Speechless Magazine N° 0

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REDAZIONE COVER ART

Cover Artist: Minjae Lee Direttore: Alessandra Zengo Logo e Design Grafico: Petra Zari

Redazione

Giovanni Arduino Stefania Auci Sergio Bevilacqua Alexia Bianchini Elisabetta Bricca Claudio Cordella Roberto Gerilli Pia Ferrara Viviana Filippini Desy Giuffrè Sara Lippi Roberta Maciocci Barbara Maio Giulia Marengo Miriam Mastrovito Leni Medeiros Gabriella Parisi Selene Pascarella Francesca Santucci Christian Soddu Roberta de Tomi Petra Zari

Hanno collaborato

Patrizia Ferrando Germana Maciocci Irene Montanelli Selvaggia Oricchio

Si ringraziano

Alan D. Altieri Marco Buticchi Harold Cobert Sebastian Fitzek Rhiannon Frater Lara Manni Marzia Musneci MarilĂš Oliva Francesca Scotti Rossano Trentin Correttore Bozze: Maila Daniela Tritto Webmaster: Azzurra Ponti

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www.speechlessmagazine.com

redazione@speechlessmagazine.com

Portale dedicato al Fantastico www.urban-fantasy.it

Blog Letterario Collettivo

www.diariodipensieripersi.com


sommario 08< EDITORIALE ALESSANDRA ZENGO

10 < COVER ARTIST L’INCANT(ESIM)O ARTISTICO DI MINJAE LEE

14 < EDITORIA PIXEL RUBATI INTERVISTA: ALESSANDRA PENNA RUBRICA: WEST EGG - VAGHÈZIE DELL’EDITOR INTERVISTA: ROSSANO TRENTIN RUBRICA: LETTORI E “LETTORI”

28 < ATTUALITÀ ABISSI

32 < FANTASY

SPECIALE VIRGINA WOOLF>70

LE BEATRICI - BENNI>110

VIVERE E MORIRE A KING’S LANDING RUBRICA: I LUOGHI DELL’IMMAGINARIO TANIT DI LARA MANNI RACCONTO: BABY BLUES DI LARA MANNI 1Q84 DI MURAKAMI HARUKI INTERVISTA: GIULIA MARENGO RACCONTO: ECHI DI MEMORIA DI GIULIA MARENGO

70 < CLASSICI SPECIALE: VIRGINIA WOOLF L’INGRATITUDINE DI CHARLOTTE BRONTË

84 < HORROR ZOMBIE REVIVAL INTERVISTA: FRANCESCO SPAGNUOLO RACCONTO: AUTOSTRADE PERICOLOSE DI RHIANNON FRATER

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S


ZOMBIE REVIVAL>84

SHERLOCK HOLMES>174

COVER ARTIST>10 marco buticchi>158

PIXEL RUBATI>14


MAMORU NAGANO>118

GLI AMORI DI WOODY ALLEN>163

CINEMA, COLORI E SUONI, PRIMA DI

MARILU’ OLIVA>138

L’INGRATITUDINE DI CHARLOTTE BRONTE>80

TANIT>


I “THE ARTIST”>180

>42

sommario 102 < NARRATIVA MR GWIN DI ALESSANDRO BARICCO RACCONTO: UNA COLLINA DI HAROLD COBERT LE EROINE LETTERARIE DI ERIN BLAKEMORE LE BEATRICI DI STEFANO BENNI RACCONTO: MEDUSA, UNA FAVOLA DI FRANCESCA SCOTTI

115 < FANTASCIENZA FANTASCIENZA E FUTURO: I MILLE VOLTI DISTOPICI L’ESTETICA DI MAMORU NAGANO

124 < THRILLER/GIALLO RACCONTO: TUTTO PER BERGKAMEN DI SEBASTIAN FITZEK IL MARCHIO DEL DIAVOLO DI GLENN COOPER INTERVISTA: MARILÙ OLIVA RACCONTO: AMANDA DI MARZIA MUSNECI

150 < STORICO SPECIALE: MAGDEBURG DI ALAN D. ALTIERI INTERVISTA: MARCO BUTICCHI

163 < CINEMA & TV

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GLI AMORI DI WOODY ALLEN CINEMA CHIAMA FANTASY HUGO CABRET E LO STUPORE DEL CINEMA ELEMENTARE SHERLOCK! FANBOYS STATUNITENSI: JOSS WHEDON VS KEVIN SMITH CINEMA, COLORI E SUONI, PRIMA DI “THE ARTIST”

1Q84 - MURAKAMI HARUKI>56


editoriale di ALESSANDRA ZENGO

«art should be a place of h inexperience, which is not

Proprio in concomitanza con l’arrivo della primavera – che speriamo sia di buon auspicio –, siamo riusciti, dopo molti mesi di preparazione, a pubblicare finalmente online il numero 0 di Speechless, un nuovo magazine che spazierà nel mondo della letteratura e del cinema, con qualche sporadica incursione in altri ambiti culturali. L’era del Web 2.0 – in cui fioriscono quotidianamente una moltitudine di attività online legate all’attività culturale, come blog, siti web etc – ha visto recentemente la nascita di numerose riviste digitali di varia natura, complice anche la diffusione sempre più massiccia dell’e-book e la possibilità di creare, più o meno facilmente, un luogo di discussione e critica che si pone su un piano parallelo alla tradizionale carta stampata. L’idea di Speechless nasce a fine novembre 2011, e all’inizio questo nostro piccolo spazio indipendente – che speriamo sia di vostro gradimento –, altri non era che l’idea di una webzine del blog letterario Diario di Pensieri Persi, il mio primogenito. Adesso Diario ha ufficialmente una sorellina minore; una bambina dall’urlo facile, cosicché il messaggio venga recepito forte e chiaro, e dai capelli fiammeggianti, simbolo del suo carattere indipendente e indomabile. Insomma, Speechless è donna, per questo si è fatta attendere a lungo! Lo spirito di questa neo-rivista è quello di elaborare strumenti che possano permettere di capire al meglio il mondo della letteratura, senza pretese di esaustività; senza vincoli di sorta per generi o argomenti; senza preclusioni o intellettualismi di maniera, ma con la curiosità e la passione che nascono dall’amore per i libri e il cinema. Questo primo numero di S non rappresenta ancora la versione definitiva di questo progetto; già dal prossimo numero, infatti, potrete leggere gli interventi di altri articolisti – che, forse, conoscerete già – e nuove rubriche si apriranno anche a nuovi orizzonti culturali, diversi da quelli cui siamo abituati. Ogni numero, oltre ad articoli, interviste e recensioni, vi offrirà la possibilità di leggere alcuni racconti di autori stranieri e italiani, esordienti o affermati. Il nostro staff – sempre in crescita – unisce professionisti del settore e non (giornalisti, editor, scrittori, blogger), in un coro-web che ha qualcosa da dire. Da raccontare o, semplicemente, da condividere.


hope, not doubt. and your doubts rise from t a dishonorable thing.» [stephen king] SPEECHLESS NASCE DALLA VOGLIA DI COMUNICARE E DI ESSERE ASCOLTATI. “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sè stesso senza essere “superato”. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e le sue difficoltà, violenta il suo stesso talento e da più valore ai problemi che alle soluzioni.” Così scriveva l’illustre scienziato Albert Einstein negli anni 30 del secolo scorso, solo un anno dopo la grande crisi economica del ‘29. Parole forti, emblematiche che riassumono brillantemente quello che è il nostro intento e il nostro pensiero. In un momento di forte crisi per l’editoria tradizionale, ci siamo impegnati in un progetto che vuole promuovere, seppur nel suo piccolo e con mezzi ancora limitati, la passione per la lettura e una riflessione critica sul numerosissimo numero di testi che ci vengono proposti. Un surplus ingestibile dai lettori che rischia, d’altro canto, di offuscare piccole perle letterarie e talenti nascosti, e promuovere con efficaci scelte di marketing libri dal dubbio valore letterario che, ironicamente, raggiungono – quasi per farci un dispetto – la vetta delle classifiche dei libri più venduti. Prima di augurarvi buona lettura, devo fare i dovuti e sentiti ringraziamenti a tutte le persone che hanno reso possibile questa nuova avventura collettiva: tutta la splendida Redazione, pazientissima nei miei confronti per i ripetuti ritardi; la bravissima Petra, grafica eccezionale di S, Maila che ha ri-corretto le bozze di tutti gli articoli, anche quelli che non leggerete mai; le traduttrici e i collaboratori della rivista; gli autori e gli addetti ai lavori che hanno accettato di essere intervistati sulle nostre pagine; gli scrittori che hanno scelto di pubblicare un loro racconto nella rivista; e, infine, un grazie a tutti i sostenitori e i lettori che hanno atteso in questi mesi la nascita di Speechless. Grazie! Per qualsiasi – o quasi – cosa, domanda o chiarimento potete scrivermi a: alessandrazengo@yahoo.it

Enjoy the rumors!

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parole che fanno rumore


cover artist

CIRCULATION

(2011 - Tecnica mista su carta)


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L’incant(esim)o artistico di

minjae LEE di PETRA ZARI e ELENA BIGONI

Minjae Lee è un giovanissimo artista sudcoreano, autore della bellissima ed evocativa cover del primo numero di Speechless. L’artista ritrae una giovane donna pensierosa attraverso l’utilizzo di colori potenti e vividi, che risaltano sullo sfondo bianco, privilegiando l’intento sull’azione. Questo talentuoso artista, classe ‘89, è sempre stato affascinato dal colore e dalle forme sin da quando a 7 anni ha scoperto tempere, pastelli e in seguito acrilici. Attraverso l’uso di questi strumenti, Minjae ha potuto finalmente esprimere la propria creatività creando opere sempre più complesse ed originali che si distinguono per la meravigliosa giustapposizione di bellezza, innocenza, fragilità, arroganza e dramma che coinvolgono a livello emotivo lo spettatore.

BLOSSOM DESIRE

Il suo percorso creativo e la sua sensibilità artistica non sono mai stati imbrigliati da studi specifici, soprattutto per la difficoltà di Minjae Lee di relazionarsi con professori che non comprendevano appieno il suo mondo fatto di colori. L’artista trae ispirazione dai volti delle persone che osserva sempre e in ogni luogo, i suoi artisti preferiti sono il 55enne fotografo giapponese Hiroshi Nonmi e l’eccentrico e geniale stilista John Galliano. La sua tecnica può apparire complessa ad un primo sguardo, mentre i suoi strumenti sono semplicissimi; la complessità risiede, invece, nell’articolazione delle forme, delle linee, delle scelte coloristiche con cui costruisce le sue opere, come in un mosaico bizantino. Matite, pastelli, tempere acriliche ed un talento racchiuso in una mente che riesce a vedere il mondo attraverso le lenti coloratissime della fantasia; un talento raro in un adulto, una prerogativa dei bambini del quale Minjae conserva la freschezza immaginativa. In una chiarezza grafica capace di avvolgere lo sguardo di ogni osservatore, i lavori di Minjae attraggono l’attenzione nel sottile gioco di linee e colore, in un viaggio all’interno dell’immagine che, dalla visione d’insieme, scivola sui dettagli fittissimi, dentro l’opera. Le sue opere sono un incantesimo che ci ricorda la perdizione delle figure impossibili di Escher.

intervista>


minjae LEE Speechless: Il tuo stile, le scelte delle associazioni di colori e i soggetti sono decisamente originali e fortemente personali. Cosa vorresti trasmettere attraverso le tue opere d’arte? E da cosa trai l’ispirazione? Minjae Lee: Mostro alla gente ciò che provo in quel momento, e probabilmente ciò li colpisce, e riescono a provare ciò che ho provato io. S: Come avviene il processo creativo e come ti approcci con la tela bianca? M: Cerco qualcuno, un viso, e quando ho trovato quel viso, quell’immagine, ho la mia ispirazione. S: Sei un artista molto giovane. Come trascorri il tuo tempo libero quando non lavori a una delle tue opere? M: Lo trascorro come chiunque altro, ma forse lo trascorro anche alla ricerca di un’ispirazione. S: Ci puoi dire quali sono i tuoi progetti per il futuro? M: Vorrei poterlo fare, ma non lo so neanche io. Creo opere e a volte alle gente piace lavorare con me. Ma non posso dirvelo, attendo con impazienza alcune mostre nel 2012 e alcune collaborazioni su cui non vedo l’ora di lavorare.

Minjae LEE CONTATTI»

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website: www.grenomj.com email: info@roth-mgmt.com

BLUE LIP


cover artist FLOWER

INDIAN


PIXEL RUBATI di GIOVANNI ARDUINO A volte ascolti discorsi. A volte ricevi strane e-mail. A volte incappi in qualcosa sulla rete. A volte, se ti occupi o ti interessi anche solo tangenzialmente di libri (quei curiosi oggetti), ti capita con una certa frequenza. Se si parla di scrittura e dello scrivere, poi, si aprono i cancelli dell’inferno, del purgatorio e del paradiso, tutti insieme. Ho stilato una breve lista in tema: non so se sia divertente, ma mi metteva di buon umore. Sarò strano, che so. Ce ne potranno, nel caso, essere altre. Le frasi riportate sono tutte vere. Rigorosamente. Naturalmente. Al massimo qualche additivo e colorante in piĂš, ma si sa che quelli male non fanno. Non subito, almeno. Pregasi inviare segnalazioni, indicazioni, dritte, eventuali insulti (quando necessario) a: giovanniarduino@gmail.com Statemi sani, Giovanni


editoria

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« Scrivo per diventare come Sylvia Plath però senza suicidarmi. » « Scrivo perché mi piace tanto la rubrica sui libri di Glamour. » « Scrivo perché è facile. » « Scrivo perché la maestra delle elementari mi diceva che ero bravo. » « Scrivo perché voglio essere invitato nei posti importanti. » « Scrivo perché voglio sbugiardare la mafia degli scrittori. » « Scrivo perché lavoro come copywriter ma la vera scrittura è un’altra cosa. » « Scrivo perché voglio farmi dei nemici. » « Scrivo perché ci ho la penna in mano. » « Scrivo perché il mio blog letterario ha duecentomila visitatori unici al mese e ora voglio passare a un romanzo. » « Scrivo perché così si fanno i soldi. » « Scrivo perché mi autopubblico e in culo alle case editrici che hanno rifiutato i miei libri. » « Scrivo perché ho un ottimo senso del marketing e questo è importantissimo. » « Scrivo perché ho visto il film Wonder Boys, mi piace tanto Robert Downey Jr. e scrivere mi sembra figo. » « Scrivo perché ho frequentato un corso di scrittura creativa e mi spetta di diritto. » « Scrivo perché ci ho l’editor. » « Scrivo perché non mi hanno preso ad Amici. » « Scrivo perché negli ultimi dieci anni ho letto due libri e voglio scriverne uno uguale al secondo. » « Scrivo perché così mi pubblicano; se non scrivessi, non mi pubblicherebbero. » « Scrivo perché ieri notte me lo ha detto Robert Pattinson. » « Scrivo perché su Facebook ho messo “scrittore” subito dopo il mio nome. » « Scrivo dopo aver visto il concerto dei Cani al Circolo degli artisti. » « Scrivo perché la casa editrice Albatros mi ha pregato di continuare a farlo. » « Scrivo per creare un brand vincente per la comunicazione transmediale. » « Scrivo perché sono una vampira e voglio raccontare la verità sulla mia specie. » « Scrivo perché tengo un tumblr solo con foto di librerie di scrittori. » « Scrivo perché così faccio gli eBook e divento famosa come Amanda Hocking. » « Scrivo perché chi mi followa rewitta sempre i miei tweet » « Scrivo gialli perché in fondo sono porcherie e vendono. » « Scrivo perché sono un giornalista ma voglio scrivere un romanzo di denuncia che duri nel tempo. » « Scrivo perché a sedici anni, quando scrivi, ti pubblicano sempre. » « Scrivo perché mi sento molto, ma molto steampunk. » « Scrivo perché la mia fidanzata dice che sono un tipo genio e sregolatezza. » « Scrivo romanzi letterari perché l’horror mi ha pugnalato alle spalle. » « Scrivo romanzi di genere fantastico perché mi piace fare esperimenti con cose che non conosco. » « Scrivo perché ho aperto una piccola casa editrice indipendente (o l’ho aperta perché scrivo). » « Non scrivo perché, piuttosto che scrivere ancora una riga, sturo il cesso di casa a mani nude. »


editoria

I N T E di DESI GIUFFRÈ

Un caloroso benvenuto ad Alessandra Penna, responsabile editoriale di Newton Compton Editori. Qui con noi per rispondere ad alcune domande e aiutarci a fare chiarezza su alcuni aspetti dell’affascinante - quanto complesso - mondo dell’editoria. Speechless: Grazie per essere qui, Alessandra! Alessandra Penna: Ciao ciao e grazie a voi per l’invito e per questo spazio. S: Quando e come hai capito di voler intraprendere il cammino dell’editor? Qual è stato il tuo percorso formativo? I pregi e i difetti del lavoro di editor secondo te. A: Più che decidere di farlo, mi sono trovata su questo cammino, e a quel punto mi sono detta: è quello che fa per me. È la cosa più adatta a me tra tutte quelle che ho fatto. È quella che sento di potere fare bene e che mi rende felice. Mi sono laureata in filosofia a Roma, sono stata un anno a Napoli per una borsa di studio e, poi, ho vinto il dottorato. Fino ai miei 29 anni sono rimasta dentro l’università, convinta che sarebbe stata la mia strada. Poi, in attesa di altro dopo il dottorato, ho iniziato a lavorare per Carocci, e lì è iniziato tutto. Mi occupavo di saggistica universitaria, di psicologia all’inizio e poi della riprogettazione della collana di architettura. Quello universitario era un mondo con cui avevo una certa prossimità e familiarità, ma io sentivo di voler fare anche altro. Fu Giancluca Mori - il mio direttore editoriale da Carocci - che mi spinse a tentare. E qui sarò breve: due anni da Fazi, dove mi sono occupata soprattutto di narrativa italiana e di scouting (tanto, tanto scounting!) e poi Newton Compton, ormai da due anni. Amo questo lavoro, non riesco a trovargli dei difetti. Quelli che ha, derivano dal fatto che non sempre si lavora su cose che abbiamo personalmente scelto. Non tutto può piacerci allo stesso

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ALESSANDRA PENNA


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E R V I S T A modo. Ma insomma, nel complesso, nulla che mi sembra assomigli a un difetto! S: Come definiresti il tuo percorso lavorativo in questi ultimi anni? A: Credo sia stato molto vario e mi abbia consentito di imparare tanto. In realtà, io credo di essere in un certo modo ancora all’inizio. Mi sento giovane per questo mestiere e sento di aver bisogno ancora di tanta, tantissima esperienza. Ma le cose che ho fatto finora – almeno alcune –, romanzi scelti, autori scoperti, mi rendono soddisfatta di questi anni. S: Quali sono le basi fondamentali per un valido manoscritto? Coincidono con le caratteristiche di un romanzo di successo? A: Premesso che un manoscritto va lavorato e che l’editing potrà migliorarne certamente degli aspetti, direi di sì, che in genere già nel manoscritto si riescono a individuare delle caratteristiche che sono quelle del romanzo di successo. A meno che tu non intenda il bestseller. In questo caso no, non credo sia vero: credo ci siano ottimi manoscritti che non necessariamente diventeranno un bestseller. Ma che, a mio giudizio, non per questo valgono meno. Un manoscritto è buono se cattura la mia attenzione dopo che ne ho letta una pagina. Se è ben scritto, se mi incuriosisce ad andare avanti, se mi lascia immaginare che ci sarà una storia con una struttura forte e se, alla fine della lettura, non ha deluso buona parte di queste aspettative. Ma probabilmente, se sono arrivata in fondo, è così. S: Quale ritieni essere il momento più entusiasmante del tuo lavoro? A: Lavorare su un testo, capire cosa funziona e cosa invece va migliorato. Sottoporre all’autore i dubbi, indicargli la strada per scioglierli e sentire che, dall’altra parte, c’è fiducia e volontà di intervenire. In buona sostanza, l’editing sul testo insieme all’autore è, per me, entusiasmante. Forse perché mi sembra unisca due aspetti di me entrambi importanti, o mi permetta di esprimere delle abilità apprese nel tempo: la riflessione su un testo scritto, sulla parola prima – e questo lo devo, ne sono certa, agli anni del dottorato – e il momento creativo, poi. Io lascio, quasi sempre, che siano gli autori a decidere come intervenire. Mi limito a consigliare e indicare possibilità praticabili, ma già questo secondo me ha a che fare con la creazione. Qualcosa che in fondo mi mancava nella ricerca. Recentemente un’autrice mi ha più volte chiesto, dopo il secondo editing sul suo romanzo: «Ti piace come ho scritto quel dialogo? Pensi che vada bene rispetto a prima?» Quando l’ho letto tutto scorreva – le ho risposto – non ricordo più il motivo per cui non andava bene. Ecco, quando questo


editoria

INTERVISTA: ALESSANDRA PENNA

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accade, quando la volontà di editor e scrittore procedono insieme, questo è davvero un momento bellissimo. S: Quali sono le caratteristiche fondamentali che rendono indimenticabili i protagonisti di un romanzo? A: La loro autenticità. E non intendo che siano tratteggiati in modo realistico o che siano, con un aggettivo abusato oggi, “veri”. No, autentici significa che dietro di loro io non devo avvertire la penna dello scrittore o la sua voce, che li impersona di volta in volta. Devono avere vita propria. È difficile, è la cosa più difficile in un romanzo. Non capita spesso, lo ammetto. Lo scrittore che riesce a farlo è davvero bravo. S: Un libro che hai scoperto e che ha dato i frutti da te previsti? A: Il Divoratore, di Lorenza Ghinelli e Il carnefice, di Francesca Bertuzzi. S: Cosa ti colpisce – di primo impatto – di un testo che ti viene sottoposto? A: Personalmente la lingua, o meglio, lo stile. Il modo in cui le parole stanno insieme per una qualche necessità. Quando capita, penso che chi le ha scritte non sia solo “qualcuno che scrive un romanzo”, ma uno scrittore. Per me esiste una differenza. S: Quali sono gli errori più frequenti che gli scrittori esordienti commettono? A: Uso e abuso di luoghi comuni, sia nei contenuti che nella forma. Tendenza a parlare di sé mentre si scrive, anche quando si usa un narratore esterno. Predisposizione allo sfogo. I diari, lo ripeto spesso, a volte vanno lasciati nel cassetto! S: Sappiamo che non sempre è possibile leggere integralmente tutti i romanzi che vengono sottoposti a un editore. Quanto contano quindi una buona pre-


sentazione e una buona sinossi? A: La presentazione e la sinossi contano per capire se il manoscritto può rientrare nella linea editoriale della casa editrice. Se così è, allora si comincia a leggere. Sono le pagine che fanno fede. Un romanzo può essere buono sulla carta ma non reggere alla lettura. È la differenza tra un saggio o un romanzo. I primi li puoi a volte scegliere sulla base di proposal. Coi secondi è sempre più difficile, soprattutto se si tratta di esordi. S: Cosa consigli a chi è deciso ad intraprendere il mestiere dell’editor? A: Il mio percorso è molto poco ortodosso. Non arrivavo da master in editoria o stage in qualche redazione. Ma credo anche che non sia un percorso diffusissimo. Ho la sensazione che sempre più spesso, adesso, sia necessario aver frequentato qualche corso di editoria. Di buoni ce ne sono senz’altro. Se poi mi stai chiedendo come si possa essere un buon editor, la risposta è che non lo so esattamente. Forse leggendo e avendo letto tanto. Forse affinando la capacità di vedere, al di là dei personaggi e azioni, l’ossatura del romanzo, come in controluce, per riuscire a capire se sia solida o se qualche parte risulti invece debole e da rafforzare. Credo che un bravo editor debba riuscire ad avere una visione – analitica e sintetica insieme – del romanzo: debba essere in grado di scomporlo quasi in parti, e al tempo stesso vederlo come un tutto. S: Bene, siamo giunti al termine della nostra chiacchierata, Alessandra. Vuoi aggiungere qualcosa?

A: Ma no, non sono stata già noiosa così?

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editoria

«Io abitavo a West Egg, nella parte...

WESTEGG

rubrica

di CHRISTIAN SODDU e ALESSANDRA PENNA

«Io abitavo a West Egg, nella parte... bÈ, quella meno alla moda delle due» Così F. Scott Fitzgerald, con una sciabolata delle sue, ritaglia magistralmente quel sotterraneo senso di estraneità che talvolta ci prende nei confronti di un mondo al quale pur si appartiene, di uno spazio al quale si è in qualche modo organici o che ci vede, addirittura, protagonisti. C’è molto di più del passo indietro del narratore, in quella frase; della distanza di sicurezza, tecnicamente necessaria, dalla quale Nick Carraway ne Il grande Gatsby osserva l’agitarsi delle comparse e l’inesorabile distruzione di un sogno romantico. C’è l’autore stesso, che con le sue frequentazioni fu uno dei principali animatori del decennio più folle del Novecento, i “Roaries Twenties”, e che pure rivela, con le sue storie e il suo talento troppo presto corrotto, una malinconica alterità pari soltanto all’avido desiderio di appartenenza. E c’è ancora, forse, quell’unico, ambiguo spazio emotivo da cui le crepe sul muro risultano impietosamente chiare, anche se non potremmo mai vivere facendo a meno di quelle splendide pareti dipinte d’azzurro. West Egg è una rubrica dall’interno del mondo dell’editoria, che di questo mondo, mese dopo mese, fornirà sprazzi, notizie, informazioni, aneddoti e riflessioni... Saranno interventi animati dallo spirito di chi, lavorando all’interno di importanti case editrici, in particolare nel comparto della narrativa, con i suoi ritmi convulsi e meccanismi da cui facilmente possono scaturire situazioni parossistiche o episodi tragicomici, si tiene in bilico tra passione e disincanto, tra lo slancio d’una fascinazione che resiste Christian e lo scarto dell’ironia, di chi si diverte a trarre da questo Christian Soddu, nato a Sassari, vive e lavora a Roma, dove è atmateriale umano e professionale spunti anche vagamente tualmente editor per la narratinarrativi. Come nel caso di questo primo intervento, in cui va italiana presso la Fazi Editore. Crede nell’uso del puntoevirgola. il dato autobiografico si fonde con psicologie e situazioni Ha visto 16 volte L’appartamento. Forse prende un cane, moglie pertipiche che il lavoro di editor ti sbatte in faccia spesso e vomettendo. lentieri. Che l’editoria stia cambiando, ormai, è banale dirIncipit preferito: lo. E non è una novità il fatto che oggi si richiedo“Tutti i bambini crescono. no agli editori e ai professionisti del settore nuovi Meno uno” (Peter Pan) modelli di comunicazione e d’intervento per far Mail: christiansoddu@gmail.com Twitter: @westegg76

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bÈ, quella meno alla moda delle due».

Aless andra S

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ono n sofia ata nel 19 n 7 r i c e r c e l 1 9 9 8 e 5. M i s o n o l au a nel h o co r ea t a 2 za co i m e u 0 0 3 . Po i , n c l u s o i l Dotto n filo fficio dop o mu si c r s q ato d ta a ual c h i toria! classica, l mpa per e eventi esperien ’ingre Tre an sso n vo l a ni e m d i t ea el c r a p o o l l a n a d i P e z zo d a C a m o n d o d e t r o e i. Q ui r o c c i, si c o l o ll n pr inc g dove ’edii p al m d i d u e an i a p r i ma s e gui eA ni en i t alian a. Infi te allo sc da Fazi, d rchitettuoutin e di c a t a all ne, n g a nd el l a n a r N e w t o n C ge n n a i o 2 p e r l a n a o m i r o mp t rativa r 0 ativa 1 0, s o ricop r o i l r c h e l a s a g n, c o m e e o n o ar r i v a g d uolo di Re istica. Da itor, sia p sp o ns qual c er ab il e h e di to e m e s e r i a l e.

fronte alle sfide del digitale, alle prospettive di mercato degli e-book, a fenomeni quali il self-publishing che tendono ad annullare il filtro una volta esistente tra editore e aspirante autore... Ma al di là dei tecnicismi e delle valutazioni circa i cambiamenti fisiologici inerenti qualunque realtà, resta il fatto che lavorare sui e con i libri, a contatto con chi li pubblica e con chi li scrive (o vorrebbe scriverli), è una scelta o una fatalità che racchiude sempre qualcosa del sogno iniziale. La speranza è che questa rubrica possa rispondere ad alcune curiosità, sfatare qualche luogo comune, informare e, perché no, divertire; sempre offrendo un punto d’osservazione attento, appena al di là del fossato, interessante più che interessato. Buona lettura.

NOTA AL TITOLO Per “vaghèzia” - termine da terra padana - s’intende una categoria dello spirito, quella che Alberto Bevilacqua, in un recente articolo sul Corriere della Sera in ricordo di Cesare Zavattini, definisce “la parabola istintiva con cui un po’ s’inventa e un po’ no, rubando dalla realtà quel tanto di inverosimile che sempre contiene, e che realtà resta...”. Giornalista, narratore, sceneggiatore di film immortali, poeta e pittore, noto soprattutto come artefice della scuola neorealista, Cesare Zavattini è stato prima ancora, prima di tutto e di molti (v. Ennio Flaiano), un delizioso osservatore della vita e un grande umorista. Un malinconico che amava la compagnia e la buona tavola, e che da una tavolata di amici era capace di alzarsi all’improvviso, esclamando: “Scusate, devo andare a prendere appunti per una vaghèzia. Se dovessi morire nel frattempo, avvisate casa mia che apparirò tardi”.

E vorrei una risposta rapida di Christian Soddu

«…E vorrei una risposta rapida, se no m’incazzo e do tutto alla Minimum Fax» Queste parole, chissà perché, rimbalzano d’un tratto nella mente assorta dell’editor. Un personaggio strano, il nostro editor, che nella migliore e più tautologica delle ipotesi viene pagato per leggere e fornire a chi lo paga un suo parere circa la bontà dei testi che ha letto, ma che nella realtà – dove le ipotesi migliori si realizzano di rado – si ritrova quotidianamente invischiato in mille trappole collaterali, trabocchetti e angoli bui nei quali la parola scritta cede il passo ai numeri. È proprio su questo che l’editor stava divagando… Su quei numeri che lo assalgono di continuo, strattonandolo per la manica, risucchiandolo altrove, come accade ai bambini delle fiabe che sempre precipita-

no dentro un armadio senza fondo per poi ritrovarsi, infreddoliti e quantomeno perplessi, al cospetto di qualche livida regina delle Nevi. In modo analogo, come a contrappasso del proprio persistente lato fanciullo, l’editor è costretto ad avventurarsi in quelle esotiche terre rette con pugno di ferro da Sua Maestà il Marketing. Questi, coadiuvato nell’amministrazione dal fidato Nielsen, ministro delle Classifiche, e resistendo ai settimanali capricci della principessa Arianna, è protagonista di una dialettica complessa e dai connotati vagamente berlusconiani col popolo dei Lettori, che si vorrebbe “sovrano”, se non fosse che l’intera faccenda è meno democratica e più monarchica di quanto non la si racconti… «…Una risposta rapida, se no…».


22 L’editor ha un sussulto. Il ricordo di quella frase lo strappa dalle sue fantasticherie su armadi e numeri malvagi e lo riporta al presente. Per la precisione, all’uomo che gli siede di fronte, a un tavolo di Lucarelli in via Satrico. L’uomo si chiama M. Avrà tra i 45 e i 50 anni. Ha scritto un romanzo. Niente di irreparabile, se non fossero le sei pomeridiane di sabato 31 dicembre. Insomma, l’editor si è fatto incastrare e, a dire il vero, non saprebbe spiegare come si trovi lì, mentre in ogni casa ci si affretta a mettere lo spumante in fresco in vista del brindisi di mezzanotte. A scanso di equivoci, occorre precisare che non era M. a minacciare “incazzature” in quella lettera di presentazione arrivata in casa editrice due o tre anni prima, allegata a un manoscritto e destinata a fissarsi nella memoria collettiva dell’ufficio. E l’editor pensa che sia un peccato. Perché con uno così ci si potrebbe almeno litigare, e tutto sarebbe più semplice e veloce, mentre ciò che si sta celebrando a questo tavolo è il Trionfo dell’Educazione. Un senso neoclassico della misura, un pavido senso del pudore, impediscono all’editor di interrompere la recita, smettere di annuire per spiattellare la domanda che da circa un’ora è lì, sommersa nella sua mole distruttiva, soltanto una minuscola capocchia che emerge dal moto ondoso di quel monologo, come un iceberg minaccioso. Teoria dell’iceberg!, rimugina senza volerlo l’editor – ormai si sarà capito: ha la scomoda abitudine di lasciar andare la mente dove capita. “Solo un terzo del racconto dev’essere visibile in superficie, come in Hemingway… il non detto è più importante…”. Pensa che dovrebbe dirglielo, a quest’uomo. Sta per farlo, ma poi scuote la testa. Alla fine mormora un «Scusi…» «Avevamo detto di darci del tu.» Sorriso disarmante. M. non ha nemmeno il fiatone, dopo tutto quel parlare. Anche l’editor sorride. «Scusa, non… non sono sicuro di aver capito bene.» M. lo guarda, sempre sorridendo. «Cioè, abbiamo detto, il protagonista è un gatto, giusto?» «Un gatto sì ma non proprio un gatto un gatto cen-

tauro mezzo gatto mezzo uomo che a bordo di un velocipede attraversa…» «Un velocipede?» Il sorriso ha un lieve appannamento. «Una specie di bicicletta.» «So cos’è un velocipede», fa l’editor. Non può fermarsi ora. «Ma il problema non è il velocipede. Vede…» M. allarga le braccia come qualcuno a cui abbiano sparato in petto. «…vedi!, è che mi stai raccontando la trama da quanto, un’ora? E ancora non ho capito di che parla.» «Ho quasi finito.» «Sì ma non è questo il punto.» M. lo fissa. Il sorriso è scomparso. L’editor finge di bere il fondo del caffè rimasto nella tazzina, poi scuote la testa. «Scusa, ma credo che nemmeno tu abbia ben chiara in testa la storia, altrimenti…» «Ma te l’ho detto è complesso perché vedi il gatto è come il monocolo dell’artista che fa un viaggio nella multiformità dell’arte e dell’essenza creativa dell’uomo e…» Fra circa tre ore l’editor deve essere a cena con sua moglie in casa di amici per festeggiare il capodanno. Pensa che potrebbe dirgliela alla Checov, che è meglio scrivere di cose semplici in modo semplice, scrivere di cose che conosci bene, lasciar perdere gli avvenimenti straordinari… Ma, poi, quello gli risponderebbe «e Tolkien allora?!» Se è battagliero, e dallo sguardo a fessura gli pare lo sia, potrebbe anche uscirsene con un impertinente «e i vostri vampiri, allora?!», pronunciando quel vostri col piglio di chi stia schiacciando una blatta in cantina, in riferimento alla sigla editoriale per la quale l’editor lavora. Allora gli toccherebbe ribattere che il fantastico ha le sue regole, un codice che si asseconda o dal quale si è


editoria fuori, che portandoci “altrove” ci parla però sempre della realtà e la conversazione si protrarrebbe a lungo, acquisendo una fastidiosa tendenza all’astrazione e… D’un tratto l’editor ha l’impressione di non sentirsi granché bene. Fa scorrere il dito all’interno del colletto della camicia. È per quello che M. ha appena detto. «La materia del mio romanzo è il tempo!» È una trappola. Qualunque cosa obietti, sa che l’altro risponderà «e Proust allora?!» Sceglie la strategia del silenzio. Sì, terrà la bocca chiusa e quello gli parlerà di Calvino e Joyce. Sicuro. C’è già passato. Lui non ha niente contro Calvino e non ha niente contro Joyce. Ha la sensazione che siano un po’ fuori contesto, in quella conversazione, ma non batte ciglio. Non deve dimenticare di esser lì per lavoro! Un errore, d’accordo, andare all’appuntamento senza aver prima comprato le bottiglie di Berlucchi da portare alla festa, così si rischia che i negozi chiudano, ma il lavoro è lavoro, e certo, potrebbe comprarle lì dove si trova, ma al market le pagherebbe molto meno, e poi sente nominare il Gruppo 63. Si guarda intorno, ma inutile farsi illusioni: M. è il responsabile. È stato lui a pronunciare quella sigla, che all’editor dice qualcosa, sì, non sa bene… ma qualcosa che, in modo vago e misterioso, gli fa paura. Scatta in piedi.

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Sul tavolo, tra la tazzina di caffè e il Crodino, giace il manoscritto copertinato di nero che raccoglie le gesta del gatto-centauro-ciclista-monocolo… L’editor fissa il blocco di carta con la stessa, primitiva fascinazione che ogni spettatore ha riservato al monolite di 2001 Odissea nello spazio, o, anni dopo, ai dinosauri che si fanno le fusa in Tree of Life, ed è solo con un estremo sforzo di volontà che riesce a dire qualche parola di commiato, voltarsi e uscire dal locale, nella sera umida e tesa. Mentre corre verso la macchina, si sente un po’ colpevole. Che altro avrebbe potuto fare, dire, consigliare, per indorargli la pillola? «Ah sì», dice tra sé e sé, «c’era quella di Stephen King: la strada dell’inferno è costellata di avverbi… Carina, potevo dirgliela. Potevo consigliargli di leggerlo tutto, On Writing di King». Scuote la testa… Aforismi, suggerimenti, pillole, aneddoti sono tutti divertenti e utili quanto coriandoli a una festa in cui manchino però musica e beveraggi adeguati. L’editor aspetta che scatti il verde, la macchina è sull’altro lato del marciapiede, e ripensa a quando, ragazzino, lesse la biografia degli U2. Era rimasto colpito dal passaggio in cui Paul Hewson alias Bono Vox annunciava al padre, un tipo tutto d’un pezzo, la decisione di dedicarsi alla musica e di voler diventare una rockstar. Col buon senso tipico di qualunque uomo meno folle, affamato e fortunato di Steve Jobs, il padre non l’aveva presa bene, riflettendo sul fatto che suonare in un garage con gli amici è una cosa, ma suonare in modo tale da portare la gente a sborsare soldi per ascoltarti è tutt’altra faccenda. Non è questione di denaro da guadagnare o spillare al prossimo, ma di pura e semplice onestà: questo avrebbe dovuto dire – riflette l’editor – se non fosse stato il tardo pomeriggio di un 31 dicembre, e sua moglie non lo stesse aspettando a casa per uscire. Avrebbe potuto dire che al di là degli interventi e delle malizie tecniche per far sì che una macchina narrativa viaggi a peno regime, occorre essere onesti e chiedersi molto semplicemente se ciò che si ha da dire ha le carte in regola per interessare qualcun altro oltre a se stessi. Avrebbe potuto dirgli, alla Scott Fitzgerald, «il personaggio è azione», mentre questo gatto che fa, oltre a pedalare? Ma l’altro avrebbe senz’altro riposto «e Oblomov allora?!». E, in un certo senso, avrebbe avuto ragione lui. Ecco perché l’editor, ora, appena salito in macchina, prima di mettere in moto, posa sul sedile accanto il manoscritto copertinato di nero. S’è già fatto un’idea, ma lo leggerà, lo leggerà… Lo fa sempre. Non si sa mai.


editoria AGENTI LETTERARI: di ELISABETTA BRICCA

La Trentin Zandeteschi Literary Agency, di Rossano Trentin e Massimiliano Zandeteschi,

è una delle agenzie letterarie più giovani e grintose dell’attuale panorama letterario italiano. Tanto che si è aggiudicata i diritti per l’Italia di uno dei casi letterari dell’anno: “La casa per bambini speciali di Miss Peregrine” di Ransom Riggs, edito da Rizzoli. Audacia, determinazione, e amore per il proprio lavoro. Tutto questo e molto altro, si nasconde dietro il lavoro dei due agenti. ROSSANO TRENTIN, ad esempio, è uno che non molla mai. Ma proprio mai. SPEECHLESS LO HA INTERVISTATO PER VOI.

INTERVISTA Speechless: Ciao Rossano e benvenuto nella nostra Webzine. Emozionato? (Scherzo!). Rossano Trentin: Molto, ma ho il pregio di essere una persona fredda e calcolatrice. Riuscirò a mascherare le mie emozioni! Scherzo anch’io naturalmente, in realtà trovo sempre stimolante e interessante parlare del mio lavoro. Magari sfatando qualcuno dei misteri che qui da noi avvolgono ancora la mia professione. S: La prima domanda è di rito: Perché hai scelto di fare l’agente? Hai fatto forse parte di quella schiera di scrittori mancati? R: Quello dell’agente letterario è un lavoro oltremodo complicato, che non si improvvisa. Occorre una grandissima preparazione, tanta pazienza, determinazione, e una buona dose di aggressività. La passione per i libri e la scrittura è solo una delle variabili, il resto è istinto, fiuto e DNA. Uno scrittore non potrebbe mai fare l’agente, semplicemente perché scrivere è tutt’altra cosa. S: Credi che la vostra agenzia – TZLA Literaty Agency – possa definirsi cross over oriented? R: In questo momento senza dubbio: un’agenzia deve sapersi plasmare al mercato. Ma il nostro lavoro di scouting sulla narrativa più tradizionale continua, così come la ricerca di buoni saggi. Lavorare sul cross over e sul genere, certo, è molto stimolante e ti permette di esplorare territori assolutamente affascinanti. S: Due aggettivi per definire cosa distingue gli autori americani (e stranieri, in generale) da

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quelli italiani. R: Gli scrittori sono scrittori. Italiani o stranieri che siano. Con i loro pregi e i loro difetti. Le buone idee e le insicurezze. Vanno ascoltati, capiti, assecondati ma anche messi di fronte alla cruda realtà, quando necessario. S: Quando ti arriva un manoscritto da valutare, cosa deve saltare subito agli occhi per far sì che tu prenda l’autore in considerazione? R: Lo stile prima di tutto. L’incipit e la capacità di trascinarmi dentro la storia, quella commistione tra magia e scorrevolezza di scrittura. Dalla scrittura non si prescinde, mai; sul resto c’è sempre da lavorare sodo. S: Un difetto degli esordienti? R: Quanto spazio abbiamo? Francamente non saprei nemmeno da dove incominciare. Uno su tutti: la fretta di pubblicare, tutto e a tutti i costi, a costo di firmare contratti di edizione al limite della circonvenzione e pubblicare libri francamente brutti, magari pagando, e tanto, per poi pentirsene quasi subito. S: È così importante avere un agente per un autore? E se sì, perché? R: È un obbligo all’estero, specie nei paesi anglosassoni, dove gli scrittori senza agente non


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INTERVISTA

vengono quasi nemmeno presi in considerazione. In Italia piano piano ci stiamo arrivando, anche se si fa ancora fatica a vedere l’agente come un “complice”, c’è ancora questa convinzione che sia utile solo per essere presi in considerazione più in fretta dagli editori, una sorta di “corriere espresso per manoscritti”, per capirci. La presenza di un’agenzia è assolutamente indispensabile invece: quando si va a firmare un contratto di edizione, un vero contratto di edizione con delle condizioni vantaggiose e un buon anticipo; è importante per essere tutelati nel modo migliore possibile; per avere rendiconti chiari (e in tempi brevi) sulle vendite; per poter lavorare con tranquillità. L’agente è una guida, e risolve i problemi. S: Cosa sta cambiando nell’editoria italiana? Puoi farci una previsione personale sull’immediato futuro?

R: Non ho la sfera di cristallo, magari potessi fare una previsione. Forse per la prima volta c’è una vera apertura versi dei generi letterari fino ad oggi un poco snobbati, questo sì, e un maggiore consapevolezza del potere del marketing e della promozione.

S: È vero o non è vero che gli autori italiani che scrivono genere fantastico stentano a essere pubblicati? E che comunque il fantastico italiano soffre di ghettizzazione? R: Non più, come dicevo negli ultimi mesi c’è grandissimo fermento attorno al genere fantastico. Anche per il fantasy inteso nel senso più classico del termine. E finalmente anche lo young adult incomincia ad avere una sua identità.

Se l’idea è realmente originale - sottolineo realmente originale - e ben orchestrata, se i personaggio sono solidi e credibili, gli editori sono assolutamente disponibili a valutarla. Basta presentarla nel modo giusto, ma per questo ci siamo noi. S: Ultima domanda: Quanto lavora Rossano Trentin e verso quali generi si orienterà la vostra agenzia? R: Rossano Trentin lavora troppo. Ma si diverte quasi sempre tantissimo. Per quanto riguarda il futuro l’intenzione è quella di continuare a puntare su libri stranieri di grande qualità e lavorare su un gruppo affiatato e selezionato di scrittori e scrittrici italiani. Ci piacerebbe dar maggior spazio all’illustrato e alle graphic novel e poi c’è un’idea innovativa a cui io e Massimiliano Zantedeschi stiamo dedicando del tempo, ma è ancora troppo presto per parlarne. Un grazie di cuore per la tua disponibilità!



