Il vecchio Pietro

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IL VECCHIO PIETRO Stefano Terraglia

Dedica originale

A mia madre che ci rideva Dedica dopo la revisione

Alla mia mia cara amica Mariangela che non ha mai dimenticato “Il vecchio Pietro”

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Manoscritto originale gennaio 1982

Revisione successiva settembre 2020

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Premessa

Il 2 giugno 2017 ho compiuto cinquant'anni, mezzo secolo di vita. Nei giorni precedenti, intento a sistemare alcune vecchie cose in cantina, è saltato fuori il vecchio quaderno rosa che da anni cercavo e che ormai credevo definitivamente perduto. Il quaderno rosa conteneva questa storia dal titolo “Il vecchio Pietro”. Una mia cara amica di scuola, unica lettrice del piccolo manoscritto, da tempo lo rammentava, ma il quaderno rosa non era stato più trovato. Riposava nella mia cantina, sepolto da una miriade di vecchie scartoffie, ancora integro.

Aver ritrovato il mio primo manoscritto è stato un regalo per il mio cinquantesimo, un regalo della sorte o chissà di quale altro fenomeno fatale.

“Il vecchio Pietro” è una storia di un uomo povero e sfortunato che incarna miseria, noia, tormento e fame, nonché un passato appena accennato.

Un racconto drammatico scritto con la penna di quel ragazzino che ero a 14 anni, con tutti i limiti linguistici e narrativi, ma con tanta fantasia e voglia di stile.

Nel 2020 ho terminato la revisione del lavoro, ho lasciato intatta la narrativa, ma ho corretto grammatica e linguistica al fine di mettere in ordine, per quanto possibile, alcuni concetti e...niente di più.

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Due pagine del quaderno rosa

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Nacque a Caltanissetta, in Sicilia, visse da piccolo in una famiglia contadina povera ed affamata, crebbe nella miseria più profonda e a tredici anni era già venditore ambulante. Da una donna stranissima, sua moglie, ebbe dodici figli, cinque di questi morirono successivamente a causa di una misteriosa e traditrice malattia. Gli altri sette dopo aver approfittato di ciò che rimaneva della poca grana del padre, sparirono nel buio della loro vita. Dopo diciotto anni la moglie morì e la disgrazia rese arrogante ed egoista il nostro Pietro, si, così si chiamava. Stanco, solo e allontanato da tutti, anche a causa della sua involontaria arroganza, a cinquant’anni decise di abbandonare la Sicilia e raggiungere Firenze dove avrebbe in qualche modo ricominciato a lavorare. Lo aveva invitato un amico che a Firenze vi abitava e conosceva bene la città come le sue tasche. Sino ad allora Pietro aveva sperato invano nell’aiuto dei figli, ma a questo punto questa partenza era l’unica speranza per sopravvivere.

Partì che era dicembre, nevicava, vento e freddo gli spaccavano le labbra, le mani screpolate dal lavoro frizzavano miseria, le lacrime gelavano sul suo volto pallido, il naso moccicoso di raffreddore gli impediva una respiro regolare e i piedi, sguazzando nelle scarpe bagnate dalla neve, diventavano pian piano sempre più gelati e doloranti. Vestiva indumenti antiquati e leggeri, troppo lunghi da una parte, troppo corti dall’altra, parevano inamidati dal freddo gelato della stazione.

Pietro salì sul treno nella carrozza di terza classe con ventimila lire in tasca ed il biglietto in mano, una carrozza miserabile, sedili in legno mangiati dal tempo, lampade polverose di fuliggine di chissà quale vecchia locomotiva a vapore, pavimenti consunti. Si sedette vicino ad un finestrino bloccato dalle incrostazioni, vicino a lui sedevano due esseri viventi marmorizzati dal freddo, anche loro con il biglietto in mano. Di fronte sedeva un’intera famiglia colma di valige traboccanti di stracci utili legate da rozze funi, il più vecchio di loro portava calzoni rattoppati da pezze di stoffe variopinte, una donna aveva una sottana lunga ed uno scialle nero che le copriva il volto stanco. Quando il treno partì Pietro dette l’ultimo sguardo alla Sicilia e si addormentò.

Pietro stava viaggiando ancora verso Firenze, al passeggero di fronte chiese:

«Dove va?»

«A Roma» rispose il vicino

«Io ho un figlio, credo, a Roma»

«Lei aggiunge “credo” alla residenza di sui figlio?» disse il vicino stupito, Pietro si ammutolì, anche il vicino si ammutolì.

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Passò un’ora, poi due, poi tre, poi quattro e Firenze era ancora lontana, Pietro era voltato verso il finestrino incrostato ad osservare il fuori, nevicava. Nel corridoio del treno alcuni mormorii facevano pensare all’arrivo del controllore e poco dopo arrivò. Pietro cacciò di mano il biglietto, lo diede al controllore che disse:

«Va bene», poi sorrise, perché per lui era il primo “va bene” che riceveva nella sua vita, anche se quel “va bene” lo aveva pagato.

Otto ore dopo Pietro arrivò a Firenze, stazione di Santa Maria Novella. Pioveva, scese da quella carrozza di terza classe, la valigia di plastica era poco impermeabile, piena di spaccature, l’acqua si sarebbe infiltrata dentro. Non riusciva a trovare l’uscita così si sedette su una panchina all’interno della stazione, fuori la pioggia non smetteva. Continuava a piovere, così Pietro decise di uscire dalla stazione di corsa per evitare di bagnarsi, ma inciampò ruzzolando sulla scalinata esterna. Fu soccorso da alcune persone che portavano con loro gli ombrelli, lo aiutarono a rialzarsi e Pietro di nuovo in piedi riuscì a raggiungere la fermata dell’autobus che lo avrebbe portato a casa di quell’amico fiorentino che da tempo lo aveva invitato. Il viaggio in autobus durò circa mezz’ora, scese in Via Quintino Sella, ma uscendo dal grande veicolo inciampò di nuovo, stavolta nella pedana della portiera d’uscita. Pioveva, camminò sul marciapiede fino al portone dell’amico, suonò il campanello ma non rispose nessuno.

Pietro rimase fuori seduto sullo scalino del portone dell’amico per molto tempo, ma non arrivò nessuno, aspettò ancora per un paio d’ore, ma non arrivò anima viva.

