il foglio di yorick _ 2

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a ciò che non è o non è ancora è vivere secondo il “senso della possibilità”, più che sec-

mai “si dovrebbe dare più importanza a ciò che è, che a ciò che non è”. per lui, dare più

itudine di folli. la follia è definita solo dalla prospettiva di ciò che detta le regole, “domina”. Musil lo chiama “il senso della realtà”, e già quasi un secolo fa si chiede-

è? ma per fare ciò, ci vuole un po’ di follia; anzi, c’è bisogno del ris-

chè dovremo rimanere confinati in ciò che è e non provare ad inventare ciò

si dovrebbe dire (ciò che è scomodo dire?), per fare proposte “inattuali” etzsche, proposte fuori tempo... utopiche, che qui si tenta di risvegli-

yorickthefool@gmail.com

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lare? è per provare ad articolare in parole e pensieri un’altra idea di presente, per dire

altrui, quasi come una risonanza interna ed invisibile. Non è forse il momento che anche in noi, come in Amleto, la sua voce inizi a par-

avuto parla

per sè,

Yorick

numero due, febbraio ‘11 idee da leggere inoltrare stampare


il progetto_tre esperimenti

Che cos’è “il foglio di yorick”, questa cosa che avete appena “aperto” (già, ma senza sfogliarlo!) e che, forse, vi apprestate a leggere? Si potrebbe cominciare dicendo che non è una “cosa” ben definita. È piuttosto “più cose” alla ricerca di una sintesi, di una forma nuova. Dunque è anche un tentativo, una prova: appunto, un esperimento. Proviamo a mettere un po’ d’ordine.

Primo esperimento.

Cosa ci troveremo dentro. Aprire uno spazio critico. “il foglio di yorick” vorrebbe essere un luogo per molte voci, luogo del pluralismo dello sguardo sul nostro tempo. Ma vorrebbe anche andare oltre la presentazione delle molte voci: non vorrebbe arrestarsi ad una generica condanna del nostro presente, alla denuncia e all’informazione; vorrebbe anche essere uno spazio in cui lo sguardo e la critica del presente assumono una prospettiva progettuale, sforzandosi di tracciare i contorni di un futuro possibile. Uno spazio di critica e di proposta, quindi; un foglio a partire dal quale parlare, discutere. Perché la critica mutila se stessa se non diviene (pro)positiva e non favorisce l’incontro.

Secondo esperimento.

Forme intermedie. Carta o schermo. Libro o e-book. Lo scenario del presente è un’intersezione di modi e supporti comunicativi, nessuno dei quali è ancora risultato vincente. Lanciare una sfida. Far interagire questi modi antagonisti in maniera virtuosa, complice. Il sottotitolo dice: idee da leggere inoltrare stampare. Leggere: il formato A4 orizzontale rende agevole la lettura a schermo intero (ctrl+L), rimanendo funzionale anche alla stampa su carta nel formato più tradizionale. I links attivi, colorati, permettono inoltre di usare “il foglio di yorick” come un ipertesto, collegandolo alla rete e aprendolo oltre i suoi stessi confini. Inoltrare: la diffusione de “il foglio di yorick” sarà gratuita e a portata di mouse, facile per tutti i suoi lettori. Stampare: forse la scommessa maggiore. Ogni articolo sarà un piccolo “foglio” autonomo, con tutti i riferimenti e le indicazioni presenti sul giornale. L’idea è quella dello “stampa e diffondi”: ogni lettore potrà stampare l’articolo che più gli è piaciuto o che ritiene più importante, lasciandolo poi nei luoghi dove potrà essere letto da altre persone che entreranno così in contatto con il mondo di yorick. Autobus, uffici, aule studio, piazze…. Ovunque. Stampare, insomma, per seminare le idee su terreni che forse sono fertili ma che non conosciamo nemmeno. E qui arriviamo ad una ulteriore scommessa.

Terzo esperimento.

Un nuovo lettore. Creare partecipazione, condivisione, allargare la cerchia del dibattito. Un nuovo lettore, che non si limiti a rilanciare con un clic di mouse. “stampa e diffondi” vuol dire anche scegliere luoghi da colonizzare, territori incerti verso i quali aprirsi, territori intorpiditi da scuotere. Un modo, anche, per uscire dalla virtualità telematica, per ricreare una agorà fatta di voci, di sguardi, di toni, di sostanza. Passare nelle mani di una persona un’idea per il nostro presente è occasione di parole, di conoscenza, di scambio che non sempre un “inoltra” garantisce. Un lettore che partecipi, dunque, all’opera di informazione e di proposta. Un lettore che diventi anche autore, rispondendo agli articoli e inviandone di propri. Tutto questo è in movimento, si nutre di idee scambiate tra amici a volte migliaia di km lontani. Assomiglia molto ad una avventura, e come ogni avventura non sa dove andrà a finire e chi incontrerà, né che mezzi adopererà. L’unica cosa di cui noi siamo convinti è che abbiamo bisogno di nuove forme per poter continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto: pensare.


Velo sì, velo no? La questione ha acceso il dibattito in Europa, perché il tema del velo ruota attorno alla libertà della donna e della persona. La Francia è il primo paese europeo, e per ora l’unico, ad aver vietato il velo integrale (burqa) nei luoghi pubblici per garantire la laicità, la massima neutralità e l’uguaglianza nelle scuole; ma cosa vuol dire essere francesi per chi ha la doppia cittadinanza? La Turchia, terra di confine tra Est e Ovest, si schiera ugualmente, vietando il velo nelle università pubbliche perché “lo stato viene prima della religione”. In Italia il dibattito è iniziato nel 2004, ma ad oggi non esiste una legge né che vieti esplicitamente il burqa, né tantomeno che lo consenta. La questione che contrappone difensori e oppositori chiama in causa il dovere religioso, il problema della dissimulazione del volto e della marcatura dell’identità in terra straniera, ma pone soprattutto la questione della libertà di scelta: in molti ritengono che in un paese democratico debba essere garantita la libertà di indossarlo, ma che sia tuttavia fondamentale essere sicuri che questa sia una libera scelta della donna e non un’imposizione. L’animato confronto è appena iniziato.