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28 di SERGIO BEVILACQUA

INTRODUZIONE Sono felice di questo spazio che mi consentirà, nei mesi a venire, di trattare (per coloro che, “cadendo” nella Rete, saranno “pescati” da questa rivista telematica) una serie di argomenti sul rapporto tra lettura e scrittura. Affronterò il tema passo passo, in quanto è complesso ed è insidioso, per diversi motivi, tra cui: • L’avvento dell’audiovisivo (radio prima, e poi cinema e televisione), che ha tolto ovunque alla lettura lo scettro dell’intrattenimento principale umano; • L’incedere della velocità a tutti i costi, che ha aperto la via all’abbandono della coltivazione dello spirito e della fantasia quieta; • La globalizzazione selvaggia nel mondo della cultura, che ha portato masse di umanità ad ascoltare testi (musicati) in lingue che non capiscono, a leggere traduzioni mal fatte che parlano di argomenti distanti, a emozionarsi per ambienti che nulla hanno a che fare con il proprio; • La situazione dell’editoria in Italia, che è viziata da un cartello di case editrici asfissiante, portatore di strategie opportunistiche e di orientamenti bugiardi, e che ha lasciato al lettore solo l’illusione della scelta; • La verità filosofica della metafora baudelairiana dello scrittore come ‘albatros’, dalle grandi ali ottime per il volo ma tanto d’intralcio per camminare per terra, che è particolarmente vera per lo scrittore italiano, privo di contatto reale con i suoi lettori e senza alcuna guida da parte di editori degni di questo nome; • Le nuove tecniche di lettura, che sono basate su strumenti tecnologici incompatibili con la condizione ideale e unica della lettura di una letteratura artistica. Buona lettura! Prosciugate i mari, spianate le montagne! Sia oscurato il sole. Giù i centri storici. Così, finalmente, distrutto il BEL Paese, gli italiani leggeranno di più. Non sfoglieranno, soltanto, distrattamente, un libro sotto l’ombrellone. In spiaggia, oltretutto, anche l’e-ink dei migliori lettori di e-book vacilla di fronte al solleone e, con orrore nostro, l’oggetto ambìto rischia di insabbiarsi, peggio di Tex Willer (dell’italianissimo Bonelli, più grande del vero Far West, alla stregua di Sergio Leone ed Ennio Morricone) nel deserto


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americano in Sangue Navajo. Mica te la cavi con un bel soffio, come si è sempre fatto con l’umile, dolce libro che se ti cade sorridi: se si bagna il “lettore di e-book”, salta un pezzo di tredicesima, e cospicuo. Per avere cosa, poi, cari i miei lettori? Lettori… che fastidio dover precisare che si tratta di “umani” e non di windowsiane, androidiane, ipadiane creature tecnologiche. Cari lettori umani, dicevo, ricordiamo insieme Blanchot: la letteratura è “infinito intrattenimento”. Allora, va bene che siamo degli umanisti, e che io per primo gongolo a guardare nella mia biblioteca il Grande Dizionario Italiano del Salvatore, Battaglia e anche un po’ della lingua italiana, ma fino qui credo che in aritmetica ci arriviamo anche noi affabulatori: quanto fa infinito per 1000? Sempre infinito. Mi dite allora che senso ha tenere in tasca 1000 romanzi, che si sperano ottimi, nel vostro Kindle quando ciascuno è un intrattenimento infinito, e lo diciamo noi che leggiamo davvero, non bulimici o anoressici, bensì normali fruitori del buon prodotto letterario, nella sua profonda sostanza? Mille romanzi in tasca sono un delirio da consumisti beceri. Un libro in tasca non si rompe e più di uno, ah che bello!, non ci sta. Un buon libro in tasca è pur sempre l’infinito. Un libro in tasca è come un cane a casa, lui ti ama. Come il cane, se cade non si rompe. Continua a guardarti e ad amarti anche quando l’hai finito. Sta lì appoggiato in quiete, conservando le sue pagine tra cui hai volato nell’ovunque senza confini della fantasia umana, la quale comincia proprio dietro l’angolo, dove la fisica della materia ci dice nisba (come Cassola, lui sì!), cioè al 6 % (6 e non più 6, impossibile andare oltre, dicono gli scienziati) del nostro anelito di conoscenza. E allora, che gli italiani leggano di più…? Non vadano al mare in montagna al sole si chiudano in casa in poltrona come se fuori ci fosse il freddo, la nebbia, la pioggia, la neve, il nulla d’America o il poco d’oltralpe… Impossibile! Noi che lavoriamo sull’uomo per il suo piacere di crescere, sappiamo che il suo piacere è però indispensabile. Che gli italiani allora leggano MEGLIO. Cioè leggano chilometro zero. Leggano autori italiani. Portati per mano da editori italiani. Che mostrano, sognano, raccontano quelle cose italiane che il mondo ha sempre amato, invidiato e che “i cattivi” vorrebbero farci dimenticare. Leggano utilizzando il libro di carta (ecosostenuta), perché è il palcoscenico dell’esperienza letteraria, un intero teatro che ti porti in tasca. Un solo teatro, e buono! Oppure, nessuno e centomila, che sono pirandellianamente circa lo stesso. No! Noi non dimenticheremo nulla del nostro Bel Paese. Manderemo la sua immagine, di bellezza e di storia, di complessità e di valore, in giro per il mondo come è sempre stato in tutti i secoli, escluso questo infausto mezzo secolo di colonizzazione subdola e, soprattutto, gli ultimi venti anni di abbandono. E voi cosa ne pensate? Siete d’accordo? Scriveteci la vostra opinione a: redazione@speechlessmagazine.com

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DIVAG A ZIO NI SUL CONCETTO DI TRASGRESSIONE E SULL’ITALICO DESTINO

di LENI REMEDIOS Mi sono sempre chiesta che cosa provassero quegli scienziati che, su apposite navicelle, vengono calati nel profondo degli abissi a scopi esplorativi. Recentemente mi è capitato di vedere un documentario e studiavo con ansia e ardore gli occhi di coloro che dall’interno di questo cubicolo si trovavano avvolti dalle acque nere, separati da esse solamente grazie a uno spesso strato di vetro. Mi chiedevo se anche lo scienziato dal sangue più freddo, quello a cui la mano non trema mai, in una situazione simile non abbia anch’egli un sano guizzo di terrore. Ecco cosa cercavo nei suoi occhi. Forse anche a lui passa per la testa il dubbio che, nonostante le innumerevoli prove di laboratorio, nonostante la fede granitica verso madre scienza, prima o poi quel vetro multitestato si crepi. E che quelle adorabili creature – mostri dotati di denti affilati e corpi fluorescenti – si accaniscano finalmente contro l’umano invasore. Come osi, tu, varcare la soglia e penetrare nel nostro mondo? Quelle terrificanti bestioline che da bambina osservavo con autentico orrore – e una buona dose di eccitazione – nel primo volume dell’enciclopedia illustrata di famiglia, sotto la voce abissi, creature degli. Mi sono chiesta anche: c’è un momento in cui il suddetto esploratore, una volta superata l’ebbrezza del momento, venga colto dallo spasimo di tornare subito in superficie? Un improvviso, folle anelito a tornare al sicuro: far schizzare la navicella come una scheggia impazzita, fuggire dalle acque nere, via verso la luce. La saggezza popolare dice che per riprendere a salire bisogna prima aver toccato il fondo. Ma quand’è che il fondo è fondo? Mi dicono che la nave da crociera si muove, fra un po’ potrebbe sprofondare negli abissi. Quelli veri, fuor di metafora. E se rimanessimo nella metafora? Noi siam gente di lettere, abbiamo radici in terra e testa fra le nuvole, raccogliamo vibrazioni e le trasformiamo in pensieri. Le analisi giornalistiche, sociologiche etc etc le lasciamo volentieri ad altri, a chi le sa fare. In molti mi dicono anche un’altra cosa: che la nave da crociera, cosí paurosamente inclinata sulle acque, quasi una triste colossale creatura agonizzante che invoca pietá, sia la perfetta metafora - un’altra - del nostro paese. Il nostro paese. Il mio paese. Da emigrata sospiro tristemente a guardarlo affondare, declassare, impoverire. Quanti verbi consumati nel tritacarte mediatico.

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attualità Ma l’affondamento-inabissamento non è certo iniziato l’altro ieri. Le piaghe innumerevoli dell’italico stivale sono appunto innumerevoli e hanno radici profonde. Non sta a noi analizzarle tutte. Quel che ci preme è quel che si respira nell’aria, quel che sentono e soffrono i singoli, le palpitazioni. Parto da un esempio di cultura giovanile, che cosí spesso è uno specchio dei tempi. A fine anni settanta, qui nel Regno Unito, in tutto il paese imperversava l’urlo impertinente del punk. “I am an antichrist, I am an anarchist” urlava nel microfono Johnny Rotten, Sex Pistols. Era acerbo, era disordinato, ma diceva qualcosa: da una parte c’erano quel che si chiamano le istituzioni, le regole, le cosiddette autoritá costituite. Dall’altra una grande voglia di rompere quelle regole, guidati da una forte, per quanto sommaria, volontá di cambiamento; in una parola: trasgredire. Un ipotetico Johnny Rotten italico dei nostri giorni (lo so, mettetevi pure a ridere) cosa avrebbe da dire? Facciamo ordine. Trasgredire: dal latino transgredior, andare oltre. Ora, il discorso è molto semplice: trasgredire vuol dire andare oltre, oltrepassare i confini. Se tu non hai più confini, non c’è più trasgressione. E nemmeno il gusto di trasgredire, quello che animava i suddetti punk. Rimane solo il dis-gusto. Tutto perde di appetibilità. Ma questo è solo un corno del problema. Tutto prende una patina di pericolositá. Tutto è permesso e permissibile. Ogni azione, ogni pensiero. Lí dove non ci sono limiti e suddivisioni di alcun tipo, non c’è più qualcosa di maggiormente importante, di prioritario rispetto ad altro. Tutto è edulcorato in questa nebbia di permessibilitá. La mente umana e l’animo umano hanno molte pericolose predisposizioni. Una di queste è il fatto di abituarsi a tutto, il che non è necessariamente un male: ma la mente umana, dicevo, si abitua, gradualmente o meno, proprio a tutto, anche all’indicibile. Nel processo di edulcorazione, in cui la nebbia avvolge i nostri cervelli e il nostro sentire, presto si giunge ad un altro livello, quello della saturazione. Di fronte alle follie o alle vere e proprie efferatezze umane dapprima compare un sussulto di indignazione poi, complice il silenzio del resto della compagine umana e il reiterarsi continuo di quelle efferatezze o banali follie quotidiane, il moto indignatorio si affievolisce e si comincia a percepire una sorta di abitudine. Lo sanno bene coloro che hanno indirettamente appoggiato le dittature nazi-fasciste, riparatisi più o meno consciamente dietro il paravento della mera esecuzione degli ordini. Lo sanno bene, andando a un esempio completamente diverso, gli spetattori televisivi italiani, che hanno assistito negli ultimi venti o trent’anni un graduale imbarbarimento del linguaggio televisivo, dove in particolare ci si è “abituati” al regolare uso della figura femminile

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come mero, muto richiamo sessuale, fino al punto di non suscitare più scalpore. Aggiungiamo un livello ulteriore. Alla progressiva abitudine, saturazione e spegnimento degli ultimi residui di capacitá critiche si aggiunga pure il completo rovesciamento del valore: cioè, quel che prima veniva chiaramente individuato come oltrepassamento del limite, l’esempio negativo da evitare, viene assurto a modello. Esattamente come la punta estrema dell’iceberg che sta sotto acqua, negli abissi, tanto per tornare alla metafora. Come se una mano gigantesca avesse afferrato l’iceberg e l’avesse rovesciato. Di fronte alla ragazza seminuda che ancheggia dinanzi alle telecamere nelle ore preserali, non è indignazione il sentimento prevalente, nè rabbia nè tantomeno – alè! – un sussulto di dignitá: è l’ammirazione, la volontá di emulazione, la consapevolezza che quella donna lí ce l’ha fatta e quindi devo fare anch’io allo stesso modo. Di fronte a un’alta carica dello stato che ha conquistato e si mantiene la posizione grazie a furberie e/o ladronerie, l’emozione principe è l’invidia e, di nuovo, l’ammirazione. Senza vergogna alcuna. Ma cosa è successo? I bambini hanno un bisogno vitale di avere dei limiti: checchè ne pensino i sostenitori delle linee educative più lassiste, il bambino ha bisogno della regola e dell’autoritá . Quando compaiono i primi episodi di aggressivitá nei bimbi, ti insegnano a insegnar loro (eh sí, non ci s’improvvisa educatori!) a non fare di testa propria: se subiscono un torto da parte di un compagno, che sia un calcio o una botta, non devono replicare indietro, bensí devono imparare ad andare dall’insegnante e comunicare a lei/lui cosa è successo. Questo si chiama rimettersi nelle mani dell’autoritá. Perfetto. Ma che succede se il torto subito viene impartito dall’autoritá stessa? Che succede se la comunitá fornisce, nei suoi membri rappresentativi, modelli di “rottura delle regole”? Che succede se lo stato con una mano protegge i privilegi della sua casta e con l’altra perseguita o abbandona, a seconda del caso, i suoi più onesti cittadini, quelli che attoniti vedono l’iceberg rovesciarsi? Mamma, da chi vado io se è la maestra a darmi un calcio nel sedere?

32 Nella tragica vicenda, “che purtroppo ben simboleggia il nostro paese”, c’è un dato

rilevante da sottolineare: il fatto che tutti, dico tutti, abbiano pensato alla stessa metafora, indica che c’è un comune sentire. C’è quindi una consapevolezza dell’affondamento. E quindi? Detto questo, perseveriamo, con la nostra folle abitudine mentale, a sfiorare coste, a intraprendere percorsi non autorizzati, a far sfoggia del nostro oltrepassare le regole, nel pressapochismo che tanto ci contraddistingue, sull’onda del “non si potrebbe fare, peró...”? C’è’ un sano rigurgito, una spinta feroce e istintiva a venir via dal nero abisso, verso la luce?


attualità In un’epoca e societá come quella nostra, dove tutto è trasgressione e quindi nulla lo è, dove l’anarchia (non nel senso storico del termine, ma in senso di assenza di regole) è la regola summa, non è che la vera trasgressione è quella di volere, pretendere, dei limiti? Il paradosso più eclatante, nel parossismo lassista dei nostri tempi, è che il vero trasgressivo è quello che vuole le regole. Mi par di capire che i giovani italiani di oggi, molto lontano dai punk inglesi o anche italiani degli anni ’70, abbiano una gran voglia di stabilitá. Altro che destabilizzare, a sovvertire le regole non servono i punk, “bastano” i vari gangli di potere (non solo politico) sparsi nella società. Chiedono sicurezza per il proprio futuro. Chiedono di emergere dalle nebbie, chiedono che ci siano dei percorsi rispettati e che li rispettino tutti, per primo chi le regole le fa. Chiedono di poter lavorare sui propri progetti, dopo aver speso anni in fatica e formazione. Etc etc, l’elenco sarebbe ancora lungo. Io lo so che queste persone ci sono: sono quelle che ancora si indignano, che ancora lottano per un grammo di giustizia, personale o collettiva. Ma la maggior parte di loro son sole e lo stupore di fronte all’iceberg rovesciato si è tramutato in gelida, triste rassegnazione. L’autoritá costituita si è tramutata in caotica, sfacciata anarchia costituita e i singoli si piegano inevitabilmente nel loro solipsismo, nel timore forse che una lotta solitaria contro il mostro di ghiaccio porti alla follia, come tanti novelli Don Chisciotte. Mi dicono anche che stia iniziando un sussulto, che più di qualcuno stia tentando di uscire dal proprio guscio di disperato, rassegnato solipsismo . Ma quante generazioni occorreranno per sovvertire questo gigantesco dramma culturale? Non mi preoccupano tanto le condizioni economiche del paese, quanto la famosa deriva culturale che ci sta alla base. Come fai ad estirpare in poco tempo abitudini, pensieri, comportamenti che sono entrati come virus nelle nostre menti? Quale tremendo sforzo bisogna fare? Io mi occupo di letteratura gotica e affini, sono avvezza a sentimenti e sensazioni come paura, orrore, senso di incertezza. Noi scribacchini di storie siamo ben consapevoli che la vita reale è la fonte primaria e insuperabile di ogni tipo di orrore e di follia. I brividi più grandi li ho nel vedere la nave sul ciglio dell’orrido. Pronta per una lenta, inesorabile discesa nell’abisso, in un perpetrarsi interminabile della metafora. Vorrei avere una smentita, la anelo. Vorrei qualcuno che mi contraddicesse, in maniera veemente ed appassionata. Vorrei vedere l’esploratore risalire sereno in superficie, dopo essere stato negli abissi.

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fantasy di GIULIA MARENGO

vivere e morire

a King’s Landing A GAME OF THRONES

LIBRO PRIMO DE LE CRONACHE DEL GHIACCIO E DEL FUOCO

Era il 1996 quando George R. R. Martin esordì nelle librerie con il romanzo A Game of Thrones, il primo capitolo di una saga destinata a cambiare per sempre la storia del fantasy. E di certo non avrebbe potuto immaginare che diciotto anni più tardi il volume sarebbe stato ancora in cima a tutte le classifiche di bestseller al mondo. Un risultato, per un libro fantasy, che nessuno avrebbe potuto prevedere, e che riempie i cuori degli appassionati – e degli autori stessi – di speranza. Eppure, Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco (A Song of Ice and Fire) non è la saga cui ci hanno abituati Robert Jordan o Terry Goodkind, volumi dove a farla da padrone sono i viaggi e la ricerca di qualcosa – un manufatto, un potere – destinato a risolvere la situazione e consegnare la vittoria nelle mani dei protagonisti. Le Cronache di Martin sono molto di più. Palpitanti di magia e portenti, percorse da una corrente sotterranea di potere, ambizione, desiderio di conquista. Ambientate in un continente dove le stagioni durano anni, e un oscuro nemico minaccia le piccole vite di quegli uomini che stolti si affannano a strapparsi terre e onori, e la stessa vita, ciechi al pericolo che grava su tutti loro. A Game of Thrones è il primo volume di una serie che in lingua originale comprende sei volumi già scritti e altri tre, presumibilmente, ancora in fieri. E sebbene l’autore abbia abituato i lettori a lunghe attese fra un romanzo e l’altro – a volte anche di anni

«Cos’è l’onore, confrontato con l’amore di una donna? Cos’è il dovere, di fronte alla sensazione del tuo figlio neonato fra le braccia... o il ricordo del sorriso di un fratello? Vento e parole. Vento e parole. Siamo soltanto umani, e gli dei ci hanno modellati per l’amore. Questa è la nostra gloria più grande, e la nostra più grande tragedia». (Game of Thrones, G.R.R. Martin)

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35 –, l’aspettativa è così alta per ogni nuovo capitolo da trasformare l’evento in un avvenimento epocale, tale da essere paragonabile all’ansia che soleva precedere l’uscita di ciascun Harry Potter. È difficile, se non impossibile, descrivere in poche righe che cosa, esattamente, renda l’universo creato da Martin così affascinante. Immaginiamo un mondo complesso popolato da genti da mille diverse culture ma legato strettamente da una storia millenaria. Un continente, Westeros, dove la magia sta svanendo, e dei draghi leggendari che un tempo solcavano i cieli è rimasta soltanto la polvere delle leggende. Una terra minacciata da creature di ghiaccio e di morte, tenute lontane solo dal coraggio di uomini

consacrati al dovere che mettono ogni giorno a repentaglio la propria vita difendendo con il sangue l’ultimo baluardo della civiltà. Un mondo dove sedere sul trono è tutto, e dove niente – nemmeno la famiglia, o l’onore – divide il regno dalle dita avide dei suoi pretendenti. A Game of Thrones si apre nelle fredde lande oltre la Barriera, dove ombre oscure attendono il giorno in cui i Sette Regni saranno messi a ferro e fuoco. Ma l’abilità di Martin ci riconduce presto a Winterfell (“Grande Inverno”, in italiano), il castello da cui Eddard “Ned” Stark difende il Nord, su ordine del re Robert Baratheon. Ned è un padre di famiglia, e nello stesso giorno in cui giunge notizia che il re, accompagnato dall’algida regina Cersei e dal gemello di lei Jaime Lannister, sta giungendo a Winterfell per una visita; il figlio bastardo di Ned, Jon Snow, si imbatte in una cucciolata di metalupi. Molto più feroci e possenti dei lupi tradizionali, i metalupi sono creature leggendarie e, sorprenden-


fantasy temente, vi è un cucciolo per ciascun ragazzo Stark. Anche per John, che da quel momento sarà seguito ovunque da Ghost: il cucciolo albino dagli occhi di sangue. Ned Stark ancora non sa che il re giunge con una proposta. Quella di raggiungerlo a King’s Landing, la capitale, e diventare Hand of the King, la Mano del Re, ovvero il cancelliere del reame. È una richiesta, quella di Robert, che Ned accoglie con cuore pesante: insieme a essa, arriva la notizia della morte misteriosa di John Arryn, la precedente Mano del Re, che per i due vecchi amici ha rivestito da sempre il ruolo di padre. Nubi minacciose si addensano sulla

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famiglia Stark, rese ancora più terribili da minacce e segreti sconvolgenti, che alcuni per nascondere sarebbero anche disposti a uccidere. Non a caso, il motto degli Stark è “Winter is coming”: “l’inverno sta arrivando”. E così, vicino alla Barriera, la notte è oscura e piena di terrore. Dall’altra parte del continente, la giovane Daenerys Stormborn (“Nata dalla tempesta”) ultima discendente della dinastia dei Targaryen sta per andare in sposa al possente khal Drogo, capo supremo di una tribù di migliaia di guerrieri feroci. L’ultimo re Targaryen, Aerys il Folle, padre della fanciulla, è stato spodestato e ucciso nella rivolta che ha posto Robert Barathe-


on sul Trono di Spade. E ora Daenerys brama il suo regno e la sua vendetta. George R.R. Martin ci immerge in una terra in cui sangue, odio, vendetta si intrecciano a intrighi e omicidi efferati. Il clangore delle lame e le grida della battaglia si mescolano al fruscio serico delle vesti delle dame, fra le cui pieghe si nascondono stiletti d’acciaio di Valyria e volontà altrettanto ferree. L’affresco è complesso e multicolore, così ammaliante proprio perché tra le pagine troviamo coraggio e sacrificio, ambiguità e mistero. La scelta di Martin di dedicare ciascun capitolo al punto di vista di un diverso personaggio si rivela vincente per la straordinaria capacità di tratteggiare figure vibranti nella loro unicità.

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Eddard Stark

Tyrion Lannister


fantasy Niente personaggi piatti. Ciascuno di essi si porta sulle spalle il proprio fardello fatto di sofferenze, rimpianti e delusioni. E tutti sono ricchi di contraddizioni perché, come le persone reali, risplendono delle sfaccettature contrastanti che li rendono tanto vivi. Eddard Stark è un uomo d’onore, è vero, eppure per quell’onore è disposto a sacrificare la sua felicità e i suoi affetti. Non scende a compromessi con la propria coscienza, e questo è il suo maggior limite. Jaime Lannister è orgoglioso, ed egoista, ma anche la sua crudeltà è motivata dal desiderio di proteggere, in un modo distorto e oscuro, coloro che ama. Su tutti emergono l’acume e lo scanzonato umorismo di Tyrion Lannister, il fratello, nano e deforme, di Cersei e Jaime. È il lato corroso della scintillante aura dorata dei gemelli; tuttavia si eleva più

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alto di loro per la sua rutilante, sfrontata, commovente, feroce umanità. Ed è anche difficile identificare i personaggi secondari, proprio perché ognuno di essi, anche il più umile, brilla con una tale forza abbagliante da essere sempre protagonista. A Game of Thrones è l’emozionante prologo a una folle corsa in un mondo dove la morte è sempre in agguato, e il coraggio e l’onore raramente vengono ricompensati. La politica e i maneggi di potere nulla possono contro la sensazione che da qualche parte, negli angoli più remoti di Westeros, la magia si sta risvegliando, e che portenti misteriosi si preparano a piombare sulle vite ignare di coloro che sono troppo distratti dalle proprie meschine ambizioni da accorgersi di un pericolo ben più grande. L’autore lascia, deliberatamente, molti nodi narrativi irrisolti, e solo alcuni di essi troveranno spiegazione nei volumi seguenti. Altri interrogativi - “chi sono

EDIZIONI ITALIANE > Il Trono di Spade (Mondadori, 1999) > Il grande inverno (Mondadori, 2000) > Il regno dei lupi (Mondadori, 2001) > La regina dei draghi (Mondadori, 2001) > Tempesta di spade (Mondadori, 2002) > I fiumi della guerra (Mondadori, 2002) > Il Portale delle Tenebre (Mondadori, 2003) > Il dominio della regina (Mondadori, 2006) > L’ombra della profezia (Mondadori, 2007) > I guerrieri del ghiaccio (Mondadori, 2011) Nel 2011 Mondadori, in concomitanza con l’uscita della serie tv, ha deciso di raccogliere i volumi in due nuove edizioni, che rispettano con più accuratezza quelle originali.


CURIOSITÀ I MOTTI DELLE FAMIGLIE NOBILI DEI SETTE REGNI Ciascuna delle nobili case dei Sette Regni reca con orgoglio un motto. Eccone alcuni: Casa Stark: “Winter is coming (L’inverno sta arrivando)” Casa Tully: “Family, duty, honor (Famiglia, dovere, onore)” Casa Baratheon: “Our is the fury (Nostra è la furia)” Casa Lannister: “Hear me roar (Udite il mio ruggito)” Casa Arryn: “As high as honor (In alto quanto l’onore)” Casa Martell: “Unbowed, unbent, unbroken (Mai inchinati, mai piegati, mai spezzati)” Casa Tyrell: “Growing strong (Cresciamo forti)” Casa Targaryen: “Fire and blood (Fuoco e sangue)” Casa Greyjoy: “We do not sow (Noi non seminiamo)”

le tre teste del drago?”, “di chi è figlio realmente Jon Snow?” - attanagliano i fans da quasi vent’anni, e il dubbio ha dato vita ad appassionanti speculazioni in giro per la rete, dove fioriscono i siti web dedicati alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. George R.R. Martin è riuscito a infondere la vita nelle sue pagine, quella vera, dove il lieto fine non è mai scontato, e forse mai ci sarà. Martin, però, è anche un uomo saggio perché sa quanta parte di quella vita, la nostra, sia intessuta di mondi fantastici. «Il migliore fantasy è scritto nel linguaggio dei sogni. È vivo come lo sono i sogni, più vero della realtà... per un momento, almeno... quel lungo, magico momento prima del risveglio».

CITAZIONI «Mai dimenticare chi sei, perché di certo il mondo non lo dimenticherà. Trasforma chi sei nella tua forza, così non potrà mai essere la tua debolezza. Fanne un’armatura, e non potrà mai essere usata contro di te» (Tyrion Lannister) «Udite le mie parole, siate testimoni del mio giuramento. Cala la notte, e la mia guardia ha inizio. Non si concluderà fino alla mia morte. Io non avrò moglie, non possiederò terra, non sarò padre di figli. Non porterò corona e non vorrò gloria. Io vivrò al mio posto, e al mio posto morirò. Io sono la spada delle tenebre. Io sono la sentinella che veglia sul muro. Io sono il fuoco che arde contro il freddo, la luce che porta l’alba, il corno che risveglia i dormienti, lo scudo che veglia sui domini degli uomini. Io consacro la mia vita e il mio onore ai Guardiani della Notte. Per questa notte e per tutte le notti a venire» (Giuramento della Night’s Watch – Guardiani della Notte) «Un uomo può ancora essere coraggioso, anche se ha paura?» «È l’unico momento in cui un uomo può essere coraggioso» (Brandon ed Eddard Stark) «Sulla terra non c’è creatura così terrificante che un uomo veramente giusto» (Lord Varys)


fantasy «Si tratta di una storia fantasy che sfida le aspettative, per cristallizzarsi infine in unmondo scomodamente simile a quello in cui viviamo, più che a quello verso cui vorremo fuggire.»

I Soprano nella Terra di Mezzo. Questo il sunto del produttore David Benjoff della serie TV tratta dal capolavoro di George R.R. Martin, riferendosi probabilmente alla trama densa (Adam Serwer, The American Prospect) di intrighi e alle ambientazioni fantasy di bellezza struggente. Non è difficile immaginare l’esultanza degli appassionati, quando, già anni orsono, trapelarono le prime indiscrezioni su una serie tv ispirata alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. Quando la HBO ha dato l’annuncio ufficiale, il fandom è letteralmente impazzito di gioia. La serie ha esordito sul panorama statunitense il 17 Aprile 2011. La puntata pilota ha riscosso un tale successo che la seconda serie è stata opzionata appena due giorni dopo. Ciascuna serie conterà dieci episodi, e coprirà interamente uno dei volumi delle Cronache. La narrazione è

estremamente fedele al testo di Martin, anche grazie alla partecipazione dell’autore. A differenza di altre produzioni tratte da opere fantasy, infatti, lo scrittore non solo non è stato estromesso dalla sceneggiatura, ma ha anche firmato per poter scrivere di suo pugno il testo di almeno una puntata a stagione. Grazie a un budget milionario (si mormora di 60 milioni di dollari), la serie offre allo sguardo dello spettatore i colori vivaci di un mondo lontano, quello di Westeros, ricostruito seguendo alla lettera la fantasia di George R.R. Martin in location suggestive disseminate fra Malta, Scozia, Marocco e Irlanda del Nord. La produzione è accurata al punto tale da offrire all’orecchio dello spettatore idiomi sconosciuti, come quello dei Dothraki, creato ad hoc con tanto di lessico e grammatica dalla Language Creation Society. Non si è davvero badato a spese. Tant’è che A Game of Thrones non ha nulla da invidiare per

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41 sonoro e scenografie a produzioni cinematografiche milionarie come Il Signore degli Anelli. E, naturalmente, è stato chiamato a calcare le scene un un cast d’eccezione. Sulle scene, infatti, si avvicendano attori del calibro di Sean Bean che dismessi i panni di Boromir di Gondor , entra con facilità in quelli di Eddard Stark. Oppure Iain Glen, già attore di teatro, che offre il volto e uno sguardo tormentato a Ser Jorah Mormont. E che dire Peter Dinklage, sfavillante nelle vesti di Tyrion Lannister? Si è portato a casa l’Emmy per il migliore attore non protagonista, e mai onorificenza fu più meritata. Particolare attenzione è stata posta sulle figure femminili. Lontane da essere semplicemente personaggi comprimari, le donne nella serie rivestono un ruolo di spicco, lasciando da parte le graziose movenze in favore di acume, spregiudicatezza, e volontà d’acciaio. E se talora gli appassionati potrebbero storcere il naso nel vedere alcuni dei protagonisti invecchiati di qualche anno, per obbedire ai regolamenti relativi alle ore che i minori possono trascorrere sul set; se certi personaggi sono risultati vagamente snaturati – in particolare la figura di Renly Baratheon, il fratello del re Robert –, ne ha guadagnato probabilmente la maggiore comprensibilità della trama, per quegli spettatori che si sono avvicinati ai Sette Regni grazie alla serie. Per poter adattare la storia al piccolo schermo si sono resi necessari numerosi adattamenti, che talora hanno richiesto sacrifici: personaggi dal ruolo ridotto, o eliminato; scene appena accennate, e non mostrate nella loro dettagliata interezza. La critica ha acclamato la prima stagione di A Game of Thrones all’unanimità, definendola uno specchio che costringe lo spettatore a riconoscere che, a dispetto dell’ambientazione fantasy, la malvagità esiste, e che la vita richiede una lotta continua contro il fato e l’oscurità. Ed è per questo che è facile identificarsi con il dolore e il trionfo, alternativamente, che percorrono la narrazione, rica-

mata con mano esperta grazie ai consigli del suo stesso autore. Quello che resta, tuttavia, è un rincorrersi di immagini e situazioni dall’atmosfera epica che fanno battere il cuore. A Game of Thrones riesce a risucchiare lo spettatore in un turbine di sensazioni che spaziano: dal desiderio spezzato di libertà di Bran, all’ambizione sfrenata di Cersei, alla sorda ribellione che cova nel cuore della piccola Arya. Fra lo squillare delle trombe dei tornei e il clangore delle spade, fra i sussurri e i bisbigli che si rincorrono nei sotterranei delle fortezze, solo un capriccio del destino separa i protagonisti dalla vita... o dalla morte.


fantasy

Rubrica a cura di MIRIAM MASTROVITO I romanzi di genere fantastico, molto spesso, sono ‘biglietti’ che ci consentono di viaggiare alla scoperta di nuovi mondi: terre sconosciute, dimensioni parallele, città incantate si annidano tra le pagine, attendendo solo di essere esplorate. Questa rubrica intende proporre un possibile itinerario nei luoghi dell’immaginario, attraverso la lettura di alcuni libri che hanno il potere di trasportarci altrove. Pronti per l’avventura? Allora slacciate le cinture di sicurezza, si parte! Prima destinazione: l’Illinois degli ’70. Precisamente siamo diretti in un paesino chiamato Prairie Bluff. In una radura – confinante con una foresta rigogliosa – si erge un piccolo Bed&Breakfast. All’apparenza un comune luogo di ristoro. Una semplice sbirciatina all’interno basterà, però, a farci capire che si tratta di un posto davvero fuori dall’ordinario. La proprietaria Anne Marie Entwhistle accoglie, infatti, clienti molto particolari. Non si sa da dove vengano, né perché capitino proprio lì. Si presentano come donne comuni, abbigliate secondo la moda del tempo. Eppure, i loro nomi hanno qualcosa di familiare e un rapido scambio di battute è sufficiente a dissipare qualsiasi dubbio sulla loro identità. Rossella O’Hara, Madame Bovary, Franny Glass, Blanche DuBois, sono tutte eroine saltate fuori dalle pagine di romanzi famosi. Ciascuna di loro si trova a un punto cruciale della sua storia e ha bisogno di conforto, prima di sparire così come si è materializzata. Anne Marie si mostra sempre discreta, offre: tè, comprensione e biancheria pulita, badando bene a non rivelare mai le informazioni di cui è in possesso, avendo letto i libri. Interferire con il destino delle protagoniste potrebbe essere, infatti, pericoloso.

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Sua figlia Penny – di soli tredici anni –, conosce bene questa


regola. Così come quella di non recarsi mai nel bosco ai margini della prateria. Giacché nel bosco, si sa, si possono fare cattivi incontri. Infrangere le regole, però, è nel DNA delle ragazzine vivaci e Penny non fa eccezione. Potremo, così, seguirla durante un’escursione notturna in quel luogo proibito e restare senza fiato nel ritrovarci al cospetto di un vero re irlandese con tanto di spada e cavallo. Chi è quell’uomo? È il cattivo di qualche storia dimenticata? Quali misteri cela davvero il bosco? Per scoprirlo, dovremo addentrarci in un territorio che – per sua natura – rievoca la magia delle favole e, nel contempo, incarna le nostre paure ancestrali. Una dimensione in cui possono celarsi pericoli ma che può rivelarsi anche una via di fuga da certi orrori della nostra realtà. Quando Penny verrà ritrovata e rinchiusa nell’Unità – un manicomio minorile –, avremo occasione di esplorare una prigione al cospetto della quale il bosco ci apparirà più rassicurante. A quel punto, il nostro viaggio assumerà i contorni di un percorso simbolico che ci indurrà a interrogarci sui limiti dei comuni

schemi di pensiero. Giacché la negazione dell’incomprensibile – in nome di una razionalità che vuol prevalere a tutti i costi – può trasformarsi, a volte, in una minaccia alla nostra stessa libertà. Non mancheranno, inoltre, occasioni per brevi soste nel misterioso universo della complessa psicologia femminile. Se desiderate approfondire o,semplicemente, tornare a visitare i luoghi protagonisti di questa breve escursione non vi resta che immergervi nella lettura de Il bosco delle storie perdute di Eileen Favorite (Elliot Edizioni). Un romanzo in cui i sogni sono tangibili.

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LARA MANNI di STEFANIA AUCI

La bambina nera Dal 17 febbraio è disponibile il nuovo romanzo scritto da Lara Manni: Tanit, edito da Fazi Editore. Tanit è il capitolo conclusivo della trilogia iniziata con Esbat e proseguita con Sopdet. Tanit giunge in un momento particolare del fantasy italiano: una fase di crisi in cui il fantastico made in Italy non ha ancora compreso se sia più conveniente arenarsi lungo le spiagge del paranormal di marca statunitense o se, invece, non sia grande e forte abbastanza da poter camminare sulle proprie gambe per cercare strade nuove e insolite.

Titolo: Tanit - La Bambina Nera Autore: Lara Manni Editore: Fazi - Collana Lain Data di pubblicazione: 17 Febbraio

Tanit – e la trilogia completa della Manni – diPagine: 370 mostra che un altro fantastico è possibile. In Italia ISBN: 9788876251139 vi è, sicuramente, poco coraggio da parte degli ediPrezzo: € 16,00 tori: ciò che non rientra nel mainstream è guardato con sospetto, accettato soltanto se porta una firma anglosassone, poiché già “rodato”. Gli editori – pochi – che investono sulle firme italiane di fantastico lo fanno perché motivati dalla bontà del testo o per l’appeal della storia. Sotto quest’aspetto la trilogia si segnala come una delle saghe più interessanti e originali degli ultimi anni. L’universo letterario scaturito dall’immaginazione dell’autrice ha una fisionomia peculiare, in cui gli umani – solo alcuni – sono in grado di comunicare con la dimensione dei demoni, e nel quale la fantasia diviene tangibile e pericolosa. Due sono i personaggi essenziali tra i demoni: Yobai e Hyoutsuki. Accanto a loro una dea, la Signora del Caos, dotata di molti nomi. Per tutti, uno: Axeiros. Tra gli umani, solo alcuni sono in grado di aprire le porte di un mondo parallelo al nostro, popolato da creature magiche e pericolose: Tolkien, Poe, Lovecraft, e poi ancora i residenti di Villa Diodati, dove nacquero Frankenstein e Il Vampiro di Polidori, fino a giungere a Stephen King. Artisti, soprattutto scrittori, che con la loro immaginazione sono in grado di mettere in contatto le diverse dimensioni, poiché possiedono una “chiave”, la capacità di immaginare e narrare le storie, che mette in contatto il mondo degli dei con quello degli uomini. E come loro è Ivy, un’adolescente che lotta disperatamente per trovare il proprio posto nel mosaico dell’esistenza e, nello stesso tempo, per mantenere viva e pulsante l’energia che le permette di vivere guardando oltre i confini del mondo che gli altri esseri umani conoscono. La sua chiave di lettura è la fantasia. In Tanit, la scacchiera in cui i personaggi hanno agito è a un punto di rottura. Axeiros


fantasy di Tolkien e di Poe) rendono Tanit una vera delizia per gli amanti del genere. Da Amleto a Stephen King, il lettore viene trasportato in un universo che poco ha a che fare con la produzione letteraria fantastica che, per adesso, affolla gli scaffali delle librerie. È un romanzo per un pubblico adulto: non per scene di sesso e di violenza, quanto per la ricchezza e la profondità dei contenuti, poco frequenti negli urban fantasy cui il pubblico giovane e non si è assuefatto. L’autrice si è concentrata sulla resa psicologica dei personaggi, mettendo da parte i facili sensazionalismi legati a una protagonista adolescente per creare, invece, il ritratto di una ragazza tormentata da quello che per lei è un dono e una maledizione, che le ha regalato un amore che non è di questo mondo.

è pronta a tutto pur di proteggere se stessa e il suo mondo, persino a devastare la vita di una donna che ha subito il dolore più atroce, ossia la perdita della figlia. Ivy tenta di ritrovare un equilibrio psicologico che pare lontanissimo. E accanto a lei, fanno la loro comparsa Brizio e Nadia: figure ambigue, che avranno un ruolo fondamentale nel futuro della ragazza. Dal Giappone all’Italia, da Venezia a Roma, l’ambientazione è realistica, dotata di un fascino sottile. Il volume è intriso di cultura fantastica che pesca sia nei classici del genere che nella televisione, ossia in quell’immaginario collettivo che è parte della cultura occidentale. Tanit è un libro complesso, ricco di riferimenti letterari, musicali, artistici. Non si tratta di una mera dimostrazione di bravura o di cultura fine a se stessa. Non vi è autocompiacimento quanto, piuttosto, la ricerca che è insieme un omaggio alla grande narrativa di genere. È un tessuto narrativo curato nei minimi dettagli. I particolari ricercati, l’inserimento di elementi legati alla grande tradizione del romanzo horror e fantastico (come nel caso

Ma Tanit è anche – e soprattutto – un libro sulla genitorialità. In questo romanzo doloroso e dalle tinte livide si parla di madri che perdono i propri figli e di madri che li rifiutano, di una ricerca di amore che è insita negli esseri umani. In una certa misura, quest’affetto totalmente gratuito può esser dato solo a se stessi: cosa ancor più forte e vera nel caso della donna e della maternità. Il figlio è qualcosa che una donna nutre e porta dentro, un riflesso della propria persona e, per questo motivo, il momento del parto viene vissuto come una separazione. Un lutto. La paternità, invece, è vissuta come trasmissione dei valori e degli affetti. Di quel patrimonio di conoscenza che rende un essere (umano e non) cosciente del proprio background. La sabbia dei demoni morti che avvolge il mondo è il retaggio di qualcosa che non è più ma che, nello stesso tempo, rappresenta la coscienza, il coraggio, la dignità. Tanit è anche un romanzo sulla rinuncia e sulla speranza. I protagonisti avvertono in maniera forte il bisogno di sacrificare qualcosa di sé, comprendendo che solo mettendosi in gioco in maniera piena possono raggiungere il proprio obiettivo, qualunque esso sia. I sacrifici rappresentano il dazio

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che la vita richiede per poter continuare: elementi estremi (come il taglio di capelli di Ivy) che garantiscono però la continuità dell’esistenza. La rinuncia è allegoria della morte: è necessario lasciare che il tempo scorra perché l’ordine naturale della vita possa riprendere forza. È attraverso la rinuncia che la speranza può trovare diritto di cittadinanza nel futuro dei personaggi, e non importa che si tratti di una speranza amara, figlia della desolazione. Si tratta del futuro, della vita che continua e si reinventa, come accade nel bellissimo e struggente finale del romanzo. Infine, una parola sullo stile. L’autrice ha abbandonato almeno in parte il suo stile iniziale che talvolta era duro, scabro. La scrittura non è più acerba e “arrabbiata” come accadeva in Sopdet ma corposa, armonica. Questo non significa un uso maggiore degli aggettivi – sempre ridotti al minimo sindacale – ma un uso sapiente del fraseggio che adesso è più lungo, elegante e fluido. Una scrittura figlia della maturità, forse anche di una consapevolezza maggiore dei propri strumenti espressivi. La narrazione procede in un crescendo morbido e insieme affascinante che porta il lettore per mano sino alle soglie della catastrofe, che lo seduce e lo avvince fino alle ultime pagine, dolorosamente liberatorie. Un libro che rimane dentro, Tanit: intriso d’amore, passione, paura e voglia di rinascere, malinconico e insieme potente. Che colpisce, emoziona, affascina e commuove fino all’ultima, struggente riga.