Era buio, pioveva, entrò in un bar, raggiunse il telefono pubblico e finse di telefonare, tentava in qualche modo di ripararsi dalla pioggia. Finita la falsa telefonata chiese al barista un bicchier d’acqua dal rubinetto, la bevve, ma fuori pioveva ancora. Si sedette ad un tavolino guardando fuori dalla vetrata del bar con la speranza che il diluvio cessasse. Il barista però lo raggiunse:

«Ordina qualcosa?»

«No, veramente non prendo niente, ho già bevuto l’acqua» rispose Pietro imbarazzato «Le faccio presente che per stare al tavolo occorre consumare almeno qualcosa», il barista era diventato piuttosto scontroso.

«E quanto costa stare seduti? Ho pochi soldi devo farli bastare, non posso comprare niente»

«Allora deve pagare soltanto il prezzo del tavolo, mille e ottocento lire» rispose il barista. Pietro si alzò da quella sedia arancione ed uscì. Pioveva, ritornò di nuovo di fronte al portone dell’amico, suonò di nuovo il campanello, niente. In compenso il portone era socchiuso, così vi entrò gocciolando ovunque per l’andito e bagnando le scale di marmo. Salì

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quelle scale scivolando per tre volte di seguito, dopo aver controllato i nomi sulle porte degli inquilini raggiunse l’abitazione dell’amico, bussò alla porta, niente. Erano le otto di sera, senza l’amico avrebbe dovuto passare la notte all’aperto. Aspettò oltre due ore nell’andito delle scale seduto sulla valigia di plastica spaccata, iniziò a leggere a stento un volantino pubblicitario che fino a quel momento aveva tenuto in testa per ripararsi dalla pioggia, non c’era scritto niente di interessante. Lo appallottolò e se lo mise in tasca, poteva essere utile, tutto per lui era utile, anche uno stecchino da denti usato.

Finalmente l’amico arrivò, si salutarono per forza ed entrarono in casa. A Pietro fece una strana impressione entrare in una casa ben arredata, con la carta da parati e l’impiantito lucido, l’effetto era tale che dall’emozione fece cadere l’attaccapanni mentre vi appendeva il copertone che aveva addosso che fungeva da cappotto. Pietro attese un po’ mentre l’altro era andato a spogliarsi, poco dopo l’amico tornò con indosso una bella vestaglia, lo ricevette nel bel salotto. Pietro si sentiva morire di vergogna vestito così diverso dall’amico, ma la voglia di trovare un lavoro al più presto pestava la vergogna più dura. L’amico accese un sigaro e disse:

«Il viaggio? tutto bene?»

«Non c’è male, è stato molto lungo» rispose Pietro

«Lo so, anche io andai in Sicilia anni fa, ma dato che in treno avevo trovato buona compagnia, il viaggio mi sembrò meno noioso» disse fiero l’amico.

«Invece io ho viaggiato in terza classe, seduto sulle panche di legno, al freddo, al rumore delle carrozze sgangherate, alla mancanza...» di colpo Pietro viene interrotto dall’amico, «Basta! Basta! Sto tanto bene qua a casa mia che pensare a tutte codeste cose che mi dici mi fa venire i brividi!» era seccato, fissò Pietro ed aggiunse: «Hai mangiato?» Pietro lo guardò in silenzio e rispose:

«No, ma non ho fame»

«Sicuro?» chiese meravigliato l’amico

«No, non importa, disturberei» rispose Pietro, anche se aveva una fame da lupi dal momento che non mangiava da due giorni e mezzo.

«Se proprio insisti...allora evito di preparare» disse l’amico

«Dai, qualcosa mangio...» disse Pietro

«Allora cenerai e passerai la notte qui, in codeste condizioni e con la pioggia starai meglio qui», concluse l’amico.

Iniziarono a cenare, le posate e le stoviglie erano lussuose, Pietro guardava il cibo, ma non mangiava, l’amico lo guardava curioso e disse:

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«Che fai non mangi?»

«Ho troppa fame per mangiare» rispose Pietro

«Che risposta a bischero, mangia! forza! non c’è tempo per le cerimonie!» esclamò l’amico.

Pietro prese il bel cucchiaio e iniziò ad ingoiare la minestra di verdure assaporandola con gusto, mentre mangiava iniziò a borbottare qualcosa con il boccone in bocca:

«Come va il tuo lavoro?»

L’amico si pulì velocemente la bocca con il tovagliolo e rispose:

«Io non ho problemi, stipendio abbondante, lavoro poco faticoso, bellissima segretaria, ufficio confortevole, ed affari a gonfie vele, cosa vuoi di più?»

Pietro fini di inghiottire il boccone e disse:

«Beato te, ed io che a cinquant’anni vengo dalla Sicilia per cercare un lavoro a Firenze»

Dopo aver detto questo era certo che l’amico lo avesse aiutato, invece:

«Cosa? Tu vieni a Firenze per cercare un lavoro?” disse l’amico

«Non lo sapevi? Sei anni fa mi dicesti di venire da te per cercarne uno» disse Pietro mentre pian piano gli occhi gli diventavano lucidi.

«Figurati, sei anni, non mi ricordavo più e poi con i disoccupati che ci sono qua a Firenze, come farei?» rispose l’amico con uno strano sorriso.

«Ma tu mi dicesti che me ne avresti trovato uno, ricordi?» continuò Pietro.

L’amico lo guardo negli occhi e disse:

«Ci sono laureati, diplomati, tutti senza lavoro e tu con l’ignoranza che hai addosso credo che rimarrai disoccupato per sempre»

Pietro inghiottì e con un filo di voce rispose:

«Ma tu non puoi fare niente per me?»

«Niente» rispose l’amico.

Dopo la brutta risposta dell’amico Pietro si mise a piangere:

«Ottomila lire di viaggio, a cosa mi è servito venire a Firenze?»

L’amico lo guardò tristemente senza commuoversi affatto:

«A qualcosa ti servirà stare qua a Firenze, in Sicilia non avresti trovato neanche un posto per chiedere l’elemosina, qua, almeno in piazza del Duomo chiedere l’elemosina è un buon affare» detto questo l’amico scoppiò a ridere.