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scelto dalla redazione Il Velo svelato

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indice ... editoriale

Precari e luoghi della precarietà p. 5 I giovani che oggi si avvicinano per la prima volta al mondo del lavoro sono nati grosso modo in un periodo che rischia di essere ricordato dai libri di storia come quello in cui, almeno per Europei, Nord Americani e Giapponesi, si è infranto il sogno di un miglioramento della qualità della vita generazione dopo generazione.

di Alberto Stanghellini Diario di un’assistente sociale p. 8 Oggi sono stata a trovare Bianca, 75 anni, seguita dai servizi sociali da quando ne aveva 5 (“han fatto un bel lavoro”, direte voi!). È dolcissima, nonostante quella voce che gracida cantilenante, tipica di quando si beve un bicchiere di troppo, ormai cronica per lei, che di bicchieri di troppo ne beve da 60 anni.

di Giulia Sabaini Rom e Islam: due questioni europee per la sinistra europea p. 11 In un campo nomadi romano quattro bambini rom sono morti mentre dormivano, avvolti e soffocati dalle fiamme. La loro morte ci ricorda che l’inconscio politico dell’Occidente è popolato di ciò che la patina dello stile di vita europeo non vuole vedere, o non può tollerare.

di Stefano Pippa In ginocchio davanti alla natura p. 14 Abito a Soave (VR). 6.929 persone, 2.768 famiglie, secondo i dati del 2009 di Istat. Un paesello circondato dal colore e dai profumi dei vigneti e protetto da una cinta muraria scaligera: vino e storia i suoi assi nella manica. Il castello scaligero, arroccato su un colle, affascina visitatori di ogni dove, da sempre.

di Laura Battistella 4


alberto stanghellini http://www.yorickthefool.blogspot.com/

il foglio di yorick

precari e luoghi della precarietà

I giovani che oggi si avvicinano per la prima volta al mondo del lavoro sono nati grosso modo in un periodo che rischia di essere ricordato dai libri di storia come quello in cui, almeno per Europei, Nord Americani e Giapponesi, si è infranto il sogno di un miglioramento della qualità della vita generazione dopo generazione. È ormai argomento comune quello secondo il quale i “giovani d’oggi” (ma se ne parla da almeno dieci anni!) non possono aspirare a migliorare la loro situazione di vita rispetto a quella dei loro genitori. Tale affermazione, talmente veritiera da essere ormai sotto gli occhi di tutti, ha una gravissima dimensione futura (pensione insufficiente o inesistente) ma ha anche già una sua dimensione presente nella sempre più ritardata acquisizione da

parte di chi entra nel mondo del lavoro di una posizione stabile nella società. È questa una possibile definizione funzionale di ciò che nel linguaggio comune ormai tutti intendiamo come precarietà. Senza addentrarci nelle molte implicazioni ed approfondimenti che le diverse possibili focalizzazioni del termine potrebbero stimolare (precarietà/lavoro; precarietà/non lavoro; precarietà/produttività; precarietà/relazioni sociali; precarietà/opportunità, soffermandosi solo sulla cosiddetta sfera individuale) vorrei, indotto dalla lettura del preciso intervento di Stefano Panozzo su tirocini e precariato nel numero precedente de Il Foglio di Yorick suggerire una chiave di lettura diacronica di quanto oggi sta accadendo. Ritengo davvero poco apprezzabile che le analisi ed i commenti attorno alle contestazioni studentesche del dicembre 2010 si limitino nella maggior parte dei casi alla condanna della violenza ed a qualche manifestazione di solidarietà (mi riferisco ovviamente al versante di chi non approva la de-forma Gelmini) nei confronti degli studenti tenaci e nonviolenti; seguono normalmente consigli ed esortazioni a non mollare… Credo al contrario che di consigli quei giovani, e con essi tutti coloro che si trovano a scrutare verso il proprio futuro con preoccupazione, non abbiano bisogno; ciò che ritengo sia loro dovuto è un po’ più di sincerità.

Bisogna davvero dire loro che questo NON è il miglior mondo (del lavoro) possibile e che quando sono nati, cioè un breve tempo storico fa, si è consumata una discussione sul lavoro che, molto semplicemente, ha tenuto conto solo del futuro di chi c’era già e non di chi sarebbe arrivato. Inutile forse rivangare la questione della fine del modello fordista, della produzione snella e del just in time; ma necessario invece ricordare, e ripetere a fine didattico, che di fronte ad un modello produttivo che stava cercando di espandere i mercati tanto in senso geografico quanto in senso sociale (trasformando in merce ogni cosa: servizi, relazioni, aspirazioni ed ora anche diritti inalienabili) ci fu chi parlò di “fine del lavoro” mentre la delocalizzazione era già sotto gli occhi di tutti. Dalla fine del lavoro al “mondo delle opportunità” come evoluzione qualitativa dei “diritti” (visti come uno stadio involuto della società) il passo sembrò breve ma, al contrario, mentre si parlava di flessibilità si produceva precarietà. In questa ottica va letta una Legge Treu (L.196/97) che, con il plausibile intento di mettere un po’ di ordine a ciò che stava avvenendo in termini di nuovi rapporti di lavoro (1), ha di fatto garantito l’impulso necessario al definitivo sviluppo di un Mercato del Lavoro moderno (!) pur sempre con almeno un decennio

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il foglio di yorick di ritardo rispetto a diversi altri Paesi europei. A tredici anni di distanza, pertanto, si può dire con una buona dose di convinzione che la svolta al sistema l’abbia impressa quella Legge la quale, si badi bene, ha anche almeno un’altra fondamentale caratteristica: è la prima legge di sistema sul lavoro in Italia promulgata senza una previa conclusione del confronto tra le Parti Sociali. Ho parlato di doverosa sincerità nei confronti dei giovani: certamente nessuno oggi può dire cosa sarebbe accaduto senza la Legge Treu (difficile pensare che non sarebbe cambiato nulla!), né tantomeno cosa sarebbe accaduto senza i ben più famigerati D.Lgs 368/01(2) e 276/03(3); ma sappiamo e dobbiamo dire che una trattazione meno frettolosa del tema del futuro del lavoro avrebbe quanto meno indotto a valutare meglio il ruolo di regolamentazione delle Istituzioni pubbliche (dal sostegno al reddito agli ammortizzatori