Debora Scarico Š 2012

[http://www.liberadicreare.it] [http://ippartist.blogspot.com] [https://www.facebook.com/pages/Debby-ART/242900935779690]

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racconto di LARA MANNI

È un dado? Batte le palpebre, una ragnatela grigia le scende sugli occhi, sembra uno stormo di uccelli in volo dentro le pupille. Liquefazione del vitreo, ha detto l’oculista. Succede dopo una gravidanza, beva molto, ha aggiunto, alzandosi per congedarla. Lei non ha osato chiedere altro e ha obbedito. Dunque, versa acqua nel bicchiere, lo vuota in un sorso, lascia che qualche goccia le scivoli sul mento, si stringe nella vestaglia rosa. Fa freddo, anche se i termosifoni sono accesi da un’ora. Sarà la mancanza di sonno, pensa. Il freddo sembra aumentare quando guarda la cosa che somiglia a un dado. Strizza gli occhi, si sforza di mettere a fuoco l’immagine. Ecco. Brilla come sale sul ghiaccio, sotto la lampadina della credenza. Un piccolo foro attraversa due delle sei facce. Come se nel buco dovesse passare un filo per appenderlo al collo. Sì avvicina, lo prende fra le dita. Su ogni faccia c’è la stessa lettera, e la lettera è la Elle. Elle come Liliana. Lilli. Io. Forse sta dormendo in piedi e questo è un sogno. Sono le cinque e mezza del mattino, dalla strada sale il rumore metallico dell’immondizia gettata nei camion. Lattine di coca cola, bottiglie di birra, pannolini sporchi. Montagne di pannolini, pensa Lilli. Sette al giorno per tre mesi, moltiplicato per tutti i bambini di questo quartiere. Sono stanca, pensa ancora. Le sembra che una mano delicata le accarezzi la

nuca, come per confermarle che è così, che è stanchissima, che dovrebbe riposare. Il biberon, forza. Prepara il biberon. Si riscuote. Ai gesti si è abituata, ormai le sue mani fanno tutto da sole. Apri il frigo, prendi il barattolo di latte in polvere, conta cinque misurini. Rasi, fai attenzione. Versa acqua di Fiuggi fino alla tacca, poi mescola bene perché non si formino grumi, poi… Il dado. Con il cucchiaino in mano, lo guarda di nuovo. È bianco come un osso, sembra sogghignare al centro esatto di un libro con la copertina gialla. Metamorfosi, Ovidio. Ritornerà Proserpina à la luce Per sententia del ciel Lilli scaccia via il ricordo. Non è il momento di pensare a Ovidio. Il problema è il dado. Gli oggetti piccoli sono pericolosi per una neonata. Metti che ci arrivi con la mano. Magari quando è sul seggiolone si sporge e lo stringe fra le dita e poi lo mette sulla lingua e, proprio mentre Lilli sta caricando la lavatrice, lo inghiotte. Diventerebbe viola. Poi nera. Poi. Aggrotta le sopracciglia, posa il cucchiaino, chiude il biberon con il tappo, lo agita. Non deve fare così. Lo ha promesso al ginecologo. Quando ha cattivi pensieri deve respirare a fondo, come per le doglie. Prepararsi una camomilla. Magari fare una passeggiata. “O andare dal parrucchiere, Lilli. Non sai quanto è importante prendersi cura di sé per una donna al primo figlio. Sono gli ormoni a provocare ansia: si chiama baby blues. Comunque, se arrivi al limite, c’è questo”. Il ginecologo aveva allungato

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verso di lei il flaconcino con scritto Lexotan. Lilli lo aveva guardato chiedendosi se era riservato a quelle come lei, quelle che dopo una scopata di Capodanno rimangono incinte e decidono di tenersi il figlio, senza un perché. O forse perché a trentacinque anni il tempo corre, e magari non ci sarà mai la persona giusta con cui scegliere i parati per la stanza del bambino e leggere il dottor Spock tenendolo aperto sopra la pancia gonfia. Forse alle donne sposate, alle donne con un uomo vicino, il flaconcino non lo danno. Respira a fondo. Pensieri inutili, riesce a dirsi al decimo respiro. I pericoli semmai, verranno dopo, quando Sara sarà più grande. A tre mesi il seggiolone è una conquista lontana. Comunque, toglierà di mezzo il dado. Ma da dove viene fuori? E il libro? Da quanto non legge Ovidio. Infatti questo è un testo di scuola, ha ancora il cellophane sulla copertina e persino l’etichetta Liliana Maggi 1 E. Dentro dovrebbero esserci le caricature della professoressa di latino fatte a matita e le frasi che le scriveva Giulia: “La nostra amicizia non morirà mai”. Bei tempi. Mette il biberon a scaldare. Vediamo. Ci dev’essere una spiegazione anche per il libro. Mi sono alzata a mezzanotte e non so come ho fatto a lasciare il letto. Sonno. Ho tanto sonno. Mentre aspettavo che il latte fosse pronto devo aver preso qualcosa da leggere per non riaddormentarmi. Un giallo, magari. I gialli mi tengono sveglia. E li tengo vicino ai

libri di scuola. Ecco. Devo essermi sbagliata e ho preso Ovidio. Copertina gialla. Dev’essere andata così. La spia dello scaldabiberon si spegne. Sì, ma il dado. Magari era sullo scaffale. Sì, ma. Basta, ora. Prende il biberon, fa cadere una goccia di latte sul polso per sentire se scotta. È perfetto. Passa davanti alla finestra. Dietro i vetri c’è il melograno. Lo intuisce nero nella nebbia di gennaio, e il freddo aumenta. Non le piace. Non le piaceva quando le sue foglie erano d’oro, e Sara era appena nata e lei stava perdendo il conto di quante volte la cambiava e le faceva il bagno e preparava i biberon. Non le piaceva neanche quando ha visto la casa per la prima volta, ed era pieno di fiori rossi come il sangue. Era giugno, e il sudore era diventato gelido sulla sua schiena quando aveva visto il melograno al centro del giardino, incorniciato in una finestra ovale. Sembrava un quadro. No. Sembrava la ceramica di una tomba. “Una particolarità della casa”, aveva detto il proprietario. Aveva sorriso, e le rughe che prima le erano apparse così piacevoli – un vecchio saggio che deve andarsene perché da solo non ce la fa più – avevano tremato come grasso rappreso, e la nuca di Lilli si era increspata per la paura, come se un dito sottile l’avesse solleticata, per darle il benvenuto. Si era affrettata a dirsi che era normale, che era preoccupata perché stava facendo la sciocchezza di affittare una casa grande e isolata (ma c’è l’autobus proprio a due passi) solo perché nel giardino la bambina avrebbe potuto correre senza pericoli (Le automobili! I motorini! Gli zingari!) e perché c’erano cespugli di ortensie lilla e rose gialle profumate. Alla fine, aveva deciso che il melograno era innocuo. Il latte si sta freddando. Devo andare. Non è così vero. Da quando è nata la bambina, il melograno le fa ancora più paura. Perché quando si alza di notte, specie se c’è la luna,


racconto crede di scorgere un punto sotto l’albero dove l’aria sembra solidificarsi in un callo opaco. Forse perché i suoi occhi sono malati, si è detta tante volte. Ma c’è altro. A volte le sembra che dentro quella nebbia dura ci sia qualcuno che bisbiglia, e dall’albero la voce vola verso di lei per annidarsi nella sua testa. Ci sono state notti, quando allattava Sara in cucina, in cui le diceva che sarebbe stato così facile allargare le braccia e lasciarla cadere, e il volo sarebbe stato breve e il tonfo soffice, come di un frutto maturo che sparge polpa sul pavimento. Ogni volta, Lilli stringeva forte la bambina e la bambina piangeva. Finché aveva deciso che l’avrebbe allattata in camera. Ma il melograno continua a guardarla, e a sussurrarle richiami. Non è un bene che la casa sia al pianterreno, Lilli? Non sei contenta? Perché se ti fosse venuta l’idea che a ogni madre viene, se avessi aperto la finestra e la finestra fosse stata al quinto piano e se ti fossi sporta insieme a Sara e… Si morde le labbra, si avvia verso la camera. Ma con la coda dell’occhio sbircia fuori e la ragnatela davanti ai suoi occhi si fa più fitta, fino a farle credere che la zona densa accanto al melograno si sta muovendo. Anzi, sta danzando. Si scinde in due. Due bambine. Una è arrivata di corsa e ha il fiatone e dice: “Guarda!”. “Guarda il mio regalo!”. Giulia ha la mano nascosta dietro il grembiule. C’è una striatura di cioccolato sul colletto, nota Lilli, e subito dopo pensa che sua madre ha ragione quando dice che Giulia non sa tenersi in ordine. Anche i codini sono legati con l’elastico. Lilli ha due fermacapelli di velluto rosa e gli occhi azzurri e non vuole essere amica di Giulia, perché i suoi occhi, invece, sono gialli come quelli dei gatti e forse da un momento all’altro i canini le diventeranno affilati e le unghie si allungheranno, e Giulia la morderà e la graffierà. Però Giulia non vuole farle del male: anzi, vuole esserle amica. Vuole è proprio la parola giusta,

perchè riesce sempre a ottenere quello che si mette in testa: in classe si dice che sia riuscita a rubare una Barbie nel negozio di giocattoli, semplicemente infilandola nella cartella. Dunque, Giulia le porta un regalo, ogni giorno da quando ha deciso che diventeranno inseparabili. Lunedì un Tronky, sbucato caldo e molliccio dalla sua tasca. Ieri una figurina di Lady Oscar. Il terzo, che è oggi…. “Guarda il mio regalo!”. “Che cos’è?”, mormora Lilli, sistemando una ciocca di capelli sfuggita al fermaglio. Era una collana, si dice ora, con il biberon che si raffredda nella mano destra, mentre il mugolio di Sara si trasforma nei primi vagiti di richiamo. Una collana di dadi. Dadi con la lettera Elle. “Elle come Lilli, sei contenta?” No. Non sono contenta. Non lo sono stata neanche allora. Quella collana non mi è mai piaciuta. Sembrava fatta di denti umani. Non l’ho mai messa. L’ho tenuta in un cassetto per anni. Il vagito si trasforma in pianto. Dunque non può essere qui. Il pianto si fa acuto. Sara dev’essere diventata rossa. I suoi pugni staranno tremando come ali di farfalla. Oppure, è andata così. Quando ho fatto il trasloco, devo aver preso anche la collana insieme ai libri di scuola, e il dado si è staccato e questa notte è scivolato fuori. E chi l’ha messo al centro del libro? Al centro esatto? Magari, nel dormiveglia, l’ho raccolto da terra e ce l’ho messo io. Dev’essere andata così. La bambina sta urlando. I singhiozzi arrivano alle orecchie di Lilli come attraverso la nebbia, senza riuscire a raggiungerla davvero. Poi, si riscuote. Grida “Sara” in risposta. Corre verso la camera da letto. *** Deve comprare biscotto granulato, latte in

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polvere, liquido per sterilizzare il biberon e una tettarella nuova. Ah, e miele rosato. Il libro, almeno, diceva così. Lo ha consultato con attenzione, la matita stretta fra le dita per sottolineare i passaggi più importanti, cercando di ricacciare indietro l’ansia. Che sarà mai, Sara ha vomitato, tutti i neonati vomitano. Aveva messo a bagno nel sapone di Marsiglia la camicia da notte, si era buttata un po’ d’acqua fredda sulla faccia e aveva aperto “Il bambino e la sua crescita”. Lettera V. Vomito. “È un fenomeno consueto e che non deve allarmare” Visto, visto? “In alcuni casi, potrebbe trattarsi di un virus”. Ma certo. Un virus. Quando l’ho portata a spasso, due giorni fa. Quei bambini con la madre impicciona, che voleva a tutti i costi toccare Sara. Ah, e le ha trovato quei capelli fra le dita. I miei capelli, e di chi altri? Ha detto che non è un buon segno. Che al suo paese vuol dire che uno spirito ha preso di mira la bambina, e bisogna bruciare l’incenso nei quattro angoli della stanza dove dorme. Che si fotta. Gente di periferia. Cosa ne sanno. Magari aveva le mani sporche. Magari Sara si è presa il virus così. “Il vomito potrebbe essere dovuto anche alla dentizione. Provate a massaggiare le gengive con miele rosato”. Dunque, deve comprare il miele rosato, e anche un collirio per i suoi occhi che bruciano come se li avesse bagnati con l’acido. La ragnatela è diventata più fitta, e in certi momenti una macchia nera nasconde il mondo. Ci penserà quando avrà tempo. Intanto, è qui da venti minuti. Davanti a lei c’è una vecchia con una ricetta scaduta. Quasi piange. Le medicine le servono, dice alla dottoressa. Lilli vorrebbe impugnare la bottiglia di disinfettante che ha sottobraccio e fargliela cadere sulla nuca. Una volta, due volte. Farebbe un rumore sordo. Poi il rumore diventerebbe croccante, come quando si spezza un guscio di noce con il pugno. Giulia sapeva farlo. Quando Lilli era giovane. Giovane e libera.

Gli uccelli in volo nelle sue pupille si trasformano nell’immagine di una Lilli ragazza, con un maglione nero e pantaloncini color prugna e calze azzurre, una Lilli immemore e leggera che non tornerà mai più. È seduta per terra a gambe incrociate. Sta guardando la videocassetta di un vecchio film horror. Il film è L’ultima casa a sinistra. Vicino a lei c’è Giulia, i capelli rossi legati in una treccia, gli occhi gialli scintillanti mentre rompe le noci. Sullo schermo le due protagoniste vengono stuprate e torturate. Lilli ride. “A noi non capiterà mai”. Giulia cala il pugno su un’altra noce. “Mai. Noi li apriremmo in due. Guarda che forza”. Crac, fa la noce. Crac, fa la nuca della vecchia. Questa vecchia inutile. Giulia le avrebbe riso in faccia. Batte le palpebre e gli uccelli spariscono. La vecchia la sta guardando. “Cos’ha da ridere?”, chiede. Lilli arrossisce e balbetta una scusa. Non si è resa conto di aver riso, non è da lei, non ne avrebbe avuto il coraggio. Colpa degli occhi che le fanno male, e del sonno che manca. Deve dormire almeno mezz’ora, magari dopo la poppata di mezzogiorno. La dottoressa si è arresa: sta tirando fuori dai cassetti una confezione di pillole. Cardiotonici per il vecchio cuore della signora, pensa Lilli. Nessuno si preoccupa per i cuori delle madri, che sono così pieni di ferite, e quando si è ragazze tutto questo non si sa, si spezzano le noci con un pugno e si è potenti, e si ride con la propria amica del cuore. Dovrebbe distrarsi: indietro non si torna e pensare fa male. Lilli si volta a guardare lo scaffale dei giocattoli per neonati. Le giostrine con le api. I carillon. Ecco, ne comprerà uno per Sara. Magari quello con gli orsacchiotti affacciati alle finestre della casetta rossa. La vecchia la urta, uscendo con la sua confezione di medicinali. Ha capelli radi e unti, e un cappotto marrone con i polsi sfilacciati. Mi ridurrò così. Presto, pensa Lilli. Prima che il carillon si rompa, Sara mi farà impazzire. Poi, però, quando è arrivata a casa, le torna il


racconto buonumore. Posa la busta con la spesa sulla credenza, tende l’orecchio. Nessun rumore. Senza togliersi il cappotto, si precipita nella camera da letto. La schiena di Sara si solleva piano. Respira. È viva. Bene. Lavarsi le mani. Preparare il biberon. Prima, mettere il carillon nel box, così la bambina lo troverà più tardi. Ma quando si china sul tappetino, Lilli vede qualcosa che brilla fra il pulcino di gomma e il sonaglio rosa. Allunga le dita. È un anello. Un anello d’oro con due pesci di smalto che si baciano sulla bocca. “Ti ho portato un regalo, Lilli”. “Un altro?” “Questo è speciale. Guarda. Guarda il mio regalo”. “Un anello? Ma è troppo, Giulia!” “Non è troppo, sei la mia migliore amica per sempre. Ti piace? Ti piace il mio regalo?” Lilli porta la mano alla bocca, la morde. Non deve urlare. C’è una spiegazione. Proprio ieri ha aperto il cassettino dei gioielli per guardare i regali che Sara ha ricevuto per il battesimo. Ricorda di aver tenuto sul palmo della mano un ciondolo con l’angelo triste che le ha sempre messo paura. Forse c’era anche l’anello nel cassetto. Magari se lo è infilato senza accorgersene, e poi le è scivolato nel box. È andata così. Perché se così non fosse, dovrebbe pensare che qualcuno le sta facendo uno scherzo. Ma non saprebbe chi. E non saprebbe perché. Giulia avrebbe capito. Giulia sapeva sempre tutto. Giulia era morta due mesi dopo la laurea, ed era stata una morte stupida. Erano alla Conad e cercavano di rubare una bottiglia di vodka per andarsi a sbronzare su qualche panchina. Canticchiavano la canzone nuova degli Alice in Chains, Them Bones. I believe them bones are me Some say wÈre born into the grave I feel so alone Giulia camminava avanti, i jeans le fasciavano

le gambe magre e Lilli si era sentita stringere il cuore. Aveva sempre subito la sua amicizia, così come subiva quasi tutto nella sua vita, sesso incluso, perché dire no era più difficile. Ma adesso, mentre le gambe di Giulia si allontanavano fra due ali di biscotti e crostate, Lilli traboccava di tenerezza, e avrebbe voluto correre verso di lei e stringerla forte, da dietro. Facendole un po’ male, perché è giusto così. I feel so alone Dunque, Lilli aveva fatto un passo per avvicinarsi a Giulia e Giulia si era fermata. Erano nel reparto latticini, ora, e il freddo che saliva dal banco frigo faceva venire la pelle d’oca. “Si gela”, aveva detto Giulia con una nuova voce sottile, mentre lanciava occhiate incerte agli yogurt e alle mozzarelle sotto il neon degli scaffali. Poi, la sua mano si era stretta sul polso di Lilli. “Freddo”, aveva mormorato ancora iniziando a trascinarla verso il pavimento, perché si stava piegando sulle ginocchia, come quando la faceva sedere a terra per guardare una videocassetta. Ma adesso le guance e la fronte di Giulia erano bianche come pasta di pane, e le labbra tremavano, e sulla pelle sembrava avere un velo come di latte. “Fred..”, aveva detto infine, e poi era caduta a terra e Lilli era caduta sopra di lei, la faccia sopra la faccia, e gli occhi di Giulia erano rovesciati indietro e non si muovevano più. Così, prima ancora che le donne lasciassero i carrelli per correre verso di loro, Lilli aveva saputo che Giulia era morta. Gonna end up a big ole pile a them bones Aneurisma cerebrale, le aveva detto due giorni dopo sua madre, mettendole davanti una tazza di tè all’arancia e il giornale aperto alla pagina dei necrologi. “È domattina, alle nove. Il funerale di Giulia”. Lilli non era andata. Era rimasta sul divano, ad ascoltare con gli occhi sbarrati i bambini che giocavano nel cortile cantando Hanno ucciso l’Uomo Ragno. Poi aveva dormito. Aveva dormito per tutta l’estate. E a settembre Giulia era già una fotografia formato tessera con la dedica “per sempre” e un cassetto pieno di regali.

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Il cassetto era rimasto chiuso per dieci anni. Ancora trenta cc. Questo dice la tacca del biberon, e Sara non li vuole. Non è normale, pensa Lilli, mentre la bambina si dimena sulle sue ginocchia, torcendo la bocca ogni volta che la tettarella la sfiora. Una poppata non può durare un’ora, si dice ancora Lilli, e sa che dovrebbe smettere di torturare Sara che è rossa in viso per il troppo piangere, e il bavaglino è chiazzato di bianco e odora di latte fermentato. “Mangia, cazzo”, urla. La bambina sgrana gli occhi, che sembrano ancora liquidi come se la guardassero da sott’acqua. Poi inarca la schiena ed emette una specie di miagolio stupito, e un fiotto di vomito giallo colpisce Lilli in piena guancia. È stato tutto inutile, ha il tempo di pensare mentre il suo corpo reagisce automaticamente, mettendo Sara in posizione eretta con la testa sopra la spalla. Altro liquido caldo le cola sopra il maglione. Un maglione da uscita, uno dei pochi buoni che sono rimasti, si dice Lilli, sperando che il pensiero frivolo scacci quello, enorme, che le martella nelle tempie. Sara sta male. Sara è malata. Sara morirà e sarà solo colpa mia. Al mignolo, i pesciolini di smalto si baciano per sempre nell’anellino d’oro. Lo ha infilato cercando di non pensare a come era arrivato nel box. Basta misteri. Calmarsi, poi un bel bagnetto, poi, magari, una camomilla. Poi una doccia per lei, e il pediatra. La testa della bambina è calda sulla sua spalla. Cosa farebbe senza Sara? Semplice, si dice mentre, tenendola con un braccio, fa scorrere l’acqua nella vasca di plastica rosa: non ci sarebbe più un centro nella sua vita, dunque morirebbe anche lei. Però quando Giulia è morta, Lilli è andata avanti. E Giulia non era forse il centro della sua vita di ragazza? Non l’aveva costretta, giorno dopo giorno, a interessarsi a lei, a fare di lei l’unica ragione di vita? Nulla ha resistito a Giulia, si dice Lilli mentre adagia la bambina sul fasciatoio e le sfila la tutina. Solo la morte.

C’è un raggio di sole che entra dalla finestra e cade sulle sue mani. L’anellino scintilla come un occhio giallo. E magari non è stato semplice, per la morte. Magari in quel momento, nel supermercato, Giulia ha detto no, che non voleva, e ha lottato: pochi secondi che sono stati eterni, sono diventati l’eternità, e in quell’eternità c’è Giulia che si ribella. Sara fa un piccolo colpo di tosse. Poi un altro. Il visino diventa rosso, poi viola. Oddio, grida Lilli. Oddio. “È solo un virus”, le sta dicendo Daniela. Sono nella pasticceria sotto l’ospedale: sembra pensata per i genitori dei bambini ricoverati, ha le pareti rosa e celesti e dolci che sembrano giocattoli, tortine sacher, cannoli, muffin verde menta. Daniela ha ordinato cioccolata calda con la panna. Un riflesso di luce rosa le attraversa i capelli. Daniela è una delle poche amiche a cui Lilli ha concesso un po’ della sua confidenza, dopo Giulia. L’ha chiamata al telefono, sbavando sul microfono e urlando che Sara respirava con la pancia come i bambini in incubatrice, e Daniela era arrivata subito e avevano attraversato la città volando, e tutto fuggiva dai finestrini, i semafori, i cartelloni pubblicitari (e quanti bambini, oddio, su quei cartelloni), gli alberi, mentre Sara aspirava aria a strappi. “Un virus”, aveva detto il pediatra dell’ospedale. “Porta complicazioni di questo tipo: disturbi gastrointestinali e polmonari. Ma non è grave – aveva aggiunto – è solo un piccolo stress respiratorio”. Però l’avevano ricoverata. Per idratarla, avevano detto. Lilli aveva stretto il braccio di Daniela in una morsa quando le avevano spiegato che avrebbero dovuto rasare la fronte di Sara per infilare l’ago della flebo. “I capelli ricresceranno”, aveva detto l’infermiera, distogliendo gli occhi. Lilli guarda il riflesso rosato sulla frangetta bionda di Daniela. Sembra vivo. Sembra un folletto. No, sembra un piccolo dio della morte, perché la morte non è nera. È rosa come il


racconto nastro che ha appeso sulla porta quando è nata Sara e che adesso è chiuso in una scatola di plastica trasparente come una bara di cristallo e un giorno, magari facendo il cambio dei vestiti estivi, lei lo troverà, e ricorderà di aver avuto una figlia e allora lo getterà in aria e ricadrà sulle ginocchia e batterà i pugni, tutti e due, sulla fronte, e urlerà. Perché Sara sta morendo. Daniela la guarda fisso: “Sei tu che stai male, Lilli. La bambina non ha niente di grave, hai sentito anche tu”. Già, e l’ossigeno? Come si spiegava la mascherina trasparente sulla bocca – così bianca – di Sara? È inutile che chieda, sa già la risposta, l’ha ascoltata dal dottore. “Il livello di ossigeno nel sangue è basso: questo l’aiuterà. Ma mi creda, signora, è soltanto una precauzione”. Mentono. Le stanno mentendo, tutti. Lilli guarda nella tazza di cioccolata ancora intatta, e il ricciolo di panna montata diventa il merletto di un abito bianco. Un abito da morta. Daniela le mette la mano sulla sua. È calda, o forse è lei che è gelata, di già, come sarà per il resto dei suoi giorni dopo che Sara. “Si chiama baby blues”, dice Daniela. “Succede a molte donne dopo il parto. È depressione. Un calo di ormoni. In genere passa presto: a te, evidentemente, non è passato”. “Non sono depressa”, soffia Lilli. La cioccolata, freddandosi, ha formato chiazze marroni che sembrano terra. La terra del cimitero. La terra dove Sara. “Sì che lo sei”. Daniela tenta una carezza, Lilli sottrae la mano di scatto. “Non prenderò le vostre merde di medicine. Io sto bene. È Sara che sta male”. “Sara starà benissimo, Lilli. E tu devi stare calma per lei. Quindi, ti devi curare”. “Non capisci. Non capisci”. Lilli sta piangendo a singhiozzi rauchi, le cola il moccio dal naso. La cameriera la sta guardando. Si fotta anche la cameriera. Fruga nella tasca

del giaccone per cercare un fazzoletto. Deve averne uno, ne è sicura. Qui ci sono le chiavi, qui una caramella. Qui. Le dita di Lilli si chiudono su un oggetto piccolo e liscio. Quando lo tira fuori e lo guarda, lo riconosce. È un seme. Un seme di melograno. “Devo andare a casa”, aveva detto a Daniela. “Come a casa? E Sara?” “Ci sono i medici, con Sara”. Daniela aveva gli occhi sgranati per lo stupore e Lilli aveva capito che doveva giocare d’astuzia. “Ho bisogno di staccare. Solo per poco. È come hai detto tu. Devo stare bene per aiutare Sara”. Così, l’aveva accompagnata a casa. I cartelloni pubblicitari con i bambini l’avevano guardata, stavolta, senza ferirla. Non troppo. Perché Lilli aveva qualcosa da fare: qualcosa che l’aveva strappata al gorgo di disperazione e di orrore in cui stava affogando. Sara era in pericolo. Ma non era un virus a minacciarla. Era qualcos’altro. Qualcosa che stava giocando con lei da due giorni. Il dado. L’anello. Il seme. Eppure, ora che sono arrivate, non è più così sicura. Ricorda di aver morso una melagrana pochi giorni prima. Era ferma all’ingresso, la melagrana era nel cesto sulla cassapanca. Forse, un seme le era rimasto fra le dita, e l’aveva messo in tasca. Forse. Come le bruciano gli occhi. Lo stormo di uccelli le sta beccando la pupilla e ogni colpo di becco è una fitta. Deve parlare con l’oculista. E questa volta quello stronzo presuntuoso l’ascolterà e la visiterà come si deve: altrimenti minaccerà di denunciarlo, anzi, lo prenderà per il bavero del camice e… Si porta una mano alla bocca. Perché questi pensieri? Non sono da lei. Non ha mai immaginato cose del genere. Dev’essere il sonno. Devono essere gli uccelli. Dev’essere la paura. “Va tutto bene?”, dice Daniela, poggiandole una mano sul braccio. Lilli la toglie, senza

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gentilezza. “Benissimo. Prenderò i calmanti, te lo prometto. Vattene, adesso ”. Daniela la guarda, si allontana senza parlare. Lilli sa che è stata sgarbata, ma per la prima volta nessun senso di colpa le risale in gola. Se solo fosse stata così forte anche prima. Insieme alla ragnatela, che è diventata viola e pulsa come un cuore velenoso, danzano davanti ai suoi occhi tutti i suoi dolori. L’uomo che ha amato, l’unico, chino a baciare un’altra, e forse lei avrebbe potuto fermarlo, se avesse trovato le parole e il coraggio, ma non lo ha fatto e lui è andato via per sempre, e in questo momento lui si china sulla ragazza bionda che non è lei ancora e ancora, e Lilli può vedere, può sentire, ma non può far nulla, come quando Giulia è caduta. Come ora. Non è vero. Ora posso. Non è tardi, mormora mentre infila la chiave nella toppa. Sotto i suoi piedi scricchiola il ghiaccio. La casa sarà gelata. La casa senza Sara. Sara è al sicuro adesso. Per un po’. Sei tu che puoi salvarla. Se solo capisci cosa vogliono da te. Spalanca la porta, resta dritta sulla soglia e la casa sembra svegliarsi e stirarsi come un gatto. Lilli avanza di un passo, accende la luce. È tutto come l’ha lasciato. Il vaso di ceramica azzurra per gli ombrelli. La fotografia di Sara nella cornice rosa. Il tappeto di stuoia. Gira a destra, entra in cucina. Spalanca la finestra. Il melograno dorme nella notte fredda. Si affaccia, e una folata di vento le fa volare i capelli sugli occhi, fra i denti. Mi hai sentito, pensa Lilli. E sai che ti ho capito. Che sono qui per te. Chiunque tu sia. Si toglie i capelli dal viso. Grida. “Cosa sei? Cosa vuoi?” Non c’è risposta, non c’è rumore. Il vento non cresce e non diminuisce. È tutto normale. È una fredda notte di gennaio. Baby blues. Lilli si dice che forse Daniela ha ragione. Che deve fare qualcosa prima di diventare pericolosa. Per sé, per Sara. Quante madri lo hanno fatto? Quante hanno ucciso i propri figli per paura che qualcuno potesse far loro del male? Quanto ci vorrà prima

che infili Sara nel cestello della lavatrice? Si tira indietro, accosta la finestra. Prenderò il Lexotan, e poi chiamerò un taxi e tornerò da Sara. È solo un virus. Domani la dimetteranno. E io mi curerò. Non voglio impazzire. Voglio essere una buona madre. Di colpo, la finestra si spalanca, e la folata la travolge, la spinge all’indietro. Lilli cade sul sedere, i piedi pattinano sul pavimento cercando appiglio. Poi, è come se la casa stessa si curvasse su di lei. Non è il lampadario della cucina, quello con il paralume giallo che ha sempre odiato, a dondolare vicino vicinissimo al suo viso? Non è il freddo del frigorifero, che dovrebbe essere contro la parete, quello che sente contro la stoffa dei pantaloni? Riapre gli occhi e il dolore le trafigge il cervello. Lo stormo di uccelli è impazzito. Non vede quasi nulla: nella nebbia che è diventato il mondo riconosce il lampadario al suo posto, immobile, e il frigorifero che ronza a due metri di distanza. È tutto normale. Allucinazioni. Altro che mosche volanti. Sta perdendo la vista, oltre che la ragione. Non è vero. C’è qualcosa. Mi sta facendo male. Mi sta uccidendo. Non so cosa sia ma vuole che io muoia. Gemendo, si tira su, prova a guardare oltre la finestra. Altra nebbia. Forse viene dai suoi occhi. Forse è reale e sta davvero circondando il melograno e avvolgendosi a spirale attorno al tronco, ornando i rami di festoni bianchi come per una cerimonia. Il dolore aumenta. Le sembra che la nebbia si addensi in un unico punto, proprio davanti al tronco. Forma un ovale. Dall’ovale fuoriescono due protuberanze, in alto. Due braccia. Due in basso. Le gambe. Inghiotte saliva. Sono gli occhi. Deve chiamare un’ambulanza. Andare al pronto soccorso. Subito. Apre la porta. Un ovale più piccolo. La testa.


racconto Si incammina verso il melograno mentre aghi roventi le scavano le pupille Una linea nera. La bocca. Le orecchie ronzano. Depressione. Depressione grave. Dove lo ha letto? Sintomi: umore cupo, perdita di memoria. Allucinazioni. Come una scia che ondeggia, a destra e a sinistra. I capelli. I capelli rossi di Giulia. Lilli potrebbe allungare la mano e quella figura fatta di nebbia svanirebbe. Perché quella figura non esiste ed è frutto solo della sua mente impazzita. Giulia non può essere tornata. Non può essere Giulia a volerle fare del male. “Non ti ho fatto niente”, riesce a mormorare, mentre le lacrime le scorrono sulle guance. La figura che è Giulia, ormai, identica a com’era anche nel respiro che le solleva dolcemente i seni, scuote la testa. “Perchè, Giulia? È per il funerale? È perché non sono venuta al tuo funerale?” Giulia getta indietro i capelli, come faceva da viva. Ride, e la sua voce torna come un’onda calda alle orecchie di Lilli. Delirio. La depressione maggiore fa credere al paziente di ascoltare voci inesistenti. Lilli riesce a sorridere. Quanto le è mancata. Quando era viva pensava che fosse stata la forza di volontà di Giulia ad averla attirata come una calamita e ad averla tenuta stretta a sé per tutti quegli anni. Ora capisce che le ha voluto bene davvero, e che quella sofferenza che ha sempre negato è viva e forte sotto il ghiaccio del suo cuore, e che dietro tutto il suo amore e la sua paura per Sara c’erano l’amore, e la paura, e il dolore per Giulia. “Mi dispiace così tanto”, dice soltanto, e poi singhiozza davvero, e gli aghi nelle pupille diventano coltelli e singhiozza più forte. “Anche a me”, mormora la figura di nebbia, e nei suoi occhi c’è dolore, e un rimpianto terribile, e un desiderio ancora più spaventoso. “Perché ti vedo?”, chiede Lilli, e non le importa se questa è pazzia. Che sia benvenuta, la pazzia.

“Perché siamo sotto il melograno”, dice quella che forse è Giulia. E poi scoppia di nuovo a ridere. “Non è buffo? Tutte quelle cose che abbiamo studiato a scuola, ricordi? Chi mangia i frutti degli inferi deve rimanerci per l’eternità. Proserpina e la melagrana, ricordi?” Lilli ricorda, e la sua schiena si ghiaccia. “Giulia…”, dice. “…Certo che ricordi. Per questo il seme ti ha spaventato così tanto. Per questo il melograno non ti piaceva. Non piace neanche a me, sai? Io non volevo morire, Lilli. Volevo mangiare, fare l’amore, annoiarmi, fare tutte le cose che una persona viva fa. La birra. Mi piaceva tanto la birra. Doppio malto, ricordi?”. Lilli annuisce, senza parlare. “Mi piaceva accarezzare i gatti per strada, e il modo in cui si strusciavano sulle gambe. Mi piacevano le caramelle alla fragola. Mi piacevano i ragazzi che sorridono sghembo. Volevo innamorarmi. Volevo un figlio”. Qualcosa scatta nella mente di Lilli. Deve reagire. Deve svegliarsi, deve cacciare via le voci e la nebbia. Grida. “Per questo sei qui? Perché vuoi Sara? Perché vuoi portartela via?”. Giulia ride di nuovo. “Non è la morte di Sara che voglio. Voglio un regalo da te, Lilli. Te ne ho fatti tanti, quando ero viva. Adesso è il momento di ricambiare”. “Come?”, urla Lilli, e nessuno risponde a quel grido, non c’è neanche un uccello notturno che si alzi in volo, una finestra che si apra, un ramo che si spezzi. “Voglio tornare”, dice Giulia nella sua testa. “Tu hai vissuto abbastanza, Lilli. Hai lavorato, mangiato e dormito e scopato e hai avuto anche una figlia. Ho aspettato che Sara nascesse proprio per questo. Non c’è altro che tu possa desiderare, giusto? O meglio, sì: potresti bere il tuo tè all’arancia per anni e mangiare biscotti e dipingere e veder crescere Sara, lo so che stai per dirmi questo. Ma è adesso che è perfetta, Lilli. Adesso che è così piccola. Poi, cambierà e fuggirà. E non sei già così stanca? Non è meglio

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lasciar perdere ora?”. Lilli non vede più nulla, ma mentre Giulia parla avverte il calore della tazza di tè, e il profumo dei biscotti, e la sensazione della tempera sulla punta delle dita, e il respiro leggero di Sara mentre sta per addormentarsi, e non vuole rinunciare a niente, ed è spaventoso che le si chieda questo. “Non piangere così. Non è tanto brutto. Non come pensi. E non te ne accorgerai nemmeno. Nessuno se ne accorgerà. Lascia che io prenda il tuo posto: durerà poco e tu resterai qui, sotto il melograno, e potrai riposare, e io andrò da Sara…:” “NO!” urla Lilli. “…oppure Sara morirà. Tutto qui. Non dirmi di no. Non hai mai saputo dire di no”. Lilli cade in ginocchio davanti a Giulia. “Per favore”, dice. “Non potresti lasciar stare? Ti prego. Perché io?” Una mano fra i suoi capelli. Una mano gentile ma forte. Che strano. Le sembra vera. Le sembra calda. Ma reagirà. Fra un momento riuscirà ad alzarsi e a tornare in cucina e prendere i calmanti. E poi tornerà da Sara. Fra un momento solo. Buio sui suoi occhi. “Perché sei la mia migliore amica”, dice Giulia. Il buio è giallo. L’infermiera è contenta di vederla. “Abbiamo provato a chiamarla, ma non rispondeva nessuno”, cinguetta mentre la precede verso la camera dove è ricoverata Sara. “È migliorata di colpo. Ieri sera non glielo avevamo detto per non preoccuparla, sembrava così disperata, ma la situazione era critica, sa? Invece, all’improvviso, tutti i valori sono tornati normali. I bambini sono così: si riprendono come fiori a cui si dà da bere”. “Lo so”, dice lei, sorridendo. “Anche lei, la vedo più tranquilla. Ha seguito il consiglio della sua amica? Ha preso qualcosa?” “Sì, quindici gocce di Lexotan. Avrei dovuto farlo prima. Mi sono decisa quando ero arrivata proprio al limite. Se le dicessi dove mi sono

risvegliata stanotte non ci crederebbe”. L’infermiera annuisce. “Le crederei, invece. È il baby blues. Capita a quasi tutte le donne. Vedrà che adesso tutto andrà bene”. “Lo so”, annuisce lei. Si sorridono ancora. Sara è nel lettino, scalcia con forza. Le hanno tolto la flebo. Sulla fronte ha una fasciatura bianca. Poche settimane e i capelli saranno cresciuti. Poche settimane e potrà smettere di portare gli occhiali da sole. Altro che liquefazione del vitreo. Qualche goccia di collirio e il dolore è sparito. Deve proprio cambiare oculista. Allunga le mani verso Sara. “La lascio allattare tranquilla”, dice l’infermiera, chiudendosi la porta alle spalle. Annuisce. Com’è morbida la pelle della bambina. Com’è bella. E com’è bello respirare, camminare, guardare, invece di continuare a strapparsi di dosso quel buio in cui ha vagato per tanto tempo. Baby blues. Fa un piccolo sospiro di gratitudine. Prende la bambina fra le braccia. Sara si divincola solo un attimo. Si scopre il seno, e una goccia di latte scivola dal capezzolo. La bambina si avventa, ha fame. Con la mano destra, si toglie gli occhiali. Gli occhi gialli mandano bagliori di felicità. Sara smette di succhiare. Corruga la fronte. Poi, riprende a poppare.


fantasy M u ra k a m i

Har u ki di STEFANIA AUCI

1Q84

L’ultimo romanzo dell’autore giapponese di Kafka sulla spiaggia è un’opera ponderosa, sia intermini di foliazione che di tematiche. Al centro di tutto, l’incomunicabilità tra i protagonisti e il mondo in cui essi vivono. Aomame è una killer particolare, assoldata da una ricca e anziana signora per far fuori in maniera indolore quegli uomini – mariti, compagni, fidanzati – che abusano delle proprie donne fino a distrugger loro la vita. Tengo è uno scrittore di belle speranze ma di scarso successo, destinato a rimanere nell’ombra del suo editor. Le loro vite sembrano mescolarsi, sfiorarsi fin quasi a entrare in contatto, ma è destino che Aomame e Tengo non possano mai toccarsi, non possano nemmeno condividere il medesimo cielo. Eppure l’uno è parte dell’altra. Compagni di scuola, vittime di un’infanzia difficile, sono diventate creature spaventate da un mondo che tengono a distanza attraverso una solitudine che è divenuta corazza e prigione. Non hanno legami di amicizia, né una relazione stabile: Aomame va a caccia di notti di sesso, Tengo ha una comoda relazione sessuale con una donna sposata. Il mondo di Tengo viene scompaginato nel momento in cui gli viene offerta la possibilità di essere il ghost writer per un romanzo fantastico: La crisalide d’aria, scritto da un’adolescente dalla bellezza misteriosa e dal comportamento inquietante, Fukada Eriko, figlia di un componente di una setta potente e pericolosa, svanito nel nulla. Il romanzo viene pubblicato e diviene un successo. Ma l’autrice scompare e, ben presto, Tengo scopre che la vicenda angosciante descritta nella Crisalide d’aria sembra aver travalicato il confine della carta stampata per divenire realtà. Così come Aomame nel suo mondo rischiarato da due lune riceve l’incarico di eliminare il capo di una pericolosa setta che assomiglia, stranamente, a quella descritta nel volume di Fukada e che ha fatto più di una vittima tra le bambine della comunità. Tengo è una figura rigorosa e metodica, che trova nelle abitudini consolidate e nell’ordine metodico della propria casa la sua perfetta dimensione. È una figura anonima, e insieme insolita: ricca di sfumature, attaccato alla propria vita senza scossoni, da prova di un coraggio non comune nel momento in cui accetta le conseguenze della sua scelta di divenire il Ghost Writer della Crisalide. Aomame, sebbene viva in un appartamento asettico e si presenti come una donna fredda e distaccata ha in realtà una vita personale anarchica, fatta di sesso occasionale e pericoloso

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59 Due persone, Aomame e Tengo, perse nella grande città di Tokio in una giornata torrida. Due mondi destinati a non toccarsi, due destini che seguono in maniera ineluttabile la regola delle rette parallele: correre l’uno accanto all’altro senza incontrarsi mai. oltre che di omicidi efferati. In comune: l’estrema solitudine, la paura di essere feriti, il timore di un contatto fisico che non sia occasionale e spersonalizzante, la consapevolezza che non esiste nessuno di cui potersi fidare e affidare in maniera piena e assoluta. Due personaggi forti e insieme malinconici, affamati di un affetto in maniera quasi disperante ma, nello stesso tempo, ben determinati a non permettere che alcuno possa andar oltre la barriera che tiene fuori il mondo e la realtà. Sono due figure libere, prive di legami e insieme vincolati da una stretta gabbia interiore che rappresenta la loro prigione volontaria. Accanto a essi, i Little People. Personaggi fantastici di difficile qualificazione, non sono folletti o fate, né entità metafisiche. Essi costituiscono un elemento fantastico importante nel volume, ma di certo non sono l’unico. Poiché tutto 1Q84 è fantastico, a cominciare dal titolo, un esplicito richiamo al capolavoro distopico 1984. Nel romanzo di Murakami, la vera protagonista è l’incomunicabilità delle persone. Non vi è un vero e proprio dialogo dettato dal bisogno di condivisione o dalla volontà di realizzare un legame affettivo. Vi è unicamente un flusso di pensiero che sfiora il vissuto degli altri: una lettura acuta delle situazioni e dei contesti che non si sostanzia mai in uno scambio reale. Il lettore vede con gli occhi dei protagonisti, immagina le reazioni degli altri personaggi, comprende le loro motivazioni poiché Murakami ha usato al meglio una delle principali caratteristiche, ossia quella di descrivere minuziosamente ambienti, situazioni e figure. Secondo alcuni, questo rappresenta il limite principale dell’autore giapponese in odore di Nobel, in quanto non lascia che uno spazio minimo all’immaginazione del lettore. Tuttavia è proprio questa la grande ricchezza della scrittura di Murakami: la cura metodica del dettaglio nell’ambientazione, l’attenzione per le sfumature psicologiche dei personaggi e la prosa raffinata e potente. Murakami non è certamente un fan dello show don’t tell, anzi: vi son lunghe descrizioni minuziose che possono stancare il lettore meno scafato, ma che entusiasmano chi è in grado di gustare una prosa così ben costruita e cesellata. Vi è una netta prevalenza del narrato rispetto ai dialoghi, ridotti al minimo e punteggiati dal silenzio che pare, invece, essere il vero canale di comunicazione dei personaggi. Unica eccezione, un brano musicale di Janacek: la Sinfonietta, traid d’union tra il mondo di Aomame e quello di Tengo. Il ritmo è uniforme, quasi ipnotico: il lettore viene risucchiato nel volume passo dopo passo, incuriosito dal progressivo avvicinarsi dei due protagonisti che si muovono nell’universo di 1Q84 come due pianeti dalle orbite che si sfiorano senza intersecarsi mai. 1Q84 è soprattutto un libro sulla scrittura. Tengo, uno dei due protagonisti, è uno scrittore ma è anche un matematico. A lui sono affidate le pagine più interessanti, che rappresentano


fantasy altresì il punto di vista dell’autore sul mondo della letteratura “alta”, verso cui Murakami sembra patire una sorta di insofferenza. Le riflessioni sono pungenti e insieme tecniche: un catalogo di indicazioni preziose che nascondono, sotto aspetti di pura narrazione, un metodo consolidato e saggio, pieno di un’autentica passione per ciò che è narrativa fantastica. «Scrivo storie strane, bizzarre. Non so perché mi piaccia tanto tutto ciò che è strano. In realtà, sono un uomo molto razionale. Non credo alla New Age, né alla reincarnazione, ai sogni, ai tarocchi, all’oroscopo. [...] Ma quando scrivo, scrivo cose bizzarre. Non so perché. Piú sono serio, piú divento balzano e contorto». Murakami Haruki «The Salon Magazine», 16-12-1997

Murakami Haruki è nato a Kyoto nel 1949 ed è cresciuto a Kobe. È autore di molti romanzi, racconti e saggi e ha tradotto in giapponese autori americani come Fitzgerald, Carver, Capote, Salinger. Con La fine del mondo e il paese delle meraviglie Murakami ha vinto in Giappone il Premio Tanizaki.

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Titolo: 1Q84 Autore: Murakami Haruki Editore: Einaudi - Collana Supercoralli Pagine: 722 ISBN: 9788806203795 Prezzo: € 20,00



fantasy INTERVISTA A di ALESSANDRA ZENGO

Per Reverdito Editore prestigiosa casa editrice che ha pubblicato autori del calibro di Francesco Falconi e Pierdomenico Baccalario , esordisce la talentuosa autrice torinese Giulia Marengo con un romanzo di genere fantastico che spazia dalla suggestione del fantasy più classico, all’ampio e fantascientifico respiro di uno spazio infinito. Una nuova stella brilla nel firmamento del fantastico italiano. L’autrice dipinge magnificamente un universo leggendario dove la magia è stata soggiogata da un mondo iper-tecnologico, intessuto di lotte per il potere, intrighi e oscuri segreti. Una galassia in decadenza fa da sfondo alle vicende di personaggi realistici e ben caratterizzati nelle loro umane debolezze, in cui la distinzione tra bene e male si fa esigua. L’autrice sfoggia uno stile impeccabile ed elegante – che solo in rari momenti offusca la narrazione con un surplus di aggettivazione – che tratteggia in modo magnifico le atmosfere e le ambientazioni fantastiche rendendole incredibilmente reali agli occhi del lettore, completamente avvinto dalle pagine.

GIULIA MARENGO

Abbiamo incontrato l’autrice per un’intervista a proposito del suo romanzo d’esordio, delle nuove tecnologie che hanno investito il mondo dell’editoria, del fantastico italiano, dei suoi progetti futuri e molto altro ancora.

scheda libro

Speechless: In Un Antico Peccato mescoli un’ambientazione fantascientifica con un richiamo al fantasy tradizionale per creare un universo in decadenza dove la magia è stata Titolo soppiantata dalla tecnologia. Come mai questa scelta e Un antico peccato come sei riuscita ad unire in un unico universo due generi Autrice diversi? Parlaci un po’ della genesi del tuo romanzo.

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Giulia Marengo Editore Reverdito Collana Pegaso Pubblicazione Settembre 2011 Prezzo € 15.00 Pagine 288

Giulia Marengo: Prima di Un Antico Peccato avevo scritto solo racconti brevi, e nessuno di essi era di genere fantasy, sebbene ne sia appassionata da sempre. E infatti, quando misi mano alle prime righe, avevo intenzione di scrivere un racconto lungo, fantascientifico, immaginando un gruppo di persone di diversa estrazione sociale e culturale che si trovano per caso a dover fare i conti con un ambiente ostile. La mia idea iniziale è durata pochissimo. Già dopo poche pagine mi sono lasciata conquistare dalla vena fantasy, e mi sono domandata “perché mai i due generi dono dovrebbero coesistere?”