Pietro, cambiò espressione, divenne irritato:

«Ti credevo un amico, ma a questo punto tu sei più disgraziato di me, l’egoismo di un benestante vale molto meno della fatica e delle pene di un disgraziato!»

Detto questo Pietro prese il copertone-cappotto, la valigia spaccata ed andò via.

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Disse tra se che avrebbe ricominciato da zero, a costo di chiedere l’elemosina ai mendicanti, avrebbe trovato un lavoro, ne era sicuro.

Si avviò verso il centro di Firenze, a piedi, non aveva soldi da sciupare per il tram, fece tutta via Quintino Sella a piedi, poi imboccò via Costantino Nigra, continuò sul lungarno, svoltò in via De’ Benci, girò di nuovo in via dell’oriuolo a arrivò in piazza del Duomo. Povero Pietro era quasi mezzanotte e pensare che arrivò sin li chiedendo a chiunque indicazioni, avrebbe potuto dormire dall’amico, ma preferì dormire all’aperto.

Si avvicinò al sagrato della cattedrale, aprì le valigia spaccata e tirò fuori una coperta umida di precedente pioggia, si sdraiò e si addormentò sotto la coperta umida di precedente pioggia.

Quando l’alba fu vicina Pietro si svegliò indolenzito e fradicio di pioggia notturna, aveva dormito molto profondamente, era stanco. Rimise la coperta fradicia di pioggia notturna nella valigia spaccata e camminò fino a via Cerretani, arrivato li si fermò e disse fra se: “Questa è la prima volta in vita mia che chiedo l’elemosina, ma sono costretto a farlo e lo farò, lo farò per mangiare, per vivere, lo farò, lo farò, lo farò!” Infatti cominciò a tendere la mano rossa:

«Fate la carità, fate la carità ad un povero disoccupato, raccoglierò i soldi per mangiare e per trovare un lavoro, fate la carità, fatela vi prego»

Purtroppo nessuno si fermava, la gente era troppo occupata dai propri affari che non lo vedevano nemmeno. Pietro vide un prete che camminava dall’altro lato della strada e pensando che potesse impietosirsi lo raggiunse e gli disse:

«Padre, fate la carità, sono un disoccupato, non ho soldi per mangiare, né per trovarmi un lavoro, aiutatemi voi» il prete rispose:

«Figliuolo, solo il Padre Eterno ti può aiutare, io non niente da darti, anche io sono nelle tue stesse condizioni, non ho parrocchia, ho soldi appena sufficienti per vivere, l’unica mia speranza è pregare, in questa cartella che porto sotto braccio ho soltanto cinquemila lire, cosa posso fare secondo te con tale somma?»

Pietro chiese ancora: «Non conoscete qualche posto dove poter lavorare?»

Il prete alzò gli occhi al cielo e con mani giunte concluse:

«No figliolo, l’unico posto per te è andare in chiesa a pregare e ora per cortesia vai in pace e che sia lodato Gesù Cristo»

Pietro lo guardò con gli occhi abbattuti e con un filo di voce rispose:

«Sempre sia lodato».

Passarono tre giorni, ma la vita era sempre quella, elemosinare, dormire all’aperto e nessun aiuto. Quel giorno era ridotto nelle condizioni più misere di un misero, aprì la valigia

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spaccata, ma non vi trovò altro che il vuoto, così dopo averla presa a calci la vendette all’Arno per due schizzi d’acqua, che non bevve. Era disperato, le sue membra erano impotenti e i suoi capelli erano diventati come la paglia. Passarono ancora tre giorni, membra e capelli erano gli stessi, ma la fame era diversa, era più intensa, neanche un tozzo di pane, stava morendo di fame, aveva perso il contatto con la realtà. Si era adattato alla vita del più misero dei miseri, beveva a Monticelli, alla fontanella del Boschetto oppure ai giardini pubblici. L’acqua che beveva non gli bastava mai, era diventata veleno che riusciva a malapena a farlo campare. Passò qualche giorno in quelle condizioni, stessi panni, stessi capelli sporchi, tutto era sporco, stava morendo, anche se gli passava per la testa l’idea di rubare del pane, lui la ripudiava. Incontrò un giorno alle Cascine due ragazzi ben vestiti uno portava occhiali scuri, avevano bei pantaloni, belle camicie e capelli puliti, quello senza occhiali gli disse: «Nonno! Vieni qui!»

«Vengo» rispose Pietro

«Hai fame?» continuò il ragazzo

«Faccio di tutto per procurarmi del cibo» rispose il vecchio Pietro.

I due lo guardarono dall’alto in basso e l’altro ragazzo gli chiese:

«Hai mai rubato?» Pietro rispose di no

«Ti pagheremo trecentomila lire se ci aiuterai a fare un colpo»

Pietro rimase un po’ in silenzio poi chiese: «Di cosa si tratta?»

I due ragazzi si guardarono poi quello con gli occhiali disse a Pietro:

«Aspettaci domani all’alba in Piazza Santa Trinita»

Pietro se ne andò pensando, ma se ne andò

Era l’alba quando Pietro arrivò in piazza Santa Trinita, mentre aspettava i due ragazzi si mise ad osservare una donna che sedeva sulla base della colonna della Giustizia, il monumento della piazza. La donna guardava una collana che teneva in mano, era una collana molto grossa, costituita da tanti pezzi di roba marrone uniti da una cordicella e separati da piccole sfere color argento. Era una collana e lei la stava guardando, come se non avesse nient’altro al mondo che quella collana. Pietro si avvicinò e le disse:

«Buongiorno, bella giornata oggi vero?» La signora annui, ma continuava a guardare la collana, era marrone e la guardava. Pietro continuò:

«Una giornata così non l’avevo mai vista è quasi giorno», ma la signora non rispose, continuava a guardare la collana, a carezzarla, ad osservarla nei particolari, quella collana era sua e guai a chi l’avrebbe toccata quella collana dai pezzi marroni. Pietro avanzò di nuovo due parole:

«Bella quella collana», la donna rispose:

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«E’ mia» e poi dopo una pausa di silenzio aggiunse:

«E’ la mia unica speranza, me l’ha regalata mia madre prima della sua morte, me l’ha lasciata in cambio del mio affetto, ora non mi resta altro che questa collana, la mia collana»

Pietro non sapeva cosa rispondere, vide che erano arrivati i due ragazzi delle Cascine a bordo delle motociclette, salutò la donna e li raggiunse.

