisogna sapersi

muovere, conoscere le tecniche, gli strumenti e i metodi scientifici più idonei al contesto per evitare che le aziende si trovino in vicoli ciechi o strade impervie difficilmente percorribili. Traghettare le persone verso un cambiamento non lineare, per allenarle alla flessibilità e all’orientamento al risultato, non è semplice, ma possibile. L’abbiamo visto con lo smartworking. Quello che era un modo di lavorare riservato alle multinazionali e alle aziende con una mentalità più aperta, è diventato, con l’emergenza epidemiologica, un normale modo di lavorare, adottato anche negli studi professionali e nelle PMI. Un modo più responsabile di gestire le attività che ha messo da parte la diffidenza, lasciando spazio al senso del dovere e all’organizzazione autonoma del proprio lavoro. Orari e luogo di svolgimento dell’attività lavorativa, sono stati destrutturati, dando vita a un nuovo modo di lavorare che, in alcuni contesti, come il settore chimico e chimico-farmaceutico, è stata l’occasione per evolverne la struttura. In questi settori merceologici, infatti, si sta già parlando di un rapporto di lavoro subordinato nuovo, più moderno, che si chiama F.O.R. Working F.O.R., un acronico che rappresenta 3 parole: Flessibilità, Obiettivi e Risultati. Un rapporto di lavoro più in linea con quello che è il cambiamento, l’esigenza di un bilanciamento tra vita e lavoro, la necessità di sperimentare per innovare, l’esigenza di scrollarsi di dosso la concezione del tempo delle attività, per connetterla a risultati specifici e a obiettivi condivisi. Oggi, grazie al Covid, infatti, abbiamo accelerato un processo che faticava a

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decollare. Abbiamo imparato che: Mettere da parte la diffidenza e fidarsi l’un l’altro, permette di spostare il focus da quello che è il rischio e la paura di perdere il controllo, verso la fiducia e l’apertura di cogliere nuove opportunità. Opportunità di imparare, sperimentare, raggiungere obiettivi e migliorare il bilanciamento tra vita e lavoro; La tecnologia è un’alleata, in quanto ci permette di gestire in modo più fluido i dati e le informazioni, comunicare velocemente con i collaboratori e con i clienti, ottimizzare il nostro tempo, personalizzare la modalità di lavoro sulla base delle nostre esigenze, contenere i costi diretti ed indiretti; La diversità è fonte di arricchimento e contaminazione tra gli individui. Gruppi eterogenei, a livello di età, estrazione, cultura, esperienze e percorsi scolastici, sono il fulcro della crescita e dell'innovazione.

Il cambiamento fa parte della nostra vita e rappresenta la nuova normalità. Resistere al cambiamento vuol dire immergersi in una bolla, dove l’illusione del passato rallenta l’evoluzione naturale delle cose; Osservare le cose da punti di vista diversi, guardando oltre. Un allenamento che permette di sperimentare, connettere e dare un nuovo significato alle cose, perché questa, che stiamo vivendo, è l’era della diversità e dell’innovazione. Un nuovo periodo storico ricco di opportunità da cogliere. Impariamo quindi dagli eventi e guardiamo al futuro con la curiosità e con gli occhi di un bambino. Impariamo ad osare, fallire, analizzare e ripartire, perché questo è il ciclo del successo.

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Capitolo 9.

Il gioco continua Ed è qui che mi fermo. La partita è finita. Mi alzo dal tavolo, prendo per mano i nuovi giocatori e cambio il mio ruolo all’interno del gioco. Il mio compito è allenarli. Li guardo, sorrido e vedo in loro l’energia, la motivazione e le competenze che servono per affrontare un'altra partita. Che il nuovo gioco abbia inizio!

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