63 Non sono stata la prima ad avere questa idea, naturalmente. Ho semplicemente voluto coniugare due grandi passioni. E così è iniziata l’avventura di Un Antico Peccato. Scrivevo per me stessa, affastellando pagine su pagine, e il manoscritto si allungava sempre di più. A un certo punto ho dovuto apporre una cesura, seppure temporanea, altrimenti sarei andata avanti all’infinito. È bello quando i personaggi e le loro storie prendono in mano la situazione, perché l’autore ne diventa solo il complice entusiasta. S: Un Antico Peccato è il tuo romanzo d’esordio. Qual è stata la tua esperienza di pubblicazione? G: Quando ho concluso quello che per me era il primo volume, mi sono ritrovata con un malloppo di ben ottocento pagine, e l’ho rinchiuso a maturare per un bel po’. Un sogno nel cassetto è, in fin dei conti, molto più rassicurate di uno che hai lasciato volare via. Eppure, alla fine, l’ho tirato fuori e l’ho spedito a qualche casa editrice. Lo ammetto, un po’ alla cieca. Poi, un giorno, ho ricevuto una telefonata da Luigi Reverdito, che si congratulava per il bel lavoro e mi diceva che mi avrebbe fatto contattare a breve per discutere di un contratto. Quando mi è arrivata l’e-mail in cui il curatore della collana Pegaso, Luca Azzolini, mi domandava se ero ancora interessata a pubblicare il romanzo, sono saltata dalla sedia e ho strillato così forte da spaventare i vicini. E così è cominciata l’avventura, con l’editing. Il testo non è stato rimaneggiato granché, ma il mio «pantagruelico manoscritto» è stato suddiviso in due. Pubblicare un’esordiente è sempre un po’ un salto nel buio da parte di un editore, e chi avrebbe acquistato un mattone alto un palmo scritto da una perfetta sconosciuta? Alla Reverdito ho trovato grande professionalità, e ho avuto la possibilità di confrontarmi con persone davvero capaci. Sono molto contenta del risultato, e molto, molto emozionata, soprattutto perché dopo nomi come Falconi e Baccalario hanno deciso di includere nella collana Pegaso anche me. Ancora fatico a ricordare che ora, nel mio piccolo, sono passata dall’altra parte: da avida lettrice, a scrittrice entusiasta. S: Nel tuo romanzo spiccano due personaggi femminili forti e tenaci: Jayce e Lerin. In molti fantasy l’eroe è una figura maschile, mentre le donne sono relegate a figure di contorno o protagoniste indifese che aspettano soltanto di essere salvate. Come mai questa scelta? Ti va di parlarci di questi due personaggi e di come sono nati? G: In effetti, leggendo romanzi non necessariamente di genere fantasy mi sono domandata spesso perché le donne fossero spesso ricacciate in un angolo, nei panni della fanciulla in pericolo, molle e senza spina dorsale, che attende il più classico principe azzurro per cavarla dagli impicci. Le donne che conosco io non sono affatto così: sono capaci, determinate e intelligenti. Combattono


fantasy

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per quello in cui credono e non hanno paura di affrontare il mondo. Ecco, le donne di Un Antico Peccato sono un tributo a tutte le lettrici che si sentono strette nel ruolo modesto che tante pagine impongono. Lerin è forte, fisicamente e caratterialmente. È una donna completa, sicura di sé, in grado di compiere in tutta coscienza scelte talora difficili. Jayce, sebbene più insicura, ha un’indole combattiva, una mente acuta, ed è pronta a sacrificare tutto – persino se stessa – per coloro che ama. Ci sono tante donne straordinarie, là fuori. Lerin e Jayce, forse, assomigliano un po’ a loro. S: A differenza di alcuni fantasy tradizionali i tuoi personaggi si muovono su una zona d’ombra, e non si può notare una netta separazione tra buoni e cattivi. Caratterizzi i tuoi protagonisti a tutto tondo, sottolineando sia i pregi che i difetti caratteriali. Questi personaggi molto umani, quindi, da dove nascono? Da dove hai preso ispirazione? G: Non ho mai amato particolarmente la dicotomia mutuamente esclusiva del buono e del cattivo. Anche in questo caso, le persone reali non sono fatte così. È difficile trovare il bianco o il nero, perché gli animi sono più inclini alle sfumature incerte del grigio. I personaggi di Un Antico Peccato si muovono in questa labile zona d’ombra, dove l’ambizione si mescola al rimorso, e la nostalgia al desiderio di affermazione. In fondo, anche l’azione più bieca e meschina può nascondere solide motivazioni. Nessuno agisce senza ragione, per il semplice gusto di essere malvagio. O per purissima, fulgida bontà. I personaggi del romanzo sono ispirati alla realtà quotidiana, anche perché ritengo difficile, se non impossibile, narrare di ciò che non si conosce. Il fantasy e la fantascienza hanno il grande pregio di poter affiancare a un’ambientazione mozzafiato storie molto concrete, nelle quali il

lettore p u ò facilmente ritrovare se stesso. Amore, sofferenza, passione, coraggio, lealtà, nostalgia per la patria perduta, desiderio di rivalsa, sono solo alcune delle emozioni che attraversano le pagine, e tutte sono intensamente familiari a chiunque di noi. S: Essendo un’accanita lettrice, cosa ne pensi dell’avvento degli e-books? Sei una tradizionalista e nostalgica, oppure accogli felicemente questo rinnovamento nel campo dell’editoria? L’e-book, a tuo parere, è destinato a soppiantare il cartaceo (con grande disappunto di librerie e biblioteche), oppure ad essere un mezzo che si affiancherà all’editoria tradizionale e che può incentivare la lettura? Cosa ne pensi? G: La “questione e-book” sta dividendo il mondo dei lettori in fazioni terribilmente agguerrite. Io mi colloco un po’ nel mezzo. Perché ho libri, quelli cartacei, un po’ ovunque, e raramente


65 si mantengono così alti? Mi auguro che la carta e i byte possano coesistere pacificamente, e che il lettore sia libero di scegliere la modalità di fruizione del suo romanzo. Non importa come si legge. L’importante è che si legga, giusto?

dove dovrebbero s t a r e . Tutti amati, vezzeggiati, coccolati, letti e riletti. Amo l’odore dell’inchiostro, e la sensazione squisitamente tattile della carta – un po’ ruvida, ma non troppo – sotto le dita. Ma amo anche la tecnologia. Moltissimo. Sono l’orgogliosa proprietaria di un tablet (no, non dirò quale, niente pubblicità!), e soltanto nell’ultimo mese avrò acquistato una decina di e-book, da sgranocchiare comodamente, con estremo sollievo dei miei polsi. Sì, perché l’ultimo libro cartaceo che ho riletto è stato la Trilogia di Bartimeus di Jonathan Stroud. Un tomo di più di mille pagine. Leggero come una piuma nello stile, ma decisamente pesantuccio da sorreggere. Penso che l’innovazione sia sempre un’ottima cosa, se sfruttata con criterio. Un libro in formato elettronico non dovrebbe costare quanto il suo corrispettivo cartaceo, perché in effetti i costi di produzione pressoché si annullano. E come incentivarne la diffusione, se i prezzi, in Italia,

S: Parecchi agenti letterari e case editrici sono ormai concordi nell’affermare che la stagione del fantastico sia giunta al termine, dopo il successo degli ultimi anni. Nonostante ciò, ogni mese vengono pubblicati dalle grandi realtà editoriali romanzi fantasy di autori stranieri che in patria hanno ottenuto un grande successo. La qualità lo sappiamo non è quasi mai eccelsa, soprattutto per quanto riguarda la letteratura young adult e il paranormal romance. L’editore italiano, però, preferisce puntare su un nome straniero di bassa qualità a discapito di un esordiente italiano di maggior talento. Come ti spieghi questo fenomeno? Perché gli editori italiani non si impegnano nella promozione delle opere degli autori italiani? G: Io non penso che il fantastico morirà mai. La fantasia è parte integrante della mente umana. Quando il plausibile mescola le carte della realtà, quando l’incredibile si stempera nel possibile, ecco, lì si trova il fantastico. Quanti grandi romanzi sono intinti nelle acque magiche del soprannaturale? Stoker, Shelley, Buzzati, Pennac, Lovecraft, Calvino, la stessa tragedia greca, intrisa di divinità e portenti... potrei andare avanti all’infinito a declinare autori che hanno fatto la storia della letteratura sconfinando nel fantastico. Cambiano i tempi, e i generi, ma la passione per realtà diverse dalla nostra rimane. L’editoria italiana ha la tendenza ad affidarsi a filoni – quello dei vampiri, per citarne uno, o quello degli angeli – che hanno riscosso successo su mercati differenti dal nostro, piuttosto che scommettere su romanzi originali,


fantasy di autori italiani. E naturalmente il lettore, gironzolando per le librerie, si imbatte solo in titoli stranieri e di conseguenza si adegua all’offerta. È un po’ la storia del gatto che si morde la coda. Eppure, il nostro Paese conta molti talenti della penna, anche nel fantasy, che andrebbero valorizzati, superando quelle vaghe remore che ancora permangono nei confronti della letteratura di genere. In fin dei conti, cosa ci può essere di più straordinario in un libro, quando riesce a distogliere l’attenzione del lettore dalle sue preoccupazioni, e anche solo per un breve momento lo trasporta in un mondo meraviglioso fatto di magia, passioni, e mondi meravigliosi? Ritengo che il fantastico in Italia avvia ancora molto spazio per evolversi. Secondo le proprie originalissime regole. S: Con l’avvento di Amazon, degli e-books e la sempre maggior fruibilità di internet e delle nuove tecnologie si è affermato il fenomeno del self publishing, che in America, più degli altri paesi, ha fatto conoscere il successo a più di un autore, basti pensare alla giovane Amanda Hocking che debutterà in Italia il 19 gennaio. Moltissimi autori che scelgono l’auto-pubblicazione però non sono altrettanto fortunati, sia per la mancanza di visibilità e sia in alcuni casi per la scarsa qualità dell’opera (con l’autopubblicazione, per esempio, viene a mancare l’editing professionale al testo). Qual è il tuo parere da autrice? Realisticamente, in Italia, l’autopubblicazione è una strada praticabile per farsi conoscere? G: Le case editrici sono spesso criticate perché concedono poco spazio agli esordienti, che a volte non riescono neanche a raggiungere l’attenzione delle persone preposte alla lettura

66 dei manoscritti. In Italia si pubblicano ogni anno 60.000 titoli. Sono un’enormità, ma sono solo una minima parte rispetto ai manoscritti che quotidianamente inondano gli editori, reclamando di essere giudicati. Tuttavia, la lettura dei testi da parte di professionisti svolge un ruolo fondamentale, quello della selezione dei testi validi, sotto criteri stilistici e di contenuto. Se potessi pubblicare da me, per esempio, una raccolta dei miei temi delle elementari – orrore e raccapriccio –, innanzitutto non avrei una rete distributiva alle spalle per promuoverla, attività che le case


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editrici invece svolgono con efficienza. E se invece riuscissi a distribuirla, toglierei spazio ad altri volumi che potrebbero essere molto più validi del mio guazzabuglio incerto fatto di fate, elfi, e faraoni maledetti. Quindi, da una parte il ‘self-publishing’ potrebbe permettere a quegli scrittori che sono effettivamente talentuosi ma il cui manoscritto si è perso fra centinaia di altri di farsi conoscere ugualmente, e magari aumentare le loro chance di essere pubblicati in futuro; dall’altra, elimina completamente la fase di selezione qualitativa, e rischia pertanto di inondare il mercato di testi, rendendo difficile la scelta ai lettori. S: Il tuo romanzo è il primo di una trilogia. Puoi anticiparci qualcosa in merito? Quali sono i tuoi progetti futuri? G: Il secondo volume della serie Il Risveglio del Potere è già concluso, ed è in attesa dell’editing. Mi è piaciuto davvero scrivere il secondo capitolo, perché contiene più magia e più azione. Molti segreti verranno svelati, mentre alcuni misteri si infittiranno ancora. Ora sto lavorando al terzo volume e non sono ancora certa che sarà quello conclusivo, visto che la storia ha una costante tendenza a voler prendere il sopravvento sulle mie intenzioni. La scorsa estate, inoltre, mi sono dedicata a un nuovo progetto. Un romanzo questa volta auto-conclusivo ambientato in una città che amo moltissimo. Per il momento sta riposando nel suo cassetto, ma non si può mai dire, giusto?


r acconto

Echi di Memoria di GIULIA MARENGO

DOBRALL, TERZO QUADRANTE, 783 dopo il III millennio Non era ancora l’alba.

Il clima mite delle Lande Basse non era sufficiente a imperlare le corolle dei fiori di un soffio argenteo di gelo, ma stille delicate di rugiada occhieggiavano timide sul sentiero. Un uomo incedeva, lento ma risoluto, su per il leggero declivio che conduceva sulla sommità dell’altura. Era una figura imponente, ritagliata contro il cielo ancora bagnato d’inchiostro. Molto alto, portava i capelli rasati, e il capo era sorretto da un collo possente. Dopo essersi fermato, esitando, scosse leggermente le spalle muscolose, come se avesse raggiunto una decisione, e allungò il passo. Si muoveva con grazia sorprendente per un uomo della sua mole, scivolando leggero e silenzioso sulle pietre del vialetto. Volute di una foschia evanescente quanto un sospiro si arricciavano pigre intorno agli abiti di fattura semplice, scherzando con gli stivali allacciati stretti fino al ginocchio. Giunto in cima alla collina, si fermò un momento per armeggiare con il laccio di plastacciaio che manteneva chiuso un piccolo cancello fatto di pali sottili, intrecciati a losanghe, poi scivolò all’interno. Il cimitero di campagna era immerso nella quiete, mossa soltanto dal pigolio asson-

nato di qualche uccello troppo mattiniero. L’uomo accarezzò con lo sguardo le modeste lapidi bianche, distrattamente, finché i suoi occhi non si posarono su una pietra tombale un poco discosta dalle altre, a ridosso di un frondoso albero di aloreca. Con un sospiro così lieve da rassomigliare un’illusione, il gigante si arrestò dinanzi alla lapide, sulla quale si arrampicava un tralcio odoroso di fiori. Nella luce color albicocca della terza luna di Dobrall, le parole incise sulla pietra erano a malapena visibili, ma lo sguardo dell’uomo era acuto e conosceva bene la scritta, come se fosse stata vergata da lui stesso con mano paziente. «Mai donna più amata, mai madre più rimpianta» Gli occhi grigi si velarono di sofferenza, e una mano si posò sulla fronte, incerta, evocando piano un ricordo. Nella sua mente, il suono affilato dell’acciaio che incontra altro acciaio cantava alto nell’aria, e due corpi si fronteggiavano, intrecciando sulla polvere del cortile una danza sinuosa fatta di affondi e schivate. Il suo avversario era più giovane, poco più di un ragazzo, eppure già un abile spadaccino. Padroneggiava quella quiete interiore che l’avrebbe presto distinto fra i compagni di allenamento, e che l’avrebbe condotto a rivestire un giorno quel titolo che lui stesso si sarebbe la-

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sciato alle spalle. Ora, però, era soltanto uno dei suoi allievi, per quanto dotato, e il gigante sorrise fra sé mentre arretrava di qualche passo. Come aveva immaginato, l’altro si sbilanciò in avanti con un lampo di trionfo negli occhi, certo, con quella sicurezza sfrontata che hanno i giovani, di aver sopraffatto il proprio maestro. Un guizzo di lato, e l’uomo evitò la punta smussata della spada da addestramento, e con una torsione elegante del polso mandò l’arma del suo avversario a rotolare lontano nella polvere. Per un momento, i due avversari di fronteggiarono, la lama del maestro appoggiata appena alla trachea dell’allievo. «Non devi mai abbassare la guardia, Laar», mormorò, abbassando l’arma e detergendosi la polvere dalla fronte ampia. «Hai troppa fiducia in te stesso». Il giovane strinse appena le labbra, rilassando la postura. «Un giorno o l’altro riuscirò a sconfiggerti», ribatté con voce sicura. Il gigante aprì la bocca per rispondere a tono, quando la sua attenzione fu catturata da un movimento, in alto, lungo i bastioni che circondavano il cortile. Un riquadro di stoffa, che somigliava a un fazzoletto, era stato catturato dalla brezza settembrina, e ora danzava nell’aria, irrequieto. Rimase sospeso finché il refolo dispettoso non l’abbandonò, poi ricadde molle ai suoi piedi. Entrambi gli uomini alzarono lo sguardo in direzione del camminamento che orlava le mura merlate della Rocca. Lassù, con i lunghi boccoli biondi che riflettevano la luce come un’alone di sole, una figuretta stava ritta, le dita ancora tese a trattenere ciò che era

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loro sfuggito già da qualche istante. La ragazza incrociò lo sguardo dei due uomini nel cortile e sorrise, agitando la mano in un cenno delicato di saluto. Il giovane rispose con un mezzo inchino, alitando: «Dama Isanne», con reverenza. Ma il gigante attraversò lo spazio che lo separava dal fazzoletto con due falcate rapide e, chinatosi, raccolse il pezzetto di stoffa e lo ripose nel taschino della giubba di cuoio. «Un giorno», assentì, rivolto al suo allievo. «Ma non oggi». *** Il sole aveva ormai eclissato le due lune di Dobrall quando l’uomo si voltò e riattraversò il cimitero a grandi passi. Non si voltò indietro neanche una volta, tutto concentrato com’era su ciò che lo attendeva. In pochi minuti, fu davanti alla porta di una casa. Era una costruzione modesta, in legno, ma così graziosa nell’elegante semplicità delle sue linee da apparire ben più grande. Tende di stoffa leggera, giallo pallido, ombreggiavano le finestre, e viticci di gelsomino si rincorrevano sulla facciata, saturando l’aria con il morbido aroma dei fiori bianchi. Sempre in silenzio, l’uomo aperse la porta e svanì all’interno per qualche minuto. Quando riapparve, portava fra le braccia un involto, che maneggiava con cura infinita. Non si curò di chiudere la porta alle sue spalle. Non avrebbe più fatto ritorno alla casa nelle Lande Basse. La strada da percorrere era breve, poche centinaia di passi appena, ma il gigante camminava lentamente, come se fos-


racconto se riluttante a percorrere l’ultimo tratto. Quando infine giunse alla sua meta, strinse il fagotto al petto con un braccio, liberando l’altra mano per battere tre colpi secchi all’ingresso di una nuova abitazione. La sua visita doveva essere stata attesa, perché le sue nocche non avevano ancora lasciato il legno che la porta venne spalancata con impeto. Sulla soglia stava un uomo non molto alto, dalla carnagione olivastra e capelli neri e folti, che ricadevano sulla fronte in un ciuffo. Intelligenti occhi scuri sovrastavano un naso aquilino e una bocca dagli angoli leggermente piegati in su, come se fosse in procinto di aprirsi in un sorriso. Indossava una veste bianca e fluente, sulla quale erano ricamati, in alto, il simbolo di Acqua e l’insegna del suo ordine. Il gigante abbassò il capo in un saluto. «Guaritore Reel». L’altro fece un cenno, ma la sua attenzio-

ne era tutta calamitata dal piccolo involto, stretto in una coperta color arancio. «Capitano, benvenuto. Volete entrare?», domandò, come per un ripensamento. «Meglio di no». La voce era tersa, quasi sgarbata. Ma quando tese il fagotto verso le braccia dell’altro, lo fece con attenzione spasmodica. «Ecco».

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Il Guaritore accomodò il peso su un braccio, svolgendo un lembo della coperta. Fra la lana fece capolino un visetto paffuto. Un alone vibrante d’oro rosso circondava la testolina, e i capelli sottili s’arricciavano appena intorno alle orecchie. Non appena la luce le piovve sul volto, due occhi nocciola di straordinaria intensità si spalancarono di sorpresa, e la bimba, spaventata dal volto poco familiare, cominciò a piangere piano, ma con concentrata intensità. Subito il gigante fece un passo avanti, e allungò una mano verso la bambina. «Shhht, Jayc’ulla», mormorò, carezzevole. «Va tutto bene». La bambina catturò l’indice nel piccolo pugno e si acquietò all’istante, fissandolo assorta. Dopo qualche istante, scivolò nuovamente nel sonno, la bocca semiaperta in un piccolo sorriso sognante. Il Guaritore la guardò con affetto. «La crescerò come se fosse mia», promise. «Non

lascerò che le accada nulla di male». Lo sguardo che ricevette fu lungo e valutativo. «Avete giurato». «Ho giurato. E manterrò il mio giuramento. Desiderate che le parli di voi, quando crescerà?», domandò, esitante. «No». Dopo un’ultimo sguardo alla bambi-


na addormentata, l’uomo si voltò di scatto, lasciando alle sue spalle il Guaritore ancora ritto sulla soglia. «Se sarà fortunata, non dovrà mai udire il mio nome». Eston Reel alzò la mano che non reggeva la bambina a schermarsi gli occhi. Quel giorno splendeva il sole e il riverbero era forte, ma avrebbe giurato di aver visto una lacrima brillare negli occhi grigi del gigante. *** MICONDAR, ORLO ESTERNO, 803 dopo il III millennio Il fuoco che aveva scoppiettato allegramente nel camino per tutta la sera si era ridotto a un cumulo di braci morenti. La Locanda del Boia era avvolta nel silenzio. Gli avventori, dopo battuto le mani e cantato a squarciagola in accompagnamento alle romanze stonate di Sand Colcher, avevano abbandonato la sala grande fra risate e pacche sulle spalle. Uno a uno,

tutti gli ospiti della locanda avevano salito le scale diretti alle stanze spartane che avrebbero condiviso per la notte, e perfino la vecchia Sida, una volta ramazzato sommariamente il pavimento in pietra, si era ritirata nei suoi alloggi. Solo due figure rimanevano, avvolte dalla penombra che giocava a rimpiattino con i

bagliori di fiamma. Geth Iarmod osservava la fanciulla ai suoi piedi, stretta nella coperta di lana grigia tirata fin sotto il collo. Appoggiava la testa contro le sue gambe, in una posizione a suo parere terribilmente scomoda, che però non le impediva di dormire ormai da qualche ora. Lo sguardo dell’uomo si soffermò sulle dita sottili che stringevano la stoffa, poi risalirono lungo il volto delicato, ombreggiato dalle lunghe ciglia scure. Riccioli d’oro rosso raccoglievano gli scarni barbagli di luce. Come se avesse percepito il suo esame, la ragazza aggrottò la fronte, e un lamento sommesso le sfuggì dalle labbra. Stringeva la coperta così forte che le nocche sbiancarono, e borbottò una mezza protesta irrequieta. Geth si sporse in avanti, sfiorandone le dita, quasi con esitazione, con l’indice. «Dormi, Jayce di Dobrall», si ritrovò a sus-

surrare come l’eco di una voce lontana. «Va tutto bene». Le labbra della ragazza si schiusero in un sorriso appena accennato, e di nuovo il sonno l’avvolse di quiete.

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speciale

« […] La bellezza del mondo, che dovrà così presto soccombere, ha due tagli, uno di gioia, l’a ltro d’angoscia, che ci dividono il cuore.» (Una stanza tutta per sé)


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RITRATTO DI

VIRGINIA WOOLF Scrittrice dallo stile raffinato e ricercato, acuta critica letteraria, autrice di romanzi dal carattere sperimentale, saggi, racconti, circondata da un alone romantico per quella sua malinconica bellezza ripetutamente offerta dal suo più famoso ritratto fotografico (eseguito da G. C. Beresford intorno al 1902), per la fragilità, la frigidità, i disturbi psichici, il suicidio, ombre della sua vita originate da fatti concreti, come, in gioventù, le ripetute violenze sessuali da parte dei fratellastri, ebbe un’esistenza funestata da gravi dolori, ma anche costellata di soddisfazioni letterarie.

Arrivata relativamente tardi alla carriera di scrittrice, ma famosa già alla fine degli anni Venti, attraversò in profondità le problematiche della condizione femminile borghese, costituendo la sua opera un essenziale punto di riferimento per le autrici che rifiutavano di adeguarsi ai dominanti modelli maschili e cercavano di elaborare una forma autonoma di scrittura, divenendo una figura importante nell’evoluzione del romanzo del ventesimo secolo e di culto del nuovo movimento delle donne, suscitando enorme interesse anche taluni aspetti del suo privato, come l’intenso legame con la scrittrice Vita Sackville-West. Nata a Londra il 25 gennaio 1882 in una famiglia facoltosa, di intellettuali, numerosa, da genitori entrambi reduci da esperienze matrimoniali, Julia Prinsep sua madre era donna bellissima e colta. Vedova, dalla precedente unione con Herbert Duckworth aveva avuto tre figli, George, Gerald e Stella, dal

di FRANCESCA SANTUCCI

secondo matrimonio ebbe Virginia, Vanessa (con la quale molto stretto fu il legame di Virginia), Thoby e Adrian. Leslie Stephen, suo padre, storiografo e critico, pure vedovo, dal primo matrimonio aveva avuto una figlia mentalmente ritardata, Laura. Virginia, insieme a sua sorella Vanessa, secondo la tradizione vittoriana fu educata in casa dai genitori, apprendendo dal padre (al quale non perdonò mai di averla privata dell’educazione scolastica!) la matematica e l’inglese, dalla madre il latino, il francese e la storia. Pur non potendo accedere all’Università preclusa allora alle donne tuttavia ugualmente crebbe colta e ricca di stimoli, entrando in contatti con gli intellettuali del tempo tramite il fratello Thoby, che frequentava il Trinity College di Cambridge. I primi grandi dolori della sua vita furono la morte della madre centro della vita, fulcro della casa, nel 1895 e, successivamente, della sorellastra Stella, che le provocarono profondi attacchi d’insicurezza. E proprio dopo la morte della madre, Virginia fu colpita dal primo violento attacco della malattia che, più volte, si sarebbe riaffacciata nella sua vita: un crollo nervoso con conseguente crisi maniaco-depressiva e tendenze suicide. Scrisse Virginia: […] la morte di mia madre, la morte di Stella. Non sto pensando ad esse: sto pensando al danno insensato che queste morti hanno causato.1


speciale In questi lutti il padre — che, dopo la morte della moglie, molto si era appoggiato a Stella — non riuscì ad essere di alcun conforto, né a Virginia, né agli altri figli e figliastri, e lei, sola, indifesa, cominciò a soffrire dell’indifferenza del mondo degli uomini, ma ne aveva già conosciuto anche la violenza subendo, a soli sei anni, un’aggressione sessuale da parte del fratellastro Gerald e, dopo la morte della madre, pure l’altro fratellastro, George, cominciò a molestare sia lei che Vanessa, (George Duckworth non fu soltanto padre e madre, fratello e sorella delle povere ragazze Stephen, ma anche il loro amante);2 ciò causò in lei un grave collasso nervoso, peggiorando i disturbi psichici nei mesi in cui Stella, alla quale era molto legata, cominciava a star male, avviandosi alla fine. Alla morte del padre, nel 1904, Virginia ebbe il secondo serio attacco della sua malattia aggravata la sua depressione dal senso di colpa per non avergli espresso pienamente il suo affetto e tentò per la prima volta il suicidio; la salvarono le cure mediche e, soprattutto, il grande conforto di Violet Dickinson, amica della defunta sorellastra Stella, che la ospitò nella sua casa, la curò e poi la introdusse al Guardian, il settimanale clericale londinese. Virginia riuscì, poi, comunque, a vivere una vita normale, ad essere attiva e impegnata, a scrivere e a viaggiare. Nell’autunno del 1904, insieme alla sorella Vanessa e ai fratelli Thoby e Adrian, si trasferì a Gordon Square, nel quartiere londinese di Bloomsbury, dove prese vita il gruppo Bloomsbury Set, un circolo intellettuale di scrittori e artisti che credevano fermamente nell’amicizia e nella libertà di tutti, dalle donne agli omosessuali, dalle razze sottomesse ai poveri, e che fino agli anni Trenta animò la scena culturale inglese, riunendosi settimanalmente in casa dell’editore Leonard Woolf per discutere di arte, letteratura e politica. Anche Virginia fu tra gli animatori del circolo, insieme ad altri nomi eccellenti come il romanziere Edward Forster, lo storico e biografo Lytton Strachey e l’economista John Keynes, poi ispiratore della politica economica di Roosevelt. Libera, finalmente, dalla presenza dei fratellastri che molestavano sia lei che Vanessa, stimolata dal nuovo ambiente in cui era inserita, con rinnovati entusiasmi iniziò a dare ripetizioni serali alle operaie di un collegio della periferia, ad essere attiva nel movimento delle suffragette e a pubblicare sul “Times Literary Supplement” le prime critiche letterarie.

Il 10 agosto del 1912, dopo aver rifiutato altre proposte di matrimonio, non volendo restare nubile (A ventinove anni non sono ancora sposata-sono una fallita- non ho figli-e sono anche pazza, oltre che scrittrice: 3 così aveva precedentemente asserito) sposò Leonard Woolf, accomunata a lui anche da sogni di gloria letteraria, ma durante il viaggio di nozze compiuto in Francia, Spagna e Italia non seppe corrispondere alla passione amorosa del marito e ben lo capì Vanessa se così commentò: Virginia secondo me non ha mai compreso né apprezzato la passione sessuale degli uomini .4 Ben presto, però, Virginia ricominciò a dare segni di squilibrio mentale e nel 1913 tentò il suicidio per la seconda volta, ingerendo una dose massiccia di veronal. Nel 1915 fu nuovamente ricoverata in clinica, rifiutando di vedere Leonard verso il quale si mostrava particolarmente aggressiva, convinta che lui fosse d’accordo con i medici che la curavano privandola dei suoi amati libri e costringendola ad un’alimentazione forzata e a dormire.

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n

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speciale Si riprese, poi, anche grazie al marito che, per farle ritrovare fiducia ed equilibrio, le propose di fondare una casa editrice; acquistarono una piccola macchina da stampa vista durante una passeggiata a Clerkenwell in un negozio (davanti al quale si erano fermati come due bambini affamati di fronte alla vetrina del pasticciere),5 impararono subito ad usarla e nacque, così, la “Hogarth Press” che pubblicò opere sperimentali e innovative di scrittori emergenti di grande talento, tra cui la Mansfield ed Eliot. Nel 1922 le sue fragili condizioni mentali subirono un nuovo colpo, allorché dei critici illustri, tra cui proprio la Mansfield, mal giudicarono il suo romanzo “Night and Day” (Notte e giorno). Risale a quel tempo la sua amicizia con Vita Sackville-West, scrittrice e poetessa, donna passionale ed eccentrica, dalle non nascoste tendenze lesbiche (ma anche la Woolf in gioventù era stata attratta da altre donne), sposata con Harold Nicolson, un diplomatico omosessuale dal quale aveva avuto due figli. Con Vita Virginia intrecciò una profonda relazione che non intaccò il suo rapporto con Leonard e divenne fonte d’ispirazione: fu a lei, infatti, che pensò nella creazione di Orlando, il protagonista androgino del suo romanzo (la storia di una nobildonna affascinante che vive attraverso i secoli cambiando sesso molte volte) definito da Nigel Nicolson, il figlio di Vita, La più lunga ed affascinante lettera d’amore della letteratura.6 Virginia e Vita s’incontrarono per la prima volta ad una cena da amici e da quel momento cominciarono a frequentarsi, fra alti e bassi, e a scriversi fino alla fine dei giorni di Virginia, producendo un epistolario tra i più belli della letteratura, tenero, fantasioso, gioioso, giocoso. L’amicizia fra le due donne dalle comples-

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s e personalità simili eppure diverse (Vita navigava a gonfie vele sulle alte maree,7 Virginia costeggiava in acque chete8) si sviluppò lentamente, e fu solo nel dicembre del ’25 che mutò in appassionata vicenda sentimentale. Il 17 dicembre Virginia fu ospite per tre notti a casa di Vita a Long Barn, e qui ebbe inizio la loro relazione amorosa, scoprendo, finalmente, Virginia, la passione. Virginia cercava in Vita, forte, ardente, virile, dominatrice, insofferente della vita borghese, amante dei viaggi, cacciatrice come un uomo di donne dalle quali si faceva amare come un uomo, che possedeva esercitando un potere assoluto e che poi abbandonava, sempre pronta a nuove conquiste, quella protezione materna che tanto aveva desiderato nella sua vita: «Mi fai sentire - le scriveva - come un bebè che ha bevuto latte zuccherato.9 » Vita, che tante donne aveva “cacciato”, era attratta dalla bellezza e fragilità del corpo di Virginia, dalla sua “spiritualità”:

c giat con cos sist bam

gini lette son mod con mai non ti ac rest un cos cred


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za, e molto. Così, in realtà, questa lettera è solo uno strillo di dolore. (21 gennaio 1926)

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Ho visto Virginia oggi, incredibilmente deliziosa e fragile, semiadata su due seggiole, sotto un manto d’oro; n la voce esile e le mani affusolate; Virginia, sì bella e dorata, sdraiata su due sedie, irretibile più che mai, sparito il brillio, rimasta la mbina.10 E ancora:

Sono ridotta a una cosa che desidera Viria. Avevo composto per te una bellissima era, nelle ore da incubo della mia notte innne, ed è sfuggita: mi manchi e basta, in un do molto semplice, disperato e umano. Tu, n tutte le tue lettere non mute, non scriveresti i una frase elementare come questa; forse n la sentiresti nemmeno. Tuttavia credo che ccorgerai di un piccolo vuoto. Ma lo rivestiti di una frase tanto squisita che perderebbe po’ della sua realtà. Mentre per me è una sa fortissima: mi manchi ancor più di quanto dessi: ed ero pronta, a sentire la tua mancan-

La loro storia d’amore e d’amicizia, sia pure con interruzioni fra allontanamenti, fughe, tradimenti dell’infedele Vita che sempre con furore nuove donne amava addolorando Virginia, durò quindici anni, incontrandosi ovunque, in case, castelli, salotti mondani, fino alle soglie della morte, che colse Virginia lontana da Vita. Vita è spiritosa e capace di un affetto profondo, voglio dire maldestro e silenzioso. Sono felice che il nostro amore abbia resistito così bene.12 In Virginia, con il passare degli anni, pur continuando l’attività letteraria, sempre più frequenti diventarono le crisi depressive, peggiorate dalle fobie, comuni un po’ a tutti all’epoca, acuite dalla seconda guerra mondiale. Nel gennaio del 1941, esattamente il 25, giorno del suo compleanno, si ripresentarono i segni della sua malattia, che ben riconobbe, forti emicranie, attacchi di angoscia acuta, depressione crescente con idee suicide accompagnata dal senso d’inutilità e di vuoto che le impediva di scrivere costringendola all’inattività e che sempre seguiva al termine di un lavoro creativo, quando doveva sottoporlo al giudizio di tutti. Dopo il momento “maniaco” dell’euforia, quando, come trasportata in alto da un’onda, si sentiva forte e potente, e riusciva a creare dando corpo e vita ad emozioni e forme, torna-


speciale va l’abbattimento.

zo 1941)13

Sono certa che sto di nuovo impazzendo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che chiunque avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa t e rri b i l e malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questo come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi. V. (Lettera del 28 mar-

Annichilita dal terrore che la depressione potesse riassalirla, furiosa contro chi avrebbe voluta curarla col cibo privandola dei libri, rabbiosa perché non avrebbe potuto più scrivere, presa da una cupa ossessione di morte, dopo aver scritto dei biglietti d’addio alla sorella Vanessa e al devoto marito, la cui presenza sempre confortante era stata nei momenti di disagio mentale, Virginia uscì di casa, attraversò i campi, si diresse verso il fiume Ouse, che scorreva vicino alla sua casa di campagna a Rodmeil, raccolse sulle sponde due pietre pesanti, se le cacciò nelle tasche e andò ad annegarsi. In una lettera del 1912 a Violet Dickinson la Woolf aveva scritto che, se si fosse sentita fallita come scrittrice e come donna, sarebbe andata ad affogarsi:14 e così fece!

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Il cadavere, trascinato in mare, fu ritrovato tre settimane dopo, e le sue ceneri furono seppellite sotto un olmo nel giardino della Monk’s House, a Rodmell. Quando Vita apprese la tragica notizia non riuscì a comprendere, ma qualche anno dopo scrisse a Leonard che se avesse saputo dello stato mentale in cui stava affondando e si fosse trovata sul posto sarebbe riuscita a salvare Virginia dalla depressione e dai demoni della sua follia. Qualche tempo dopo, poi, si recò a trovarlo a Rodmell; Leonard l’accompagnò nel salottino di Virginia, dove tutto di lei era rimasto intatto: sul tavolo le sue lane, i lavori di cucito, il ditale, un quaderno di appunti, riempito dalla sua scrittura. Vita disse a Leonard: Leonard, non mi va che tu te ne stia qui da solo in questo modo. Leonard guardò Vita con i suoi limpidi occhi azzurri e le rispose: È l’unica cosa che possa fare.15 Leonard seguì Virginia 28 anni dopo; tra le sue carte fu trovato questo scritto:


So che Virginia non verrà attraverso il giardino dal suo studio, eppure guardo in quella direzione cercandola. So che è affogata eppure mi aspetto sempre di sentirla entrare. So che il libro è finito, ma io ancora giro pagina. La stupidità e l’egoismo non hanno limiti.16 Virginia aveva scritto di Leonard: La sensazione che il proprio essere riecheggi nello spazio, quando lui non è qui a racchiuderne tutte le vibrazioni, non è espresso in modo molto chiaro, ma è la sensazione stessa che è strana. Come se il matrimonio fosse lì a completare lo strumento, e se suona uno solo penetra come un violino derubato della sua orchestra e del suo pianoforte.17 Vasta fu la produzione di Virginia Woolf, opere in prosa, romanzi e racconti, come “The Voyage Out” (La crociera), 1915, “Two Stories” (Due storie) 1917, “Night and Day” (Notte e giorno), 1919; “Monday or Tuesday” (Lunedì o martedì), 1921; “Jacob’s Room” (La stanza di Giacobbe), 1922; “Mrs Dalloway” (La signora Dalloway), 1925; “Tho the Lighthouse” (Una gita al faro), 1927, “Orlando: a Biography” (Orlando, una biografia), 1928; “A Room of OnÈs Own” (Una stanza tutta per sé), 1929; “The Waves” (Le onde), 1931; “Flush: a Biography” (Flush, una biografia), 1931; ”The Years” (Gli anni), 1937: “Between the Acts” (Tra un’atto e l’altro), 1941, “A Haunted House and Other Short Stories” (Una casa infestata e altre storie). Soprattutto importanti per il carattere sperimentale i romanzi, in opposizione alla corrente naturalistica di molti romanzieri del tempo (che si soffermavano sulla descrizione esteriore dei personaggi) caratterizzati da un’innovativa struttura narrativa volta a polverizzare la trama a favore degli eventi psichici, a descrivere l’individuo nella sua interiorità, i vari momenti dell’essere nel fluire dell’esistenza, non in ordinata successione temporale degli eventi, ma (con) fondendo

passato, presente e futuro, descrivendo le infinite s f a c c e ttature dell’io (pensieri, emozioni, sogni, idee, impressioni), utilizzando il “monologo interiore” e il “flusso di coscienza” (stream of consciousness) per scandagliare ed offrire al lettore la più profonda interiorità del soggetto, le protagoniste eroine sempre tese alla “verità”, alla “realizzazione”, sovente raggiunta. Rilevante anche la saggistica a cui autorevolmente la Woolf si dedicò, con erudizione e competenza, occupandosi di storia letteraria inglese, ma anche di argomenti di costume, in particolare la condizione della donna nella società del suo tempo. Di grande rilevanza il lungo saggio/denuncia/protesta “Una stanza tutta per sé “, rielaborazione di due conferenze tenute nel 1928 ad Oxford e Cambridge sulla donna e il romanzo (Women and Fiction). In quest’opera la Woolf si chiede che effetto abbia prodotto sulla creatività femminile la privazione di una stanza (uno spazio personale) tutta per sé e di risorse economiche. In analisi lucida, garbata ma impietosa, ripercorre la storia culturale della donna, discriminata, vessata dalla presunzione maschile, per secoli considerata inferiore all’uomo, esclusa dalle professioni, dai luoghi di potere, dai processi creativi, dagli affari, dalla politica, relegata nel domestico ruolo prestabilito di angelo del fo-

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speciale

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colare, impossibilitata a realizzarsi intellettualmente perché priva di un luogo della casa in cui potersi concentrare in un progetto artisticoculturale e d’indipendenza economica (tema sul quale giustamente insiste anche nell’altro importante saggio, “Le tre ghinee”, sottolineando come gli uomini ne abbiano sempre goduto, a scapito delle donne, che alle loro figlie null’altro hanno avuto da lasciare in eredità se non la loro povertà, insieme alla subordinazione al maschio). Esorta, dunque, le donne ad uscire di casa, ad istruirsi, a limitare il numero delle nascite perché far nascere dei figli comporta sempre la limitazione della realizzazione femminile, a ritagliarsi spazi propri e a rendersi economicamente indipendenti, perché per poter scrivere romanzi o poesia servono cinquecento sterline l’anno e una stanza con una serratura alla porta,18 laddove simbolicamente le cinquecento sterline significano la possibilità di contemplare e la serratura alla porta la possibilità di pensare senza l’aiuto di nessuno.19

Concludendo che La libertà intellettuale dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale,20 la Woolf auspica che le donne un giorno abbiano sufficiente denaro per viaggiare o per oziare, per contemplare il futuro o il passato del mondo, per sognare davanti ai libri e vagare per le strade e lasciare che la lenza del pensiero scenda sempre più in fondo al fiume.21

NOTE

FONTI

V. Woolf, Momenti di essere. Scritti autobiografici, p.216. op. cit. pag. 226. 3 Woolf, Romanzi. 4 op. cit. 5 op. cit. 6 Adorata creatura. Le lettere di Vita Sackville-West a Virginia Woolf, pag.28. 7 op. cit. pag.22. 8 op. cit. pag.22 9 op. cit. pag.22. 10 op. cit. pag.214. 11 op..cit. pag.87. 12 op. cit. pag.451. 13 Lettere in morte di Virginia Woold, S. Oldfield. 14 The letters of Virginia Woolf, a cura di N. Nicolson e J. Trautman, Harcourt Brace Jovanovich, New York, vol.I p.449. 15 Op.cit. 16 L. Woolf , The Journey Not The Arrival Matters. 17 V. Woolf, A Writher’s Diary (Diario di una scrittrice), 1953, postumo. 18 Una stanza tutta per sé, pag.132. 19 op. cit., 134. 20 op. cit., pag.136. 21 op. cit., pag.137. 22 op. cit., pag.113.

M. Merlini, Invito alla lettura di Virginia Woolf, Mursia, Milano 1991.

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Con tutti gli ovvi limiti e contraddizioni per gli ormai acquisiti diritti e le sempre più numerose e pari opportunità offerte alle donne, fortunatamente non più vite infinitamente oscure,22 il saggio, scritto nel consueto stile scorrevole ed elegante, propone numerose riflessioni tuttora illuminanti sul maschile e sul femminile e dimostra l’acutezza, la vivacità intellettuale e la straordinaria modernità del pensiero di Virginia Woolf che, in Italia già molto famosa negli anni ’30, riscosse un’incredibile successo negli anni ’60, ponendosi come modello da seguire per la scrittura femminile.

Adorata creatura. Le lettere di Vita Sackville-West a Virginia Woolf, La Tartaruga edizioni, Milano 1985. V. Woolf, Saggi, prose, racconti, I Meridiani, Mondadori edizioni, Milano 1998. V. Woolf, I romanzi, I Meridiani, Mondadori edizioni, Milano 1998. S. Oldfield, Lettere in morte di Virginia Woolf, Dalai Editore, Milano 2006. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, La Biblioteca di Repubblica, Ariccia (Roma) 2011. V. Woolf, Le donne e la scrittura, La Tartaruga, Milano 2003. V. Woolf, Momenti di essere. Scritti autobiografici, La Tartaruga, Milano 2003. The letters of Virginia Woolf, a cura di N. Nicolson e J. Trautman, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1976. L. Woolf , The Journey Not The Arrival Matters, Harcourt, Brace & World , New York 1970.



c lassici

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L’ingratitudine di

Ch a r lot t e

Brontë di DESY GIUFFRÈ


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Un topo, stanco della vita delle città e dei tribunali (perché aveva fatto la sua parte in palazzi di re e in saloni di gran signori), un topo che l’esperienza aveva reso saggio, insomma, un topo che da cortigiano era diventato filosofo, si era ritirato nella sua casa di campagna (un buco nel tronco di un grande e giovane olmo), dove viveva da eremita, dedicando tutto il suo tempo e le sue cure all’educazione del suo unico figlio. Il topo più giovane, che non aveva ancora ricevuto lezioni severe, ma salutari, che forniva solo l’esperienza, era un po’ sconsiderato, i saggi consigli di suo padre gli sembravano noiosi, il riparo e la tranquillità dei boschi, invece di calmargli la mente, lo stancavano. Crebbe impaziente di viaggiare e di vedere il mondo. Un bel mattino, si alzò presto, preparò un piccolo bagaglio con formaggio e cereali, e


c lassici senza dire una parola a nessuno, l’ingrato abbandonò il genitore e sua dimora paterna e partì verso terre sconosciute. In un primo momento, tutto gli sembrò affascinante, i fiori gli apparivano di una freschezza e gli alberi di un verde mai visti dalle sue parti - e poi, vide così tante meraviglie: un animale con la coda più grande del suo corpo (si trattava di un scoiattolo), una piccola creatura che portava la sua casa sulla schiena (una lumaca). Dopo diverse ore si avvicinò a una fattoria, attirato dall’odore della cucina, entrò nel cortile – dove vide una sorta di gigantesco uccello che faceva un verso orribile mentre marciava con aria feroce e orgogliosa. Ora, si trattava di un tacchino, ma il nostro topo lo prese per un mostro, e spaventato dal suo aspetto, subito fuggì via. Verso sera, entrò in un bosco, stanco e spossato, e si sedette ai piedi di un albero, aprì il suo pacchettino, mangiò la sua cena, e se ne andò a dormire. Si svegliò al verso dell’allodola con le membra intorpidite dal freddo, il giaciglio duro sotto il suo corpo; poi, ricordandosi di suo padre, l’ingrato ripensò alla cura e alla tenerezza del buon vecchio topo, formulando vani progetti per il futuro, ma era troppo tardi, il freddo aveva ormai gelato il suo sangue. L’esperienza è stata con lui un’austera padrona, e gli diede una sola lezione e un’unica punizione; la morte.

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Il giorno dopo un taglialegna trovò il cadavere, e lo giudicò solo una cosa disgustosa - e lo spinse via con il piede mentre passava, senza pensare che lì giaceva il figlio ingrato di un tenero padre.

Una fiaba inedita e dal triste finale che vanta la generosa età di ben 170 anni di Desy Giuffrè

(Traduzione di Germana Maciocci)

Sono dovuti trascorrere ben 170 anni dalla sua composizione, ma infine è giunta a noi la fiaba senza lieto fine firmata da Charlotte Brontë, nel lontano 16 Marzo 1842 e intitolata: “L’ ingratitudine”. In realtà, a detta di Bracken – il ricercatore d’archivio autore del rinvenimento – il testo era un compito di esercizio alla scrittura, assegnato a Charlotte dal suo insegnante, Constantin Heger, durante il soggiorno a Bruxelles trascorso in compagnia della sorella minore, Emily – futura autrice di Cime tempesose – per studiare le lingue straniere. Constantin altri non è che il tutore del quale la giovane scrittrice s’innamorò perdutamente… ma questa è un’altra storia. L’ingratitudine è un testo inedito piuttosto breve, scritto in lingua francese e ritrovato nel Museo Reale di Mariemont a Bruxelles. Non mancano alcuni errori di ortografia certamente riconducibili alla giovane età di Charlotte ai tempi della composizione, e la tematica custodisce una morale dai molteplici risvolti, seppure apparentemente semplice e ovvia. A noi tutti è infatti nota l’esistenza ritirata e piuttosto ombrosa che la vita ha riservato alle sorelle Bronte, unite da una genialità genetica e particolarissima, ed è dunque facile cogliere il sottile riferimento che questa fiaba propone in merito al desiderio di libertà ed evasione da una realtà troppo angusta e opprimente, sebbene ricca di protezione paterna. Una libertà però ingiusta, quasi meritevole di una punizione intransigente come la stessa morte. È infatti questa la trama centrale di L’ingratitudine, il cui protagonista è un topolino che decide di abbandonare la casa e l’amore di un padre premuroso, per inseguire il fascino della città. Una fuga breve la sua, smorzata dalle difficoltà del cammino e dall’inevitabile fine a cui è destinato colui che sceglie di lasciare qualcosa di sicuro e perpetuo in cambio dell’ignoto. Un brano in cui salta immediatamente lo stile fresco e giovane dell’autrice, sempre però intriso di quella parvenza saggia che caratterizza il suo essere equilibrata e “di mezzo” tra le diverse personalità delle tre sorelle Brontë, ovvero tra la dolcezza di Anne e l’ombrosità di Emily. Si aggiunge così un altro tesoro al patrimonio che porta con sé l’impronta dei Brontë, un tesoro dai tratti grezzi, ma non per questo meno preziosi.