«Allora? Sei pronto?» disse uno dei due

«Prontissimo» rispose Pietro.

Pietro salì dietro la motocicletta di Fulvio, uno dei due ragazzi, era imbarazzato, con i suoi stracci addosso che svolazzavano, Fulvio correva in maniera spericolata, passarono da via degli Agli, raggiunsero piazza del Duomo per continuare in via dello studio. Scesero di fronte ad un’abitazione, dalla targa esposta all’ingresso si capiva che era la dimora di un noto avvocato, il luogo del colpo.

Iniziarono l’operazione del furto, uno dei giovani tirò fuori dalla valigetta una pistola e se la mise nella giacca. Fulvio prese un martello, un cacciavite e due sacchetti di balla.

Raimondo, il ragazzo dagli occhiali scuri, prese la fiamma ossidrica, la controllò e la ripose in una custodia di violoncello. Salirono le scale del palazzo dell’avvocato, Pietro disse: «Bisogna stare attenti a non svegliare l’avvocato»

«Stupido! L’avvocato è fuori da tempo» rispose Raimondo

«Allora siamo tranquilli» aggiunse Pietro

Quando arrivarono di fronte alla porta dell’abitazione dell’avvocato, Raimondo tirò fuori la fiamma ossidrica dalla custodia da violoncello, aprì il gas, vi avvicinò un accendino e dopo un piccolo scoppietto si accese emanando un odore acre. Raimondo avvicinò la fiamma ai cardini della porta e dopo averli scaldati cedettero, così con qualche spinta la porta si aprì. Entrarono nell’appartamento, Fulvio mise una lampada sulla cellula fotoelettrica per ingannare l’allarme, da quel momento un silenzio calò nell’animo di Pietro, era un silenzio misto tra entusiasmo e paura. Entusiasmo perché presto avrebbe avuto una somma di denaro mai vista in vita sua, paura perché stava rischiando molto. Fulvio disse a Pietro di andare nella camera a prendere il portagioie sopra il comò. Pietro ci andò, ma vide la torcia elettrica che Fulvio aveva messo di fronte al sensore di allarme, la raccolse pensando di far bene, così due secondi dopo la sirena iniziò a squillare. Pietro non sapeva cosa fare, uscì dalla porta, tutti uscirono, di corsa, ma un uomo sulla soglia del portone vide tutta la scena e mentre si accingeva a raggiungere il bar di fronte, forse per telefonare, venne raggiunto da due colpi di pistola sparati da Fulvio. I ragazzi e Pietro fecero in tempo a scappare sulle moto.

Arrivarono alle Cascine. Fulvio piangeva, Pietro no. Raimondo disse a Pietro:

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«Sei uno stronzo, hai visto cosa hai combinato? Abbiamo un morto adesso!”

«Credevo che la torcia fosse caduta per sbaglio, in camera era buio e l’ho presa presa per evitare di accendere la luce» rispose Pietro con il mento tremante.

«Dovremmo farti fuori, vecchio! Non lo facciamo soltanto per non aggravare il tutto, comunque ci ritroveremo in carcere, tutti insieme»

«E le trecentomila lire?» Chiese con Pietro

«Ma tu sei proprio un cretino, stai zitto! Non abbiamo combinato niente per colpa tua e ora vorresti la grana? Non ti daremo niente!» rispose Fulvio

«Ed io farò la spia» disse Pietro con le mani ai fianchi

«Ed io ti ammazzo» rispose Raimondo con le mani ai fianchi

«Così mi avete fregato vero?»

«Stai zitto, vai via! Vai via! E’ colpa tua imbecille, smamma! Vai via sennò ti sparo!» ansimava arrabbiatissimo Fulvio. Pietro alle grida di Fulvio scappò come una lepre, quasi piangendo, ma non piangeva.

Due giorni dopo seppe che i tre giovani vennero arrestati con l’accusa di furto e omicidio, ma lui non ci andò di mezzo, perché i giovani dissero alla polizia che il quarto era un vecchio, un povero vecchio e che lo avevano sempre chiamato vecchio e vecchio rimase. I pochi testimoni oculari non ricordavano di lui.

Pietro non intendeva di certo ripetere un’esperienza simile, ma gli sarebbe piaciuto ripeterla senza correre rischi. Aveva visto quei giovani lavorare e ne era rimasto contagiato, era troppo stanco per continuare a vivere di miseria, sapeva che rubando sarebbe andato incontro alla ricchezza, ma anche all’arresto, sapeva che uccidendo poteva togliersi di mezzo un testimone scomodo, ma...poteva finire in galera. Che fare? Cosa dire? Elemosinare? No. Pietro si immerse nei pensieri per ore ed ore, così decise di prendere la via della delinquenza. Scelse la delinquenza, con la delinquenza avrebbe potuto vivere, rubando una bella cifra sarebbe stato bene per tutti quei pochi anni che ancora gli rimanevano da vivere. “Voglio rubare” disse tra se “Voglio diventare ricco, voglio godere di tutte le ricchezze del mondo, si ho deciso, ruberò” e pensato questo se ne andò, ma stavolta se ne andò piangendo.

Due giorni dopo, sempre digiuno, Pietro si era fissato di fronte ad una gioielleria, la guardava, era in via Martelli, era una vera gioielleria, Pietro la guardava, vedeva tutti quei gioielli, erano belli, lucenti, i diamanti negli anelli splendevano, era una gioielleria, era bella e con anelli, brillanti e braccialetti d’oro, era veramente una gioielleria che faceva la sua bellissima figura.