sociali passando per la calmierazione dell’interinato e dei tirocini e fino al controllo dell’esito dei contratti di avvio) senza dover oggi rammaricarsi del fatto che le magnifiche sorti et progressive del mercato che in quegli anni più di qualcuno vaticinava non solo non hanno portato alla fine del lavoro, ma al contrario hanno portato alla competizione globale sulla produttività a prescindere dai Diritti (caso FIAT) ed alla sostanziale cancellazione di ogni aspirazione umana alla liberazione dal lavoro attraverso il lavoro. Di fronte a questo perde ogni senso qualunque valutazione etica o morale rivolta alle imprese che utilizzano in maniera strumentale (cioè esattamente opposta all’intento dichiarato nella L.196/97) i tirocinanti o attingono a piene mani al supermercato dei lavoratori tenuto sempre colmo grazie ai due decreti sopra citati ed ora rimpinguato dagli effetti di un millantato flagello divino chiamato crisi economica globale. Semplicemente: in Italia la stretta (neo)liberista seguita a Rambouillet(4) ha facilmente imposto i suoi dettami grazie all’accettazione politica della teoria che avrebbe potuto essere solo una parte sociale a pagare i sacrifici ed il prezzo di un investimento che oggi si è comunque rivelato fallimentare. Un effetto collaterale, tra gli altri, per anni troppo poco considerato ma in realtà basilare nell’intera storia del lavoro contemporaneo è quello legato alla costruzione/distruzione dei luoghi,

dei tempi e dei metodi del comune sentire tra lavoratori: ciò che, pur tra le difficoltà di una ridefinizione, continuerei a chiamare coscienza di classe. Organizzare i Precari, siano essi tirocinanti, somministrati, progettisti o quant’altro, è molto difficile (non impossibile) se si utilizzano le storiche categorie sindacali della rivendicazione collettiva sul luogo di lavoro, come pure quelle legate alla organizzazione del lavoro: come il lavoro, anche il luogo e le condizioni del lavoro non sono fisse, sono variabili, precarie appunto. Il luogo della precarietà, pertanto ed almeno nella situazione attuale, è stato progressivamente spinto al di fuori del sito lavorativo. In una condizione di contrattazione individuale, di sfruttamento individuale, di disagio individuale rispetto al proprio, individuale, futuro, vanno riconquistati i luoghi collettivi della discussione, della trattativa, del conflitto e della lotta se necessari. Il sindacato, in questa situazione, è di fronte a scelte fondamentali. In Cgil la nascita di Nidil-Cgil nel 1998 sembra voler significare l’adattamento dell’organizzazione ad un presunto mondo di opportunità che il rinnovato mercato del lavoro pareva offrire (da qui l’acronimo: Nuove Identità DI Lavoro); ma il ripensamento avviene ben presto: già nel successivo Congresso Nidil diviene una Categoria co-partecipata, ovvero con una presenza negli organi direttivi delle altre Categorie a testimoniare la neces-

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ne dei lavoratori; Unificare vuol dire ancora prima praticare la contrattazione di sito e di filiera, scegliere come la CGIL e le sue Categorie si reinsediano nei luoghi dove ci sono 5-6-7 contratti (…); Unificare vuol dire agire perché non si determinino nuove disuguaglianze tra nativi ed immigrati”.(5) È evidente in queste parole l’esortazione a cercare, plasmare, inventare se necessario, nuovi luoghi della contrattazione al fine di ricomporre sotto la bandiera dei Diritti quel lavoro oggi frantumato. Nidil Cgil può essere utile strumento per questo fondamentale impegno; esso è, usando una metafora un po’ ardita, un contenitore dotato di apparecchiature anche sofisticate per il trattamento del contenuto. Nidil può essere in grado di accogliere, individuare, intercettare, istanze anche molto diverse provenienti dal mondo del lavoro ed indirizzarle, polarizzandole, ad un obiettivo definito. Può essere, in altre parole, un primo luogo di ricostruzione della contrattazione perduta; il luogo in cui le esperienze si sommano, si confrontano e, percorrendo tanto le strade esterne (dalle manifestazioni di piazza ai social network) quanto quelle interne al Sindacato stesso (la capacità di tutti i settori di riconoscere e affrontare i problemi dei lavoratori precari), individuano percorsi concreti di rivendicazione e conflitto. È un invito che, come segretario di Ni-

torna all’indice

sità di riavvicinare quel nuovo mondo al vecchio mondo del lavoro. Oggi Nidil, come la Cgil e come l’intero movimento sindacale italiano, è oggetto di un forte attacco da parte di chi pensa che il sistema di rappresentanza collettiva cresciuto in oltre un secolo nel nostro Paese possa essere sostituito da un non ben definito complesso di leggi a garanzia del lavoro (quello statuto dei lavori che il ministro Sacconi agita come un bastone davanti alla Cgil e scuote come un’appetitosa carota davanti agli imprenditori) e nel rispetto dell’equità dei diritti (idea che funzionerebbe in un mondo in cui gli interessi non fossero contrastanti ed i rapporti di forza tra impresa e singolo lavoratore fossero paritari). Cgil sta dicendo: NO. Così Guglielmo Epifani poco prima di terminare il suo mandato di Segretario Generale dell’organizzazione: “Unificare oggi vuol dire ricomporre: non solo ridurre il numero dei contratti ma anche ridurre le frantumazioni interne ai settori, le stesse che determinano precarietà derivanti da condizioni materiali (dumping tra imprese); Unificare vuol dire praticare la clausola sociale in tutti i settori (non solo quelli soggetti a privatizzazione) come obiettivo e pratica comune; Unificare per riguadagnare capacità di controllo ed informazione preventiva sugli appalti, cessioni di ramo d’azienda, terziarizzazioni, per determinare in quella sede le condizioni di unificazio-