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speciale

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di SELENE PASCARELLA


L’Apocalisse è questione di punti di vista. Quello che per noi è l’ultimo anno, il lungo count down verso la fine del mondo, per i morti che ritornano è un gigantesco party zombie della vigilia. Entro il 2012 i ghoul divoratori di carne umana, i proletari del mondo horror nati dall’innesto tra Caraibi e american suburbs, percorreranno l’ultimo miglio che li separa dalla consacrazione, la fase “terminale” di una marcia partita appena prima dello scoccare del terzo millennio. C’è voluto del tempo (che volete, la decomposizione è nemica della fretta) ma poi nemmeno tanto se ragioniamo in termini di colonizzazione. Ri-partiti dalle lande dell’horror poco meno di una decade fa (Volete proprio una data? Scegliamo il biennio 2002-2003, quello di 28 giorni dopo di Danny Boyle e The Walking Dead di Robert Kirkman) nei prossimi 365 giorni i walking dead arriveranno dappertutto e non è un modo di dire.


horror Cinema di genere e web series, narrativa young adult e pamphlettistica satirica, libri illustrati per ragazzi e bambole per pre-pre-adolescenti, pilastri della letteratura e romanzacci rosa sono il loro terreno di caccia già da un po’. Saggi scientifici e manuali politici che utilizzano i non morti come chiave d’interpretazione del mondo e codice per ripensare i cardini intellettuali del XX secolo non sono più una novità. Vengono sfornati così tanti prodotti di genere “Z” da indurre le riviste specializzate ad aprire rubriche dedicate. Le ricerche mediche su formiche zombie e virus prionici che potrebbero trasformare gli uomini in folli cannibali sono materia per i media generalisti, assieme ai pezzi sull’influenza stagionale e l’omosessualità degli orsi bruni. Il Center for Desease Control and Prevention ha inserito gli zombie tra le minacce alla salute pubblica americana nel prossimo futuro, in Messico oltre diecimila zombie hanno marciato per le strade solo poche settimane fa e l’attiva partecipazione dei morti viventi al movimento Occupy Wall Street li ha ufficialmente candidati come nemici dell’ordine pubblico.

88 Volete sapere cosa bolle in pentola

in questo pazzo, decrepito, mondo? La regola è una e una sola: Follow the zombies! I divoratori dondolanti hanno un fiuto eccezionale per i luoghi di frattura, il tempo di crisi. La loro epifania nella cultura di massa avviene a ridosso della grande depressione e della cavalcata della vecchia Europa verso l’incubo del totalitarismo e le crudeltà immani della seconda guerra mondiale. Gli zombie, nella loro primordiale versione voodoo, sono un incubo figlio del colonialismo, scaturito dalla cattiva coscienza di una piccola fetta di mondo che si alimenta del sangue, della vita e del lavoro dei tre quarti restanti. Il loro successo è immediato e clamoroso, ma ha una controparte. Come ogni altro mostro passato della produzione di genere al consumo popolare, lo zombie viene assorbito, modificato, addomesticato. Finisce nelle strisce per ragazzi e si perde nel sottobosco degli orrori da drive in. Ma resiste, pronto a sorprendere alle spalle una nuova generazione, quella destinata a cambiare il mondo con il ‘68. La rentrée zombie cavalca la contestazione giovanile lungo i fotogrammi di The Night of the Living Dead di Romero, trasformando il cadavere-burattino (il mostro di qualcun altro, lo stregone bokor, di gran lunga più mostro di lui) nel predatore famelico che divora ogni vita che incontra, trasforma qualsiasi essere vivente nella negazione dell’umano. Il mass dimensional monster ha il volto familiare e terrificante del vicino di casa e la capacità di penetrazione di un jingle pubblicitario. Preso singolarmente è un nemico temibile ma di cui si può aver ragione: è


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horror lento, è insenziente e non si rialza più dopo un colpo ben assestato alla testa. Di norma però se ne va in giro a gruppi, se non a orde, costituendo una minaccia che non lascia scampo: lenta, insenziente, con una nuova testa pronta a prendere il posto a quella appena saltata via. La nemesi perfetta di una società costruita sul mito dell’autoaffermazione e dell’individualismo, eppure incastrata in una cornice di massificazione e spersonalizzazione. Lo zombie di Romero diventa subito canone abbandonando le suggestioni fantastiche e l’appeal caraibico per l’ambientazione realistica e la dimensione metropolitana. Ma nei successivi quarant’anni la sua mutazione non si arresta, continua sottotraccia, tra exploit e letarghi, nuove strade e vicoli ciechi. L’evoluzione del morto vivente non segue percorsi univoci, non assistiamo a una eliminazione darwiniana delle caratteristiche biofisiche del mostro non più al passo coi tempi. Lo zombie lento e quello veloce, quello senziente e il predatore afasico divora cervelli, coesistono e creano sempre nuove forme, presentandosi all’appuntamento con la nuova grande crisi (quella di oggi) sotto vesti diverse, contaminate e contaminanti, in continuo movimento. Gli zombie non sono «i nuovi vampiri», ma la traduzione (in fotogrammi, spartiti, parole, fotografie, etc., etc.) dello spirito apocalittico dei nostri tempi. Dove tutto torna e la morte ha smesso di essere un limite: la guerra è infinita, la pandemia è globale, il rischio è una condizione permanente. L’apocalisse questione di

abbiamo detto – è punti di vista, lo

zombie è l’icona liquida capace di contenerli tutti. È l’escathon, il game over biblico: «Verrà il giorno in cui i morti c a m miner a n n o sulla terra». È la madre di tutte le catastrofi, l’evento che separa il tempo in un prima e un dopo, la rottura di senso che stravolge dalle fondamenta l’unica certezza assoluta, la morte, illuminando ogni nostra azione, dal passato al futuro, di una luce nuova, di un significato sconosciuto. È la fine che non è la fine, l’apocalisse che comincia davvero quando si è ormai consumata. Ogni buona storia di zombie si disinteressa non a caso delle origini del contagio, la sua natura di postapocalittico la proietta oltre, non a cercare le ragioni della caduta del vecchio mondo ma ad esplorare la geografia di quello nuovo. Una dimensione dove il tempo lineare non serve più e la natura di ciò che è umano si ridisegna su nuove coordinate. Jonathan Maberry l’ha definita «una terza condizione dell’esistenza», dove “uomini” e “mostri” sono solo categorie vuote e fine e inizio si mordono reciprocamente la coda. Gli zombie non sono la nuova moda, ma la narrazione ultima di un mondo che è morto, e lo sa.

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horror INTERVISTA

FRANCESCO SPAGNUOLO di ALESSANDRA ZENGO Visto il rinnovato interesse per la letteratura horror concernente la figura dello zombie, in particolare nel mercato editoriale d’oltreoceano, la casa editrice Delos Books nota al grande pubblico soprattutto per la serie della telepate cameriera Sookie Stackhouse di Charlaine Harris e specializzata nella narrativa di genere ha deciso nello scorso 2011 di creare una collana interamente dedicata agli zombie, sulla scia del successo di Odissea Vampiri. Il risultato, tutt’altro che scontato, è stato un vasto apprezzamento da parte del pubblico – complice anche l’edizione di ottima fattura, diversa dalle altre collane Delos – per i primi due titoli della collana: Rot & Ruin di Jonathan Maberry, finalista al Bram Stoker Award, e Il Primo Giorno di Rhiannon Frater, vincitore del Dead Letter Award nel 2008 e romanzo nominato dall’Examiner tra i 10 migliori libri sugli zombie dell’ultima decade. Abbiamo deciso di intervistare, quindi, il curatore – insieme a Franco Forte, direttore editoriale Delos Books – della collana Francesco Spagnuolo che ci rivela quando e perché è maturata questa scelta ardita, i retroscena redazionali e anche le anticipazioni per il corrente anno. Speechless: La Collana Odissea Zombie è giunta, ormai, al secondo titolo con il romanzo Il Primo Giorno di Rhiannon Frater. Questa collana, di cui sei il co-curatore insieme a Franco Forte, ha avuto gli esiti che avevate immaginato inizialmente? Francesco Spagnuolo: Ciao, Alessandra. Se per esito intendi le vendite, bÈ è ancora presto per darti una stima precisa, soprattutto per Il primo giorno di Rhiannon Frater, che è stato distribuito da troppo poco tempo. Per Rot & Ruin invece posso dirti che da giugno – mese di distribuzione – a oggi le copie sono in esaurimen-

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ARMATEVI DI CLAVE, SPRANGHE E BADILI, SENZA DIMENTICARE QUALCHE ASCIA:

GLI ZOMBIE SONO ARRIVATI!

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horror to. Per quanto riguarda gli esiti delle recensioni, direi che sono state positive fino a oggi, e in entrambi i casi. Molti blogger hanno preso l’iniziativa chiedendo e ottenendo interviste da entrambi gli autori. Tirando le somme: sì, siamo soddisfatti, considerando anche che viviamo a stretto contatto con la crisi economica. S: Com’è nata questa nuova collana? Quali sono i suoi obiettivi? F: È nata dopo una mail di Franco Forte, che mi chiedeva di aiutarlo nella curatela dei romanzi, soprattutto nel lavoro di scouting (che amo alla follia). L’obiettivo iniziale era di avvicinare i lettori a un tema conosciuto solo attraverso i film di George Romero, il che a complicato un po’ le cose all’inizio perché l’horror vive di pregiudizi in Italia. Mi è capitato di leggere un po’ di tutto sul Web. Ma ripeto, molti si stanno avvicinando e stanno scoprendo che in tema di zombie c’è molto da dire e da leggere. L’altro obiettivo, più importante, è quelFRANCESCO SPAGNUOLO lo di dare ai lettori solo testi validi. Vogliamo che chi investe nella collana sia ricompensato con una storia che, durante la lettura, trascini via la mente dalla realtà per una realtà fatta di carta e inchiostro altrettanto incandescente e appassionante. Vorrei che i lettori si appassionassero a queste storie, a tutti i romanzi che porteremo. L’obiettivo futuro

è di arrivare a dieci titoli l’anno, con una cadenza simile a quella relativa alla collana ammiraglia, Odissea Vampiri. Speriamo di riuscirci. S: Stiamo vivendo una sorta di revival degli zombie, sia in campo letterario che cinematografico. Basti pensare agli innumerevoli nuovi romanzi sugli zombie di recente pubblicazione (in particolare sul suolo statunitense) e all’enorme successo ottenuto dalle prime due stagioni di The Walking Dead. Da cosa pensi sia dipeso questo fenomeno? Cosa cattura di questa figura appartenente all’immaginario dell’orrore? F: Sì, stiamo vivendo un revival è vero, e come è successo con i vampiri e i licantropi, anche gli zombie sono stati reinventati (ma non per questo rammolliti). Come nasca il fenomeno non saprei dirtelo, sì, certo, potrei attingere al passato e dirti che in tempo di crisi o di particolari momenti bui, l’horror e le sue varianti riemergono come fanno gli zombie; o che gli zombie sono la materializzazione di qualche paura profonda che ha a che fare con la fine dei tempi, ma questa per me è solo una parte della torta, l’altra metà la gestisce probabilmente chi fa marketing ad alto livello (gli americani). Di sicuro The Walking Dead, la serie Tv, ha sensibilizzato l’opinione pubblica, generando curiosità e voglia di approfondire, motivo per cui c’è più attenzione sui libri di questo genere da parte dei lettori, ma anche degli scrittori che con il mondo degli zombie stanno variando parecchio rispetto all’universo tratteggiato da George Romero. S: A tuo parere, come conseguenza di questa nuova tendenza letteraria, si potrà assistere ad un rinnovato interesse anche per il genere horror, disdegnato dai più e relegato a genere di nicchia per pochi appassionati? F: Sì, l’interesse verso gli zombie ha sicuramente

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risvegliato gli animi, non solo dei fedelissimi, verso le tematiche horror. I libri con gli zombie affrontano molti temi però, che porteremo nella nostra collana nella speranza di coinvolgere e avvicinare sia i nostri lettori abituali, spingendoli verso nuove frontiere, sia i duri e puri del genere che amano le storie legate al vecchi canoni del genere, ma reinterpretati sotto una nuova luce. Il mercato offre una varietà di temi, e le nostre prossime uscite rimarcheranno ancora di più questo dettaglio. S: Parliamo di come vengono selezionati i titoli da pubblicare. Quali criteri utilizzate per la scelta e cosa ricercate in un autore e in un testo adatto per questa nuova collana? Potremmo leggere a breve anche qualche autore italiano? F: I fattori e i criteri sono tanti e non sempre uguali per ogni testo. E vivono in base ai tempi in cui si fanno le scelte, perciò non c’è proprio una regola ferrea. Esiste, però, un’idea di fondo per quanto riguarda l’uniformità e il tipo di opere che possono o non possono rientrare nella collana. Altra cosa a cui stiamo attenti è la qualità dell’opera o dell’idea di fondo di un romanzo. Una buona opera fa parlare di sé. Se la qualità del testo è elevata, ne saranno felici i nostri lettori e perfino quelli che fino a oggi sono stati un po’ in disparte. Sono convinto che riusciremo ad accontentare sia lettori che amano l’horror sia lettori che si avvicinano alla collana e alla tematica per la prima volta, e questo proprio attraverso l’universalità dei sentimenti intrinseci ai romanzi che porteremo in Odissea Zombie. Perciò preparatevi a una grande quantità di temi e modi diversi di vivere l’esperienza “Zom”. Spero di poter inserire qualche italiano in futuro, ma dovranno esserci le condizioni adat-

te, sia per quanto riguarda la robustezza della collana, che è relativamente giovane al momento, sia la maturità dei lettori italiani che ancora non leggono i nostri scrittori di genere. Penso che un progetto vincente e il nome dell’autore possano fare la differenza. Si vedrà. S: Recentemente è uscito il romanzo Warm Bodies di Isaac Marion, da cui verrà tratto anche un film prodotto dalla Summit Entertainment (Twilight). Quello che ha fatto “discutere” gli appassionati di horror è il tipo di zombie proposto dall’autore statunitense: uno zombie con dei sentimenti che si innamora di una giovane umana. Cosa ne pensi di questa dubbia scelta? Dopo i vampiri cercheranno di rendere fascinosi anche gli zombie? F: BÈ, non posso e non voglio entrare nel merito delle scelte altrui, che sono sicuramente motivate da altri criteri. Posso dirti che il mercato offre, a parte il romanzo che citi, questo tipo di storie. In Odis-


horror sea Zombie non ci saranno però storie su quel facsimile. Questa è una decisione presa sin dall’inizio con Franco Forte. Così come non abbiamo intenzione di trascinare dentro lo splatter fine a se stesso. Per gli zombie, per i nostri zombie, sono altri gli ingredienti che cerchiamo. Toccheremo molti argomenti, che in qualche maniera si legano all’idea della collana, nonostante la diversità del genere a cui appartengono, ma non porteremo dentro storie tipo quelle che ho appena citato. S: Parliamo del futuro. Quali saranno le nuove uscite della collana Odissea Zombie? Nuovi autori e graditi ritorni per il 2012? F: Per il 2012 Odissea Zombie tornerà con tre romanzi. Ognuno dei quali tratta gli zombie in maniera differente. A maggio, durante la prossima Fiera Internazionale del libro a Torino, tornerà il nostro Jonathan Maberry con Dust & Decay, volume due delle Cronache di Benny Imura, che la bravissima Delia Mazzocchi sta traducendo per noi. Questo romanzo è qualcosa di incredibile. E ancora più appassionante di Rot & Ruin. La quadrilogia è destinata a far parlare di sé, c’è poco da dire. Anzi, spero che si aggiudichi il Bram Stoker Award che verrà decretato a marzo. A settembre arriverà un romanzo con gli zombie molto particolare, apprezzato da tutti: recensori affermati, blogger (duri e puri dell’horror), associazioni letterarie e librarie. Ha vinto l’ALEX Award, un premio – vinto da gente come Neil Gaiman – per opere di genere fantastico ideato dall’A.L.A. (American Library Association) nel 2010, superando persino opere del calibro di The Passage di Justin Cronin. È stato finalista, e quindi in nomination, allo Shirley Jackson Award 2010 e al Philip K.Dick Award 2010. Un romanzo lirico, che colpisce, e che affronta in maniera stupenda la condizione

96 umana al tempo dei non morti, che qui vengono chiamati Meatskin, ma che sono zombie in tutto e per tutto e che infestano le strade. Il titolo è The Reapers are the Angels. Molti lo hanno paragonato a una via di mezzo tra lo stesso The Passage e The Road di C.Mccarty. La traduzione è stata affidata a Cristiana Astori, e questo è un altro colpo considerando che la Astori è famosa per le sue traduzioni e che ha accettato di far parte di questo progetto. Spero di tenerla con noi ancora a lungo, non solo per quest’opera. L’ultimo romanzo arriverà a novembre. E si entrerà nel cuore del thriller e del bio-terrorismo. La protagonista sarà una detective che dovrà vedersela con gli zombie. L’autore è sempre Jonathan Maberry e l’opera è Dead of Night. La traduttrice è Annarita Guarnieri che moltissimi lettori della collana Odissea Vampiri conoscono già. In tema zombie, vorrei ricordare ai lettori un altro appuntamento (spero gradito). La Delos Books si è aggiudicata i diritti di traduzione di Twittering from the Circus of the Dead di Joe Hill autore di prestigio mondiale, che è anche l’arcinoto figlio di Stephen King. Il racconto a tema zombie è stato opzionato per un film e dovrebbe vedere la luce nel 2014. Noi siamo contenti di averlo in esclusiva perché il suo racconto verrà pubblicato sul numero 3 dell’almanacco di Horror Magazine (“H”), che da 2012 diventa annuale e pubblicato ad Halloween. Colgo l’occasione per salutare e ringraziare tutti i nostri affezionati lettori, che ci aiutano a far vivere un sogno in un periodo difficile come questo che stiamo vivendo.


rAcconto traduzione di

Roberta Maciocci

di RHIANNON FRATER Monica odiava il sapore di benzina. Meglio prelevare la benzina dai serbatoi delle automobili bloccate lungo la strada che tagliava il deserto. Purtroppo, questa volta aveva aspettato troppo prima di togliere le labbra dall’estremità del tubo, da ritrovarsene in bocca alcune gocce calde e brucianti. Sputò furiosamente, afferrò la bottiglia d’acqua che aveva messo al suo fianco per precauzione. Si sciacquò subito la bocca, mentre cercava di inserire l’estremità del tubo nel recipiente rosso della benzina, senza sprecare troppo carburante. “Merda”, brontolò, poi si ricordò che aveva bisogno di rimanere in silenzio. L’aria secca e calda del deserto agitava furiosamente la sua coda di cavallo sotto il berretto da baseball, sferzandole viso e collo con le ciocche dei suoi capelli scuri. Nonostante il caldo, indossava una giacca di jeans. Guanti da moto e stivali malconci da cowboy completavano l’abbigliamento. Cercava di mantenere il suo corpo il più possibile coperto non solo per combattere i raggi ardenti del sole o l’aria fredda del deserto, ma anche per proteggersi dai morsi dei denti dei nonmorti. Accovacciata accanto a una station wagon sfracellata, guardava verso le montagne lontane oltre il cofano accartocciato aggrovigliato attorno a un palo. El Paso si trovava oltre le colline scoscese. Era stata la sua casa per anni, ma ora era diventato il deserto dei non-morti. Si era appena salvata

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racconto la vita. Se non fosse stato per il camion di Beto, sarebbe morta come il suo exfidanzato. Scansionando la zona che la circondava, si rialzò in piedi. I polpacci cominciavano ad intorpidirsi, da quanto era stata accovacciata. La benzina era come acqua che scorre da un rubinetto. Era ancora più assetata, dopo la boccata di benzina. Sorseggiò altra acqua, risciacquandola all’interno della bocca, sputò, poi bevve una lunga sorsata. Tutto era stranamente tranquillo in questo tratto della Interstate 10. L’unico rumore era quello del vento, della benzina che riempiva il bidone, e di due ragazzini zombie che battevano sul vetro posteriore della station wagon, ringhiandole contro. Alzando lo sguardo, provò una fitta di dolore per i due bambini non-morti dai capelli e gli occhi scuri. Le ricordavano un po’ lei e di suo fratello, Sergio, da piccoli. Purtroppo, erano tutti e due coperti di morsi sulle braccia e sul collo. Vestiti di abiti da bambini stile Disney incrostati di sangue secco, erano la triste testimonianza della diffusione di quella piaga che aveva spazzato via il mondo. La loro madre era morta, davvero, sul sedile anteriore della vettura distrutta, il cervello schizzato su tutto il cruscotto e il parabrezza. Nessuna traccia del padre. Era ciò che di più la preoccupava. Non c’erano finestrini rotti o portiere aperte. Eppure, qualcuno doveva essere stato alla guida al momento dell’incidente. Si chiese se era riuscito a uscire dalla macchina e chiudersi la portiera alle spalle. La benzina era ridotta ad un filo. I ragazzi zombie battevano sul finestrino, macchiandolo di sangue e putrefazione. Morbosamente, Monica bussò alla finestra.

Entrambi i ragazzi premettero il naso e le labbra al vetro, digrignando i denti verso di lei, voracemente, cercando di morderle le dita. “Siete piuttosto stupidi, non è vero?” Tirando il pezzo di tubo da giardino che aveva usato per prelevare la benzina dal serbatoio della vettura, si alzò e studiò il circondario. La I-10 era deserta tranne che per la station wagon e per il grande didietro del monster truck di Beto, parcheggiato dietro la macchina. Gli spinner massicci sul lato erano macchiati di sangue e putredine. L’auto da sogno di Beto era stata la sua salvezza, quando era uscita da El Paso. Tutto il duro lavoro fatto per convertire un vecchio camion Ford in una creatura mostruosa con fiamme di vernice spray fiamme lungo le fiancate, gli alettoni verniciati di nero, e le alte sospensioni l’avevano beneficiata molto di più di quanto non avesse mai impressionato i suoi amici . Monica arrancò verso il monster truck, la benzina che sciabordava dentro la tanica, la mano sulla pistola infilata nella cintura. Anche l’arma era di Beto. Gliel’aveva sfilata dalla mano, una volta morto. Mentre saliva sul predellino del camion per il rifornimento, scrutò nuovamente il circondario, per scorgere segni di nonmorti. La I-10 brulicava di loro, quando era uscita dai confini di El Paso. Le gomme erano ancora incrostate di budella. Invece, questo tratto di strada solitaria era deserto come il terreno intorno a lei. I bambini zombie battevano ancora su un finestrino posteriore, ringhiandole avidamente. Li fissò, sospirando. Perché lei era ancora viva mentre i bambini erano morti? L’anno precedente, aveva fatto un sacco di cose delle quali si era che pentita. Beto è

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stata una di quelle. Poderoso, calvo, tatuato, un arrogante messicano-americano, Beto possedeva il fascino del cattivo. Meccanico di professione, qualche losco affare con gente dall’altra parte del confine, Beto pensava a sé come ad un uomo da non sottovalutare. Lei lo aveva incontrato mentre lavorava al Chili come cameriera tuttofare. Erano stati insieme quasi un anno prima che lei non riuscisse più a sopportare le sue stronzate. La trattava come una principessa, ma la tradiva in continuazione. Era ancora difficile da credere che il suo ragazzo, duro come l’acciaio, fosse morto, mentre lei era ancora viva. Ed era stata stramaledettamente colpa sua, se era morto. Non poteva credere che era passato solo un giorno da quando aveva caricato le sue cose sul vecchio beat-up Mustang, mentre Beto le gridava dietro. Ora si chiedeva se erano i proclami d’amore o l’insignificanza dei suoi tradimenti, ad attirare la sua attenzione su di lui. Chiudendo violentemente il bagagliaio, si era eretta, pronta a dirglielo, quando aveva visto una creatura da incubo correre verso Beto, dall’altra parte della strada. l primo pensiero di Monica era stato che l’uomo dal viso maciullato dovesse essere uno scherzo. Gli zombie non esistevano, eppure qualcosa dentro di sé le aveva detto che ciò che vedeva era reale. Quando finalmente era riuscita a gridare un avvertimento, era stato troppo tardi. Lo zombie aveva buttato per terra Beto, i denti seghettati che dilaniavano il collo carnoso. Beto aveva istintivamente estratto la pistola, ma era troppo tardi. L’abitudine costante ad avere a riconoscere la gravità delle malattie, aveva portato Monica a capire che lo zombie aveva colpito un’arteria. L’arco di sangue era stata una fontana che sgorgava sopra lo zombie e su lei stessa. Appena Beto era caduto, lei aveva preso a calci in faccia lo zombie con

il tacco dello scarpone. Concentrato sulla preda, lui l’aveva ignorata. Afferrando la pistola dalla mano ancora tremante di Beto, si era eretta sopra i due. Due proiettili nella parte posteriore e la testa dello zombie si era immobilizzata. Singhiozzando, si era guardata intorno, mentre l’agonia del suo fidanzato aveva avuto fine. “Cazzo,” aveva sussurrato, pulendosi il viso dal sangue. Se fossero stati veri quegli stupidi film di Juan sugli zombie, Beto sarebbe tornato. Lei non riusciva a sparargli. Forse non si sarebbe trasformato in uno zombie. Quando Beto, da morto, aveva aperto gli occhi e si era lasciato sfuggire un urlo ultraterreno, lei gli aveva sparato due volte alla testa. “Cazzo, sono davvero zombie», ansimò. Terrorizzata, aveva tirato fuori le valigie dalla sua Mustang e le aveva gettate nel portabagagli del camion di Beto, aveva preso le chiavi, e se la era data a gambe. Aveva attraversato come una pazza la periferia di El Paso, vedendo scene che sembravano venute fuori da quei film stupidi che vedeva sempre suo cugino Juan. Eppure, doveva esserle grata perché quell’ossessione le aveva salvata la vita. Era stata decisamente in grado di uccidere sia Beto che lo zombie. Svitando il tappo del serbatoio della benzina del monster truck, Monica cercava di non soffermarsi sui terribili eventi del giorno precedente. Ogni volta che pensava al momento in cui aveva visto lo zombie per la prima volta, le sue mani cominciavano a tremare. Le dita che le tremavano, posizionò il tubo per il combustibile nel camion. Il gas risuonò nel serbatoio quasi a secco mentre lei si sporgeva oltre il bordo del cofano del camion. I suoi capelli sferzavano contro gli occhiali da sole, mentre pregava che il gas potesse durare fino a quando


racconto avrebbe potuto trovarne altro da prelevare. Guardando indietro, verso l’autostrada, si chiese se Juarez stesse ancora bruciando e se El Paso fosse ancora in fiamme. Durante la sua folle fuga dalla città, aveva visto il fuoco ardere dall’altra parte del confine. Girando lo sguardo verso la direzione opposta, si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto per arrivare nella sua città natale. Ashley Oaks, in Texas era lontana. Era stato difficile arrivare fino a lì, attraversando autostrade affollate da zombie, poi facendo percorsi fuori strada, per chilometri, cercando di evitare ingorghi enormi. Aveva trascorso la notte accovacciata nella cabina del camion, ascoltando esplosioni in lontananza. “Dio, ho fame”, mormorò. Aveva bisogno di cibo, prima possibile. E anche di acqua. Il sudore le colava dal naso, e si asciugò il viso con le mani coperte dai guanti. Era necessario credere che la sua famiglia fosse ancora viva, ad Ashley Oaks. Anche se suo fratello Sergio non era sempre stato così sveglio nello scegliersi le amicizie, riusciva a cavarsela abbastanza bene. Sperava che con lui si fosse salvata anche la “zia Rosie”. Sua madre e suo padre erano morti da tempo in un tragico incidente stradale. Rosie, Juan e Sergio erano tutto ciò che le rimanesse al mondo. Doveva credere che fossero al sicuro ad Ashley Oaks. Tutto

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stava a riuscire ad arrivarci. Mentre avvitava il tappo sul serbatoio di benzina, sentì una sorta di impatto contro il lato del camion. Il cuore in gola, si era sollevata, impugnando l’arma. “Aiutami!” Lentamente, fece un passo verso l’altro lato del camion che dava sulla strada e sbirciò oltre il bordo del cofano. Un uomo si era appoggiato pesantemente contro la porta, e picchiava la mano contro il metallo. Aveva i capelli pieni di polvere e volto gravemente bruciato dal sole. Gli occhi gonfi cercavano di metterla a fuoco, mentre le sue labbra screpolate fecero per parlare. “Aiutami!” “Sei stato morso?” Scuotendo la testa, l’uomo proruppe in profonde boccate d’aria. Il sudore gli colava dal suo volto ed i suoi vestiti erano umidi. “No, signora», disse. “Devi aiutarmi.” I bambini zombie ringhiavano e battevano i pugni contro il finestrino posteriore della station wagon, gli occhi morti fissi sull’uomo. “Dov’eri?” Monica guardò intorno il paesaggio arido di nuovo. “Nascosto in un fosso lungo la strada. Mi sono svegliato e ho visto il camion “. “Come ti chiami?” “Ramon”.


“È la tua macchina, Ramon?” Singhiozzando, l’uomo annuì. “Sì.. Siamo usciti da El Paso, ma mia moglie è stato morsa mentre scappava dal lavoro. Giaceva nella parte posteriore con i bambini. Ho pensato che si fosse addormentata, ma poi i ragazzi hanno iniziato a urlare. Lei ... lei ... era ....”. Si coprì il viso con la mano, cercando di non guardare la station wagon ed i suoi terribili passeggeri. “Lei stava attaccando i bambini. Io ... io ... stava venendo anche verso di me, e l’auto ha sbandato e lei ... “ “Non c’è bisogno di aggiungere altro. Ho capito “, disse Monica. Non era troppo difficile ricostruire la situazione. La moglie zombie lo aveva attaccato, uno strattone al volante, aveva colpito il palo, la moglie zombie aveva urtato sul cruscotto spappolandosi il cervello, e Ramon era scappato dalla macchina. “Per favore, aiutami”, Ramon sussurrò. “Per favore”. Rimettendo via la pistola nei jeans, Monica si chinò a lato del camion. I suoi piedi erano quasi a terra quando sentì Ramon che le sfilava via la pistola. “Che diavolo?”, ruggì contro di lui, atterrando con un tonfo pesante sull’autostrada. “Dammi le chiavi,” ordinò Ramon. La sua mano tremava e i suoi occhi scuri erano pericolosi, pieni di dolore e di una più profonda, terribile emozione.

“Assolutamente no”, rispose Monica, con rabbia crescente. “Stai cercando di rubarmi il camion, dopo che stavo per aiutarti?” “Ho bisogno di uscire di qui!” Ramon gridò, sputando saliva dalle labbra screpolate. “Non posso stare qui! Sono tutti morti! “. “Senti, ti porto via da qui se ti dai una calmata!” “Devo andarmene da qui!” Ramon urlato. “Devo andarmene da qui! Non capisci? “ I bambini zombie erano al massimo della frenesia, ora. “Non ti lascio il mio camion!” Ramon le puntò la pistola al petto. “Dammi le chiavi!” “Perché fai così?” “Devo andarmene da qui!” Erano state l’intensità del suo sguardo e la disperazione nella sua voce che alla fine avevano rivelato che l’uomo era uscito di senno. Era fuori di testa. Il corpo tremava violentemente, faceva una smorfia ogni volta che udiva i bambini morti battere le mani contro il finestrino. Abbassando la voce, Monica disse: “Ramon, lascia che ti porti via di qui.” Non c’era storia che fosse sopravvissuta così a lungo per permettere a un pazzo rubare il suo trasporto. “Sapevo che era morta, ma ho continuato a guidare”, ha sussurrato. “Ho continuato a

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racconto guidare perché avevo paura”. Monica deglutì a fatica, lottando per tenere emozioni e parole sotto controllo. Era così arrabbiata da accantonare la sua paura e non poteva permettersi di fare stupidaggini con una pistola puntata al petto. “Ho pensato che forse lei non sarebbe tornata come gli altri. E ‘stato un piccolo morso. Più come un graffio. I bambini piangevano, dicendomi che non si svegliava, ma ho continuato a guidare. Anche quando hanno cominciato a urlare, ho continuato. “ Monica realizzò che Ramon non stava parlando con lei. La sua confessione era per se stesso e forse per i suoi figli. Poteva vedere i suoi occhi che lottavano per non guardare in direzione dei bambini. “Ramon, tutti commettiamo degli errori”, disse infine. “Ho bisogno di andarmene da qui”, Ramon borbottò di nuovo. “Dove hai intenzione di andare, Ramon?” “Non lo so. Da qualche parte ... “ “Lascia che ti porti con me da mio cugino. È un esperto di zombie. Saprà cosa fare”. Lo sguardo di Monica non si staccava dall’arma. Ramon scosse la testa, le lacrime gli scendevano sulle guance ustionate mentre il muco gli colava dal naso. “No, no. Non c’è speranza “. “Ramon, cerchiamo di farcela insieme. Dobbiamo stare insieme. Siamo ancora vivi “, insistette Monica. “Tu non sei mia amica cazzo, puttana! Tu non sei la mia famiglia! La mia famiglia è morta! “Ramon le urlò in faccia, con le dita che iniziavano a premere il grilletto. Monica si buttò da un lato e gli afferrò il braccio e in attimo si mise alle sue spalle.

La pistola non gli cadde di mano come aveva sperato. Iniziò invece a sparare mentre cadeva. I proiettili si conficcarono nella fiancata del veicolo. Ramon, atterrato sulla schiena, iniziò a muovere l’arma verso di lei. Monica gli si lanciò sul petto e gli afferrò il polso, allontanandolo con il peso del corpo. Ramon continuava a sparare. Vicino a loro vetri frantumati mentre combattevano a terra per l’arma. Squilibrato e senza un briciolo di senno, Ramon urlava parole mute contro di lei. La pistola cliccò a vuoto. Il gomito nel naso di Ramon, Monica si gettò all’ indietro. Conosceva il significato di quel rumore di vetro rotto. Armeggiando per le chiavi, trovò il coraggio di guardare verso la parte posteriore della station wagon. La bambina era già a terra, strisciando verso il padre. Il bambino stava strisciando attraverso il buco nella finestra. Ramon giaceva a terra, singhiozzando e piagnucolando, mentre guardava avvicinarsi i suoi bambini, morti. Monica bestemmiò tra sé. Tirò a sé la portiera, si arrampicò sul sedile del conducente e girò la chiave nel blocchetto di accensione. Il grosso camion ruggiva alla vita e lei rapidamente inserì la marcia. Facendo retromarcia col camion, vide Ramon sporgersi per abbracciare i suoi figli zombificati. Le labbra serrate in una espressione tetra, Monica volse le spalle all’uomo, lasciandolo al suo destino. Il suo, di destino, era un altro.

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Una storia delicata e romantica, sospesa tra la magia e la tenerezza, con accenti che richiamano la struggente poesia di Edward Mani di Forbice e de La Sposa Cadavere di Tim Burton. DAL 4 APRILE IN LIBRERIA


NARRATIVA

Mr. Gwyn e l’uomo che non c’è di DESY GIUFFRÈ

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Fuggire. Fuggire dal mondo e da se stessi. E poi ritrovare la strada di casa, la strada del ritorno: quella capace di mostrare il paesaggio che ognuno di noi è.

È uscita per Feltrinelli, nel mese di Novembre 2011, l’ultima e attesissima opera firmata da Alessandro Baricco: Mr. Gwyn, romanzo dagli strani equilibri che lasciano una specie di dolce-amaro in bocca, non appena questi vengono svelati al termine della lettura. Un giorno qualsiasi, non più speciale degli altri, uno scrittore di notevole fama decide di dare una svolta a quel che era stata la sua vita fino a quel momento. La passeggiata lungo il viale Regent’s Park sembra aprire una visuale tutta nuova e allettante per Mr. Gwyn, subito colto da una smania di libertà da quello che aveva sempre considerato un autentico lavoro: scrivere per propria “necessità” e diletto altrui. Un mondo divenuto oramai troppo stretto all’eccentrico Mr. Gwyn, vincolato dai fittizi codici esistenti nel variopinto panorama della letteratura. Ed ha così inizio la sua storia, la sua vera storia, fatta di scalate e discese emozionali, di progetti alternativi, egocentrici e mirati a trafiggere la maschera di cui improvvisamente sentirà il bisogno di liberarsi. Per farlo cercherà negli altri ogni risposta alle sue domande, scavando quella realtà necessaria al

percorso da lui iniziato. Divenendo, in poche parole: copista di persone. Di vite, di anime. Ritratti scritti di coloro che incroceranno il cammino del nostro protagonista, lasciando in lui le loro impronte, brandelli di esistenze immortalate in cartelle segrete da custodire gelosamente. Una stanza, un letto, due poltrone, diciotto lampadine che portano il nome di Caterina dÈ Medici, ombre e luci, nudità e silenzi. E la verità che ognuno trascina con sé, senza troppe volte conoscerla neanche. Ad accompagnare questa sorta d’iniziazione al nuovo mestiere di cui Mr. Gwyn è intenzionato a divenire portavoce sarà Rebecca: giovane donna in conflitto con il proprio corpo, dall’animo passionale e in cerca di una felicità mai giunta prima. Sarà proprio lei a srotolare la matassa del mistero che avvolge il maestro dell’impossibile; lo scrittore che da tempo aveva imparato ad apprezzare, l’uomo che scoprirà di amare con profonda rabbia e devozione. Ancora una volta, Alessandro Baricco ci pone innanzi i suoi personaggi estremamente bizzarri, capaci di “toccare” le corde più recondite dei lettori che


innumerevoli volte si ritroveranno a dover arrestare la propria lettura, chiudere gli occhi, prendere fiato e lasciare qualche istante di distanza tra i loro pensieri e il seguito di questo nuovo romanzo introspettivo. Il suo stile pur sempre mantenendo la linea originale, spezzata e poetica già conosciuta ampiamente attraverso i suoi precedenti lavori tende stavolta a risentire di una certa spaccatura musicale che rallenta in diversi periodi il corso della storia, per poi lasciare che quest’ultima proceda in maniera fin troppo veloce e, a volte, scontata. È forse la marcata indecisione che spesso caratterizza i pensieri di Mr. Gwyn a rendere, poi, le sue scelte frutto di un’attesa estenuante e, in definitiva, in contrasto con ciò che ci si aspetterebbe. Proprio come accadrebbe di fronte ad un film dalle mille possibilità irrisolte e perdute. La forza della parola continua, tuttavia, ad assecondare la fame di materia “umana” nel lato emozionale delle inverosimili scene che tracciano la crescita interiore del protagonista e del resto dei personaggi. In effetti, ogni volto presente nel libro non è definibile da contorno, bensì parte integrante di un’unica storia: quella che muove i fili della nostra coscienza e traccia un’immagine perfettamente nitida del nostro “io” in contatto con il respiro del Mondo che lo circonda. L’impeccabile alternanza delle diverse tappe che l’autore ci propone, gocciola in un’armonia tipica degli scritti di Baricco, rotta dalle rivelazioni, dolorose o meno, capaci di rendere infine diversi i protagonisti delle sue storie. E perché no: anche i lettori.

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rAcconto

L’isola

in cima alla collina di HAROLD COBERT

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Traduzione di Selvaggia Oricchio

Per quanto io ricordi, mio nonno era marinaio nell’animo. Ha vissuto la vita come un filibustiere che attraversa oceani e tempeste. Ora pirata, ora corsaro. Ha, però, sempre fatto ritorno sulla sua isola. Un’isola un po’ particolare, persa nella campagna bordolese. Un’isola arroccata in cima ad una collina. Sin dalla più giovane età, prendeva già il largo. Derivista, solitario, “quattro e venti”, in seguito, da adulto, su barche a vela dai nomi allusivamente familiari, tirava bordi tutti i fine settimana nelle correnti e nei canali della baia di Arcachon, filava di bolina fino al Banc d’Arguin, strambava, cazzava le vele, rientrava, vento in poppa, planando sul Golfo di Jeannette. L’isola degli Uccelli era il suo scalo preferito. Fantomatico lembo di sabbia che riappare e scompare parzialmente, a seconda dei capricci delle maree, puntellato qui e là di palafitte, simili a strane grancevole immobili, sospese tra la terra ferma e gli abissi. Vi si fermava il tempo di un panino, faccia a faccia con i suoi pensieri, un sorso di rum bevuto dalla bottiglia e una passeggiata tra le alte erbe, profumate di iodio e di varech. Nel silenzio degli spruzzi d’acqua, tra i sibili del vento e i garriti dei gabbiani,

recuperava le forze, prima di issare nuovamente le vele verso l’orizzonte, con gli occhi socchiusi, lo sguardo riflesso sulle scaglie dorate degli sciabordii incendiati dal tramonto. L’esistenza aveva, in seguito, preso il suo ritmo di crociera. La vita, il suo spettacolo e il suo corteo di agitazioni, l’avevano condotto, in una spirale ascendente, fino a Parigi. Durante il giorno faceva tirocinio nelle fabbriche di Ivry, per entrare nella piccola azienda paterna, e contemporaneamente seguiva corsi di filosofia e teologia. La sera, invece, ritrovava lo spazio in cui vibrava e si ravvivava realmente. Col sassofono al collo, andava al Club Saint Germain o al Caveau de la Huchette. Lì suonava fino all’alba con Boris Vian et Charlie Parker, sfiorando le ombre intrecciate di Sartre e di Beauvoir. Il jazz era la sua nuova isola, luogo impalpabile verso il quale navigava da pirata e ove si rifocillava per meglio affrontare la durezza del giorno e del mondo. Mi parlava spesso di quei musicisti jazz americani che vivevano a New York in camere misere, le cui finestre affacciavano su un muro a meno di un metro di distanza. Mi

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107 Harold Cobert è autore di vari libri di argomento storico. Un inverno con Baudelaire, suo secondo romanzo pubblicato in Italia da Elliot Editore, è in corso di traduzione in numerosi paesi.

HAROLD COBERT


rAcconto raccontava come, davanti a quella muraglia che si innalzava fino al cielo, quegli uomini disegnavano ampi orizzonti con le volte invisibili e vellutate dei loro strumenti. Distintosi all’epoca come miglior sassofonista contralto di Francia, Charlie Parker gli aveva proposto di seguirlo negli Stati Uniti per registrare un album insieme. Ma mio nonno, pur tentato come una farfalla che vola attorno ad una fiamma, aveva avuto paura. Partito un mattino presto per ristorarsi alle Halles con quel gigante, egli aveva notato la decadenza di quell’Albatros del jazz, completamente sfibrato e impotente una volta lontano dalle scene ove spiegava le ali del proprio genio. Quel naufragio annunciato gli aveva fatto fare marcia indietro. Il prezzo da pagare per elevarsi in quelle sfere eteree gli era sembrato troppo elevato, troppo pericoloso. Un limite di Orfeo, senza ritorno. Aveva, allora, appeso il sassofono al chiodo ed era tornato a Bordeaux, per rientrare nei ranghi della borghesia locale e dell’azienda di famiglia. Sebbene avesse ritrovato i suoi luoghi, la baia d’Arcachon, l’isola degli Uccelli, i cieli scintillanti, a volte limpidi a volte tormentati, il demone della creazione tuonava come una tempesta nella sua testa. Rappresentante per l’azienda paterna durante la settimana, egli percorreva la Francia in lungo e in largo, al volante della sua auto. Dietro il parabrezza, muro trasparente, immaginava altri orizzonti che l’avrebbero riavvicinato a quell’isola della musica e dell’arte che aveva abbandonato alle Halles, nella febbrilità di un’alba parigina. Dopo aver trascorso anni a navigare sulle strade, sognando di essere altrove, in continenti lontani, finì col ritagliarsi i contorni di una nuova isola. Il tempo di preparare la rotta di quella spedizione improbabile e folle, costruire una nave ammiraglia, mettere

insieme un equipaggio di lupi di mare, e l’avventura Sigma cominciava. Sigma era un festival di arti contemporaneed’avanguardia, secondo la definizione dell’epoca. Il suo nome traeva ispirazione dalla lettera greca che esprime la somma di quantità infinetesimali che, addizionate insieme, finiscono col dare un risultato significativo e significante. Vi sono stati scoperti e rivelati numerosi continenti artistici maggiori della seconda metà del XX secolo: i Living Theatre, Jérôme Savary e il famoso Magic Circus, e ancora il misterioso, affascinante e ipnotico Bartabas, solo per fare qualche nome. Quell’avventura, finanziata dallo Stato e dalle sue diverse istituzioni, durò trentatré anni. Trentatré anni durante i quali mio nonno, dopo essere stato un pirata della cultura, suonando jazz nei club fumosi, solcò i mari della creazione mondiale da corsaro. Come un abile segugio, navigava nelle acque torbide e agitate dell’arte in fieri, fiutando le novità, stanando i visionari che anticipavano e esprimevano, a volte con impeto a volte con tenerezza, i limiti e i vagabondaggi del mondo di domani. Di quella crociera al limite della crociata estetica e umanista, Jean Lacouture ha scritto queste parole in una lettera che incarna e riassume perfettamente lo spirito utopico degno di un Don Chisciotte, suo stendardo, sua bandiera che sventola a seconda del vento.

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“Noi tutti sappiamo che il destino delle avanguardie è di essere superato o recuperato. Ma Sigma fu e resta ben altro: un’allegra infrazione, una burrasca alla quale non hanno resistito né le imposte né le porte né le tele di ragno della vecchia casa. Si può sempre tentare di incanalare il vento, di tagliarlo o deviarlo: vi sarà sempre, sulla vetta, un mulino con le ali piene di vento.”


In una delle sue spedizioni, dopo essersi imbattuto in un piccolo gruppo di attori della periferia londinese, aveva accettato di andare ad ascoltare un gruppo di rock underground di loro amici che suonavano in un garage. Seconda rivelazione. Aveva deciso di farli venire tutti insieme a Bordeaux, l’autunno seguente. Quel gruppo di sconosciuti e matti furiosi si ritrovò presto in testa a tutte le classifiche mondiali, appena qualche mese dopo il loro passaggio tra le mura della Bella Addormentata. Si trattava dei Pink Floyd. Nello stesso periodo aveva acquistato una casa nella campagna bordolese, a Baurech. Una bâtisse tipica della regione, situata al centro di un triangolo culturale indivisibile, tra le dimore delle tre grandi M – Montaigne, Montesquieu, Mauriac – e arroccata in cima ad una collina, ai cui piedi si estendeva a perdita d’occhio l’inizio della foresta delle Lande.