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“Io non potrò mai avere quei gioielli” diceva ancora tra se ed infatti un uomo che aveva in tasca soltanto cento lire per telefonare all’ambulanza prima di morire di fame, non poteva di certo permettersi certi lussi. Tutto quell’oro però lo aveva incantato, ma doveva stare attento perché di solito un delinquente l’oro lo tocca soltanto per poco, poi tocca il ferro delle sbarre. Erano le sette di sera, era venerdì, era dicembre, era il 4 dicembre del 1981, era freddo, ma Pietro continuava a guardare la gioielleria, pensava all’oro, pensava alla sua Caltanissetta, pensava all’amico che lo aveva preso in giro, pensava alla donna che aveva la collana in mano, pensava ai tre ragazzi ladri e assassini, ma non toglieva gli occhi dai gioielli lucenti di quella gioielleria. Erano due ore che stava fisso di fronte a quei gioielli, con gli occhi sull’oro. Ad un certo punto il commesso chiuse il bandone, Pietro guardava il commesso, anche il commesso lo guardava, Pietro gli sorrise, il commesso no. Pietro disse al commesso:

«Accidenti, quanto oro che ha lei, io non ne ho per niente»

«Neanche io ne ho » rispose il commesso

«E tutti quei gioielli che sono in vetrina di chi sono?» chiese Pietro

«Il negozio non è mio è del signor Targelli, io sono soltanto il commesso» rispose

«E voi non potete prendere, che so...un braccialetto quando vi comoda?» domandò Pietro

«Via non scherzi, le pare il caso? Io non capisco che cavolo di discorsi stia facendo lei, arrivederci, sto chiudendo ed ho fretta»

Il commesso scosse la testa convinto che il vecchio Pietro fosse veramente un povero demente. Pietro sapeva di avergli fatto delle domande assurde, ma era freddo, gli venivano così, non sapeva cosa dire, cosa fare. Non riusciva a togliersi dalla testa tutto quell’oro che aveva visto, quei gioielli erano troppo belli.

Dopo un giorno Pietro ancora ricordava quei gioielli, quei bei gioielli, quell’oro era bello, veramente bello. Pietro non resisteva dalla voglia di avere quell’oro, era una gioielleria, non era il paradiso, ma soltanto una gioielleria. Pietro era rimasto colpito da quell’oro e lo desiderava ardentemente.

Era la vigilia di Natale, Natale era vicino, quasi era Natale. Non pioveva, era freddo, Pietro aveva tanto freddo. Pietro dormiva sotto il Ponte alle Grazie, nell’isolotto dell’Arno con il pericolo di una piena, con il pericolo di morire, ma non moriva. Era quasi Natale, con il freddo ed il sonno, la morte che lo sfiorava in ogni momento, ma non lo colpiva.

Era Natale, quasi Natale, Pietro ricordava, ricordava quei Natale passati a Caltanissetta, quei Natale con il tetto, quei bei Natale.

Oramai la fame cominciava a farsi sentire, le notti passate all’aperto erano come pugnalate, aveva deciso di continuare a rubare, come spinto da un Dio. Pietro si sentiva solo, per

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lui non era Natale, ma una semplice giornata. Non voleva passare il Natale nella miseria, nel puzzo di fogna dell’Arno. Sognava di essere ricco, sognava un vero Natale con l’albero, con il Presepe e qualcosa da mangiare, qualcosa per digerire, qualcosa. Sapeva che tutte le altre persone passavano un Natale tranquillo, un Natale sereno, senza miseria, almeno un Natale in compagnia. Era stufo e stanco di tutto, stanco anche di vivere, ma per lui il Natale era importante e non voleva tradirlo ignorandolo, sentiva il bisogno di passarlo bene, come gli altri, ma senza soldi non poteva fare niente. Si ricordò che rubare forse era importante, soltanto in quel modo avrebbe passato un Natale abbordabile. Era il giorno di Natale, Pietro aveva rubato, non sapeva quello che aveva fatto, ma aveva rubato. Durante la notte di Natale Pietro aveva rubato la borsetta di una straniera che si era seduta sul sagrato del Duomo e si era impadronito dei cinquanta dollari che vi erano dentro, fu il suo primo furto vero e proprio, primo atto che gli aveva fruttato denaro, quasi sessantamila lire. Sessantamila lire in mano del povero vecchio Pietro, in mano ad un poveraccio, un povero vecchio. Per lui era una cifra enorme e dopo aver cambiato i dollari in lire potè decidere come spendere quella somma, forse spendendola in cibo gli sarebbe servita a riempire il vuoto dello stomaco di tre giorni. Venne il sole, era contento, era ricco, ma in pericolo perché la straniera avrebbe fatto sicuramente denuncia, aveva paura di essere stato visto. Il cielo cominciò ad annuvolarsi, Pietro temeva una bufera che lo avrebbe bagnato persino il giorno di Natale, così girava per Firenze con quei soldi in mano alla ricerca di una modesta osteria, ma le osterie erano tutte chiuse, soltanto i ristoranti lussuosi erano aperti, ma le cifre si aggiravano sulle trentamila, quarantamila lire per un pranzo. Pietro non intendeva gettare metà del suo tesoro per un pranzo, adesso pioveva, fu costretto ad entrare in Duomo per ripararsi, ma non pregò, rimase poco ed usci quando pioveva di meno. Si comprò un panino con il lampredotto in un ristorante che per miracolo ce l’aveva, lo pagò ottocento lire, così lo mangiò. Erano le una e mezzo e si sentiva come un re, aveva con se molti soldi ancora e per lui che mangiava pane e mortadella, il lampredotto caldo era un pranzo da re. Era tornato il sole, ora Pietro era seduto su una panchina in piazza D’Azeglio. Arrivarono le ore cinque, era buio, ma non pioveva, c’erano le stelle, era la sera di Natale, non era più seduto su una panchina, ma sdraiato sotto il Ponte alle Grazie. Non dormiva, pensava, pensava a quel panino con il lampredotto, aveva nostalgia di nuovo di quei Natale passati a Caltanissetta, ma non piangeva, era soltanto tenue nostalgia. Tutto sarebbe passato, con oltre cinquantamila lire avrebbe passato un Natale e un Santo Stefano con i fiocchi, ma non piangeva.

Felice sotto il Ponte alle Grazie c con il cielo stellato si addormentò, dormiva, ma non sognava.

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Il giorno dopo era Santo Stefano, era per lui l’inizio di un’altra corsa verso un panino, ma non pioveva. Pietro si svegliò umido ed indolenzito, si avviò verso il centro della città sempre umido ed indolenzito, con le sue lire umide di notturna rugiada. Era umido ed indolenzito quando comprò il panino con la mortadella che mangiò diversamente dal panino con il lampredotto. Pietro ora mangiava pane e mortadella, respirando aria e e pane e mortadella, fabbricando nella bocca un festivo sapore, ma mangiava.