dil Cgil Verona, mi sento di rivolgere al lettore: non c’è pericolo, in Cgil, di sottorappresentanza dei problemi del precariato; c’è, al contrario bisogno di costruire l’autorappresentanza di ogni frangia di precariato nei luoghi disparati che testimoniano la diaspora dei diritti dei lavoratori. …e quella L finale di NidiL potrà così divenire mutante all’occasione: da Nuove Identità di Lavoro a Nuove Identità di Lotta. (1)Ci si riferisce in particolare all’accentuata ed incontrollata diffusione delle Collaborazioni Coordinate e Continuative (Co. Co.Co) non legata ad alcuna Legge ma all’art. 409 n.3 del Codice di Procedura Civile “…rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato…” (2)Si tratta della norma sul Tempo Determinato che inserisce il cosiddetto “causalone” tra le possibili motivazioni per cui un’azienda può ricorrere a questa forma precaria di contratto: “E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”. (3)Si tratta del primo testo applicativo della Legge 30/03 (inopinatamente promossa come “Legge Biagi”) in cui il mondo del lavoro è, praticamente in tutti i suoi aspetti, riconsiderato sotto una luce (neo)liberista. (4)Ci si riferisce all’incontro dei “G6” (USA, GB, Germania Ovest, Francia, Giappone, Italia) tenutosi in un castello presso Parigi il 15 novembre 1975 al quale si fa risalire la decisione di eliminare la parità fissa tra le monete e quindi di togliere le barriere alla competizione globale tra economie. (5)G. Epifani – Relazione Introduttiva al XVI Congresso Nazionale CGIL. Rimini, 5 maggio 2010.

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giulia sabaini http://www.yorickthefool.blogspot.com/

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diario di un’assistente sociale

<<Un assistente sociale è un operatore sociale che, agendo secondo i principi, le conoscenze ed i metodi specifici della professione, svolge la propria attività nell’ambito del sistema organizzato delle risorse sociali. Queste ultime sono messe a disposizione della comunità, a favore di individui, gruppi e famiglie, per prevenire e risolvere situazioni di bisogno, aiutandole sia nell’uso personale e sociale di tali risorse, sia organizzando e promuovendo prestazioni e servizi per la risoluzione del bisogno. (Wikipedia)>> Oggi sono stata a trovare Bianca, 75 anni, seguita dai servizi sociali da quando ne aveva 5 (“han fatto un bel lavoro”, direte voi!). È dolcissima, nonostante quella voce che gracida cantilenante, tipica di quando si beve un bicchiere di troppo, ormai cronica per lei, che di bicchieri di troppo ne beve

da 60 anni. Anche oggi è stata al mercato della Montagnola, a comprare, per 2-3 euro dice, gli ennesimi vestiti, di tutti gli stili e misure, che non metterà mai, ma con i quali riempie la sua casa cercando di ammazzare la solitudine di una vita. Ha 5 amiche che ogni mese si dividono il suo affitto assicurandole un tetto sulla testa nel pieno centro storico bolognese, da dove lei non si vuole spostare, perché la sua via è la cosa più familiare che ha. La situazione di Bianca non è invidiabile, anzi; venendo via dalla sua casa mi si stringe il cuore. Ma Bianca vive i suoi ultimi anni in una solitudine meno totale, meno assoluta di quella di Augusto, 85 anni, morto all’ospedale da 10 giorni. Oggi ci ha chiamato la camera mortuaria per dirci che nessuno si è fatto vivo per lui, nessuno ne ha denunciata la mancanza. E nemmeno noi lo conosciamo. Se nemmeno un

vicino di casa si è accorto che non ci sei più, se non sei conosciuto, nemmeno dal servizio sociale del tuo quartiere, significa che eri davvero invisibile. Per tutti. Anche Ada mi ha chiamata oggi, 4 volte. È in ansia perché la sua psichiatra del Centro di Salute Mentale ha cominciato a parlarle di casa di riposo. Per lei, 78 anni, completamente sola e con diversi acciacchi, sarebbe sicuramente tutelante. Mi chiede: “Farà un atto di forza?”. La tranquillizzo. Ma lei sa bene cosa significhi. Nella sua vita ha già avuto a che fare con un prepensionamento forzato, un’interdizione, innumerevoli avvocati con i quali ha speso tutti i suoi risparmi, ricoveri coatti … Ha scritto al Presidente della Repubblica, ai diversi ministri della giustizia che si sono alternati negli anni; ha speso migliaia di euro in telefonate alle

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il foglio di yorick cancellerie dei tribunali. Non le è mai stato dato ascolto. Era interdetta, dopo tutto, e quindi senza capacità di agire. Le sue azioni erano invisibili, ma nonostante questo non ha mai perso la voglia di parlare, di chiedere, di farsi sentire e di far sentire i propri diritti. All’inizio non mi voleva guardare nemmeno in faccia, perché rappresentavo le istituzioni contro le quali ha tanto lottato. Ora mi chiama tutti i giorni, e dice che anche se sembro una “cinna”, parlo “sapientemente”. Da due anni lavoro come assistente sociale per il Comune di Bologna, e nello specifico, per il servizio sociale anziani. Da Verona mi sono trasferita in Emilia Romagna, regione che storicamente vanta un ottimo sistema di stato sociale e assistenziale. Naturalmente il fatto di aver vinto un concorso ha aiutato decisamente nella

scelta di trasferimento! Sono quindi una donna giovane, con un contratto a tempo indeterminato per un ente pubblico, situazione rara e privilegiata. Il principale problema di questo tipo di lavoro, che ogni giorno mi porta ad immergermi nelle storie di vita più strane, per lo più invisibili, rimosse (inconsciamente?) dallo spazio sociale, è quando le risorse sociali di cui si parla nella definizione della professione scarseggiano drammaticamente. A volte ci si sente come dei muratori che devono costruire una casa senza mattoni e senza malta. Impotenti. La frustrazione tende a diventare enorme, perché di fronte a noi non ci sono carte o macchine, ci sono persone, persone che hanno bisogno di aiuto e sanno di essere degli “invisibili sociali”. Ma che non possono e non devono essere invisibili per i servizi sociali, quantomeno per i servizi sociali pubblici. E se grazie al cielo, Bologna non ha (ancora?) un sindaco leghista come Verona, città dove nei dormitori pubblici gli educatori sono stati sostituiti con le guardie giurate (affermando, lo stesso Tosi, che “le guardie giurate svolgeranno gli stessi compiti degli educato-

ri, ma a un prezzo minore”. Gli stessi compiti, ci rendiamo conto?), o dove il nome della via assegnata ai senza fissa dimora, è stato cambiato da “Via dell’Ospitalità” a “Via Senza Indirizzo”, anche a Bologna dobbiamo fronteggiare quotidianamente i tagli drastici ai servizi pubblici. Con la consapevolezza della situazione di reale crisi economica in cui ci troviamo oggi, non possiamo però permettere che i servizi pubblici per le persone invisibili diventino il “tesoretto” cui attingere quando servono risorse altrove. Anche a livello strettamente professionale, il ritrovarsi a poter dare poco più di una “pacca sulla spalla” o di ottime valutazioni sociali delle situazioni, ma poco di concreto, fa provare un sentimento di sconfitta. Una sconfitta che più che personale, è però dello stato. Uno stato che trascura chi ha più bisogno è davvero ancora uno stato democratico? A fronte di una domanda di servizi sempre più crescente e di sempre nuove povertà, la risposta dello stato sociale, gestita, spesso malamente, dalle amministrazioni locali, semplicemente non è all’altezza. In una società dove conta