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Era lì che, tra un’avventura e l’altra, andava a cercare ristoro. Era lì che, sul suo trattore, dirigeva tutti gli spettacoli che aveva visto, inseguendo i visionari ispirati su tutti gli oceani del mondo, negli angoli più bui e nascosti, li metteva insieme, mentalmente, per proporre, in seguito, una programmazione coerente per la nuova edizione del suo festival. L’isola in cima alla collina conteneva tutte le sue isole. Durante l’estate, spalancava il fienile e organizzava serate jazz che andavano avanti fino a notte inoltrata. In una radura della proprietà, aveva costruito un piccolo teatro vegetale ove, insieme ai miei cuginetti e alle mie cuginette, allestivamo spettacoli alla fine di ogni mese di luglio. Accanto a quella sala a cielo aperto, sotto i pini, aveva disposto botti, trespoli e filari di lampioni che, dopo le rappresentazioni, formavano

quel che chiamava il “Bar dei Filibustieri”, ove il rum scorreva a fiumi. Oggi, quella casa è diventata la mia isola. Appena posso, fuggo da Parigi e dalle sue turpitudini e vado lì per rigenerarmi. Nell’oro della sera che cala, intravedo a volte l’ombra di mio nonno che sogna oceani immaginari sui quali non ha mai smesso di voler protendersi, un giorno. Persino in punto di morte, parlava ancora di quelle distese lontane e sconosciute su cui contava di navigare. Di fronte alla foresta delle Lande, penso sempre a quel muro dei jazzisti newyorkesi. Quando scrivo e mi capita di imbattermi in una frase o una parola che non riesco ad esprimere, guardo il muro difronte alla mia scrivania. Cerco di vedere e di pensare al di là di esso. E, sempre, quell’isola in cima alla collina che porto in me, ad ogni istante, mi apre nuovi e utili orizzonti. Seduto sulla panca difronte al grande campo dorato dischiuso su questo mare di pini delle Lande che si estende ai piedi della collina, mentre traccio queste linee nella penombra del crepuscolo che avanza placidamente, mi tornano in mente le parole di mio nonno, diventate il mio stendardo, la mia bandiera invisibile: “Non ci preoccuperemo né della moda né dello scandalo. Dubito di tutto e vivo tutto con passione. Quest’incertezza è, in sé, un’affermazione e una promessa. Oggi, in questa competizione culturale sempre più accesa, ove il meccanismo speculativo prende il sopravvento, è la nozione stessa di Creazione che dobbiamo preservare, affinché l’attribuzione dei valori non sia, sempre di più, definita da mercati e poteri. L’Immaginazione e l’Espressione sono tenaci. Lo spettacolo continua. Lo spettacolo della vita pure.”


NARRATIVA Le eroine letterarie di

Erin Blakemore

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di PATRIZIA FERRANDO

La biblioteca delle donne di Erin Blakemore, edito da Orme, merita di essere letto, un po’ con lo spirito con cui si affronta un saggio e, un po’, col gusto col quale ci si tuffa in un romanzo o in una biografia appassionante. Il primo invito dell’autrice è alla rilettura: il suggerimento – specie per momenti emotivamente complessi – riprendere fra le mani volumi amati da ragazzine e riallacciare il dialogo con le eroine con cui abbiamo riso, pianto e palpitato. Naturalmente, alcuni capitoli – ciascuno tratteggia una protagonista e chi le ha dato vita – possono anche suscitare la curiosità di cercare storie che ancora non conosciamo. Un merito di questo lavoro che è quasi un monito: un libro interessante e significativo è sempre tale e non è detto che sia adeguato ad una sola stagione della vita, o – nel caso di romanzi considerati “per ragazzi” – che smetta di “parlarci” quando cresciamo, se lo abbiamo amato molto. Le presenze rimaste – in attesa sulla carta stampata –, rivelano molto di noi e magari delle nostre potenzialità, ma non solo. La Blakemore – con felice piglio narrativo – pone in relazione le figure dei romanzi con

Titolo: La biblioteca delle donne Autore: Erin Blakemore Editore: Orme Editore Pagine: 190 Prezzo: € 16,50


quelle in carne e ossa che le hanno create. Spesso sfidando difficoltà e pregiudizi, in tempi in cui cultura e narrativa non erano appannaggi da ragazze. La lettura sarà apprezzata da chi ama i profili di scrittrice: da Jane Austen a Louisa May Alcott, da Charlotte Brontë a Alice Walker, a molte altre. Il tocco in più di Erin Blakemore risiede – a mio avviso – nell’approcciare una materia che potrebbe essere da tomo di letteratura. Con leggerezza, dunque, ma senza superficialità. Lasciando trasparire la sua autentica adesione a questi incontri fatti di carta, sentimento ed entusiasmo ed il rispetto di una donna del ventunesimo secolo per chi scriveva a lume di candela con inchiostro e calamaio, e per chi sceglieva il sua destino di autrice, quando anche la semplice alfabetizzazione femminile era quasi una stravaganza. Con un pizzico di attitudine statunitense al manuale di self-help, l’autrice indica – alla fine di ogni capitolo – il momento più adeguato per rincontrare quella data eroina; con una piacevolissima empatia di amiche che condividono passioni. Individua, però, anche le ideali sorelle letterarie di ciascuna.

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Erin Blakemore Nata in California, laureata in Storia Contemporanea alla UCLA. Vive a Boulder, in Colorado dove ha fondato il “social media” VOCO Creative. La biblioteca delle donne è il suo primo libro.


NARRATIVA I mille volti delle donne ne

“Le Beatrici”di Stefano Benni di ROBERTA DE TOMI

Dalla penna del vulcanico scrittore bolognese, otto monologhi per voce femminile

Le Beatrici è un libro che s’inscrive, perfettamente, nel contesto storico e sociale dell’anno appena concluso. Il 2011 che, tra gli eventi, ha visto scendere in piazza migliaia di donne per chiedere rispetto e dignità, nella direzione di una Parità di Genere che sembra ancora relegata all’inchiostro della teoria.

“Il corpo è mio e me lo gestisco io” sembra lampante, in una Beatrice che si svincola dall’immagine dipinta dal Poeta. Una donna che non è solo cuore e spirito, ma anche corpo e che a differenza delle eroine letterarie oppresse dalle convenzioni della società del loro tempo gioca la carta di un’ironia disincantata nel parlare di sé.

E proprio le donne si raccontano ne Le Beatrici (Feltrinelli) dello scrittore Stefano Benni. L’autore bolognese ha creato otto monologhi per voce femminile, intervallati da sei poesie e due canzoni. Ancora una volta fa centro, con un lavoro che fonde registri (comico, drammatico, poetico) e generi differenti (teatro, racconto, lirica), confermando la vocazione di questo scrittore eclettico; creatore di scenari e situazioni estrose che diventano la satira della società italiana con i suoi vizi e le sue virtù.

Segue la Mocciosa – nulla a che vedere con la “Margherita Dolcevita” protagonista dell’omonimo romanzo di Benni del 2005 – una crudele ragazzina che rispecchia la superficialità di generazioni cresciute a chirurgia estetica e tivù. Crudele è anche la Presidentessa, donna in carriera che tra i fornelli snocciola la lista delle raccomandazioni e il cinismo della manager senza scrupoli e moralità.

Apre la serie ”la Beatrice per antonomasia” l’amata dell’Alighieri , presentata come una sorta di Penelope in attesa del suo Ulisse. Per il Sommo Poeta, l’avventura è, naturalmente, quella della Divina Commedia e a differenza dell’Odissea questa Penelope mostra segni d’insofferenza, al punto da adocchiare un calciatore e affermare che: «Basta col poeta che si sceglie la donna ispiratrice, d’ora in avanti i poeti ce li scegliamo noi.»

112 Il riferimento allo slogan femminista

Non manca l’incursione nell’ambito clericale di Suor Filomena: una religiosa assatanata che si esprime con un turpiloquio, alternato a un vocabolario ripulito da ogni volgarità, anzi, in sintonia con la veste che indossa. È come se nella religione ci fosse una componente di repressione che rende la suora costretta a prendere i voti dal padre in balia di diverse e contrastanti pulsioni. Il monologo di Suor Filomena è tra tutti quello più esilarante, con le continue alternanze di sacro e un profano che sconfina nella bestialità. Momento più drammatico e intimistico per


113 l’Attesa, in cui torna la figura tout court della Penelope. Questa volta, però, colta in un atto in cui si identifica il ruolo femminile. La vita delle donne è fatta di attese: del proprio uomo, di un figlio e non solo. Come se per la donna diventasse una missione di vita, di cui la voce monologante pone il senso.

tenutosi al Teatro dell’Archinvolto di Genova, in cui cinque giovani attrici di talento hanno messo in scena monologhi inediti. Lo stesso autore, nella nota al testo, scrive che: «Lo spettacolo Beatrici è stata l’occasione per mostrare che esistono giovani attrici italiane di talento e non necessariamente devono essere ingoiate dalla televisione.»

Struggente è la Vecchiaccia che sull’onda dei ricordi di una gioventù ormai remota , accende i riflettori su una condizione vera. In una società, questa, in cui l’ossessione della bellezza e la vecchiaia sono viste come qualcosa da nascondere. È una figura che nel mettere in rilievo elementi sgradevoli commuove per quell’alone di tristezza e di rabbia che cinge la donna. Sul finale si apre uno spiraglio, con il volo che può essere visto come una via di salvezza a una “condanna”.

Donne di talento, donne vere in scena e sulla carta, che rifuggono ai cliché creati da tivù e mass-media. Le donne, ben oltre il “tanto gentile e tanto onesta pare”.

E condannata è anche l’altra figura, Mademoiselle Lycanthrope. La “Lupa Mannara” che si trasforma e che per questo è emarginata. Non ha possibilità di redenzione, nemmeno attraverso l’amore. Nell’apparente bestialità si svela, però, un’umanità che altre persone non hanno e lampante è la frase: “La gelosia è per i lupi, la vendetta per gli uomini”. Evitando intenti didascalici e ponendosi nel solco dell’invenzione linguistica alla “Benni” tra giochi di parole e neologismi, ritmo cadenzato e musicalità, commistione di elementi il lavoro del bolognese coglie nel segno, tracciando un repertorio di personaggi con una psicologia in 3D. “Raccontando” le donne, evitando manierismi, e cogliendo in pieno aspetti cruciali della condizione femminile. L’opera nasce sul palcoscenico. Si tratta, infatti, di uno spettacolo-laboratorio


rAcconto

MEDUSA

una favola

di FRANCESCA SCOTTI

Viola al mare ci era andata tutte le estati di cui aveva un ricordo. Finita la scuola suo padre le preparava la valigia, le metteva un cuscino morbido sul sedile posteriore dell’automobile e poi partivano all’imbrunire. Al risveglio la aspettava già Palmira, nella sua casa luminosa con uno strano odore di umidità fresca. Palmira non amava essere chiamata nonna, era una donna robusta con gli occhiali appesi a una catenella di pietre dure. Il paese aveva poche vie e poche case, si conoscevano tutti e Viola poteva giocare indisturbata. La maggior parte del tempo che non trascorreva fra le onde, preferiva passarlo nel frutteto. O nell’orto. C’erano albicocchi, fichi, susini. E poi angurie, piante di cappero, pomodori messi a seccare che diffondevano quell’odore acre al caldo del sole.

fare?” Mentre si allontanavano dal molo Viola le domandò perché quella signora la chiamassero proprio così, se fosse perché bruciava o perché aveva qualcosa di viscido: erano quelle le meduse che lei conosceva. Palmira, ridendo senza tenerezza, le rispose che la medusa di cui parlavano loro era una creatura che nessun essere umano avrebbe potuto guardare negli occhi senza essere pietrificato all’istante. Lei ne aveva sentite tante di storie come quella da sua nonna, e tutte la rendevano inquieta. Forse Palmira si divertiva a non spiegarle le cose fino in fondo e a lasciare che la sua immaginazione facesse il resto.

Di Medusa ormai, in paese, parlavano tutti e Viola era sempre più impaurita. Anche prima di Palmira, intanto, si dedicava alle conserve chiudere gli occhi, tra le lenzuola che sapevano piccanti, definendole sbrigativamente amare, e di vecchio armadio, il pensiero era arrivato a lei. alle salse. Aveva sempre addosso un profumo Mettendo in fuga il sonno fino al mattino. sapido e di alloro. Riempiva i barattoli di piccole “Palmira, ma Medusa pietrifica proprio olive nere aiutandosi con un mestolo, mentre chiunque?” Aveva domandato Viola mentre Viola le chiedeva, per l’ennesima volta, come si pizzicava con le dita il pane fresco che di solito preparassero. Poi avvitava il tappo e asciugava mangiava con voracità a colazione. la salamoia con il grembiule. “Chiunque” le aveva risposto la nonna, Le vicine di casa andavano da Palmira a bere spaccando una fetta di anguria con il coltello. il caffè quasi ogni giorno e fu da una di loro “E se non ti va il pane, almeno mangia la frutta.” che, per la prima volta, quell’estate, Viola sentì parlare di Medusa. Così chiamavano la nuova Viola si sedette dove il porticato confinava arrivata che era andata ad abitare nella casa con il prato, appoggiando la fetta di anguria vuota poco lontano. Poi quel nome lo sentì sulle ginocchia. Sembrava un sorriso rosso. Il pronunciare anche dal ragazzo che vendeva il pensiero di quella nuova vicina, però, non le pesce la mattina presto: a bocca semichiusa, dava pace. mentre incartava le triglie luccicanti “Palmira, e “Quindi Medusa deve abitare da sola? Non ha voi che mi dite della Medusa?” anche lei una bambina come me?” Lei lo guardò sospirando. “E che ci dobbiamo “No, Viola mia, diventerebbe pure lei di pietra.”

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Viola quella mattina non disegnò con i pastelli e non sfogliò nemmeno un libro di quelli con tante figure. Ma il pomeriggio arrivò comunque in un attimo. L’odore dell’aria era quello della linfa che entrava in ebollizione e dei fichi che si trasformavano in marmellata pur restando attaccati alla pianta. Viola era irrequieta ma Palmira riposava con le palpebre chiuse e gli occhiali inforcati. Le cicale avevano interrotto bruscamente il loro frinire e lei si era sentita ancora più sola. Con gli altri bambini del paese non si divertiva, passavano le giornate a gareggiare in bici, pedalando scalzi. Viola si domandava se anche loro sapessero di Medusa e se, più coraggiosamente di lei, si fossero spinti a vedere dove abitava. Andò sul prato, aprì l’acqua della canna rimasta al sole e si lavò le gambe minute, rese appiccicose dal succo di anguria di quella mattina. Il paese le si mostrò appisolato come sua nonna, crollata davanti a un televisore a volume troppo alto. Accanto a casa di Palmira c’erano i ruderi di una villa in costruzione che probabilmente mai avrebbe visto la fine. Tra questi spuntò un giovane cane randagio con quella magrezza incerta dei puledri. Lei gli andò incontro timidamente mentre lui si faceva avanti festoso. Aveva delle orecchie troppo grandi, una in particolare si richiudeva sull’altra come una sfoglia di pasta fresca. Viola, dimenticando ogni raccomandazione, lo accarezzò e giocò con lui. Corsero su e giù per la via. Lei, di tanto in tanto, cambiava rapidamente direzione e lui si abbassava al suolo, allargando le zampe davanti pronto ad accettare la nuova sfida. La bambina saltellava sollevando la polvere e lui la inseguiva ansando.

mani giunte in preghiera, fanciulle che tenevano cestini di fiori, un uomo basso e panciuto con il volto deformato da un ghigno. Erano state tutte verniciate di bianco, alcune di fresco. Lungo il davanzale del balcone c’erano delle figure, più esili. Per evitare che cadessero, i loro piedi erano stati coperti di cemento dipinto. Viola, prima di correre via terrorizzata, si avvicinò alcuni passi al cancello, per guardare meglio ciò che non avrebbe mai dimenticato. Intanto il cane abbaiava, desideroso di tornare al loro gioco. Ma lei non lo sentiva. Lui abbaiava acquattandosi e correndo intorno. Guaiva cercando di essere persuasivo. Viola percepì qualche movimento nella casa, suscitato, probabilmente, dal verso della bestiola. La porta si schiuse e lei, spaventata, si girò per sgridare il cane e farlo tacere. Lui abbaiava solo di più, divertito, continuando a balzellare inarrestabile. “Shhhhhh, buono, zitto!” Una delle poche auto che si vedevano in paese passò in quel momento. Non andava veloce e la strada era libera, eppure investì il cane senza nemmeno accorgersene. Viola guardava la bestiola a terra, con il pelo ispido sotto il quale le ossa premevano come se volessero spuntare. Gli occhi fissi e le orecchie riverse sull’asfalto. Viola rimase immobile, accovacciata, finché, dopo un tempo che le parve infinito, sentì la porta delle casa richiudersi. Avrebbe voluto toccare l’animale per sentire se il suo corpo fosse diventato di pietra, ma non ne ebbe il coraggio. E in ogni caso ne era certa: Medusa lo aveva guardato.

Viola camminò fino a casa in preda a dei singhiozzi contratti, che non la lasciavano Come quando si nuota in mare puntando respirare. Intanto si dimenticava dell’automobile all’orizzonte e solo troppo tardi ci si accorge di e si convinceva solo della crudeltà dello sguardo aver perso la riva, Viola si rese conto di essere della vicina. arrivata fino a casa di Medusa. Sotto il porticato tutto era rimasto uguale Un cancello smaltato di blu racchiudeva un a poco prima: Palmira dormiva e gli insetti lungo giardino interamente ricoperto di statue. ronzavano intorno alla frutta caduta. Ma Viola, Ce n’erano di ogni dimensione e ritraevano dopo quell’estate, non volle più tornarci. esseri umani e animali in diverse condizioni:

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“Frasi nitide, che hanno bisogno di quella semplicità perfetta per poter “non dire”, sosopendono la scrittura, proiettandola in quela fessura invisibile del mondo, in cui l’indicibile è la chiave della narrazione” Valeria Parrela, Grazia “Qualcosa di simile, l’esordio della trentenne Francesca Scotti. La sorpresa più rilevante dell’anno. Dieci storie: vive, fulminanti, crudeli.” Giovanni Pacchiano, Il Fatto Quotidiano


fantascienza Fantascienza e futuro La diamo una sbirciatina? di ALEXIA BIANCHINI

Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un pleonasmo, ossia anticipare quello che accadrà. (Ennio Flaiano)

Anelato Futuro, enigma irrisolvibile, arcano per eccellenza. Molte opere di fantascienza hanno plasmato storie, attraverso l’immaginazione scaturita dal pensiero di ciò che ancora non è accaduto. Trasportati in una dimensione temporale diversa protratta in avanti , molti registi e scrittori hanno strutturato società moderne o decadute, scaturite da noi, da ciò che siamo, ossia il passato. Utopie e distopie si alternano, sebbene anche le prime nascondano sempre qualcosa di marcio. La distopia ossia utopia negativa racconta una società indesiderata, estremista, pessima da ogni punto di vista. L’uomo, come entità pensante, voce del popolo schiacciato, tenta di far sentire il disagio. È un grido d’aiuto proveniente dalla massa, un grido politico. L’insoddisfazione, le ingiustizie sono sempre all’ordine del giorno. Da questo disagio prende spunto un nuovo futuro. Non esiste in questo genere di fantascienza una sterilità sociale proprio perché tutto ciò a noi conosciuto decade miseramente e fa paura. La struttura su cui poggia la nostra esistenza è messa in gioco. Il valore della libertà, in ogni

sua forma, viene meno. Il diverso è abietto, sinonimo di sbagliato, ci si deve sempre uniformare. Il diverso è il male, chi alza la mano per obiettare sarà punito. Il motivo di cotanta smania di decadenza , vi chiederete voi, a cosa porta? Leggere (o vedere) di un mondo all’apparenza perfetto ma con quintali di scheletri nell’armadio o una realtà terribile che non nasconde le sue magagne spinge alla riflessione. Avete presente il detto: chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia non sa quel che

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fantascienza trova? Ebbene signori miei: ponderiamo. Tali film o romanzi ci narrano di un futuro temibile, ma ricordatevi sempre che la realtà supera sempre l’immaginazione. Ci sono letture indimenticabili che nascondono distopie paurose. Il piccolo gioiello di Ursula Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, descrive la contrapposizione tra la distopica Urras divisa in una corrente capitalista e una socialista e l’utopica Anarres; libro di una profondità antropologica non indifferente, sempre odierno e capace di far riflettere. Il sempreverde 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley, guarda caso compaiono nell’Europa del Dopoguerra, dove il pessimismo era all’ordine del giorno. Il romanzo di Orwell ha ispirato molti altri scrittori e registi. Come V per Vendetta tratto dal graphic novel V for Vendetta, scritta da Alan Moore e illustrata da David Lloyd. Altri esempi di distopie sono: La città del

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sole di Tommaso Campanella o L’Utopia di Tommaso Moro, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Quest’ultimo nasce del racconto breve The Fireman. Nel romanzo ci ritroviamo in un ipotetico futuro, dopo il 1960, dove leggere libri è considerato reato. È stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco per bruciare ogni tipo di volume. Tratto dal romanzo, nel 1966 esce Fahrenheit 451 film diretto da François Truffaut. Sottolinea lo strapotere mediatico del mezzo televisivo. L’onnipresente schermo costringe la popolazione alla sottomissione nei confronti del potere. I libri costituiscono una via di fuga verso nuovi orizzonti, stimolano al pensiero, vanno eliminati. Ispirato a Fahrenheit 451, Il mondo nuovo e 1984, troviamo il film Equilibrium, le cui vicende sono ambientate in una immaginaria società distopica in un futuro postatomico. Libria, una città-stato, vive sotto il regime di un dittatore, Il Padre. La popolazione è completamente soggiogata, una sostanza azzera ogni tipo di emozione. Il primo lungometraggio di George Lucas è: L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138), film del 1971. Anche qui ogni tipo di sentimento viene represso e vietato. Non è la morale la motivazione di cotanta coercizione, quanto il fatto che dalle emozioni si scatena il pensiero, stimolatore della coscienza e motivo di probabile ribellione. Un altro famoso esempio è: Io sono leggenda, romanzo fantascientifico/ horror del 1954 dello scrittore americano Richard Matheson, da cui hanno tratto tre film. Ispirato ad esso ritroviamo film horror sensazionali, come La notte dei morti viventi di George A. Romero e 28 giorni dopo di Danny Boyle. Matheson riflettendo su Dracula di Tod Browning capovolge la situazione


di base: non più un vampiro in un mondo di umani, ma un solo essere umano in un mondo di mostri. Tornando agli albori del cinema, ritroviamo il fantasmagorico Metropolis di Fritz Lang, simbolo del cinema espressionista. In una città futuristica la classe dei privilegiati cerca di opprimere la gente comune, comandata dai voleri dittatoriali di un androide dalle fattezze femminili. Nel 1982 ispirato ad esso arriva nelle sale cinematografiche Blade Runner, diretto da Ridley Scott. È uno dei più celebri film di fantascienza, liberamente tratto dal romanzo Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick, uno dei maggiori scrittori statunitensi della seconda metà del Novecento, precursore del filone cyberpunk. La lista è lunga ma vorrei finire con una chicca: WALL•E, lungometraggio d’animazione del 2008, realizzato da Pixar Animation Studios in coproduzione con Walt Disney Pictures, diretto da Andrew Stanton. Noi umani ridotti a obesi e apatici passeggeri di una mega astronave, mentre la nostra Terra non è altro che una grossa discarica senza più vita. E pensare che molti sono convinti che la fantascienza sia solo frutto di fantasia, un amplificazione dell’immaginario infantile. La fantascienza “distopica” è accattivante perché sbircia nel futuro, ma al tempo stesso serve come monito a noi umani, troppo spesso abituati a guardare il nostro piccolo giardino, senza valutare i problemi in senso globale.

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fantascienza di CLAUDIO CORDELLA Il geniale fumettista nipponico Mamoru Nagano, nato a Kyōto il 21 gennaio 1960, ha creato con The Five Star Stories (d’ora in poi FSS) un manga raffinato di genere science-fantasy, riunendo in sé elementi narrativi fantascientifici che si alternano a spunti provenienti dal fantastico puro. Nell’universo di FSS convivono draghi, maghi (riuniti nella Gilda dei Parah e dei Daiver) e incarnazioni divine assieme a pianeti extrasolari, vascelli interstellari e robot giganti (i mortar headd). Le stesse creature artificiali che hanno un ruolo così importante nella narrazione, le fatima, non sono solo dei semplici esseri umani creati in laboratorio. Ad esempio, tre di loro: Lachesis, Klotho e Atropos, sono gli avatar delle Parche mitologiche dell’antica Grecia. I capitoli di FSS sono pubblicati sin dal 1986 sulle pagine del mensile Newtype: un magazine della casa editrice giapponese Kadokawa Shoten. Per, poi, essere periodicamente ripubblicati nel formato tankōbon (cioè in volume). In Giappone questa serie è giunta al dodicesimo volume. Nel mercato fumettistico nostrano grazie alla casa editrice Flashbook , ha fatto la sua comparsa solo verso la fine del 2010. Nel 1989 per la regia di Kazuo Yamazaki è realizzato un omonimo film d’animazione, modesto sia dal punto di vista tecnico che della regia. Attualmente non ancora doppiato in italiano, ha l’unico pregio di seguire abbastanza fedelmente gli avvenimenti relativi al primo volume di FSS. A questo punto, dobbiamo dire che Nagano è un vero geniaccio: fumettista, cantante e fashion designer. Nel 1984 entra negli studi della Sunrise. Qui ha l’occasione di collaborare assieme a Yoshiyuki Tomino: il creatore della celebre serial d’animazione fanta-robotica Kidō Senshi Gundam (Mobile Suit Gundam). Recentemente

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121 è stato impegnato nella realizzazione di un anime, Gothicmade, in collaborazione con lo studio Automatic Flowers con il ruolo di regista, sceneggiatore, character e mecha designer (cioè di creatore sia dei personaggi che dei mezzi meccanici). L’uscita di questa pellicola d’animazione nelle sale cinematografiche del Sol Levante è prevista per il 2012. Dalle notizie trapelate su Gothicmade come i bozzetti dei personaggi e i trailer reperibili su internet , possiamo dedurre che sia una space-opera assimilabile, per molti aspetti, a FSS. Anche qui abbiamo guerrieri, personaggi femminili chiave in questo caso delle sacerdotesse dette Songstress costumi barocchi e robot giganti detti Gothicmade. Il che, però, non sorprende più di tanto. Tutt’oggi FSS rimane l’apice creativo, sia dal punto di vista iconografico che narrativo, di Nagano. Questa lunghissima saga è ambientata nell’Ammasso Stellare del Joker costituito dai soli di Nourth, Southernd, Easterr e Westerr. Il nome dal suono anglofono di ciascuna stella deriva dal nome dei quattro punti cardinali in inglese: north (nord), south (sud), east (est) e west (ovest). A questi ultimi dobbiamo, poi, aggiungere un quinto elemento: il gruppo di corpi celesti erranti di Stantt, che si avvicina solo periodicamente al resto dell’Ammasso. Una delle principali caratteristiche che contraddistinguono questo capolavoro della “letteratura disegnata” è il suo accentuato barocchismo che si sposa, alla perfezione, con quell’aria da kolossal che si respira


fantascienza parimenti nella space-opera occidentale. Si pensi solo ai romanzi del ciclo Foundation (Fondazione) di Isaac Asimov o a Frank Herbert (l’autore di Dune) oppure sul versante cinematografico all’esalogia di Star Wars di George Lucas, tra l’altro esplicitamente citata da Nagano. In FSS abbiamo – per prima cosa una trama intricata, in cui non solo si intrecciano e si sovrappongono tra loro diversi percorsi narrativi ma anche l’ordine cronologico degli eventi è abbandonato. In buona sostanza, qui il lettore non solo si trova ad avere a che fare con una selva di personaggi ognuno con la propria storia da raccontare ma anche con un ciclo epico che inizia dalla sua conclusione; ovverosia dal momento in cui l’albino Amaterasu Dis Grand Gris Eihtath IV, sovrano del mondo di Delta Belun da lui unificato con la creazione dell’Amaterasu Kingdom Demesnes (A.K.D.) diventa l’indiscusso padrone dell’intero Ammasso. Amaterasu più che un monarca umano è l’avatar di un essere celeste, la divinità solare nipponica Amaterasu-ō-mi-kami (“Grande dea che splende nei cieli”). Da qui, l’autore parte a ritroso per raccontarci delle vicende guerresche ma anche sentimentali che vedono protagonisti i Cavalieri (o headdliner) e le fatima. Questo talentuoso mangaka (cioè fumettista) non sembra, però, amare per nulla ciò che è semplice. Dunque, nel raccontarci tali imprese, inserisce talvolta delle visioni profetiche. Degli squarci nel tessuto della realtà, capaci di condurre, di colpo, il lettore in uno spazio-tempo lontano dall’azione a cui poco prima assisteva. Quando nel terzo volume Chorus III, eroico sovrano e Cavaliere dalle mille virtù, muore in battaglia, la sua fatima Klotho riesce a condurre ugualmente da sola alla vittoria il mortar headd Jünoon. L’esperienza, però, è traumatizzante per la poveretta che, in seguito, sceglie di porre sé stessa in una sorta di stato di ibernazione. Durante questo lungo sonno, lei vede il futuro, osserva la lotta del giovane Chorus VI contro il tiranno Eupandora, sosia di Amaterasu a cui quest’ultimo ha delegato ogni potere. Ancor più sconvolgenti sono le tavole del quarto tomo di FSS dedicate a Taika un mondo posto in un altro universo , a cui approderà la misteriosa Kallen, la figlia di Amaterasu e della fatima Lachesis. Invece, nell’ottavo volume l’ultimo al momento in cui scriviamo a esser edito in Italia Lachesis intravede le fasi iniziali della distruzione del pianeta Kallamity, evento funesto che la porterà a essere una naufraga del cosmo. Per fortuna questo fumettista ha pensato bene di corredare con un’ampia cronologia i volumi di FSS, assieme ad alcune dettagliate appendici. Il che aiuta, senz’altro, il lettore a non perdersi all’interno di questo meraviglioso affresco, offrendogli un’ancora di salvezza.

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Ritornando all’estetica di Nagano, dobbiamo dire che sia i protagonisti di FSS per la maggior parte Cavalieri, nobildonne e fatima sono, quasi tutti quanti, caratterizzati da una straordinaria bellezza, fascino ed eleganza. In particolare, Amaterasu in quanto creatura divina non è né maschio, né femmina. I suoi lineamenti sono palesemente androgini e solenni: pienamente degni di un re-dio. Inoltre, nella raffigurazione dei corpi femminili sia di donne che di fatima Nagano sembra essersi ispirato ai character ideati dal celebre Leiji Matsumoto, mangaka notissimo nel nostro paese per essere stato il creatore del pirata spaziale Harlock. In entrambi i casi, sia in Matsumoto quanto in Nagano, abbiamo a che fare con delle creature femminee dalle fluenti chiome ma magrissime, sin troppo simili in questo a tante modelle anoressiche. Le fatima assumono un ruolo centrale all’interno dell’economia narrativa di tutto FSS. Per prima cosa bisogna precisare che headdliner, mortar headd e fatima formano un tutt’uno inscindibile. I mortar headd sono sia dei robot giganti tipici della fantascienza made


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in Japan , sia l’ennesima espressione del barocchismo “naganiano”. Queste imponenti macchine antropomorfe dall’aspetto medievaleggiante rappresentano in guerra dinastie regnanti, ordini cavallereschi e intere nazioni. Sono l’arma suprema che domina l’Ammasso. Paradossalmente, sono tanto dei prodotti di un industria bellica quanto dei raffinati oggetti d’artigianato. Il Knight of Gold caratterizzato da una vistosa corazza dorata è il vanto e l’orgoglio dello stesso Amaterasu, che l’ha progettato e costruito. Analogo discorso per il Jünoon dalla bianca armatura, partorito dal genio dello sfortunato Chorus III. Artefatti simili, però, non possiedono una coscienza tranne in rarissimi casi in cui essa pare ridestarsi. Dunque, essi devono essere pilotati da qualcuno: per l’esattezza da Cavalieri assistiti dalle loro fatima. Queste ultime, in definitiva, non sono nient’altro che computer biologici di forma umanoide: utilissimi per il controllo dei dispositivi di macchine complesse e gigantesche come i mortar headd. Eppure esse sono, sin da subito, presentate come qualcosa di più: se il rapporto simbiotico che una fatima instaura con il suo mortar headd sfocia in qualcosa che sembra un rapporto madre-figlio, quando si tratta di Cavalieri abbiamo, invece, a che fare con un amore totalizzante. L’headdliner è il padrone assoluto del destino della sua fatima. Il fatto che lei sia felice o infelice, trattata come un essere umano oppure come un mero

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oggetto, tutto dipende dal suo capriccio e dalla sua indole. D’altra parte, all’opposto, la vita in battaglia di un Cavaliere dipende dal comportamento della sua compagna. Personaggi dai nobili sentimenti trattano con umanità le loro fatima: lo stesso Amaterasu persa l’amata Lachesis nello spazio-tempo inizierà una lunga odissea alla sua disperata ricerca. La Legge Stellare dell’Ammasso del Joker, però, non riconosce alcun diritto alle fatima. Inoltre, precise norme sanciscono la foggia degli abiti che esse devono indossare e come devono esser fatte le lenti ideate per nascondere i loro occhi. Precisiamo qui che sia Cavalieri che fatima possono essere ambosessi. Nella maggior parte dei casi, però, i primi sembrano essere in genere maschi, mentre le seconde femmine. Il che spiega perché dato il legame privilegiato che le fatima stringono con i loro patner esse finiscano per essere odiate dalle mogli di costoro. Esse, infatti, sono pronte a veder le fatima solo come delle belle bambole, costruite proprio per venir incontro ai desideri degli uomini e far loro concorrenza. Che cos’è dunque FSS? A giudizio di chi scrive è sostanzialmente un’incredibile epopea dove misticismo, alta tecnologia, arte, amore e morte, si sposano tra di loro per comporre un unico, stupefacente quadro dai colori accesi, sensuale, eccessivo, dalle prospettive inedite e debordante. Insomma, un’autentica opera barocca.

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racconto

Tutto per Bergkamen di SEBASTIAN FITZEK

traduzione di Irene Montanelli

Molti mi ritengono uno stronzo. E magari lo sono pure. Ma pochi possono giudicare davvero. Il fatto è che mi incontrano sempre in situazioni in cui stringere amicizia è impossibile. Non mi incontrano, infatti, per bere una birra in santa pace, né allo stadio, né tantomeno a qualche festa. Ci troviamo sul posto di lavoro. E il mio posto di lavoro è la morte. Siccome la morte non fa orario d’ufficio, io l’ufficio non ce l’ho. Sono una specie di agente di commercio, un commesso viaggiatore. E viaggio inseguendo le persone di cui voi preferite non sapere niente. Psicopatici che se ne vanno in giro con il dito mozzato di un bambino nel tascapane e, dopo averlo raccolto, vogliono succhiarlo ancora un po’; sociopatici che se ne stanno lì a guardare la propria moglie paralizzata morire di fame. Gente della porta accanto. Spesso arrivo troppo tardi. Come oggi, a Bergkamen. Quando ho ricevuto la chiamata sul mio numero per le emergenze, stavo facendo scomparire un orologio da polso di Hello Kitty sotto gli occhi di mia figlia. Lisa festeggiava il suo settimo compleanno e la mia ex moglie, Tanja, mi aveva assunto come mago per intrattenere i bambini. Ora, se la sarebbe dovuta vedere lei da sola con tutti quei marmocchi che si aspettavano dei trucchi di magia, mentre io viaggiavo lungo la B61 per andare a Bergkamen, a incontrare un malato di mente. “La prima a scoprirlo è stata la vecchia Dobkowitz” mi spiegò il capo per telefono. Dobkowitz. Hartmann, il capo dell’unità speciale, aveva pronunciato il nome dell’anziana signora come se fosse una celebrità locale. Per me, tuttavia, era una perfetta sconosciuta, al pari di ogni singolo componente della schiera angelica dell’unità speciale, della stampa e della folla dei curiosi che, nonostante la pioggia battente, affollava la zona pedonale di Nordberg e che gli ignari poliziotti trattenevano a stento lontano dal luogo del delitto. Il capo dell’unità era esattamente come me l’ero immaginato sentendone al telefono la voce asmatica: sovrappeso, spelacchiato e con un nasone dai pori dilatati. Quando gli strinsi la mano sudaticcia, mi aspettavo quasi che mi proponesse di andare a prenderci una birra e un po’ di polpettone. “Tempaccio, lo voleva?” Come me, non aveva né un impermeabile né un ombrello, ma ai piedi aveva un paio di enormi stivali di gomma verde militare. Se quello era davvero il suo numero di scarpe, dopo potevo portarlo con me alla festa di Lisa per fargli fare il clown. Due dei suoi uomini alzarono il nastro per farmi passare.

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“Come mai vuole trattare soltanto con Lei, ha qualche idea?” “Nessuna” risposi con un’alzata di spalle. Suggerire al capo che bastava googlare un po’ il mio nome, poteva sembrare un po’ presuntuoso. Come spiegare, a qualcuno che non lo sa, che sono il migliore? Certo, non ero un vero psicologo della polizia con tutti i crismi. Avevo studiato giurisprudenza, poi, a un certo punto, ero rimasto impantanato nel Dipartimento Federale Anticrimine. “Quelli del Dipartimento Federale Anticrimine dicono che lei è un profiler e non un negoziatore” osservò Hartmann. Non sembrava diffidente, il suo era solo genuino interesse. Per ora non mi riteneva apertamente un pezzo di merda. Ma avrebbe presto cambiato idea, cioè quando si sarebbe accorto chi gli stava strappando il comando. “Esatto. Di solito cerco di immedesimarmi nei serial killer e nelle loro menti disturbate” spiegai. “Ma questo mi aiuta anche a trattare con i sequestratori. Come dire, smorzare i conflitti è un po’ il mio hobby.” Mi portarono all’edificio di mattoni rosso della Banca di Bergkamen-Bönen che si trovava di fronte al luogo del delitto, a circa trenta metri. “Non male come idea” feci cenno a Hartmann. Avevano stabilito il quartier generale dietro la vetrata antiproiettile della banca, da dove avevano una visuale

diretta dello psicopatico, attraverso la vetrina sull’altro lato della strada. “Ha già avanzato delle richieste?” chiesi mentre, nel grande ufficio della banca, Hartmann si scuoteva inzuppandomi ulteriormente d’acqua. Il poliziotto si accomodò a una scrivania vuota e mi fece cenno di prendere a mia volta una sedia. Di lì a poco fissavamo entrambi lo

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racconto schermo di un computer. Le telecamere di sicurezza della banca erano ora puntate sulla fila di negozi di fronte, rimandando sullo schermo davanti a noi nitidissime immagini a colori. “Richieste?” Hartmann scosse la testa spruzzando d’acqua la tastiera. Vidi un mouse sparire sotto le sue mani e la telecamera zoomò sull’obiettivo. L’immagine si sgranò. “Riesce a leggerci?” Mi ero concentrato troppo sull’uomo mascherato seduto sulla seggiola di legno dietro la vetrina sporca e non avevo ancora notato il cartoncino ai suoi piedi. Hartmann mi mise in mano una stampa a colori appena fatta. Un dettaglio della vetrina molto ingrandito. “Settecento euro o la città muore” lessi ad alta voce le parole scritte in nero a stampatello, sul cartoncino. “E voi mi avete fatto venire qui per una somma tanto ridicola?” Hartmann annuì lentamente. “Gertrud Dobkowitz stava passeggiando col suo cane Gassi ed è stata la prima a vederlo lì, accovacciato nella vetrina. All’inizio l’aveva scambiato per un manichino, poi il tipo con la maschera da sci si è mosso e il cane si è fermato.” “E allora la signora è entrata?” “Sì, la vecchia Dobkovitz è la migliore ‘guida turistica’ di Bergkamen mica per niente. Conosce tutti i posti e tutte le persone, e quando c’è qualcosa di nuovo, è la prima ad approfondire.” “E l’uomo che le ha detto?” “Non molto di più di quello che sta sul cartello. Vuole settecento euro altrimenti la città muore. Allora Gertrud gli ha detto di smetterla con quelle fesserie e di andare a lavorare che era meglio, al che lui le ha riso e ha chiesto di Lei.”

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“E com’è che non l’avete tirato fuori di lì, se persino una pensionata ha potuto entrare e uscire senza problemi?” chiesi. “Perché alla Dobkovwitz ha dato questo.” Hartmann mi allungò un barattolo trasparente con dentro della roba che sembrava il pongo con cui, l’anno prima, Lisa mi aveva fatto un portacenere. Il leggero odore di nitro che emanava dal barattolo non lasciava dubbi. “Semtex” dissi restituendo a Hartmann l’esplosivo al plastico. “Il che spiega cosa sia quella cosa che lampeggia.” Mi riferivo al puntino rosso che sfarfallava dal gilet militare dell’uomo. “Possibile. Magari è cablato.” Hartmann si soffiò il naso. “Ora non lascia entrare più nessuno. E dalla porta chiusa del negozio i cani non sentono l’esplosivo. Ehi, dove pensa di andare?” Scattò in piedi sconvolto quando si accorse che avevo lasciato il mio posto e riattraversavo l’ufficio, diretto al portone. “Dove andrò mai?” chiesi con un vago tono cinico. Era il momento di prendere in mano il timone. “Vuole parlare con me, no? Vado a fargli una visitina.” Ovviamente Hartmann non mi lasciò andare impreparato. Prima che mi permettesse di avvicinarmi alla vetrina attraversando la zona pedonale, mi procurò un giubbetto antiproiettile e un auricolare, con cui potevo rimanere in contatto con la polizia e che ora era nel mio orecchio destro. Sapevo che avrebbe preferito sostituirmi con uno dei suoi uomini addestrati per le trattative, ma poi avrebbe dovuto spiegare a quelle iene della


stampa armate di macchine fotografiche, telecamere e stazioni mobili che stavano al di là del nastro della polizia, perché non mi lasciavano parlare direttamente con l’attentatore, dato che lo aveva richiesto in modo esplicito. Se il tipo si faceva saltare in aria perché mi aveva rispedito a casa, un trasferimento per motivi disciplinari sarebbe stato il

minore dei suoi problemi. Con le mani in alto, mi avvicinai lentamente alla vetrina, fermandomi a una distanza di circa dieci metri, presso un lampione. Un cartellone attaccato al palo con del filo grigio, si mosse nel vento: sopra, Roland Schäfer sorrideva fiducioso sponsorizzando la sua rielezione. Staccai il filo, tirai fuori la mia penna Edding dal taschino della giacca di pelle e scrissi dei numeri sulla fronte spaziosa del sindaco. Quindi girai il cartello verso la finestra. Pochi secondi dopo, il mio cellulare squillò. “Ciao Adam”. L’uomo con la maschera da sci parlava come se ci conoscessimo da tempo. Avevo messo il vivavoce cosicché Hartmann potesse sentire quello che ci dicevamo attraverso l’auricolare. “Ciao” risposi. “Ora, visto che lei conosce il mio nome, vorrebbe gentilmente dirmi il suo?” “Certo” disse, sfilandosi la maschera dalla testa. “Oh merda!” mi sibilò Hartmann all’orecchio. “Quello è Benny!” Tutto intorno a me ronzavano i motori elettronici di innumerevoli fotocamere digitali. Per fortuna, per ora, la stampa si atteneva al divieto di usare i flash. “Benjamin” confermò il ragazzo scuotendo la testa e facendo ondeggiare i lunghi capelli finora rimasti schiacciati. Per quello che riuscivo a vedere attraverso la pioggia battente, le labbra erano piegate in un ghigno. Era chiaro che si beava di tutta quella attenzione che gli veniva concessa. “Posso avvicinarmi un pochino,

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racconto Benjamin?” chiesi cauto. Annuì. “Bene, almeno me ne sto all’asciutto” entrai sotto la tettoia del negozio che, un tempo, doveva essere stata una cartoleria. Sulla porta era ancora attaccata la vecchia pubblicità di una marca di cartucce d’inchiostro. “Benny Senner è un po’ squinternato, ma innocuo” mi spiegava da lontano il capo della squadra speciale. “Ventiquattro anni, ha studiato Economia Ambientale, specializzandosi nelle Energie Rinnovabili, un attivista ecologista, insomma. Già tre anni fa aveva occupato il grattacielo e chiesto affitti gratis per le case popolari.” Mi chiesi se per “grattacielo” Hartmann intendesse quell’orrendo palazzone di cemento di fronte al municipio. Ma c’erano domande più importanti da fare. “Cosa vuole, Benny?” “Lo sapete già. Sta tutto scritto lì.” Evidentemente Benny non si era infastidito per il mio tentativo di costruire un rapporto di fiducia usando l’abbreviazione del suo nome. Con la punta dello stivale toccò il cartello ai suoi piedi. Solo allora mi accorsi che sotto la sedia c’era un cronometro. Il contatore ticchettava. “Settecento euro? Non mi sembra una gran cifra per piantare un tale casino” dissi ostentando un’aria disinvolta. Tenevo la mano sinistra alzata, il palmo rivolto verso di lui, per mostrargli che non avevo niente da nascondere. “Non capisce. Anche Lei si limita a... nuotare seguendo la corrente.” Socchiusi gli occhi. “Che vuol dire, Benny?” Il sorriso scomparve dal volto segnato dall’acne del giovane. Aveva la faccia di uno che si preoccupa perché nessuno lo ascolta, nonostante avesse cose importanti da dire.