Si avviò con il pane e mortadella consumato per metà verso piazza D’Azeglio dove ieri digerì quello con il lampredotto, si sedette poi su una panchina, ma non pioveva. Vicino a lui c’era un uomo anziano, vestito a festa, con gli occhiali ed il cappello. Pietro non gli disse niente, ma l’uomo parlò:

«Buon appetito», disse.

«Grazie», rispose Pietro mangiando pane e mortadella, «Volete mangiare anche voi con me?»

«No, grazie», rispose l’uomo, e Pietro:

«Ma questa è mortadella»

«No grazie, i salumi fanno male, ho un’infiammazione» disse l’uomo toccandosi la pancia

«Io non ho infiammazione» continuò Pietro

«Neanche io alla sua età avevo l’infiammazione, ora a quasi ottant’anni ce l’ho e posso fare a meno del pane con la mortadella» sorrise l’uomo anziano

«L’ho comprato questo panino» disse Pietro

«Certo, non ho pensato che sia caduto dal cielo» disse l’uomo con tono scherzoso e Pietro proseguì:

«Io non ho molte possibilità di mangiare tutti i giorni», disse rosso e imbarazzato. «Ah si?» disse l’uomo anziano incuriosit

«Si, però qualche volta mangio anche il lampredotto, è buono» disse Pietro

«Lo so, io quando ero giovane vendevo panini con il lampredotto alle Cascine» continuò l’uomo anziano

«Ah, alle Cascine ci sono stato anch’io» disse Pietro

«Mi scusi, ma cosa ci è andato a fare alle Cascine» chiese curioso l’uomo, «Le cascine sono frequentate da prostitute» aggiunse

«Io non faccio di queste cose» disse Pietro

Il signore anziano rimase in silenzio e appena Pietro mise in bocca l’ultimo boccone di panino con la mortadella disse:

«Io vado, si è fatto tardi, mia moglie mi aspetta per il pranzo, buongiorno»

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«Buongiorno» rispose Pietro ingoiando l’ultimo boccone di pane e mortadella che aveva pagato quattrocento lire.

Erano le dodici e un quarto, Pietro si alzò dalla panchina di Piazza D’Azeglio dove era seduto, si spolverò dai calzoni le briciole di pane e mortadella e si avviò a caso per la città, ma non pioveva. Adesso aveva sete, ma non bevve, bevve più tardi, regalando per un bicchier d’acqua duecentocinquanta lire al bar di piazza del Duomo. Pietro passeggiava, era una bella giornata, cera un po’ di sole, le belle opere d’arte erano circondate da turisti che osservavano contenti. Anche Pietro era contento e sotto il sole allegramente passeggiava. Una suora alla fermata della linea sei, mangiava un bel panino con il salame, lo mangiava di gusto, Pietro le si avvicinò e le disse:

«Ho mangiato anche io prima, ho mangiato pane e mortadella», e la suora:

«Ma questo è salame, volete favorire?»

«No grazie, non mangio mai salame, ho l’infiammazione» disse fiero Pietro toccandosi la pancia

«Io non ho l’infiammazione» disse la suora

«Dove va sorella?» le chiese Pietro

«Da monsignor Cannacci, ho un pranzo con lui insieme ad altre sorelle del convento» rispose la suora.

«Anche io vado ad un pranzo da un ricco signore, in via...si comunque è una via ne sono sicuro» disse Pietro tutto rosso.

«Sta arrivando l’autobus, arrivederci», la suora salì sulla linea sei.

Pietro rimase impalato, sapendo di aver raccontato una serie di bugie, ma non pioveva.

Pietro era tutto contento perché sapeva che il giorno dopo era il ventisette di dicembre ed avrebbe comprato di nuovo un panino con il lampredotto, ma adesso non aveva fame, ma il giorno l’avrebbe avuta. Erano le tre del pomeriggio, non andò a riposarsi sotto il Ponte alle Grazie perché era stufo di dormire, anche se aveva sonno, era stanco ma non voleva dormire.

Adesso erano le quattro, chiedeva l’ora a tutte le persone perchè adorava vedere i diversi tipi di orologi che la gente aveva al polso. Erano di diverse forme, lui voleva bene a quegli orologi, perchè immaginava di averli tutti, Pietro voleva bene a tutti, era Pietro ed era felice, aveva i soldi in tasca, e non pioveva.

Arrivò la sera, Pietro dormì sotto il Ponte alle Grazie, la mattina dopo si svegliò e di corsa andò a comprare pane e lampredotto che pagò ottocento lire. Lo mangiò e mentre lo mangiava pensava ai giorni trascorsi a Caltanissetta nella ridente Sicilia, quando correva con moglie e i bimbi piccoli per la campagna. Ricordava la sua casa e quando mangiava-

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no tutti insieme le arance. Si era rattristito e non mangiava più con gusto quel pane e lampredotto, mangiava ora pezzi amari di vita futura e ricordi piacevoli di vita passata, mangiava pane e lampredotto, soltanto pane e lampredotto. Mentre mangiava masticando, gli colava il sugo sulla maglia, il cielo era nuvoloso, minacciava pioggia. Finito di mangiare voleva andare a digerire in piazza D’Azeglio, ma non poteva riposare, adesso purtroppo pioveva e quel pane e lampredotto gli era rimasto sullo stomaco.

Dopo mezz’ora Pietro era più calmo perchè si era confortato pensando ai suoi soldi, smise di piovere, ma non c’era il sole.

Pietro era stanco di vivere in quelle condizioni, ricominciò a piovere, Pietro piangeva, sotto l’acqua, pioveva forte, tuonava, camminava sotto l’acqua in quel ventisette di dicembre. Le sue lacrime si mescolavano con la pioggia, pensava alla sua Sicilia e sentiva che in quelle condizioni non avrebbe più potuto vivere, pioveva forte, tuonava, il cielo era nero. Pietro salì sul ponte Santa Trinita e decise di farla finita, montò sulla spalletta e si buttò in Arno.

Non moriva, non annegava.

La folla dai lungarni osservava, Pietro cercava di annegarsi ma non ci riusciva, così l’istinto vinse la ragione e adesso cercava disperatamente di salvarsi. Arrivarono i vigili del fuoco che gettarono subito in Arno un salvagente, Pietro lo afferrò e così fu tratto in salvo.