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torna all’indice il prodotto, anzi, dove forse conta di più la capacità di venderlo, al di là del valore del prodotto in sé, come può in effetti aver voce chi non produce, non consuma, e anzi, ci chiede addirittura assistenza? Mi chiedo spesso, TRA UNA VISITA E L’ALTRA, che cosa sia possibile fare di fronte a questa tendenza di smantellamento progressivo dello stato sociale. Da un lato credo che gli operatori dei servizi e la cittadinanza tutta non possano smettere di lottare per aver il diritto ad uno stato sociale pubblico che, assieme a sanità e sistema educativo, a mio avviso non dovrà mai essere privatizzato, né mai potrà essere sostituito dal volontariato, come alcuni politici vogliono farci credere. Dall’altro lato, concordo che il compito degli operatori dei servizi non può più essere solo quello di muoversi nel sistema organizzato delle risorse sociali, ma deve essere fautore di nuove forme di intervento. Di fronte a nuove povertà,

nuove solitudini spesso completamente inaspettate, dobbiamo porre mano all’immaginazione. Pensando al centro storico bolognese, è esemplare la presenza di interi condomini abitati esclusivamente da anziani bolognesi, per lo più soli, e giovani studenti fuori sede. Perché non pensare a progetti di “mutuo aiuto” tra questi due attori, percepiti dal resto della cittadinanza quasi esclusivamente come problematici? Siamo certi che non abbiano delle risorse da spendere vicendevolmente? Se si lasciasse spazio alla fantasia, io credo che le idee e le proposte sarebbero molte. Voglio sperare che, a fronte della drasticità dei tagli delle risorse, agli operatori sociali venga lasciata la passione per il lavoro che hanno scelto e che hanno l’onore di ricoprire, in modo da tentare di far fiorire dal basso qualcosa che possa contribuire a colmare quella “mancanza” proveniente dall’alto.

Un giorno sì e uno no mi chiedo come mai ho scelto questo lavoro. E ogni giorno mi dico che, fino a quando mi succede “solo” un giorno ogni due, va bene così. E non posso fare a meno di pensare alla frase che lo zio Ben dice al nipote Peter Parker, futuro Spiderman: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Nel mio piccolo, penso sia doveroso assumermi tutte le responsabilità che derivano dal ruolo istituzionale che ho avuto la fortuna di ricoprire; e non un giorno sì e uno no, ma tutti i giorni.

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rom e islam: due questioni europee stefano pippa per la sinistra europea

In un campo nomadi romano quattro bambini rom sono morti mentre dormivano, avvolti e soffocati dalle fiamme. La loro morte ci ricorda che l’inconscio politico dell’Occidente è popolato di ciò che la patina dello stile di vita europeo non vuole vedere, o non può tollerare. La coscienza italiana, si sa, può tollerarlo ancora meno. Lo dimostrano campagne mediatiche contro il “pericolo rom”, le condizioni dei loro campi nomadi e gli ostacoli sociali alla loro integrazione; la difficoltà di quest’ultima, poi, viene in genere fatta passare per condizione volontaria: i rom non si vogliono integrare. Ecco un punto importante, anzi: ecco il punto importante. Che cosa vuol dire integrare? Ci ritorneremo tra poco. Quello dei rom non è comunque un problema solo italia-

no, sebbene il vizio populistico da noi lo renda particolarmente appetitoso per chi sia costantemente in cerca di oggetti libidinali su cui far scaricare gli istinti repressi di una società di polizia. Che non sia un problema “provinciale” è testimoniato dall’iniziativa del presidente Sarkozy, che nell’agosto scorso ha preso la decisione di revocare ad alcuni rom, cittadini comunitari, i diritti previsti dal trattato di Schengen, e di procedere al loro rimpatrio forzato. Perché? Con quale diritto? La patria del cosmopolitismo illuminista è scivolata sulla buccia di banana del paria europeo, il rom, il senza patria? Ma naturalmente chi si poteva opporre? Qualche richiamo formale (UE), nessuna reazione sostanziale (sempre UE); il plauso di Maroni, il sorriso di Berlu-

sconi. La verità è che il “problema rom” non interessa a nessuno, e non è mai interessato a nessuno. Eppure su questa questione, mi pare, si gioca una partita importante, tanto più importante in quanto priva di una posta materiale. Sui rom non si gioca l’economia – non si gioca niente. Solo il diritto allo stato puro, spogliato di qualsiasi altra eteronomia, eterodirezione, contaminazione. Ma allora è tanto più preoccupante che, come ha osservato il filosofo francese Balibar, i rom stiano sempre più diventando il perno pericoloso su cui si sta costruendo, colpevolmente inosservato, il “nuovo apartheid”, il “lato oscuro dell’emergere della nuova cittadinanza europea”[1]. Là dove il diritto potrebbe/dovrebbe librarsi alto e privo di compromessi, in realtà esso manca la presa sulla realtà. Perché? Giocare “il diritto allo stato puro” non è giocare “niente”. Al contrario. L’Europa gioca nel frattempo una partita anche su un altro fronte, e questa volta la linea di separazione corre sul suo lato esterno. Si tratta della partita