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“Lei sa che, negli anni, Berkamen è sprofondata di venticinque metri?” mi chiese. “No” “Eccoci!” mi ringhiò Hartmann nell’orecchio. “I danni dell’industria mineraria...” Annuii. Mentre arrivavo con la macchina, avevo notato le crepe nelle strade e sui muri delle case. Sono cresciuto a Lünen e ricevevamo il risarcimento dalla società di demolizioni. Almeno finché, nel ’67, mio padre non rimase coinvolto nella sciagura della miniera Minister Achenbach e io e mia madre non ci trasferimmo a Colonia. “Maledetto carbone” imprecò Benny e per un attimo credetti che avrebbe sputato sul cartello. “Hanno estratto tutto il carbon fossile del cazzo, per le loro centrali del cazzo e la loro corrente del cazzo. Senza curarsi dei danni. E ora il casino è fatto. Sprofondiamo. E non parlo solo di strade, prati, campi e case. Anche i fiumi. Lo sa cosa significa?” “Posso immaginare.” “Presto la corrente di questi fiumi di merda andrà al contrario. Non hanno più pendenza. Provi a dire quante pompe abbiamo a Berkamen per evitare di morire tutti affogati.” Scrollai le spalle. “Nove. Nell’ultimo anno 22,3 miliardi di litri d’acqua si sono riversati nei bacini più in alto, per esempio nell’Emscher. 22,3 milioni di metri cubi.” “Ecco che inizia la conferenza sui danni eterni” lo informò Hartmann via radio e aveva ragione. “Questi sono i danni infiniti ed eterni che ci ha lasciato l’industria mineraria. Combattere contro le masse d’acqua, ci costa cinquantacinque milioni all’anno.


Fino alla fine dei nostri giorni. Finché Bergkamen sarà abitata, le pompe dovranno lavorare o finiamo tutti a mollo. E intanto l’acqua si accumula nelle miniere abbandonate e contamina le nostre falde acquifere. E questo costa altri cento milioni, capisce? Oltre centocinquanta milioni, ogni anno fino al Giorno del Giudizio. Tutti soldi che i magnati del carbone di certo non avevano calcolato. “Capisco” dissi interrompendo l’infervorato discorso dello studente. “E con la sua azione, Lei vorrebbe suscitare attenzione su questa problematica ambientale?” “No” rispose Benny. “Per quello è già tardi. I danni sono bell’e fatti. Le miniere sono state abbandonate troppo tardi.” “E allora cosa vuole?” “È scritto sul cartello” ripeté con

tono quasi scocciato. “Settecento euro”. “Bene, allora vado al bancomat, prendo un paio di banconote e la finiamo con questa storia?” “Non credo che nel bancomat ci siano così tanti soldi.” “Perché?” “Lo sa quanti sono 22,3 miliardi di litri d’acqua?” chiese lui di rimando. “Glielo dico io: sono settecento litri al secondo, che passano dalle pompe affinché non si sprofondi tutti. E questo è il mio tasso di conversione: settecento euro per ogni secondo che stiamo qui a negoziare.” Prese il cronometro sotto la sedia. “E sono già passati quattro minuti e quarantasette secondi. Da Adam Riese fino a ora fanno oltre duecentomila euro. Con tendenza al rialzo.” “E perché mai dovremmo pagarti questa somma?” chiesi. “Perché non avete altra scelta.” Tirò fuori qualcosa dalla tasca del gilet che, da lontano, sembrava un accendino di plastica, solo che sulla punta c’era un diode luminoso. “Se mi farete aspettare troppo per avere il mio denaro, io premo su detonatore.” Benny sogghignò. “Il che significa, al massimo entro un’ora, quando cioè la mia richiesta sarà arrivata a due milioni e cinquecentoventimila euro”. Mi accorsi dei movimenti febbrili alle mie spalle. Sapevo che Hartmann aveva posizionato diversi tiratori scelti sui tetti delle case di fronte e dietro le portiere aperte delle autopattuglie, in formazione a V a debita distanza di sicurezza dal negozio. “Benny, abbiamo già evacuato la zona pedonale e tutte le case qua attorno” dissi in tono calmo, evitando parole negative tipo “morte” e “ostaggio”: “Se lo preme,

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racconto non farà del male che a se stesso.” Benny rise come se gli avessi raccontato la barzelletta del secolo. “Si sbaglia. Tutti pensate che io sia cablato, vero? E in effetti è così. Tuttavia, non ci lascerei le penne solo io, ma tutta la città.” “Questa me la deve spiegare” gli chiesi. “Come pensa di riuscirci?” Benny alzò il naso. “Mi ascolti bene, amico. Ho posizionato diverse cariche esplosive in altrettanti punti nevralgici della città. Se saltano, tutte e nove le pompe verranno danneggiate. Irrimediabilmente. In un colpo solo. Dopo il Diluvio Universale dei giorni scorsi, le vasche di deflusso saranno piene.

Lo chieda al sindaco quanto ci metterà Bergkamen a finire sott’acqua.” Rise ancora. “Forse avrete tempo di evacuare la città. Ma poi non ci tornerà nessuno. Non avrebbe più senso, dopo che tutto sarà andato distrutto. Quindi si sbrighi, Adam: se entro un’ora non avrò i miei soldi, trasformo Bergkamen in una seconda New Orleans. Solo un po’ più umida.” Finito di parlare con Benny, tornai nella banca, dove Hartmann mi venne incontro con un’espressione che avevo già vista sul volto di Tanja. La volta che mi mostrò l’orecchino trovato fra i cuscini del nostro divano e che lei, sfortunatamente,

SEBASTIAN FITZEK Sebastian Fitzek è nato a Berlino nel 1971, ha un dottorato in Giurisprudenza e lavora alla direzione programmi di una grossa radio privata berlinese. Il suo romanzo di debutto La Terapia (2006) ha destato grande sorpresa, coniugando giallo poliziesco e thriller. Sono seguiti Amokspiel e poi nel 2008 Il bambino e Il ladro di anime, con cui ha rinsaldato la sua posizione fra i maggiori autori tedeschi di thriller. www.sebastianfitzek.de

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133 non aveva perso. “Che cazzo sta succedendo?” chiese Hartmann con un tono che, a sua volta, sembrava quello della mia ex moglie. Uno degli assistenti mi portò un caffè tiepido. Io mi tolsi la giacca fradicia e la appesi allo schienale di una delle sedie. “Me lo dica lei” risposi e guardai il televisore al plasma attaccato alla parete, che normalmente trasmetteva filmati pubblicitari o mute notizie di borsa per i clienti in attesa. Adesso mostrava delle riprese aeree sfocate della zona pedonale. Dovevano venire dall’elicottero della stampa che, proprio in quel momento, rombava sopra le nostre teste. “È vero quello che dice questo Benny? Può veramente affogare la città intera?” “In teoria, sì”. Mi voltai verso quella nuova voce che veniva da dietro le mie spalle e mi ritrovai a fissare un volto noto. Roland Schäfer, sorridendo come sui cartelloni, mi porse la mano e si sedette con noi. “Vuole sapere se può tenere l’intera città in ostaggio?” Annuii. “Purtroppo sì. Piove ininterrottamente da una settimana. Se solo la pompa del Beverbach a Rünthe o quella del Kuhbach smettono di funzionare, succede un casino. Intere aree della città verrebbero sommerse, fino ad Hamm, probabilmente. In ogni caso le cantine verrebbero allagate e le case rese inabitabili per mesi. Fermo restando, naturalmente, che l’attentatore abbia trovato un modo per mettere davvero le pompe fuori combattimento per lungo tempo”. “Per esempio facendole saltare in aria?” chiesi buttando giù un sorso di quella brodaglia marrone che passava per caffè. “Stiamo facendo controllare i vari

impianti” disse Hartmann. “Ma per ora non abbiamo trovato niente di sospetto.” Si massaggiava gli occhi con l’indice e il pollice della mano destra e mi chiesi se fosse più tipo da emicrania o da lenti a contatto. O magari aveva solo dormito male. “E cosa propone di fare?” chiese, senza alzare gli occhi verso di me. Aspettai un secondo prima di rispondere. “Ora, qui abbiamo un caso piuttosto particolare: una minaccia di suicidio combinata con una di attentato. Il soggetto vuole farsi saltare in aria e, contemporaneamente, lasciare cinquantamila persone senza casa. È chiaro che all’uomo non interessa tenere segreta la propria identità, come succede di solito con gli attivisti con motivazioni politiche o idealistiche. Cionondimeno, ha avanzato chiare richieste di denaro. Sapete se è parte di qualche cellula organizzata?” “No, non ci risulta. Come vi ho detto per noi Benny Senner è solo Benny SenzaSenno. Hartmann prese una penna con la pubblicità della banca e se la mise in bocca. “Violazione di domicilio, molestie, disturbo della quiete pubblica... è quello il suo genere. Mai violenza contro le persone.” “Solo che, a un certo punto, il nostro innocuo Benny ha messo le mani su dell’esplosivo al plastico” rammentai. “Sì, eppure non ce lo vedo a mettere altre persone in pericolo di vita, né a nascondere bombe negli impianti di pompaggio.” Annuii. “Su questo sono d’accordo con lei.” La penna passò da un angolo all’altro delle labbra di Hartmann che,


racconto stupito, inarcò le sopracciglia. “Quindi starebbe solo bluffando?” “No. Credo solo che abbia piazzato le bombe altrove”. Vidi che il sindaco voleva dire qualcosa, ma non lasciai che mi interrompesse. “Con Benny ho scambiato solo poche parole, ma in quel breve tempo ha pronunciato più volte le parole “corrente” e ha imprecato contro le “centrali”. E non dimentichiamoci che si occupa di energie rinnovabili.” Mi alzai, parlando a turno a Hartmann e al sindaco. “Ovviamente, per lui, non conta solo il denaro. Vuole di sicuro lasciare un segno. Ecco spiegata la sceneggiata a effetto. E non vuole colpire solo Bergkamen ma anche i “magnati” come li chiama lui. E questo mi spinge a pensare che voglia prendere i classici due piccioni con una fava.” Feci una pausa studiata, conscio che, a quel punto, tutti i presenti a portata di orecchio mi stavano ascoltando con attenzione. “Grazie ai suoi studi, sa piuttosto bene come funziona una centrale. Interromperà il flusso di elettricità che alimenta le pompe. Credo si limiterà a far saltare qualche traliccio, a distruggere le linee aeree o a togliere energia all’impianto di trasformazione.” Hartmann sbiancò. Sembrava quasi di vedere il pensiero del numero spropositato di possibili obiettivi agitarsi in lui. “E ora cosa facciamo? L’ultimatum

134 scade fra trentadue minuti.” Il sindaco tirò fuori una calcolatrice. “Che è come dire tra un milione e trecentoquarantaquattromila euro.” Gettai uno sguardo al display verdognolo dell’apparecchio. Schäfer stava calcolando la somma finale, allo scadere dei sessanta minuti di Benny, e il totale era 2,52 milioni. Hartmann prese una ricetrasmittente e si alzò in piedi a sua volta. “Squadra A, com’è la situazione?” chiese, dandomi le spalle. Oltre la vetrata, sul piazzale, vidi un uomo a volto coperto della squadra speciale alzare appena una mano. “Pronti a entrare in azione, signore”. Disse una voce sommessa dal trasmettitore. “Tutti gli uomini in posizione.” “Io non lo farei”. Sferrare un attacco non era consigliabile. Hartmann si voltò lanciandomi uno sguardo seccato. “Ma non mi ha appena detto che quell’uomo è da ritenersi pericoloso? Cosa devo fare, aspettare che metta in atto la sua minaccia?” “No.” “Cosa, allora?” “Dategli il denaro.” Al che Hartmann scoppiò a ridere, come se gli avessi suggerito di far imbracciare a Gertrud Dobkowitz una mitragliatrice e di farle condurre il blitz.


135 “Lei ha perso completamente la ragione” disse con la familiare cadenza della mia ex moglie. “Mi ascolti” spiegai, cercando di rimanere più calmo possibile. “Il soggetto procede con ordine, seguendo un piano preciso. Non è, di conseguenza, uno psicopatico impulsivo. Ma noi abbiamo un vantaggio: gli manca una strategia di uscita.” “Ovvero?” “Ovvero, coi soldi non può cominciare. Lo guardi un attimo.” Accennai al monitor di sorveglianza che rimandava costantemente l’immagine della vetrina del negozio. Benny era intento a rimboccarsi il pantalone di destra. Anche dalla nostra posizione si vedeva bene che gli tremavano le dita. “Quello non è un assassino. È insicuro, e diventa ogni momento più nervoso. Non si è mai trovato in un affare tanto grosso. Sono sicuro di riuscire a convincerlo a venire fuori, ma per farlo mi serve tempo. E lo ottengo solo se, la prossima volta che vado lì da lui, ho qualcosa in mano.” Ventidue minuti e novecentoventiquattromila euro dopo, tornai ad avvicinarmi alla vetrina. Non mi ero sbagliato. Benny sudava e la sua kefiah giaceva abbandonata vicino alla sedia. Stavolta, quando mi vide, non sogghignò, nonostante avessi con me una ventiquattrore nera e lui sapesse perfettamente

cosa conteneva. Si portò, nervoso, una mano alla nuca e comincio a massaggiarsela lentamente. Con l’altra mano si sfilò il cellulare di tasca. Poco dopo il mio suonò. “Quanto?” mi chiese a bruciapelo. “Quasi due milioni. Di più non siamo riusciti a trovare, in così poco tempo.” Non era una bugia. Anzi, c’era piuttosto da meravigliarsi che fossimo arrivati a tanto. Negli ultimi venti minuti, tutte le filiali nei dintorni di Nordberg avevano mandato i propri portavalori. “A-ah” disse Benny con un tono che non lasciava trapelare se fosse d’accordo o piuttosto sul punto di premere il bottone. D’altronde, con la somma raccolta eravamo circa centomila euro al di sotto della sua richiesta e il cronometro ai suoi piedi continuava a ticchettare. “Come procediamo?” chiesi, nel modo più cordiale possibile. “Si tolga l’auricolare.” “Merda” fu il commento di Hartmann alla richiesta di Benny. E anche l’ultima cosa che sentii dire al capo attraverso la radio. “Fatto” dissi a Benny e sollevai la valigetta. “Ora posso entrare?” “Sì. Ma prima spenga il cellulare e ci tolga la batteria.” Sentii chiaramente Hartmann che, alle mie spalle, colpiva rabbioso


racconto la scrivania. “Ehi tu, non ci prendere per i fondelli” dissi prima di chiudere la comunicazione. “Ora sono io quello in pericolo.” Tolsi la batteria dal telefono e poggiai entrambi gli oggetti sulla strada bagnata. Poi mi avvicinai alla vetrina, lento, con le mani in alto. I due milioni erano divisi in sei mazzette e ognuna pesava circa come un romanzetto in edizione tascabile. Eppure la ventiquattrore mi tirava il braccio destro verso il basso come un grosso peso. La porta del negozio era aperta. Dall’interno vuoto mi investì un tanfo di polvere, sudore e paura. Ora che ero vicino, mi resi conto che Benny non avrebbe retto cinque minuti di più. Un giochetto da bambini, per un negoziatore come me. “Come va?” gli chiesi. “Insomma” rispose e si schiarì la gola. “Ci sono davvero i soldi lì dentro?” “Sì.” Aprii la valigia. Per la prima volta il suo corpo esile si mosse. Si avvicinò alla vetrina e azionò un interruttore vicino al bordo. Si sentì uno scricchiolio e la saracinesca del negozio si abbassò. “Fine dello spettacolo” disse e fece il gesto di salutare il comando delle operazioni. Quando da fuori nessuno poté più vederci, si voltò verso di me, passandosi nervoso la mano tra i capelli. “Bene e ora come procediamo?” “Come stabilito” risposi e guardai l’orologio. Poi poggiai la valigetta ai suoi piedi e tirai fuori una mazzetta. “Girati” gli ordinai e gliela misi in una delle tante tasche del gilet. “Non appena ti ho riempito le tasche di grana, tu esci e aspetti che tutte le telecamere ti riprendano.” “Certo, lo so, così tutti sentono quello che ho da dire.”

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“Esatto” Per fortuna Benny era molto nervoso ma non completamente fuori di testa. Ne avevamo parlato per ore. Da settimane. Il mondo intero doveva sapere quali danni aveva provocato l’industria mineraria. Danni che sarebbero durati in eterno e davanti ai quali non si potevano chiudere gli occhi. Non mentre in Cina veniva perpetrato uno sfruttamento ancora più selvaggio, a dispetto dell’uomo e dell’ambiente. “Non appena ti sarai messo in posizione per la stampa, chiama questo numero.” Gli infilai in tasca un’ultima mazzetta e gli detti un foglietto su cui avevo annotato il numero di Hartmann. “Cosa devo dire?” “Dici ‘tutto questo lo faccio solo per Bergkamen’.” Gli suggerii. “Niente di più. Per il resto ci sarà tempo dopo, quando ti interrogheranno. A quel punto restituisci loro i due milioni ed entro stasera tutti quanti sapranno che non sei né un attentatore né un ladro.” “E il mondo intero saprà del tasso di conversione” sogghignò Benny. “Settecento litri di acqua al secondo. Porca miseria, era davvero l’ora che qualcuno si svegliasse, prima che si costruiscano altre centrali a carbone.” “Vero”. Chiusi la valigetta vuota e lo presi per un braccio. “Amico mio, mi sono proprio divertito” mi fece, con un sorriso nervoso. “Grazie per avermi aiutato a realizzare tutto questo. Solo non vedo l’ora di togliermi di dosso questo esplosivo finto, che dà un prurito della Madonna sotto la maglietta!” Ridacchiai e gli spettinai i capelli. Durante l’anno della preparazione, mi ero proprio affezionato a questo squinternato. Ovviamente non era stato un caso che si


fosse rivolto a me. Infondo non sono molti i negoziatori della polizia che hanno perso il padre in un incidente in miniera. “L’ultimatum sta scadendo” gli ricordai, indicandogli la porta. “Vai e facciamola finita”. Per un attimo, mi sembrò come se procedesse al rallentatore, piano, dondolando, eppure il suo passo era energico. Era un guerriero, che andava ad affrontare la sua ultima battaglia. Un idealista che, nonostante la giovane età, covava in sé così tanta rabbia da sacrificare tutto il suo futuro sull’altare di una guerra che non avrebbe mai potuto vincere. Avevo rispetto per quel suo coraggio, che non avrei mai potuto ripagare. Ma avevo fatto tutto quello che potevo. Avevo mostrato loro dove tutto il loro scavare, quello che aveva ucciso mio padre, li aveva portati. Mentre Benny apriva la porta e usciva fuori, sotto la pioggia battente, indietreggiai verso il fondo del negozio. Sul retro, non c’erano uscite secondarie da cui scappare, solo un bagnetto di servizio, con un lavandino e il water. Mentre mi acquattavo sotto il lavabo, sentii che Benny stava già facendo il numero di Hartmann. Guardai l’orologio. Ancora dieci secondi alla scadenza dell’ultimatum. Da fuori, mi giungeva la voce acuta di Benny che strillava la frase che avevamo deciso insieme. “Tutto questo lo faccio solo per Bergkamen.” Poi, con due secondi di anticipo, una potente esplosione ridusse in pezzi non solo la saracinesca e la vetrina, ma anche il torso di Benjamin Senner. Più tardi, dopo i primi concitati momenti di caos, curati i pochi curiosi feriti e costatato ufficialmente il decesso dell’attentatore, chiaramente un pazzo, ero

sulla via del ritorno, diretto al compleanno di Lisa. Con un po’ di fortuna sarei arrivato in tempo per la torta e il caffè. I trucchetti di magia non li avrei fatti. Per oggi ne avevo fatti abbastanza, di trucchetti. Perché, mi pare ovvio, i soldi andati in fumo, quelli trovati vicino all’attentatore suicida, non erano tutti. Mentre Benny mi dava le spalle, avevo continuato a infilare nelle tasche sempre la stessa mazzetta. Benny era troppo nervoso per accorgersi di avere addosso sì e no centomila euro di banconote, alcune delle quali erano poi svolazzate per la zona pedonale dopo la detonazione, facendo un certo effetto. Quella sera, le immagini dell’esplosione avrebbero invaso i notiziari: attivista ecologista si fa saltare in aria per denunciare i danni dell’industria mineraria. Misi la freccia per prendere l’autostrada e, soddisfatto, toccai la mazzetta di banconote che avevo nella tasca della giacca. Quasi due milioni per quattro ore di lavoro. Che fortuna che quell’idealista abbia chiesto proprio a me di aiutarlo in questa assurda protesta. La sua maggiore preoccupazione era che lo arrestassero con un’azione di commando prima che potesse dire la sua frasetta di fronte alle telecamere. E in effetti non si era sbagliato: alla fine avevo dovuto davvero ricorrere a tutte le mie capacità di persuasione per impedire ad Hartmann di assaltare. Accesi la radio e accelerai, sulle note di The winner takes it all. Ebbene, sì, molti mi ritengono uno stronzo. E magari lo sono pure. Ma adesso, per favore, non venite a dirmi che non vi avevo avvisato fin dall’inizio.

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G ialli Thriller Il marchio del Diavolo il nuovo romanzo di Glenn Cooper di VIVIANA FILIPPINI Chi o cosa sono i Lemuri? Animaletti simpatici con gli occhioni teneri che ti fanno tenerezza al cuore a prima vista? Oppure, gli spiriti vaganti dei morti che nella mitologia romana ritornavano sulla terra per atterrire i vivi? Ne Il marchio del Diavolo, il nuovo romanzo di Glenn Cooper, la scelta ricade sulla seconda categoria – anche se i lemuri in questione sono meno immateriali degli spiriti dell’antica Roma – e porta i lettori a compiere un avventuroso viaggio nel corso dei secoli. Si comincia con un flashback nella Roma del 1139, dove un misterioso individuo scruta il cielo notturno osservando le 112 stelle apparse nel cielo dopo l’eclissi lunare che ha provocato un allineamento astrale insolito. Perché sono così importanti gli astri? Perché essi rappresentano una profezia destinata a cambiare le sorti della Chiesa: nella storia si susseguiranno ancora 112 papi, poi un nuovo mondo sorgerà sulle rovine della stessa. All’improvviso, Cooper ci catapulta nella Roma del 2000 nella quale Elisabetta Celestino una giovane archeologa è a terra in una pozza di sangue, con in testa alcuni pensieri che non dimenticherà mai: il Vaticano senza una motivazione precisa l’ha obbligata a smettere gli studi negli scavi nella catacombe di San Callisto e lei non capisce il perché. Poi, un pazzo scatenato che non ha ben compreso se sia un uomo o un animale le ha inferto una tremenda

coltellata.

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Roma 2010. Una giovane suora è ingaggiata dal Vaticano per lo studio di simboli astrologici nell’antico colombario di San Callisto. Qui la donna si ritrova circondata da scheletri che la sconvolgono per quella particolare protuberanza anatomica che lei aveva notato anche nell’uomo che, dieci anni prima, aveva attentato alla sua vita. Infatti, la religiosa alle prese con la misteriosa indagine, non è nient’altri che Elisabetta Celestino, diventata suora dopo essere miracolosamente sopravvissuta alla morte. Ad aiutare la protagonista, partecipa la sua famiglia: il padre, un docente di matematica alla Sapienza; la sorella Michela, esperto medico in un ospedale romano; Zazo, il fratello ex poliziotto che lavora nelle guardie svizzere in Vaticano e l’allampanato sacerdote padre Trembaly. Tutto sembra andare per il meglio, ma quando la suora entrerà in possesso di un’antica copia del Dottor Faust di Marlowe e – con maestria Cooper ci prende per mano facendoci fare un bel viaggio nell’epoca elisabettiana alla conoscenza delle rivalità e dell’ambigua natura dei poeti della corte regale – comincerà a studiarne la composizione per scovare il misterioso messaggio nascosto tra le righe. La sua esistenza e quella di chi la circonda sarà travolta da cambiamenti improvvisi ed eclatanti. Nella caotica Urbe tutti sono in tensione emotiva per il conclave


che porterà all’elezione del nuovo Papa. Si scatenano, perciò, attorno ad Elisabetta e Co. inseguimenti mozzafiato, fughe ad alta tensione, assassinii, ricerche spasmodiche della verità e una catena di complessi intrighi che risvegliano l’interesse, mai sopito, di loschi individui. Questo quarto romanzo di Cooper – i tre precedenti sono La biblioteca dei morti, Il libro delle anime e La mappa del destino – mostra, ancora una volta, la vasta competenza culturale e storica dello scrittore americano. Una conoscenza che gli permette di creare una storia avvincente in grado di coinvolgere il lettore, mantenendo sempre attivo lo stato emotivo e l’interesse per le vicende narrate. La “capacità d’interessamento” scatenata nell’altro, dalla scrittura di Cooper, sta nella sua abilità creativa di storie dall’intreccio solido e ben costruito dove per rendere complice il lettore, l’autore non inventa tesi surreali e non utilizza teorie che mettono in crisi i “saperi” e le credenze del pubblico. Glenn Cooper ha uno stile garbato e rispettoso, abile a guidare sapientemente chi legge in un’avventura caratterizzata da personaggi dalla fine e complessa psicologia e da un’atmosfera intrigante che ha da sfondo l’eterno scontro tra le forze del bene e quelle del male. Tutto questo si amalgama perfettamente, appassionando chi legge dalla prima all’ultima pagina, ma allo stesso tempo fomenta in noi un dubbio legittimo: “Le persone che incontriamo nella nostra vita sono veramente quello che sembrano e che affermano di essere?” Citando Manzoni: “Ai posteri l’ardua sentenza”.

Titolo: Il marchiodel diavolo Autore: Glenn Cooper Editore: Nord Editrice Pagine: 416 Prezzo: 19,40

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G ialli Thriller AUTRICE DI TU LA PAGARAS! E FUEGO Un giallo a passo di salsa, intriso di malinconia e disincanto, ma nello stesso tempo dotato di una forza magica e seducente. Questa potrebbe essere una delle decine di definizioni entro cui racchiudere lo spirito di tu la pagaras!, il romanzo di Marilù Oliva, pubblicato dalla Elliot. Un giallo che, sebbene abbia già due anni, continua a far parlare di sé: cosa rara in un mondo, qual è quello editoriale, che tende a creare e macinare fenomeni letterari nel giro di pochi mesi. Protagonista di questo giallo, ambientato a Bologna, è Elisa Guerra. Una donna su cui la vita ha infierito, ma che non è stata piegata da nulla, proprio come indica il suo soprannome: la Guerrera. Dotata di grande carisma, tacchi vertiginosi e un coraggio nell’affrontare la vita che ricorda le grandi eroine della letteratura

di STEFANIA AUCI

sudamericana. La Guerrera è una lottatrice che non si è lasciata piegare né dall’infanzia terribile che ha vissuto, né dagli amori sbagliati/complicati/autolesionisti in cui si è impelagata. Elena ha una passione e insieme una debolezza: il ballo latino americano. Balla la salsa per sentirsi viva, per avvertire quell’energia magica che l’ha affascinata in un viaggio a Cuba, anni prima, assieme a un amore finito male. Nel locale dove solitamente si reca a ballare, però, avviene un omicidio: Thomas Delgado, brasiliano, barista e dongiovanni, viene trovato morto, ucciso in modo orribile. Piccolo particolare: Thomas era l’uomo di Elisa. Non una relazione stabile, quanto piuttosto un cercarsi per poi fuggire e riprendersi ancora. Non amore: sesso. A indagare è un commissario tutto a un pezzo, senza grilli per la testa Basilica. Quest’uomo di origine meridionale e con una vita familiare e professionale ordinata ai confini della noia viene “rapito” dal mondo passionale e anarchico della salsa e degli strani personaggi che in esso gravitano. Manuela, ballerina non più nel fiore degli anni e con molti conti in sospeso con colleghi e dipendenti; Catalina la migliore amica di Elisa Guerra, un po’ maga, un po’ mamma; Azuk, barista amico di Thomas; Princesa, una salseira tanto affascinante quanto ambigua, seguita dai suoi cugini con cui ha un rapporto morboso. Una girandola di personaggi vitali, forti, ciascuno con le proprie caratteristiche, attori di un microcosmo a tinte forti, in cui il giallo

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del sole si mescola con il rosso scuro del sangue raggrumato. Un mondo affascinante e colorato in cui il dato saliente è costituito proprio dai personaggi, tratteggiati con mano salda. Frizzanti, cinici, talora arrabbiati, talaltra naif ma sempre umani e concreti. Il romanzo di Marilù Oliva è un omaggio alla cultura cubana che l’autrice ama e apprezza. Niente immagini o emozioni da cartolina dunque, ma una passione vera, che si sente e si respira tra le pagine di un noir che mescola versi di Dante a un ritratto impietoso della realtà nostrana. Bologna costituisce lo sfondo e l’ancoraggio solido della vicenda: il tessuto sociale italiano è rappresentato in maniera realistica, a volte caricaturale. Una società corrotta e avvelenata, in cui le persone autentiche appaiono come strane figure un po’ naif. Exemplum di questo mondo ipocrita è Torinelli, il caporedattore della rivista per cui lavora la Guerrera: un individuo laido, dal passato losco con l’ambizione di essere il castigamatti della società civile bolognese. Una pretesa, la sua, che si traduce nel diritto di pescare nel torbido per raggiungere i propri scopi. La narrazione procede attraverso capitoli che alternano la prima persona alla terza, con brevi prefazioni sulle divinità Orisha: un pantheon variegato in cui ogni figura incarna doti o difetti che si rispecchiano nei personaggi. Il piano esoterico, sia pure appena accennato, si alterna, si sovrappone e si mescola con il mondo reale: la Guerrera è a metà strada, tra le suggestioni magiche di Catalina e il pragmatismo di Basilica. Tu la pagaras! è un romanzo impregnato di colori e di musica: uno dei noir più interessanti pubblicati in Italia negli ultimi anni. Originale, non solo – o non tanto – per l’ambientazione, ma soprattutto per la costruzione della storia e dei personaggi, che rimarrà a lungo impresso nella mente dei lettori. Speechless: Cara Marilù, grazie di aver accettato quest’intervista. Allora, vuoi

parlarci di te? Cosa fai nella vita (a parte scrivere)? E quando inizi a lavorare su una nuova storia, cosa fai, come ti prepari? Ascolti musica, hai dei riti di scrittura di cui vuoi parlarci? Marilù: Non ho riti particolari se non quello della concentrazione, quindi niente musica, se non nelle pause. Prima di cominciare a scrivere dedico ore di proget tazione alla storia senza scaletta cartacea, solo mentale. Penso alla vicenda con ossessione, troppo spesso, anche nei momenti meno opportuni (mentre guido, ad esempio), del resto ho davvero poco tempo a disposizione perché svolgo un lavoro che mi appassiona: sono docente di lettere alle superiori. S: Tu la pagaras! nasce dal tuo grande amore per Cuba e per la Salsa. È un sentimento autentico che si respira nelle pagine del romanzo e che arriva al lettore come una brezza calda, struggente e intenso. Come hai scoperto quest’isola? E che rapporto hai con il ballo? M: L’ho scoperta attraverso diversi viaggi. Il mio rapporto con la salsa – sia musica che

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Gialli Thriller ballo – lo spiego nelle pagine centrali di “Tu la pagaràs!”: è un rapporto totalizzante, che sa di libertà, di confini valicati, di respiri pieni. S: Al boom dei balli latinoamericani è seguito lo “sboom”. Oggi sono rimasti i veri cultori, gli appassionati che trascorrono come la Guerrera, notti in pista. Com’è cambiato in questi anni il mondo della salsa, se cambiamenti ci sono stati? M: Premetto che negli ultimi anni non sono andata a ballare, quindi non saprei risponderti con precisione. Una cosa che vorrei sottolineare, invece, è quanto spesso il mondo salsero venga considerato erede del liscio, delle vecchie balere: non è affatto così! Il mondo che conosco io è frizzante, dinamico, moderno. Ci sono varie tipologie di frequentatori, li descrivo abbastanza puntigliosamente nei miei libri, delle volte ironizzando. Anche se, per utilizzare le discoteche come sfondo noir, sono stata costretta ad estremizzarne i contesti. S: Veniamo a Tu la pagaras!. Un romanzo particolare, struggente e arrabbiato, in cui la protagonista è guerriera nell’anima. Porta

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con orgoglio le proprie cicatrici, fortifica il corpo con una disciplina molto “fisica” come la Capoeira, abbraccia il dolore dei suoi ricordi e non si nasconde per sfuggirvi. Quanto c’è di Marilù nella Guerrera? M: Diciamo un cinquanta per cento. Alcuni particolari sono autobiografici, sia per quanto riguarda la situazione della Guerrera (anch’io ho lavorato per anni in redazioni dal clima asfittico, ho praticato capoeira) sia per quanto riguarda le descrizioni fisiche (il fatto di essere piccolina, anche se lei è molto diversa da me: ha i capelli scuri e lisci e la carnagione olivastra). Si può dire che, in un certo senso, La Guerrera è la proiezione di quello che ero io a venticinque-trent’anni, ovvero una decina di anni fa, opportunamente ridipinta per esigenze narrative. Ho reso più rabbioso il suo senso di ribellione per le ingiustizie, l’ho voluta più libera, più scanzonata, a tratti più nera. E l’ho ritratta, rendendo onore al suo nome, come una vera “guerriera della vita”. S: Basilica è un personaggio meraviglioso. Un uomo integerrimo che riesce a mantenere saldo il suo rigore morale anche in momenti “caldi” come quello del condotto di areazione... ma nello stesso tempo è umano, fragile e consapevole di sé. A chi ti sei ispirata per creare questo commissario poco eroico e molto concreto? M: Il nome l’ho rubato a mio marito, il resto è inventato. S: Catalina ricorda le figure della grande letteratura sudamericana: non tanto per la sua passione per il misterioso e l’alchemico o per le doti culinarie, quanto per quel senso di protezione materno, persino avvolgente che lei dimostra nei confronti del mondo e della sua amica on particolare. Hai mai conosciuto una persona così o è frutto di un’ispirazione meramente letteraria? M: Diversamente dalla Guerrera e da Basilica, che sono sì di ispirazione reale ma nascono da una rielaborazione fantasiosa, abbastanza lunga e complessa, esistono due i personaggi che ho invece ripreso quasi identici dalla


G ialli Thriller realtà: una è la dottoressa Buldini Virginia, l’altra è Catalina, la più “magica” tra le mie amiche del cuore. Lei si chiama Caterina, revisiona la parte esoterica dei miei scritti, è grande cartomante e apprendista alchimista. Ovviamente io e lei la pensiamo all’opposto su ogni cosa. S: Vi sono alcuni passi in cui la protagonista parla del suo vissuto non certo facile da cui traspare un rapporto molto bello e forte con il proprio corpo. Oggi, il corpo femminile è spesso mercificato: usato come merce di scambio, diventa fulcro di insicurezze e negatività, mortificato da comportamenti che vanno contro il benessere delle donne. Cosa pensi del modo in cui le donne, oggi, vivono la propria femminilità? M: Questo è un discorso molto serio e ti ringrazio per la domanda, che meriterebbe una risposta più lunga. Penso che oggi si stia insidiando in maniera sotterranea un maschilismo – non è esatto nemmeno chiamarlo maschilismo, meglio la locuzione “svalutazione della donna” – insidioso che si manifesta sostanzialmente sui due livelli che tu hai citato: la mercificazione fisica e la svalutazione dell’operato. Le donne sul lavoro sono svantaggiate rispetto agli uomini (eccezion fatta per i mestieri vocati quali l’insegnante, ad esempio), guadagnano di meno, fanno meno carriera. La cosa più allarmante è che questa realtà venga spesso negata anche dalle donne stesse. Eppure queste affermazioni sono suffragate da dati scientifici, basterebbe solo informarsi. Penso, inoltre, che anche che in molte delle donne più intelligenti abbia attecchito il modello di bellezza propinato dai mezzi mediatici. Le donne sono insicure sia rispetto ai propri presunti difetti sia rispetto al tempo che passa, per questo ci tenevo a presentare una protagonista come La Guerrera. Lei è altamente imperfetta, ciononostante risulta seducente attraverso alcuni dettagli. Ma la sua grande virtù è che non è affetta da complessi. Ha altri problemi con cui fare i conti...

S: Tu sei una giornalista che scrive per testate web e cartacee. Come vedi il mondo dell’informazione telematica e, più in specifico, della letteratura dal tuo osservatorio privilegiato? M: Il Web è un’opportunità di democrazia. Tutti possono accedervi, tutti possono esprimersi. Anobii è un esempio in piccolo di questa democrazia. È molto bello che esista una tale comunità di bibliofili e io presto molta attenzione a quello che i lettori dicono. Se una persona ti legge, significa non solo che ha speso dei soldi per acquistare il tuo libro o si è preso la briga di andare a sceglierlo in biblioteca, ma significa soprattutto che ti ha dedicato del tempo, delle energie, delle emozioni, e questa è la cosa più preziosa. C’è infine da distinguere un’esigua fascia di persone che utilizzano questi contenitori come valvola di sfogo alla loro frustrazione. Basta ignorarli. S: Si parla apertamente di una crisi del mercato editoriale. Numerose case editrici registrano segni negativi e altre guardano con sospetto all’avvento degli e book. Cosa pensa di tutto ciò Marilù Oliva scrittrice? M: Penso che l’avvento degli e book possa portare molti vantaggi: minor prezzo, reperibilità, la visibilità, lo spazio compresso, minor impatto sull’ecosistema. Niente, però, almeno per la nostra generazione, potrà sostituire il fascino della carta da sfogliare. Guardo comunque con grande attenzione alla realtà dell’eBook e credo che i due sistemi possano procedere di pari passi ancora per qualche decennio, proprio in virtù delle diverse modalità di fruizione e, di conseguenza, della diversa utilità dell’oggetto cartaceo o elettronico. S: Progetti per il futuro? M: Sto scrivendo la terza puntata della Guerrera, che dovrebbe uscire entro un anno.

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Hai un racconto inedito che vorresti veder pubblicato?

SPEECHLESS

VUOLE TE!

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r acconto

Amanda di MARZIA MUSNECI

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La coscienza tornò lentamente, come sempre dopo il Lungo Sonno. Nell’atmosfera rarefatta e lattiginosa, ricordò le forme del suo corpo sinuoso. Ci volle più tempo perché ne ricordasse anche la forza e le capacità. Controllò la funzionalità di ogni connessione nervosa, verificò i sensi affilati, distese i muscoli, si girò e rigirò, fece tutto quello che a tutte le altezze e latitudini fanno le creature quando si svegliano. Poi cominciò a vagare nell’ambiente impalpabile, che sosteneva il suo peso grazie a misteriose forze che non aveva mai analizzato. Non che le importasse, dopotutto. Esisteva da sempre, e questo era sufficiente. Quando si sentì in forze, ebbe curiosità di vedere cosa fosse successo nel mondo dopo tutto quel tempo. Era notte, e quello che vide le piacque: Terra era un globo oscuro spruzzato di luci sparse in modo irregolare con fresca armonia, come se il pianeta volesse replicare la volta stellata che lo copriva. Di giorno fu diverso. Quello che vide le piacque molto meno. La specie dominante che brulicava sul pianeta si era data da fare, e alcuni dei suoi posti prediletti erano imbruttiti, degradati, irriconoscibili. Ricordò con disappunto che doveva lasciar correre, che al destino che uno si sceglieva da sé non poteva

mettere mano. Ma ci fu una cosa che risvegliò la sua rabbia. Visto che era quello che era, qui poteva intervenire, oh sì che poteva. Voleva. Doveva fare qualcosa. Scelse il luogo. Scelse il giorno e l’ora. Scelse il corpo.

Devo avere quella donna. Stasera è rientrata alla solita ora. Amo i garage come questo, a livello della strada, le entrate cariche di cespugli fioriti, i cancelli generosi che si richiudono lenti. Ho trovato un punto di osservazione eccellente, fra una bouganvillea e la siepe di bosso. Lei parcheggia la macchina nel suo box. Di solito ce la fa con due manovre, quando è stanca con tre, anche quattro. È sempre sola. È alta, forte, bionda. È bella, ma ho visto altre donne più belle di lei. Non è quello. È il suo modo di muoversi, qualcosa che si lascia dietro quando passa, che ti afferra e non ti lascia più andare. Devo avere quella donna. Proverò con le buone. Come sempre. Tutte le mattine, prima di entrare in un edificio arcigno, prende il caffè nello stesso bar. Io sono sempre lì, chino a leggere il giornale sul frigo del gelato. Voglio che si abitui a me, che non mi consideri uno sconosciuto, o


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peggio una minaccia, quando le rivolgerò la parola. A volte arriva seria e stanca, chiedendo un caffè miracoloso che la pacifichi con l’idea di un’altra giornata lavorativa; altre è energica e vitale, si guarda intorno, sorride ai soliti frequentatori del bar. Non toglie mai gli occhiali da sole. È lì che ho scoperto come si chiama. Una collega arrivata prima del solito. Entra, la saluta, insiste per offrirle un caffè, da festeggiare che lei, la collega, sia arrivata finalmente a un’ora decente. La mia amata è sempre puntuale, ci si può rimettere l’orologio. Parlano di viaggi e di vacanze per pochi minuti, è tempo di migrazioni estive. - Ciao, Amanda - le ha detto. Ho anche sentito il suo profumo, avvicinandomi al bancone per poggiare la tazzina di caffè vuota. Un odore strano, diverso da quello di tutte le donne che ho conosciuto. Un profumo di fiori bagnati, schiacciati, e di qualcosa che non riesco a definire, complesso come un accordo d’organo. Un odore che mi stringe di più nella morsa di un’attrazione feroce. Oh, Amanda. Stasera – dovrei dire stanotte – è tornata tardi. Pensavo che non rientrasse più. Appostato nella mia nicchia di verde, nella notte tiepida d’inizio estate, ho avuto il tempo per fare le peggiori congetture del mondo. Un uomo? Dormirà fuori casa? Con lui? Sta regalando a un altro i capelli biondi, il corpo sinuoso, l’incedere da regina, il suo profumo di palude? Sta dando via la sua meravigliosa solitudine? Sono incazzato, ma anche eccitato. Eccola che arriva. Sono le tre di notte. Scommetto tra me che ci vorranno quattro manovre per ficcare la macchina nel box. Vinco. Come la conosco. Meglio di quanto lei conosca se stessa. Potrei agire stanotte. Il mio umore è quello giusto, ho con me il poco che mi occorre e lei è stanca e assonnata. Ma non lo faccio. La guardo sparire nel budello buio del corridoio del garage, dietro la porta tagliafuoco che si chiude con uno scatto pulito come uno sparo. Lascia la sua solita malìa e l’odore di gelsomini appassiti, calpestati.

No, non ancora. Prima con le buone, ho promesso. Mantengo sempre le promesse, Amanda. È lei a parlarmi per prima. Un incidente per strada mi ha fatto tardare una manciata di minuti. Minuti di angoscia, perché Amanda non tarda mai. Ma la trovo lì, a leggere il giornale che di solito leggo io. Mi avvicino. Lei alza lo sguardo e si toglie gli occhiali da sole blu. Gli occhi sono verdi, una lama di sole dalla vetrina del negozio li rende liquidi. E sono se possibile più particolari del suo odore, anche se non capisco perché. - Oggi l’ho rubato io, il giornale - dice con un sorriso malandrino. Che sarà mai. È più di un mese che mi hai rubato l’anima e il tempo. - Non importa, faccia con comodo - dico invece, scegliendo una frase banale di cortesia che non desterebbe preoccupazione neanche in un paranoico senza remissione. - Finisco di leggere l’unica rubrica seria e glielo do. Termina di leggere l’oroscopo. Il suo sguardo indica Scorpione. - BÈ, che dice? - continuo il gioco. - Giornata buona? - E chi lo sa? Dimentico tutto quello che ho letto in trenta secondi netti. Sta per uscire dal locale, ma non riesco a lasciarla andare via. - E comunque… piacere, mi chiamo Dario. La prudenza che mi consente di rimanere libero mi impone di dare un nome a caso. E nessuno lascia senza risposta una mano tesa. Nessuna delle donne che ho avuto l’ha mai fatto. Neanche lei lo fa. Un’esitazione, una perplessità disegnata dal movimento delle sopracciglia – il bar non è luogo di presentazioni ufficiali – poi mi regala una stretta asciutta e fresca, nonostante il caldo. - Amanda. Lo so. Amanda con un abito bianco e leggero e il cestino di vimini per la colazione. Amanda che se ne va col suo passo regale. Amanda che sa benissimo che la sto guardando. Oggi sono la sua catch of the day, la sua preda quotidiana. Glielo lascerò credere, per un po’ è divertente.


racconto Oh, Amanda, non sai cosa stai facendo. Forse dovrei darci un taglio e passare all’azione, ma questa donna non è come le altre, voglio darle tutte le possibilità. Esce dalla palestra, il corpo umido di doccia e di sudore, i capelli bagnati, il borsone sbattuto distrattamente in macchina, sul sedile del passeggero. Sono sicuro che esca con i capelli bagnati anche nelle sere di gennaio. Simona lo faceva. Era così affascinante, con quel senso di invulnerabilità, quella noncuranza del gelo, quella sicurezza che nulla, nulla le avrebbe mai fatto del male. Sono tutte così, quelle di cui m’innamoro. Sono tutte così, prima di incontrarmi. - Ah… Dario, vero? - mi riconosce a malincuore mentre le urto una spalla diretto alla palestra. - Oh, Amanda. Scusa, scusa tanto, ti ho fatto male? - Mi hai quasi smontato l’omero. Che ci fai qui? Non ti ho mai visto prima. Non è di buon umore. Forse sospetta che io la stia seguendo. Non è stupida, Amanda. Ma anche questo fa parte del gioco. - Sto andando a dare un’occhiata. Sta per entrare in macchina, liquidandomi con un saluto frettoloso. - Se mi iscrivo, magari ci facciamo qualche vasca insieme - azzardo, fidandomi del leggero sentore di cloro che si sovrappone al suo particolarissimo odore. - Io nuoto sempre da sola. Sbatte lo sportello, mette in moto e se ne va. Ahi, Amanda, proprio non lo sai, cosa stai facendo. Chi cazzo è, quello, Amanda? Sì, mi hai capito benissimo. Quello che ieri sera in pizzeria giocherellava coi tuoi capelli. E tu lo lasciavi fare. Sorridevi. Civettavi. Le regine non civettano. Le mie donne non civettano. Mi hai proprio deluso, mi hai fatto incazzare. Non penserai mica che ti stessi seguendo. Non è nel mio stile. Semmai, io ti aspetto. Sono dove so che sarai. Sono lì dove ti fermi, lì dove ti fidi. Il fatto è che la pizzeria è giusto dietro casa tua, non potevo non vederti, là fuori. Fai luce, lo sai? Sì che lo sai, puttana. Mi stai facendo perdere il controllo. Non va bene. Soprattutto per te, non va bene. Non sai quello che hai fatto, Amanda.