Era pieno d’acqua, fu soccorso da un medico con i capelli ricci e grigi e poi condotto a Careggi dalla Misericordia, lì rimase quindici giorni.

Uscì dall’ospedale dopo quindici giorni senza più una lira in tasca, ma uscì.

Era un lunedì, era contento di essere uscito dall’ospedale, la dentro aveva fatto amicizia con alcune persone molto simpatiche, fra cui una signora anziana che gli raccontò di saper cucinare molto bene il lampredotto e se lui fosse andato a farle visita gli avrebbe fatto assaggiare un piatto molto prelibato a base di lampredotto, gli lasciò il numero di telefono. Pietro adesso camminava per Firenze mangiando pane e mortadella anche se desiderava mangiare pane e lampredotto. Il giorno dopo Pietro continuò il suo cammino ed ancora così per altri tre giorni mangiando soltanto pane e mortadella. Un sabato decise di telefonare alla signora che aveva conosciuto in ospedale, le aveva promesso di andare a farle visita e mangiare da lei, così fissò per il giorno dopo, domenica.

Il giorno dopo arrivò, così si avvio a casa della signora che abitava in via Maragliano, suonò il campanello e lei rispose: «Chi è?»

«Il siciliano», rispose Pietro, lei così lo chiamava durante i giorni d’ospedale.

«Ah è lei, venga, venga» disse dall’andito delle scale.

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Pietro salì le scale, ma saliva. L’uscio era accostato, ma Pietro suonò di nuovo per buona educazione, la signora lo invitò ad entrare.

«Buongiorno signora» le disse quasi con un inchino.

«Mi chiamo Tosca, non ricorda?» poi lo guardò con compassione ed aggiunse:

«Com’è conciato male signor Pietro, proprio male, certo che lei deve vivere proprio da povero»

«Si...ma vivo» rispose Pietro tutto rosso e imbarazzato.

«Segga», disse Tosca

«Grazie», rispose Pietro contento.

«Ha fame vero?» disse sorridente Tosca

«Un po’» rispose rosso e imbarazzato Pietro

Tosca gli portò un antipasto di ostriche, del lampredotto cucinato molto bene e del di vino rosso. Al termine del pranzo Pietro disse:

«Non ho mai mai mangiato così in vita mia»

«Allora io sono importante per lei» disse Tosca e Pietro continuò:

«Questo è un pranzo da re e pensare che quando mangiavo soltanto pane e lampredotto mi sentivo grande, ricco, soltanto per un po’ di lampredotto»

«Le ostriche costano circa ottocento lire l’una, però sono buone vero?» disse tosca mostrandogli un guscio.

«Buonissime» rispose Pietro.

«Io sono ricca, guardi che bella casa, l’ho comprata io» disse orgogliosa guardandosi intorno.

«Io non ho casa» disse triste Pietro

«Cosa? E dove vive?» domandò curiosa Tosca

«Sotto i ponti, si può capire dal mio abbigliamento» rispose rosso e imbarazzato

«Allora lei è...un Vagabondo!» disse la donna

«Si, un vagabondo buono, non un vagabondo cattivo» disse il vecchio Pietro pieno di vergogna.

«Lei non è nato vagabondo vero? Sento che ha un animo buono» disse Tosca

«Avevo casa e famiglia, ma non ero un vagabondo, avevo casa e famiglia, avevo», Pietro balbettava.

«E ora no?» chiese Tosca

«No» rispose Pietro

Tosca si alzò e gli disse:

«Se ha sonno le do un letto»

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«No, non ho sonno» disse Pietro

«Io vado a riposare» disse Tosca

«Io l’aspetterò qua seduto» rispose Pietro

«Faccia pure, ma non mi combini guai» gli disse

«Stia tranquilla» rispose Pietro.

Pietro adesso era solo in una casa bellissima in via Maragliano, ma fuori non pioveva. Pietro pensava alla Sicilia. Passò un quarto d’ora, ma sonno ce l’aveva eccome, ma cercava di non addormentarsi. Pensava a ciò che avrebbe pensato e fuori non pioveva. Pietro era immerso in un sogno, credeva proprio di sognare a stare dentro quella bella casa, era la prima volta e fuori non pioveva.

Passavano i minuti, le ore, alla fine Pietro si addormentò in quella bellissima casa, nella casa di Tosca. Si sarebbe vergognato a dormire in un letto di quella casa così sudicio, e adesso dormiva sulla sedia con la testa appoggiata al tavolo. Erano le due e mezzo del pomeriggio, in quella casa regnava un silenzio di tomba, Tosca e Pietro dormivano. Ad un tratto Pietro si svegliò, si alzò dalla sedia e andò direttamente di corsa in bagno, era un bellissimo bagno, con le ambrogette rosa, il vaso celeste tutto pulito, così lui fece la poppò. Era dispiaciuto di averlo sporcato, tirò lo sciacquone e uscendo trovò Tosca sveglia e insonnolita, gli si avvicinò e gli disse:

«Ma lei dov’era?»

«Ero in bagno» rispose Pietro

«Ah si? Non me l’ha fatta mica di fuori da vaso vero?» chiese Tosca

«No, ci mancherebbe, ho tirato lo sciacquone» disse rosso e imbarazzato Pietro

«Allora posso stare tranquilla vero? Senza che vada a controllare vero?» domandò Tosca

«No, io a casa di altri sono pulito, non abuso mai...» disse timidamente il vecchio Pietro

«Non si sarà mica offeso vero?» le chiese

«No, non mi offendo stia tranquilla» balbettò Pietro

«Eppure mi sa di si, lei balbetta ed è diventato rosso» gli disse

«E’ un problema psi..pipsicologico» cercò di spiegare Pietro

«Si dice psicologico Pietro, ma lei è andato a scuola?» gli chiese Tosca con insolenza

«Sino a tredici anni, poi ho dovuto lavorare che non avevo i soldi» disse rosso e imbarazzato Pietro.