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il foglio di yorick con l’Islam, iniziata ufficialmente nel 2001 e con le “crociate” (termine usato da Bush jr, prima della prudente retractatio formale) che ne sono seguite; una partita che si gioca da ben prima, sebbene dietro le quinte. Il dibattito sulle radici cristiane dell’Europa sembra ormai aver trovato una tacita, implicita e condivisa risposta con la finzione, storicamente aberrante, di una identità europea presuntivamente giudeo-cristiana. Questa identità, come ha rimarcato Tariq Ramadan e come ha ricordato più di recente Jurgen Habermas, è un falso storico, una costruzione che fino al 1945 sarebbe stata non solo impensabile, ma anche ridicolizzata in gran parte dell’Europa che si considerava civile. La “questione islamica” è il vero nome dei recenti attacchi al multiculturalismo, sferrati a

breve giro prima dalla cancelliera tedesca Angela Merkel (per approfondimenti si veda qui un precedente post di questo blog) e, pochi giorni fa, dal premier conservatore britannico Cameron, durante una sua visita (guarda caso) a Monaco. Cameron ha affermato, praticamente citando la Merkel, che “il multiculturalismo ha fallito”, e ciò proprio mentre per le strade dell’Inghilterra un corteo di estrema destra sfilava per protestare contro l’Islam scandendo lo slogan “Allah, Allah, who’s the fuck is Allah” (“Allah, Allah, chi cazzo è Allah”). Con ciò, Cameron ha dato un colpo di spugna alla precedente politica labour, impostata nell’epoca Blair sull’idea della convivenza multiculturale all’interno dello spazio pubblico del Regno Unito. La nuova crescita delle destre europee, moderate o estreme, si gioca dunque sulla dichiarazione di morte del progetto multiculturale (in Italia nessuno ha dichiarato che il multiculturalismo è morto semplicemente perché la classe dirigente non sa che cosa sia il multiculturalismo, dal momento che è in altre

faccende affaccendata). Ma la morte del “multikulti” in realtà è diretto contro i turchi lavoratori di Germania, come la Merkel ha esplicitamente ammesso, seguendo vergognosamente le teorie di Thilo Sarrazin (dopo averle ufficialmente smentite: cfr qui); ed è diretto contro l’Islam fondamentalista nel caso di Cameron. Rimane un altro caso, che non è ancora stato citato: il divieto della Svizzera, sanzionato mediante referendum nel 2009, a costruire nel territorio della Confederazione Elvetica altri minareti, cioè campanili da cui effettuale il richiamo dei fedeli. In Europa ci sono centinaia di migliaia di campanili. Dalle colline della mia città con un’occhiata se ne possono contare almeno una trentina; ma minareti la pluralissima Svizzera non ne vuole. Queste due questioni distribuiscono la problematica dell’alterità su due fronti, uno interno e l’altro esterno. Sebbene giocate in maniera evidentemente diversa nello spazio pubblico e mediatico, sono entrambe, credo, assolutamente importanti. Sarebbe forse possibile az-

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si, ma è altrettanto evidente che non si può lasciare la mano alle destre, che sempre più sono disposte a concessioni alle forze ultraconservatrici (Olanda in particolare, ma anche Francia). Ciò di cui c’è bisogno è un’idea di Europa e di convivenza che non lasci le spalle scoperte alla tolleranza e alla democrazia sostanziale. Perché non riproporre, ad esempio, il problema delle condizioni economiche, il tema del welfare, il tema della redistribuzione? Perché non concepire una sinistra che coniughi il tema del riconoscimento con quello dell’equità? Perché non coinvolgere le comunità presenti all’interno degli stati europei in progetti realmente emancipatori, perché non farli sentire, al pari nostro, attori attivi nella costruzione di un percorso di convivenza che unisca le problematiche economico-sociali a quelle identitario-religiose? Tutto questo richiederebbe, è logico, una forza che sembra mancare alla sinistra non solo italiana, ma anche europea. Tuttavia penso che la “questione rom” e la “questione islamica” possano essere due punti fondamentali nell’agenda politica della sinistra, due punti forse anche impopolari ma dai quali muovere per ritrovare una direzione. La sinistra ha

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zardare che ciò che si sta facendo con i rom rappresenta ciò che si vorrebbe fare con i musulmani? È forse un’idea ardita, sociologicamente non sostenibile; tuttavia, ciò che è attivo con i rom, cioè l’ingiunzione “o ti integri, o non ti voglio”, è la stessa ingiunzione contenuta nella dichiarazione di morte del multiculturalismo. Nessuna differenza reale è tollerata. Il ripiegamento sulla tradizione, e il conseguente appello alla “conservazione”, è tipico, come si sa, dei momenti di crisi. Ha fatto benissimo Jurgen Habermas a ricordare, sebbene con grandissima arte, che cosa è successo in Europa (e in Germania, naturalmente) quando alcune tesi sono state prima sostenute da (sedicenti) intellettuali e poi adottate dai governi. E che un tedesco, rivolgendosi a tedeschi, chiami in causa la barbarie nazista (anche solo per dire poi che il riferimento davvero appropriato è un altro), è un segno della gravità della situazione; una gravità che assume dimensioni ancor più allarmanti, perché in questo momento le sinistre in Europa non stanno proponendo un modello alternativo a quello proposto dagli alfieri della reazione. È chiaro che non è un problema facile a risolver-

bisogno di ripartire, di riprogettarsi, e di ritrovare anche un soggetto sociale in grado di agire il cambiamento. Perché non ripartire da ciò che non è stato ancora teorizzato, per esplorare strade nuove per la costruzione di una nuova convivenza e di una nuova Europa? [1] Cfr. E. Balibar, Rom, questione comune, rielaborazione dell’introduzione Sigona N. e Trehan N., Romani Politics iN Contemporary Europe, Palgrave 2009: “La costruzione dell’Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un “problema” nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei “migranti” di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l’emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell’emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i “migranti” (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d’altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi”. (http://incidenze.blogspot.com/2010/09/ etienne-balibar-rom-questione-comune.html)