«Mi piace indagare su di lei» sorrise Tosca

«Ma lei è una poliziotta?» scherzò Pietro

«No, sono una psicologa, insegnavo psicologia all’università di Pisa» disse Tosca

«Allora secondo lei io sono normale?» chiese Pietro

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«Non saprei dirle, ci vuole tempo per capirlo, non sono un’indovina, sono una psicologa» rispose Tosca

«Ho capito, ma a...a occhio che ne dice?» domandò Pietro

«Io non vado a occhio, io capisco per mezzo di discorsi, dialoghi e parole quando una persona è normale o meno» rispose Tosca

«Ah ora si che si spiega il perchè gli psicologi chiacchierano tanto» rispose Pietro scherzando.

Tosca servì un liquore, si sedettero al tavolino, ma fuori non pioveva.

«Gli piace il whisky?» gli chiese Tosca con una elegante bottiglia in mano

«È un po’ forte» rispose Pietro

«Il vino fa buon sangue e il whisky ne fa di più» aggiunse Tosca

«Io non bevo molto» disse Pietro

«Una volta ogni tanto però un bicchierino non fa male e poi questo è offerto» disse Tosca.

«Io ho quarantatremila lire, io» mormorò Pietro

«Soltanto? Come fa lei a comprarsi il whisky, questa bottiglia costa ottantamila lire, è di marca» disse tosca mostrandogli la bottiglia

«Mamma mia quanto costa» disse sbalordito Pietro

«A me non interessano i soldi, per niente» disse Tosca

«A me interessano, muoio di fame» aggiunse Pietro

«Ma lei non ha proprio niente quindi?» chiese ancora Tosca

«Niente, sono venuto a Firenze per trovare un lavoro soddisfacente, pensavo che un mio amico mi aiutasse, ma non lo ha fatto» disse Pietro rassegnato

«Capisco, così lei si trova per strada»

«Sul serio» rispose

Tosca bevve l’ultimo sorso di whisky e disse:

«Cambiamo argomento, lei saprebbe fare il falegname?»

«Un po’ sono bravo a fare il falegname» rispose Pietro

«Provi a domandare alla falegnameria Alderighi, in via di Monticelli, cercavano falegnami una volta» disse Tosca

«Proverò...» rispose Pietro

Pietro si stava annoiando, si sentiva sotto analisi, gli era venuto anche un dolore uguale a quel giorno quando il lampredotto gli era rimasto sullo stomaco, ma fuori non pioveva. Nella mente del vecchio Pietro oramai tutto si era spento, era una piccola pietra in mezzo ad enormi sassi, ma sempre una piccola pietra, piccola.

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Al termine della chiacchierata Pietro se ne andò da quella casa, sapeva che una donna ricca e un vagabondo legavano poco e la pietra grande rischiava di rompere quella piccola. ue ore dopo Pietro era di nuovo sotto al Ponte alle Grazie, non dormiva, pensava, il pensiero per lui era l’unica cosa bella. Pensare, scrivere con la fantasia, era contento soltanto di questo pensare, vivere nel pensiero e solo pensare poteva fare.

Due giorni dopo camminava in via De’ Cerretani per tornare da Tosca, voleva vederla di nuovo, attraversava òa strada, guardava il cielo stava per piovere e lui cercava tra le nuvole che andavano e venivano, un po’ di sole, ma l’autobus linea sei lo investì in pieno, cadde di colpo sbattendo violentemente la testa sull’asfalto.

Scendemmo tutti dall’autobus, vidi un uomo malconcio per terra che non respirava più ed un altro con i capelli ricci e grigi che si precipitava su di lui, doveva essere un medico, tirò fuori da una borsetta marrone un fonendoscopio, lo mise sul petto del povero uomo poi scosse la testa facendo capire a tutti che non c’era più niente da fare.

Quell’uomo morto aveva un sorriso sulle labbra, come se fosse contento di essere al centro di tutta quell’attenzione. Molti dicevano che era un barbone giudicandolo dai vestiti malconci che aveva.

Lasciai quella folla dopo un po’ per raggiungere la stazione di Santa Maria Novella, da dove presi l’autobus linea ventisette per tornare a casa, ero molto scosso e triste.

Quello sconosciuto mi faceva pensare molto, non riuscivo a togliermelo dalla testa, forse nessuno sapeva chi fosse mai stato, da dove fosse venuto e del perché si era ridotto in così povere condizioni. Per molti giorni mi chiesi chi fosse e se veramente avessi saputo, forse avrei potuto raccontare di lui. Così cominciai ad immaginare una terra lontana, una povera famiglia, un uomo che fuggiva per trovare un lavoro al nord, pensai alla lontana Sicilia e a tutta la povera gente che lasciava le povere terre alla ricerca di un futuro migliore.

Un bel sabato comprai un quaderno rosa, a quadretti, e su questo iniziai a scrivere la storia che immaginavo di questo pover’uomo, giorno dopo giorno.

Arrivò il Natale del 1981, a casa di mia nonna eravamo in dieci, nei rispettivi capo tavola sedevano mio nonno e mia zia Tosca, quell’anno la conversazione era dedicata alla povera gente e a tutti i poveri che per elemosina avevano incontrato la zia Tosca.

La zia disse:

«Un mese fa bussò alla mia porta un uomo, vestito male, chiedeva qualcosa da mangiare, ma io non avevo un granché da offrirgli, avevo dei biscotti e mezzo chilo di pane così lo aiutai, puzzava di alcol», ed io:

«Ma zia, era un ubriacone, non ti faceva paura?», e la zia:

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«No, gli chiesi come si chiamava e lo feci entrare, gli offrii anche un bicchierino di whisky», tutti guardarono la zia con occhi sbarrati, stupiti del suo coraggio ed io chiesi:

«Zia, ma come si chiamava quest’uomo?»

La zia mi sorrise:

«Si chiamava Pietro, avrà avuto una cinquantina d’anni, ma dimostrava molto di più, pareva vecchio, molto vecchio».

Che bella idea che mi aveva dato la zia Tosca, così appena messo mano di nuovo al quaderno rosa conclusi la storia dal titolo “Il vecchio Pietro” il giorno otto gennaio del 1982. Chiusi quel quaderno e guardai fuori dalla finestra, pensai che la nostra vita non è altro che una breve pausa tra la nascita e la morte e il senso di questa parentesi sta in tutto ciò che si ricorda o si immagina con la nostra fantasia. Fuori dalla finestra tirava vento, era quasi buio, ma non pioveva.

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Stampato per conto proprio nel settembre 2020

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