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laura battistella http://www.yorickthefool.blogspot.com/

il foglio di yorick

in ginocchio davanti alla natura

Abito a Soave (VR). 6.929 persone, 2.768 famiglie, secondo i dati del 2009 di Istat. Un paesello circondato dal colore e dai profumi dei vigneti e protetto da una cinta muraria scaligera: vino e storia i suoi assi nella manica. Il castello scaligero, arroccato su un colle, affascina visitatori di ogni dove, da sempre. E, da lassù, si può rimirare un paesaggio mozzafiato, soprattutto in primavera quando i colori dei vigneti si mescolano a quelli dei ciliegi. Da lassù, ogni volta che ci vado, mi piace individuare casa mia e le case dei miei amici, i posti che amo e le gran ville dei signori di paese. Mi piace scoprirne i cambiamenti, perché dall’alto la prospettiva cambia. E dall’alto Soave sembra un paese immerso nel verde, ma all’orizzonte si notano sempre più cantieri edili aperti. Abito a Soave e ho scoperto che dal 1911

giorni di paura e coraggio nel nord-est veronese

al 2010 la popolazione del mio paese non è cambiata in modo sostanziale, il paesaggio sì. Nel 1911 Soave contava 6.084 abitanti, nel 2010 circa 6.929. All’inizio del secolo però si potevano contare almeno 5 quartieri in meno, compreso quello in cui abito io... insomma, voglio dire che per farci stare circa 900 persone in più, abbiamo scalzato via un bel po’ di verde al di là delle mura scaligere e giù fino alla strada regionale 11, per arrivare a far confinare l’ultima casa di Soave con la prima casa di un altro comune, importante in questo articolo, chiamato Monteforte d’Alpone (VR), che conta circa 8.400 abitanti. Soave si estende su una superficie di circa 22 kmq, in ogni kmq abitano circa 300 persone; Monteforte d’Alpone si estende su circa 20 kmq e in ogni kmq abitano circa 410 persone. A Roma su ogni kmq di superficie della città risiedono circa 1200 persone. Vi tornano i conti? La sostanza è che c’è un sacco di cemento assai costoso, per un numero esiguo di persone. E ci sono meno alberi, fossati e natura di quanti la Terra ce ne abbia offerti fin da tempi ormai remoti. In tutto questo mio discorso, manca un protagonista fondamentale della storia che voglio raccontare: il torrente che separa le mura scaligere del mio paese da quei 5 quartieri costruiti dall’inizio del boom economico degli anni ‘60.

Sì, un torrente, il Tramigna: un riverbero d’acqua che sorge sulle colline a nord di Soave, precisamente a Cazzano di Tramigna, a circa 8 km dal mio bel paesello medievale. Un torrente che d’estate sembra quasi svanire nell’afa e che, quando ero piccola, ospitava addirittura dei cigni ed un sacco di pesci e che, oggi, è inghiottito da alghe e un certo numero di roditori. Un torrente che confluisce in un fiume, chiamato Alpone, il fiume del paese che tocchiamo con un dito. L’Alpone, nel paese di Monteforte confluisce a sua volta nel fiume Chiampo, il quale nasce a Crespadoro, nel vicentino. C’è una storia nella storia, che rende protagonisti il Tramigna, l’Alpone e il Chiampo e che qui è il caso di citare, per rendere un quadro chiaro a te lettore, che forse non hai ancora compreso dove io voglia arrivare. Hai mai sentito parlare di dissesto idrogeologico? In questi mesi hai sentito parlare di alluvione in Veneto? La storia nella storia è la causa della storia che qui avrai modo di conoscere, la causa di lacrime e di un’alba livida che ha messo in ginocchio gli abitanti di Soave e Monteforte d’Alpone la notte del 1° novembre e per tutto il 2 novembre 2010. La storia di quei due giorni è strettamente legata alla storia di uno svi-

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luppo urbanistico ed abitativo che, nel mio ricco Nordest, ha seguito un modello disordinato e preciso al tempo stesso, un modello che ha sacrificato gli spazi pubblici a vantaggio dell’abitare privato e che ha preferito la cementificazione di larghi settori della pianura, in nome dei capannoni del progresso economico e delle villette dove si pensa di riprodurre la famiglia del Mulino Bianco. Una storia strettamente legata alla distruzione dei canali di scolo e alla corsa all’assedio cementizio agli spazi golenali, all’impermeabilizzazione di superfici con l’asfalto, all’erosione dei suoli fertili, all’indifferenza verso le nostre risorse idriche in nome del progresso e del denaro. E questi aspetti della storia li abbiamo generati noi, popolo del Nord Est. E ora... la storia di quei due giorni maledetti di novembre. E’ giusto testimoniare, per segnare un punto di svolta. Per interrogarsi nel profondo e chiedersi: io in che mondo voglio vivere da qui in avanti? Io che cosa posso fare affinché si cambi rotta e non ci siano più storie di tal genere da raccontare? Io da che parte sto? Per scrivere questo articolo ci ho messo molto tempo, ho cambiato spesso idea sul suo contenuto, non sapevo se ero più arrabbiata o desiderosa di lanciare un messaggio positivo. Ho cercato di raccogliere delle storie, di amici, di chi ha

vissuto con me quei giorni di alluvione per chiarirmi le idee. In questi mesi spesso mi sono chiesta che cosa fosse più produttivo scrivere: un j’accuse contro chi non ha fatto? Una cronaca di quei momenti? Una riflessione più ampia che ci chiama tutti ad essere protagonisti della nostra vita e responsabili di scelte nuove? Nella mia mente quei giorni si tingono di colori cupi e sporchi, sono giorni marroni e grigi; giorni senza ore e minuti, ma scanditi da centimetri di acqua e fango; giorni di silenzio e urla; giorni di solitudine e comunità, giorni interdetti. Indimenticabile l’odore di fango, intenso e penetrante, il rumore dell’acqua che sale, che scivola lungo le strade a 40km/h e scroscia come una cascata, che evade gli argini e li distrugge, che si infiltra nell’anima come un ospite scomodo. Indimenticabile la fitta al cuore e la volontà di fare e fare e fare e fare, per pulire, consolare, abbracciare, rassicurare, sorridere. Soave oggi non è più soltanto un ridente paese medievale, ma simbolo della necessità di cambiare il nostro rapporto con l’ambiente che ci circonda e di cui facciamo parte in maniera indissolubile. Ambiente di cui siamo un essere fra tanti, non la materia portante. Questa ora è la storia di Chiara, Ileana, Matteo, Tiziana, Gianni, Giulia, Marco, Giada, Alda, Mattia, Michael, Loris, Rossella, Paolo, Elisa, Marco, Tiziano, Lella, Patrizia, Roberto, Linda, Fiorenzo, Donatella, Elena, Francesca, Carlo, Irene, Anna, Vincenzo, Annita, Francesco, Marta, Claudio, Martina, Gabriele, Sara, Susanna, Cristina,

Valentina, Vittorino, Evelina, Beatrice, Vittorio, Andrea, Anna, Francesco, Marisa, Antonio, Davide, Ugo, Marco, Stefano, Matteo, Alberto, Paolo, Mattia, Bogdan, Fabio, Laura, Michela, Graziana, Maddalena, Giacomo, Andrea, Francesca, Marco e di tutti gli amici e compaesani che, in quei giorni, ho incontrato o di cui ho ascoltato una personale testimonianza. Ogni storia, la sua verità. Ogni storia, una vita. Ogni storia, la possibilità di un cambiamento. Alcuni dati di cronaca. 31/10/2010: è piovuto durante il giorno; vento di scirocco e un caldo inusuale per il mese di novembre alle porte. L’Alpone e il Tramigna si erano alzati durante le ore pomeridiane e serali, ma niente di già visto. Alle ore 16:44 ai volontari della Protezione Civile delle zone viene inviato un sms di preallarme sulla situazione di aumento del volume dell’acqua nel fiume Chiampo e Alpone. Ore 22:30 del 31/10/2010: il Sindaco di Soave, Lino Gambaretto, dichiara di aver ricevuto una chiamata di allarme da parte del Responsabile della Protezione Civile della Valdalpone. Dichiara in sede di assemblea pubblica: “Abbiamo iniziato a preparare i sacchi di sabbia [...] L’acqua del Tramigna saliva in lassi di tempo molto brevi”. Ore 1:45 circa dell’1/11/2010: l’acqua del Tramigna è iniziata a fuoriuscire da un punto molto vicino al centro storico di Soave - via Mere. La decisione del Sindaco e dei suoi collaboratori è quella di avvertire i cittadini del pericolo di esondazione del torrente. Stavamo dormendo. Molti di noi non hanno sentito gli altoparlanti, alcuni sostengono

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Alle ore 9:00 del mattino con mio padre ho cercato di arrivare al punto di rottura del muretto di protezione, per renderci conto di quale scenario si fosse impossessato del nostro paese. Acqua putrida ovunque. Eravamo isolati: i ripetitori dei cellulari sommersi. La corrente elettrica andata. Pioggia. Fango. E tanta gente per strada, incredula. Nel pomeriggio il paese si è trasformato in una grande impresa di pulizie; almeno dove l’acqua era scesa. Sì perché l’acqua ha toccato diversi livelli: 20 cm, 50 cm, 70 cm... fino a 1,70m. 2/11/2010 dalle ore 10:00: l’acqua ha iniziato a fuoriuscire nuovamente. E’ iniziata la sua corsa lungo la campagna e le strade che separano Monteforte d’Alpone da Soave, facendo crollare anche il lato est del muretto di protezione del torrente Tramigna antistante le mura del centro storico. Per tutto il pomeriggio l’acqua è salita, di nuovo sconvolgendo animi già stanchi e provati. Sono arrivate ordinanze di evacuazione per la popolazione che risiede nella zona est del paese, confinante con Monteforte d’Alpone, ma in pochi hanno scelto di lasciare le proprie case, in parte per orgoglio, in parte per una percezione di abbandono da parte delle autorità competenti (Amministrazione Comunale e Protezione Civile). Dal primo pomeriggio del 2/11/2010 è iniziata una vera e propria corsa alla solidarietà fra compaesani, soprattutto da parte di chi aveva dei mezzi utili a liberare dall’acqua le case e le strade: gli agricoltori fra tutti. Senso di abbandono da parte di chi governa e gestisce le situazioni d’emergenza e, al tempo stesso, una passionale solida-

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che nelle loro vie nessuno sia passato ad avvertire, altri ancora sono invece riusciti a salvare le proprie auto e i propri averi e ad avvisare i propri vicini di casa di quanto stava per succedere. Ma nessuno sospettava minimamente la portata del futuro imminente che ci aspettava. Ore 2:00 circa dell’1/11/2010: il Tramigna è in piena. In quel momento la Protezione Civile stava controllando il cosiddetto “punto sensibile” dell’Alpone: lungo il ponte della regionale 11, in cui il Tramigna confluisce nell’Alpone. Ore 3:00 dell’1/11/2010: il livello dell’acqua del Tramigna, tra via Mere e il ponte tra piazza Castagnedi e Porta Verona (pieno centro del paese), raggiunge il limite dei muretti di protezione. L’acqua inizia a fuoriuscire dalle fessure dei muretti e dal manto stradale. L’acqua preme forte, fortissimo sul ponte: bum. Il muretto, dopo la curva di via Mere, sul lato sud del ponte (p.zza Castagnedi) non regge alla pressione dell’acqua: è l’inizio dell’esondazione. Ore 8:30 dell’1/11/2010: in un quarto d’ora rompe anche l’argine dell’Alpone a Monteforte d’Alpone fino all’altezza delle scuole elementari del paese; l’esondazione interessa due quartieri a sud del paese. Nel frattempo, per 5 ore, l’acqua a Soave ha travolto la maggior parte dei quartieri: il centro storico, tutto il lato est del paese (via Tramigna e via S. Lorenzo), il lato sud-ovest (via S. Matteo, quartiere S. Marco, Poeti e Musicisti), il lato sud (viale della Vittoria), il lato ovest del paese (zona delle poste, via Mere, parte del quartiere Scaligero).

rietà da parte di amici e sconosciuti; una grande prova di senso civico. In una settimana siamo riusciti a liberare il nostro paese dal fango e dall’acqua. Ma non è sufficiente ripulire un paese per far sparire la paura e l’incertezza. Non è sufficiente ricevere parte del risarcimento danni dopo un mese e mezzo da quest’evento “epocale”, come l’ha definito qualche anziano del paese per sentire che è tutto finito e che il finale è positivo. Non sono sufficienti le promesse politiche. Non possiamo accontentarci di tutto questo. Possiamo fare di meglio: renderci testimoni per un cambiamento. E raccontare, raccontare, raccontare. E scegliere di assumerci la responsabilità di uno stile di vita più sostenibile per l’ambiente intorno a noi: uno stile di vita che passa anche dal paesaggio che vogliamo rimirare dall’alto di un castello medievale.

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grafica

coordinatore

redazione

giulia sabaini

laura battistella

alberto stanghellini

alessandra garda

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