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È ora. Devo solo aspettare l’occasione. Le tue, Amanda, le hai buttate via, non hai colto i segnali, non hai usato il tono giusto, non conosci le risposte giuste. Sei come le altre, dopotutto. Peccato, Amanda. Sì, è ora. L’occasione arriva una settimana dopo le tue sgarberie da palestra, tre giorni dopo il tuo tradimento in pizzeria. Un venerdì notte, o meglio, un sabato mattina,

visto che ti degni di rientrare alle due passate. Quattro manovre, come previsto. Carino, come sei vestita: tutta in blu e viola, coi sandali alla schiava. Molto appropriato. Ho con me quello che mi serve. Sono pronto. Per queste cose, sono nato pronto. Ora vedrai, Amanda. Mi dà le spalle. Aspetto che si spenga la luce temporizzata. Scatto e avanzo rapido e silenzioso. So essere molto silenzioso, al buio. Ma lei mi sente. Si volta e sorride.


- Ti sei deciso finalmente, Dario. Per un momento penso di essermi sbagliato, che le risposte giuste, invece, Amanda le conosca. Vuole solo essere corteggiata, come tutte. Ma risento come un’eco l’inflessione beffarda con cui ha pronunciato il mio nome. “Sa che non mi chiamo così. Lo sa.” È bella anche inondata dalla luce smorta del neon, che ha riacceso con un colpo secco della mano

è così che… sbagli tutte le battute, Amanda, ti prego, cosa…? Mi spinge contro il muro lentamente, quasi con amore, continuando a guardarmi fisso, sorridendo. Gli occhi sono così brillanti. Il temporizzatore scatta, rimaniamo al buio. Ma gli occhi di Amanda continuano a brillare. Così vicini ai miei che riesco a vedere le pupille verticali che si dilatano quando viene a mancare la luce.

sull’interruttore. - Allora? Avvicinati, no? Non è quello che vuoi? Intanto è lei che si avvicina. Lenta e sicura. Con passo divino. Quel passo. Gli occhi verdi e liquidi non lasciano i miei. Dietro l’aria divertita c’è qualcosa di feroce, qualcosa di… antico. I denti scoperti nel sorriso hanno un bianco crudele. Mi sento paralizzato. Il taglierino mi cade di mano. Lei è a un passo da me. No, no, no. Questo copione è tutto sbagliato, non

Il suo odore di gelsomini appassiti mi stordisce. Perché una donna così bella deve avere odore di marcio? Di fiori morti? E insieme di miele e di fuoco, e mondi bruciati, e polvere secca, cenere fredda, ghiaccio siderale, di chi sono questi pensieri, e culle di stelle, vortici di nebbie, il vuoto, io non penso queste cose, sono in un garage, maledizione, nel suo garage e guarda, due protuberanze ai lati della fronte d’avorio, nascoste dalla frangia, e cos’è che si agita in terra dietro di lei, sembra proprio una… Riemergo non so da dove. Sento di nuovo Amanda

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racconto L’infermiera carceraria le cinge le spalle, protettiva. Un’attrice superba, Amanda. La proteggono. Ommioddìo, proteggono Lei. Stanno per andarsene, l’infermiera l’accompagna premurosa verso la porta. Ma Amanda ci ripensa. Si volta e si avvicina rapida a me. La sua accompagnatrice, benché interdetta e preoccupata, la lascia fare. I suoi occhi sono a pochi centimetri dai miei, le pupille verticali nella trasparenza verde dell’iride. Sorride, schiude le labbra. Guardo, affascinato e immobile, una lingua sottile e lunga, molto lunga. No, non è biforcuta, ma è oscena, umida e rovente. Si posa sulla mia fronte e segue il mio profilo fino al mento. Poi Amanda si volta e se ne va. - Cosa gli ha detto? - chiede l’assistente mentre apre la porta. - Gli ho chiesto se… se riesce a dormire, dopo le cose che ha fatto a tutte quelle donne. Sì, Amanda, riuscivo a dormire. Ci riuscivo Alla Polizia non volevano credermi. Roba da benissimo. Ma ora non più. Lo so. matti, ho dovuto convincerli. Li ho portati a casa mia, ho mostrato loro trentasette slip da donna, ognuno col Il ritorno alla sua forma reale la riempiva suo odore, ognuno col suo nome, la sua storia, la nostra storia intensa, breve e mortale. Non mi sono difeso, non sempre di gioia. Non capiva come si potesse condurre ho dato spiegazioni. Come spiegare che le punizioni una vita, per quanto breve, stretti in quei corpi umane mi spaventano molto meno di… di cosa? Come rigidi, fissi, predeterminati. Gli abitanti di Terra si comportavano in maniera assolutamente idiota spiegare Amanda? Ci ho provato, mi hanno guardato come si con le forme che, in base a criteri imperscrutabili, consideravano belle, perciò aveva scelto una di guardano i pazzi. Ovviamente sono malato, certo. Ovviamente ho quelle. Ma continuava a ritenere che fosse lo stesso scomoda, inefficiente e noiosa. bisogno di aiuto. Utile, però, se si voleva interagire, pur nei Ho chiesto la castrazione chimica. La cosa ha limiti del Piano. Sperava di non averli superati, o le fatto buona impressione. sarebbe toccato di nuovo un Lungo Sonno. Non lo Mi chiudono in un manicomio criminale. desiderava, non ora. Per questo non aveva ucciso. Si era premurata, Amanda è venuta a trovarmi. La psichiatra che mi hanno affibbiato ha detto che vuole vedermi per essere però, di fare in modo che la vita fosse peggio della sicura che io sia finalmente innocuo. Ne ha bisogno per morte, per quella strana entità umana che si superare il trauma della mia aggressione. Le sue ferite da permetteva di chiamare amore quello che faceva. Era stato difficile, ma si era comportata bene. difesa, il suo sangue sul taglierino con le mie impronte La prossima volta, era sicura, avrebbe fatto meglio. (le sue no, maledizione, perché le sue non c’erano?) sono le cose che mi hanno incastrato definitivamente Chiese ispirazione alla prima stella della sera, cui gli umani avevano dato il suo nome tanti secoli prima. quando è andata a denunciare un tentativo di stupro. È tutta in blu e viola, coi sandali alla schiava, C’era così tanto da fare. Fiduciosa, si arrotolò nel nulla e riprese a come quella sera. osservare. Mi guarda sgomenta, le trema il labbro inferiore. che mi tiene fermo contro il muro. È straordinariamente forte. Continua a guardarmi e a sorridere. Poi allenta la presa, sa che non riuscirò a muovermi. Si china sul pavimento. La sua testa mi sfiora la patta, come sarebbe stato bello, ci pensi, Amanda? Raccoglie da terra il taglierino. Ci vede bene, al buio. Meglio di me. - Non mi ammazzare, ti prego, non mi ammazzare – la supplico quando la vedo rialzarsi stringendo la mia arma fedele. - Io… io… è perché ti amo. Ti amo come un pazzo, Amanda. Lei non risponde, scuote solo la testa, continuando a sorridere in quel modo che fa pensare a un animale antico, paziente, affamato. Con gesto rapido, si infligge tre tagli irregolari all’esterno dell’avambraccio sinistro, uno sul destro. - Co… cosa fai? Cosa vuoi da me? - Che tu faccia quello che devi fare. Quando sarà il momento. Te ne accorgerai.

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IN LIBRERIA DAL 19 APRILE LA NUOVA AVVENTURA DI

ALICE ALLEVI


Storico

speci a le LA

TRILOGIA

di STEFANIA AUCI

DI

MAGDEBURG

Rileggiamo l’Opus Magna storico-apocalittica di Alan Altieri, in attesa del quarto volume, La via della spada.

Nel 1630 la Germania è un inferno di razzie e morti, devastato dalla Guerra dei Trent’anni. L’atmosfera è quella di un mondo sul baratro della distruzione definitiva, dove non vi è pietà, dove nel nome di un Dio assente si massacrano inermi e si brutalizzano le donne. Mikla, poco più che una ragazzina, è una di queste. Condannata al rogo perché aveva tentato di alleviare le sofferenze con le sue conoscenze delle erbe, incrocia la sua esistenza con quella di Padre Bolanos, un esaltato frate domenicano che ha un unico obiettivo: cancellare i protestanti dalla faccia della terra. È in questo momento che entra in scena l’Eretico in nero, un guerriero letale e potentissimo. Accompagnato da stormi di corvi, questo guerriero si muove con grazia sconosciuta e fa strage della soldataglia della Falange di Arnhem, salva la ragazza e si rifugia in un monastero distrutto anni prima dalla stessa Falange. A guidarli sulle tracce dell’eretico è Caleb Stark, un giovane soldato che per sopravvivere alla distruzione della propria famiglia ha dovuto accettare di militare tra coloro che hanno sterminato il suo villaggio.

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È così che ha inizio il primo volume della Trilogia di Magdeburg: il trittico storico sulla guerra dei Trent’anni scritto da Alan

D. Altieri e composto da tre romanzi: L’eretico, La furia e Il demone. Non c’è speranza in questi romanzi. È una sensazione opprimente che schiaccia il lettore, che avvinghia e nello stesso tempo che riempie la mente. I tre volumi coprono un periodo di circa 18 mesi, nel quale la Germania assiste alla fase più devastante della Guerra dei Trent’anni. Al termine di questo periodo vi sarà la caduta di Magdeburgo, la città simbolo dell’indipendenza religiosa e politica della Germania, bruciata da un incendio che è paragonabile per violenza e numero di morti a quello che distrusse Dresda nella seconda Guerra Mondiale. Con la caduta della città, l’assetto politico e sociale dell’intera Europa subì un cambiamento dalle conseguenze allora inimmaginabili, in cui si assistette alla progressiva perdita di potere e di influenza delle chiese nazionali e del Papato, allo spostamento dell’asse politicoistituzionale della politica tedesca verso al Prussia e l’Austria e last but not least all’ascesa della Francia. La grande forza dei tre volumi è il realismo estremo della narrazione, ottenuto con


quello stile icastico, forgiato nel ferro e nel fuoco del lavoro di perfezionamento e riscrittura che caratterizza lo stile di quest’autore straordinario. I periodi sono brevi, spesso frammentari, con una presenza di verbi ridotta al minimo sindacale e l’aggettivazione insolita, ricercata, a volte ardita. Precisione e rigore storico magistrali, psicologia dei personaggi calibrata al millimetro, descrizione dei combattimenti dall’impatto cinematografico, scene descritte senza compiacimento morboso ma con l’occhio crudo e disincantato del narratore. Il tutto in una narrazione coinvolgente che non lascia un attimo di respiro. L’impatto con questo stile così sobrio e insieme “scolpito” può essere straniante, ma superate le prime pagine si trasforma in una magia che assorbe completamente il lettore trascinandolo a piedi uniti nel fango mescolato al sangue, sulla neve sporca, tra le ceneri di un falò di eretici, in mezzo alle grida assordanti di un’umanità che chiede che la fine del mondo giunga presto a liberarla. La disperazione e la desolazioni sono tangibili, anche grazie alle descrizioni dei colori acidi e lividi del paesaggio che fa da sfondo alla guerra. C’è una frase in cui si riassume questa trilogia: Dio è morto. Non è un proclama politico, ma l’affermazione

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disperata di un uomo che ha visto la sua vita ridotta in cenere in nome della religione e di un dio ancora più geloso e vendicativo: l’ambizione. La Trilogia di Magdeburg è un romanzo di guerra, di crescita e cambiamento interiore, di discesa all’inferno. Ma è sopratutto la storia di una vendetta e di un’ossessione. Ed è, in ultima analisi, anche una storia d’amore disperata che non avrà mai scene madri. Solo alla fine, in un tiepido mattino di primavera, ai piedi del monastero di Kolstadt si avrà un cenno di speranza. Una storia forte e concepita come un mosaico di singole vicende, costruito per filoni che si giustappongono. I singoli capitoli si incastrano attraverso sottili fili di raccordo perfettamente celati nel tessuto narrativo che impediscono la lettore di “perdersi” in una geografia umana varia e complessa. Abbiamo intervistato l’autore sulla saga e sull’uscita de La via della spada, l’atteso quarto volume della serie di Magdeburg che sarà una sorta di prequel della vita di Wulfarg. Ecco cosa le parole di Alan D. Altieri. Speechless: La tua Trilogia di Magdeburg è un’opera monumentale che ha conquistato me e decine di migliaia di lettori. Come mai hai scelto di narrare di una guerra “lontana” come quella dei Trent’anni? Alan D. Altieri: Un grande grazie a te e a tutti voi per ospitarmi. Venendo alla Trilogia di Magdeburg, a dispetto dell’ambientazione storica, il riferimento primario rimane il thriller apocalittico, il genera narrativo che


Storico direttamente o indirettamente affronto più spesso. Riguardo alla Guerra dei Trent’anni, gli storici concordano fu il conflitto europeo più apocalittico in assoluto, l’equivalente attuale di una guerra nucleare. Nel ‘caso di Magdeburg’, il tarlo viene da molto lontano: l’epoca del liceo. Sul sussidiario di storia, la Guerra dei Trent’anni veniva liquidata con un trafiletto di cinque righe. Nel tempo, continuai a domandarmi come fosse possibile che una guerra potesse durare per tre decadi. Non avevo ancora il concetto di guerra generazionale, un conflitto in cui il bastone del testimone dello scontro passa, appunto, da una generazione a quella successiva. Fino ad arrivare al paradosso di avere perduta la memoria del perché si combatte. Qui e ora, siamo tutti testimoni di svariate “guerre generazionali”, prime fra esse Israele/Palestina, ormai sessant’anni, e Afghanistan/resto del mondo, ben oltre i trent’anni. S: I tuoi personaggi sono piegati dalla guerra e dal dolore. Induriti come Madre Erika, coraggiosi come Caleb, addolorati come Mikla, pieni di rimpianto come Leopold, rabbiosi come Alessandro Colonna e morti “dentro” come Wulfgar. Il fardello di dolore che ciascuno porta diviene la forza cui attingere per affrontare il cambiamento. Puoi raccontarci la genesi di queste figure così dolenti e cariche di umanità? A: La chiave di volta di tutti i personaggi di Magdeburg è il rapporto che ognuno di loro ha con la morte. A mio parere, una delle più gigantesche ipocrisie della società contemporanea immersi come siamo nei “giocattoli” tecno e non è

154 considerare la morte come una sorta di “incidente di percorso”. Per contro non dobbiamo dimenticare che il Secolo XVII era un’epoca estremamente diversa dalla nostra. Un’epoca in cui la morte naturale, accidentale o violenta era parte integrante della quotidianità. Il Secolo XVII era anche un’epoca molto più brutale, molto più feroce. Ognuno dei personaggi di Magdeburg si scontra precisamente con queste realtà, e con esse cerca di coesistere sulla base della propria psicologia. S: La Trilogia di Magdeburg è un affresco storico epico, pieno di una disperazione cupa comune a tutte le guerre. Quanto è stato impegnativo per lo scrittore e per l’uomo scrivere di scenari così desolati? A: L’elemento primario alla base di Magdeburg rimane la documentazione. I due libri di storia ai quali ho attinto maggiormente sono: La Guerra dei Trent’Anni della grande studiosa inglese Catherine Wedgewood, e (stesso titolo) La Guerra dei Trent’Anni dell’ottimo storiografo Geoffrey Parker, anche lui inglese. Esistono solamente due lavori di narrativa del passato ambientati nella Guerra dei Trent’anni. Uno si intitola L’Avventuroso Simplicius Simplicissimus, di Hans Von Grimmelshausen, scritto verso la fine del ‘600 sulla base di racconti e memorie del nonno dell’autore, il quale aveva partecipato alla Grande Guerra Tedesca. L’altro è la trilogia del Wallenstein di Friedrich Schiller. Albrecht von Wallestein è stato uno dei più grandi signori della guerra di quel periodo, se non di tutti i tempi. Non oso ovviamente mettermi in competizione con Grimmelshausen, meno che meno con Schiller, però vado a occupare uno spazio


155 abbastanza vuoto, un terreno inesplorato. In realtà, la Guerra dei Trent’anni non fu una sola guerra ma di quattro guerre: una dopo l’altra e una che nutrì l’altra. Sia I Promessi Sposi, che I Tre Moschettieri, che Vent’anni Dopo, sono tutti episodi a margine del conflitto. Da un punto di vista iconografico, deve essere ricordato il capolavoro teatrale “Madre Coraggio e i suoi figli”, dell’immortale Berthold Brecht. Da un punto di vista filmico non perdete il grandioso L’Ultima Valle (The Last Valley, 1970), scritto e diretto da James (“Shogun”) Clavell, con Michael Caine e Omar Sharif. Per quanto concerne il “look” del trittico così livido e desolato è basato sì su cronache e resoconti presenti nei due titoli che ho appena citato, deriva dal mio interesse per il genere apocalittico. A tutti gli effetti, il mondo di Magdeburg è un modo... post-nuclear ante-litteram, oops! S: Nel tuo ritratto della guerra eterna, poni una particolare attenzione nel tratteggiare le figure dei soldati e dei mercenari che devastano l’Europa centrale in una guerra che di religioso non ha nulla se non il nome. Sono creature laide, ladri, assassini e stupratori, sin dai comandanti come Van Der Kaal o Auerbach. Come hai creato i personaggi della Falange di Arnehm, a chi, o cosa ti sei ispirato?

A: Va sottolineato che l’unico esercito nazionale esistente al tempo della Guerra Eterna era l’esercito svedese. Tutti gli altri eserciti erano composti da mercenari. Arruolati nella violenza, addestrati all’infamia, mandati al macello il che ci riporta allo squilibrio tra vita e morte erano due i fattori chiavi di una “carriera mercenaria”: ammontare del soldo, diritto di saccheggio. Nel Secolo XVII non esistevano grottesche farse come guerre umanitarie, missioni di pacificazione, esportazione della demoKrazia (K d’obbligo). Esisteva solo assassinio per l’assassinio, stupro per stupro, saccheggio per saccheggio. Letteralmente per trent’anni l’Europa fu percorsa in ogni direzione da flussi militari che si lasciavano dietro niente altro che terra bruciata. La tragica ironia è che non c’è molto d’inventato nel modo in cui rappresento i mercenari in Magdeburg. S: Heinrich von Dekken. IL Dekken. Una figura in cui il male assume una dimensione quasi ontologica, dove l’ambizione si mescola con la follia e l’esaltazione, che non esita a sterminare i propri familiari pur di ottenere ciò che vuole e che termina la sua esistenza nella cenere, letteralmente. Esiste un modello storico per questa figura così

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Storico sfaccettata o è “nata” con la trilogia? A: Ritengo importante sottolineare che i protagonisti di Magdeburg sono due: Reinhardt senz’altro, ma soprattutto Wulfgar, l’eretico in nero. Il motore della storia è il loro incontro/scontro. Quanto a Reinhardt, non è un fanatico religioso. A tutti gli effetti è un ateo tossico di potere che usa la religione cattolica come strumento per i propri fini egemonici. È un personaggio immaginario, certo, ma la sua struttura psicologica ricalca quella pressoché di tutti i soggetti “megalomanici” e, inevitabilmente, psicotici che regolarmente scrivono la storia con il sangue dello sterminio di massa. Da Alessandro il Macedone ad Attila, da Gengis Kahn a Hitler, da Napoleone a Stalin. Nomi diversi, ere diverse, medesimo, solipsistico delirio genocidario. IL Dekken, come tu giustamente lo definisci, è uno di loro. S: Parliamo di Wulfgar. Ciò che colpisce di più di questa figura è il nero assoluto in cui si muove, che è parte della sua persona. Che proviene da lui, poiché, come si comprende nelle ultime pagine della trilogia, ha guardato nell’abisso e l’abisso ha guardato in lui. È una figura particolare, nel quale mistero e morte si fondono, in cui la speranza è bandita poiché ciò che ha visto e vissuto ha cancellato il futuro. Ma nello stesso tempo, è empatico e generoso. Come è nata l’idea di farne un guerriero simile ai ronin giapponesi? Quanto è stato difficile familiarizzare con “la via della spada”? A: Il mio sforzo è rendere il trittico di Magdeburg non solo uno scontro tra eserciti, religioni, poteri, ma soprattutto un confronto tra modi di pensare antitetici.

156 Nell’Europa della prima metà del Secolo XVII, Wulfgar è una completa anomalia. Un gai-jin, “barbaro” dall’Occidente, che ha viaggiato fino all’Impero Nipponico già chiuso al mondo esterno dopo la grandiosa Battaglia di Sekigahara, autunno 1600 finendo con immergersi completamente in quella cultura e in quella filosofia. Da qui la sua applicazione dello Zen e l’uso della scherma giapponese. Un contrasto esplosivo con il mondo che lo circonda. Ma sotto la blindatura del “guerriero mistico” c’è pur sempre un uomo. Nella parole di Mikla il personaggio che comprende Wulfgar forse più di ogni altro Wulfgar è un uomo “che ha perduto tutto, che ha perduto tutti.” Per molti versi, Wulfgar soffre della medesima sindrome dei sopravvissuti alla trincee della Prima Guerra Mondiale o ai campi di sterminio nazisti: costretti alla vita quando invece appartengono alla morte. Nel suo “dialogare con il vuoto”, nel suo “scrutare nell’abisso”, Wulfgar ha la consapevolezza di essere sopravvissuto a se stesso. In assoluto, Wulfgar rimane il personaggio più difficile che io abbia mai affrontato nel mio lavoro di narratore. S: Il personaggio dell’osservatore Deveraux ha in sé qualcosa di


misterioso, quasi metafisico. Sembra una figura al di là del tempo, chiamata a trascendere le regole per poter osservare, per conto di un’entità superiore, le miserie umane. Come mia questa scelta così intrigante? A: Jean-Jacques Deveraux è l’unica concessione non tanto sl soprannaturale quando al metafisico presente in Magdeburg. Non è un caso che Devearus sia “l’Osservatore”, e non è un caso che “sembri” essere un testimone di eventi in luoghi diversi ma soprattutto epoche diverse. Non è parimenti un caso che Deverarux sia l’antagonista in Phoenix, il romanzo breve che è diventato una sorta di “connettore” di gran parte del mio lavoro. La tua analisi del personaggio è ottima. Con un’unica precisazione: Deveraux vorrebbe trascendere le miserie umane. Ma finisce per esservi a propria volta risucchiato. S: Una delle cose che colpisce maggiormente della trilogia è la precisione con cui descrivi i duelli e le tecniche di combattimento in uso nel XVII secolo, oltre che il modo di maneggiare sia la Katana che la Daikatana. Le tue descrizioni sono pulite e precise, tale che anche un lettore inesperto può prefigurare l’andamento dei duelli. Quanto è stato difficile impadronirsi di questi dati tecnici per filtrarli nella narrazione? A: Anche qui, la chiave di volta è la documentazione. Per quanto riguarda gli scontri tra eserciti armamenti, strategia, tattiche molto viene dall’ottima serie di saggi storici illustrati della collana inglese

Osprey, una vera miniera d’oro per i cultori della storia militare. In materia dei duelli all’arma bianca, Magdeburg presenta due tecniche di spada estremamente diverse quali la scherma occidentale e il ken-jutsu nipponico. Ho avuto dalla mia due autentici fuoriclasse di queste due straordinarie discipline: l’ottimo Jari Lanzoni, spadaccino della Scuola di Scherma Rinascimentale Achille Morozzo di Castelguelfo, presso Bologna; l’eccezionale Stefano Di Marino a sua volta tra i migliori e più prolifici auori italiani contemporanei e tra i massimi esperti della cultura orientale per quanto concerne l’intero “lavoro di lame” asiatico. A entrambi, Jari e Stefano, la mia costante ammirazione e il mio profondo ringraziamento. S: Il tuo stile è il vero, grande valore aggiunto di quest’opera. Curatissimo, con aggettivi taglienti come le lame dei protagonisti, nessun autocompiacimento o morbosità. “Solo” una rappresentazione cruda e realistica di una guerra infame. Quali sono gli autori verso cui senti un debito, o comunque, che hanno rappresentato per te un punto di riferimento nella stesura della trilogia? A: Da lettore, sono cresciuto alla scuola del grande horror/thriller post-gotico e neo-gotico: Edgar Allan Poe, Herbert G. Wells, H.P. Lovecraft e Jack London sono i miei mostri sacri. Grandissima influenza ha avuto su di me anche la fantascienza tetra della Guerra Fredda e dell’”Equilibrio del Terrore”. Da Robert Heinlein a Richard Matheson, da Roger Zelazny a John Brunner, solo per citare alcuni dei grandi maestri di quell’epoca. Un autore al quale

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Storico devo molto è Wilson Tucker. Relativamente poco prolifico, due dei suoi libri: L’Anno del Sole Quieto (Year of the Quiet Sun) e Il Silenzio della Morte (The Long Loud Silence) sono a mio parere autentici capolavori della letteratura apocalittica tout-court.

politicamente scorretta e iconograficamente brutale. Ulteriori problemi nell’attuale scenario fimico ancora tanto ipocritamente buonista. Una strada sarebbe una miniserie concepita come l’attuale eccezionale miniserie HBO basa sul primo volume de A song of ice and fire, la grandiosa saga S: La tue figure femminili sono sempre fantasy di George R.R. Martin che ho il forti. Mai leziose, mai sopra le righe, privilegio di tradurre dall’inglese. Ma anche mai piegate sulle proprie disgrazie, a qui, long shot. differenza degli uomini. Da lettrice, ammetto di esser rimasta affascinata S: I corvi. Accompagnano Wulfgar, il dalla vividezza con cui riesci a tracciare signore dei corvi. Sono presenti nelle questi personaggi. Da chi o cosa trai tua altre opere. Che cosa rappresentano ispirazione? per te questi animali così sinistri e insieme affascinanti? A: D’accordo, lo confesso: le donne che descrivo nei miei libri sono “le donne che A: La risposta più immediata è più sintetica vorrei incontrare”, altro oops! Battute a è che i corvi sono le “anime morte”, parte, le donne principali di Magdeburg presenti e passate. Nella blasfema risposta Madre Erika e Mikla sono personaggi di Wulfgar: “Io sono molti” c’è anche grandemente positivi. Prima di essere un’ulteriore chiave di lettura dei corvi: il personaggi però, cerco di rappresentare peso del memento e degl’incubi. Infine, i degli esseri umani, con la loro forza, la loro corvi sono le creature incaricate della pulizia vulnerabilità, la loro contraddizione. Esatto, conclusiva. Nella Guerra Eterna, nulla era prima esseri umani, poi personaggi. più facile che “finire in pasto ai corvi.” S: Il ritmo della narrazione della trilogia è altissimo. Le scene sono quasi cinematografiche, i dialoghi serrati. C’è speranza di poter vedere quest’opera sullo schermo, prima o poi? A: Ti ringrazio di questa domanda. Nello scrivere Magdeburg la mia esperienza nel campo della sceneggiatura cinematografica è stata fondamentale. Da qui a ipotizzare Magdeburg - The Movie, è un azzardato tiro di dadi. Sempre facendo riferimento al mondo del cinema americano, difficile, se non impossibile, concentrare il trittico in un unico film. Inoltre, “Magdeburg” è un’opera

S: Hai annunciato su Facebook che ci sarà un quarto volume che integrerà questa trilogia: La via della Spada. Come mai la scelta di scrivere un nuovo romanzo per questa serie? Ci puoi già anticipare qualcosa a proposito? A: Per rispondere a questa domanda in modo esauriente, è necessario parlare della struttura del trittico. La sfida narrativa più grossa è stata pensare in termini di trilogia e non di libro singolo. Ognuno dei tre libri ha quindi un’identità propria, ma al tempo stesso è integrato nel quadro trilogico. La Furia può essere letto senza

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avere letto “L’Eretico”, ma molto sfuggirebbe leggendo Il Demone senza avere letto i due libri precedenti. Una decisione non facile ma ineccepibile resta l’eliminazione di quello che definisco “il blocco nipponico”, eccellente intuizione di Cecilia Perucci, straordinaria Direttore Editoriale di Corbaccio. Difatti: nella struttura iniziale di Magdeburg già esisteva un “blocco nipponico” in cui intendevo mostrare Wulfgar alla fine del suo transito nella Terra delle Lacrime. Inserendo questo blocco, però, la narrazione si sarebbe allungata di altre duecento pagine, presentando un mondo e una cultura del tutto diversi da quelle europee. Troppo, decisamente troppo. Ecco la genesi di Magdeburg 4: La Via della Spada. In termini sintetici, La Via della Spada mostra in che modo Wulfgar... è diventato Wulfgar. Come e perché è andato in Giappone, chi ha incontrato, chi lo addestrato, qual è il suo legame con Deveraux, da dove originano le enigmatiche monete con i “simboli primari”, qual è la genesi della sia spada, questa daikatana forgiata da un “acciaio maledetto.” “La Via della Spada è, quindi, l’estensione del “blocco nipponico” originario. S: Grazie mille per aver acconsentito a questa intervista, vorresti aggiungere qualcosa prima di salutarci? A: Voglio ringraziare te e tutti voi per l’attenzione e la simpatia che avete per me e il mio lavoro di narratore.

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Storico

Marco Buticchi intervista Marco Buticchi è uno degli scrittori di romanzi d’avventura più apprezzati non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Infatti, nel dicembre 2008 il Presidente della Repubblica lo ha insignito del titolo di Commendatore, per aver contribuito alla diffusione della lingua e della letteratura italiana all’estero. È il primo autore italiano pubblicato da Longanesi nella collana “I Maestri dell’Avventura”, accanto a Wilbur Smith, Clive Cussler e Patrick O’Brian, e ha venduto più di un milione di copie dei suoi romanzi. Corrado Augias lo ha definito «Un Ken Follett italiano, ma potrei dire anche uno Steven Spielberg.», mentre Wilbur Smith ha dichiarato «Il mio scrittore preferito». Il 29 settembre 2011 è uscita la sua ultima opera, La voce del destino, un romanzo che si muove fra gli episodi più oscuri del XX secolo, attraversando quattro continenti: dall’Europa nazista all’Argentina dei descamisados; dai campi di concentramento croati durante la seconda guerra mondiale, ai casinò di Las Vegas; dai teatri dell’Opera di mezzo mondo, alla base sotto i ghiacci dell’Antartide da cui i nazisti tentano di ricostruire il Quarto Reich; dai clochard francesi al Vaticano. Il tutto ruota intorno alla mitica lancia con cui Longino trafisse il costato di Cristo, che secondo la leggenda era stata donata agli

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di GABRIELLA PARISI uomini dalle divinità celtiche, i Tuatha dÈ Danaan, ed era capace di rendere invincibile chiunque ne fosse entrato in possesso. Buticchi intreccia sapientemente fatti storici ed episodi di fantasia, personaggi fittizi (primo fra tutti Oswald Breil, lo 007 nano, protagonista di tutti i suoi romanzi, con la sua bellissima neo-moglie Sara Terracini) a personaggi realmente esistiti, fra cui spicca la figura simbolo dell’Argentina del 1900: Evita Perón. Abbiamo chiesto al maestro italiano dell’Avventura di parlarci dei suoi libri e della sua carriera di scrittore, e Marco Buticchi è stato gentilissimo nel concederci questa intervista. Speechless: Come mai una persona laureata in Economia e Commercio ha pensato di diventare scrittore di Romanzi d’Avventura? Cosa ti ha spinto ad intraprendere questa strada e quando è nata questa passione? Marco Buticchi: Non credo ci siano percorsi di studio “propedeutici” alla scrittura. Ci sono scrittori autodidatti, medici come Andrea Vitali, laureati in giurisprudenza come Giorgio Faletti. Si scrive per “buttare fuori” mille cose: angosce, paure, piacere, disperazione, ma su tutto domina il desiderio di


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Storico raccontare. E, per quanto mi riguarda, di far viaggiare il lettore con la fantasia. S: Quali sono i tuoi scrittori preferiti? E il tuo libro preferito in assoluto? M: Sicuramente la mia “formazione” è Salgariana: sono cresciuto a fianco delle Tigri di Mompacem tra le “paludi putrescenti del Gange”. Non riuscirei a stilare una classifica dei libri che mi hanno lasciato il segno. Recentemente ho “preso parte” a un’antologia e ho dichiarato che un romanzo che mi ha condizionato è stato I ragazzi della via Pal di Molnar. S: Come nasce il personaggio di Oswald Breil? M: Nasce dalla necessità (mia) di esulare dallo stereotipo di agente segreto “arcifigo” e super atletico. Ho così trovato un nano, traendo spunto da un cartellone pubblicitario della mia infanzia. S: Quanto un’opera di fantasia, delle ipotesi collegate da un autore di fiction in un romanzo, può influenzare l’opinione pubblica relativamente a fatti storici? Specialmente se intorno ad essi c’è effettivamente un mistero? M: Se lo si va a cercare ovunque, tra le pagine della storia, si può celare un mistero. La storia è scritta dai vincitori e quindi, per definizione, non è obiettiva. Ogni scritto, anche un foglietto svolazzante, è in grado di cambiare il susseguirsi degli eventi. Figuriamoci un romanzo! S: Di solito nei tuoi libri c’è un tesoro, un oggetto o la mappa di un tesoro che viaggia

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attraverso i secoli. Parti dall’oggetto per scrivere il romanzo, o viceversa da un episodio realmente accaduto, o da un personaggio storico, e poi cerchi l’oggetto “protagonista” che dovrà viaggiare nel tempo? M: Parto da una folgorazione: per Il respiro del Deserto fu il Williamsburg, la nave appartenuta a Truman e oggi in disarmo alla Spezia. E da lì che inizio a studiare la storia che ha circondato il mio oggetto di interesse. S: Quale fra i tuoi libri è quello a cui sei più affezionato, e quale fra i ‘tesori’ avresti voluto trovare tu? M: Sono tutti figli miei e non faccio differenze. I tesori? Tutti, naturalmente S: I tuoi libri sono divisi in varie parti, e ognuna di esse è aperta da un disegno realizzato da tua moglie. È una tua richiesta o un suo piacere disegnare per te? M: Consuelo si diverte a illustrare i miei romanzi e io trovo che i suoi disegni siano esplicativi: a volte una mappa o il disegno di un oggetto riesce a far capire meglio il divenire della storia. S: Quanto tempo impieghi per le ricerche storiche e geografiche indispensabili per scrivere uno dei tuoi libri? M: Un romanzo mi richiede un paio d’anni. Metà del tempo la dedico alla ricerca, l’altra metà alla stesura. S: Per quale motivo ne La voce del destino non troviamo la consueta suddivisione in

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Storico diversi periodi storici? Pensi di tornare alla vecchia formula nel prossimo romanzo o di continuare con questa soluzione cronologica più semplice? M: I romanzi corrono da soli. Il compito dell’autore è non forzarne la trama. La Voce del Destino “ha corso” in questa maniera. Per il futuro non so che cosa mi chiederà la nuova pagina bianca. S: C’è un periodo storico di cui non hai mai scritto, e che vorresti affrontare prossimamente? E un personaggio? M: Ormai, in 20 anni di “attività” credo di aver spaziato dalla preistoria a dopodomani. Un’ambientazione su cui mi piacerebbe lavorare è nel periodo etrusco... chissà… S: Quale personaggio storico vorresti essere stato?

Dileo e a Il mercante di libri maledetti di Marcello Simoni, il premio della Giuria Tecnica del prestigioso Premio Salgari. Qual è stata la tua reazione? Conti di vincere anche il premio della giuria popolare? M: La reazione è stata di commossa felicità. E ancora mi sono commosso quando qualcuno mi ha ricordato con quanto orgoglio Mario Spagnol, il mio editore scomparso nel 1999, avrebbe accolto questa notizia. Per me che ho amato Salgari più di ogni altro autore, il solo fatto di essere tra i vincitori del premio rappresenta un sogno. Per definizione, l’essere “sub judice”, implica accettare il verdetto, quale esso sia…

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M: Una piccola parte di ognuno di quelli che ho trattato. S: Hai già in mente quale sarà il prossimo tesoro che entrerà nelle vite di Oswald Breil e Sara Terracini? Sperando di leggere al più presto un tuo prossimo romanzo, ti andrebbe di anticiparci i tuoi prossimi progetti? M: Ancora non ho in mente il tesoro, ma un ragazzo, che alleva un’aquila. E sarà il più stretto collaboratore del re etrusco Porsenna… S: Il 21 Dicembre La voce del Destino ha ricevuto, insieme a Un buon posto per morire di Tullio Avoledo e Davide Boosta

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C INEMA TV Strano il destino di Woody Allen. Attualmente è uno degli autori con una poetica maggiormente riconoscibile e personale. Realizza un cinema che resiste alle mode e al tempo. Lavora con una costanza e una precisione quasi ministeriale, girando regolarmente un film l’anno. Eppure, l’autore newyorchese fatica ad affermarsi nell’olimpo dei grandi del cinema, accanto ai Coppola e agli Scorsese, ad esempio. Ma se si ama Woody Allen, lo si ama fino in fondo, con tutti i suoi pregi e difetti. Il suo ultimo lavoro, Midnight in Paris, si inserisce perfettamente in un percorso che l’autore sta seguendo, ormai, da qualche anno allontanandosi dall’adorata Manhattan ed andando nella vecchia Europa. Dopo Londra e Barcellona e in attesa di Roma, è il turno di Parigi, la città più romantica del mondo, alla quale Allen aveva promesso da tempo di dedicare un film.

Gli amori di

Woody Allen

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di BARBARA MAIO

La storia è quella di uno scrittore in crisi di ispirazione che desidera trasferirsi a Parigi, ma la futura moglie e la sua famiglia lo vedono a Los Angeles, dove si guadagna da vivere come scrittore di sceneggiature per mediocri film Hollywoodiani. Dopo noiose giornate trascorse tra passeggiate familiari per mercatini parigini e cene alto borghesi, le notti del nostro scrittore si animano a mezzanotte quando i suoi eroi della Parigi


C INEMA TV degli anni Venti (Fitzgerald, Picasso, Stein, tra gli altri) si animano per portarlo in un mondo fantastico e desiderabile come non mai. I temi sono ricorrenti: il personaggio dello scrittore è frequente nei suoi film così come il compromesso tra arte e Hollywood. Anche il significato del vero amore è un topos che definire ricorrente nel cinema di Allen è poco. Ma anche se tutti questi temi sono stati già trattati, questo cinema emana comunque magia e fascino, almeno per tutti quelli che almeno una volta nella vita hanno sognato di poter parlare con i loro scrittori preferiti. Il nostro protagonista Gil (interpretato con convinzione da Owen Wilson) può perfino far leggere il suo manoscritto a Gertrude Stein. Il cast in generale risulta all’altezza con in evidenza Adrien Brody che da il volto a Salvador Dalì ossessionato dai rinoceronti, Kathy Bates che incarna Gertrude Stein e il tanto citato cameo di Carla Bruni che interpreta la guida di un museo. Per quanto riguarda la location, come si poteva immaginare, Parigi diventa protagonista e non si sa se sia più bella di giorno o di notte. Pur muovendosi nei luoghi famosi della ville lumière (la Torre Eiffel, Montmartre, il museo Rodin), Allen evita di cadere nel qualunquismo da cartolina dozzinale e sceglie inquadrature che possano trasferire il fascino di Parigi senza dare una sensazione di déjà vu.

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Sicuramente i sogni Alleniani restano alto borghesi e leggermente al di fuori della portata dell’uomo medio, ma non è questo che si chiede al suo cinema. Allen piace proprio perché può farci sognare una vita “altra”, in un mondo lontano dall’ordinario, e in un altro livello percettivo, quello della poesia e dei sogni più nascosti. Infatti, lo scrittore protagonista abbandona la sua compagna quasi senza rendersene conto, ma non c’è tristezza in questo allontanamento, quasi una liberazione piuttosto. Come se Allen interpretasse il rapporto di coppia ormai solo come un ostacolo al raggiungimento delle proprie aspirazioni. A ben guardare, però, è sempre stato questo il suo punto di vista, anche se sicuramente il passare degli anni ha reso più cinico il nostro autore. Il finale risulta forse un po’ banale, dichiarando che ognuno sogni una epoca diversa: così Adriana, musa di Picasso e sogno d’amore del protagonista, proietta la coppia nella Belle Epoque dove incontrano anche Gauguin e Toulouse-Lautrec. Ma Gil comprende che non esiste una epoca perfetta e il desiderio nasce piuttosto da una insoddisfazione del presente. La speranza è di ricominciare una nuova vita nella città dei sogni, con un lavoro che soddisfa e, magari, con una nuova storia d’amore con la ragazza incontrata al mercatino. La passeggiata finale sul ponte lascia speranza, cosa che non accadeva da tempo nei film di Allen che ci aveva sempre più abituati a finali amari. Si esce dalla sala leggeri e con la sensazione che magari i nostri sogni potranno un giorno realizzarsi. A Parigi o altrove.

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C INEMA TV di PIA FERRARA

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ht Saga, ig il Tw la al bi ai ar C i de i at Potter, da Pir ry ar H a i ll ne A li g de re no ig Da Il S o decennio im lt ’u ll de o ic st ta n fa a m ne il meglio-peggio del ci

Tutto ebbe inizio dieci anni fa: era il 19 dicembre 2001 quando, negli Stati Uniti, La Compagnia dell’Anello debuttava nelle sale americane inaugurando il successo di un filone cinematografico — quello legato alla letteratura fantasy — che oggi, ad anni di distanza, sembra non aver ancora esaurito la sua spinta propulsiva. Ma un trend che ha vissuto un decennio di enorme popolarità sfruttando la fama di serie di romanzi che hanno venduto milioni di copie nel mondo — da Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, a Harry Potter di J.K. Rowling alla Twilight Saga di Stephenie Meyer — può essere sufficiente a decretare il successo di un genere cinematografico? Volendo approfondire la questione in modo forse provocatorio, potremmo interrogarci sulla natura stessa del fantasy cinematografico: è possibile parlare di “genere” riferendosi a questo fenomeno? Nel cinema, come nella letteratura, il genere (dal latino genus) è definito da alcuni elementi contenutistici e stilistici che differenziano un prodotto culturale da altri che sarebbero altrimenti simili. Se pensiamo al western e al musical, noteremo che si tratta dei due generi che più di ogni altra categoria filmica sono riusciti ad appropriarsi del linguaggio cinematografico facendolo proprio. Oppure, modificando leggermente la nostra prospettiva, si potrebbe dire che del linguaggio cinematografico sono i figli prediletti: entrambi sono riusciti a caratterizzarsi come una categoria di film a sé stante non solo se si guarda a ciò che narrano, ma anche se si considera il modo in cui lo fanno. Il musical, di derivazione teatrale, riunisce in sé un aspetto recitativo, uno canoro e uno danzante. Il western addirittura ha dato vita al piano americano, inquadratura oggi classica che ci mostra gli attori fino a metà coscia: un’esigenza che rispondeva alla necessità di comprendere nell’inquadratura il gesto di afferrare la pistola con la mano destra durante le dispute tra cow-boys. Applicando un’analisi di tipo stilistico al genere fantasy cinematografico, finiremmo per chiederci se il modo in cui ci sono stati raccontati i film fantasy che abbiamo visto nell’ultimo decennio ha una sua


169 specificità e ci accorgeremo che manca: è solo il contenuto a fare di un film fantasy quel che è, un fantasy e non, per esempio, un giallo o un horror. Il motivo? Presto detto: quasi tutte queste storie fantasy erano state inizialmente pensate per un altro medium di diffusione, un altro linguaggio, il romanzo. Se pensiamo alle saghe di successo che ci hanno accompagnato nel corso degli ultimi anni, ci renderemo conto

che si tratta di trasposizioni cinematografiche di prodotti letterari che in alcuni casi sono riuscite ad attirare un pubblico nuovo e più ampio, costituendo un prodotto in grado di “viaggiare sulle proprie gambe”, in altri casi no. Due esempi “principe” dell’uno e dell’altro caso, sono alcune saghe già citate in precedenza: Il Signore degli Anelli e Harry Potter. La trilogia di Peter Jackson, composta da La Compagnia dell’Anello, Le Due Torri e Il Ritorno del Re, ci ha tenuto compagnia dal 2001 al 2003, sebbene in Italia l’episodio finale sia uscito nel 2004, ma il mondo di Tolkien non accenna ad abbandonare il grande schermo: The Hobbit: An Unexpected Journey e The Hobbit: There and Back Again, che, insieme, costituiranno la trasposizione del prequel del Signore degli Anelli, Lo Hobbit, sono previsti rispettivamente per il 2012 e il 2013, quasi a chiudere il cerchio di un decennio cinematografico profondamente influenzato dall’opera del professore di Oxford. Nonostante le frange di lettori tolkieniani più “estreme”, non manchino di rilevare pecche nel lavoro di Peter Jackson, il Signore degli Anelli ha ottenuto un successo straordinario su scala globale. Aggiudicandosi complessivamente 17 premi Oscar, di cui 11 solo a Il Ritorno del Re, unica pellicola ad aver vinto così tante statuette nella storia del cinema insieme a Ben-Hur e Titanic nonché quinto miglior incasso nella storia del cinema. La magnificenza scenografica e fotografica nell’attenta ricostruzione della Terra di Mezzo di Jackson e la qualità eccelsa degli effetti speciali hanno senza dubbio contribuito a decretare il successo della trilogia, tuttavia pur sempre di un adattamento si tratta. La difficoltà di contenere la mole delle pagine tolkieniane nei ristretti tempi cinematografici è testimoniata dalle extended edition di tutte e tre le pellicole. Le extended edition hanno vissuto un cammino indipendente rispetto al prodotto cinematografico, diventando oggetto di culto per gli appassionati. Pensate inizialmente per la sola versione dvd, sono finite nella programmazione televisiva nonché


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C INEMA TV sul grande schermo in proiezioni allestite appositamente. Una saga che, invece, ha destato più perplessità che apprezzamento nei fan del prodotto originario, senza riuscire a catturare un pubblico più ampio, è stata quella di Harry Potter, ispirata ai sette romanzi di J.K. Rowling (Pietra Filosofale, Camera dei Segreti, Prigioniero di Azkaban, Calice di Fuoco, Ordine della Fenice, Principe Mezzosangue e Doni della Morte). Il problema principale nella trasposizione su grande schermo della saga potteriana è stato la difficoltà nel dare una visione d’insieme alla saga: a Chris Columbus (PF e CS) è subentrato il messicano Alfonso Cuaròn (PA), a sua volta sostituito dall’inglese Mike Newell (CF). Gli ultimi quattro film della saga, OF, PM, DM I e II, sono stati diretti da David Yates, più filmmaker che regista, incaricato dalla produzione (probabilmente desiderosa di economizzare in proporzione all’incremento degli ingaggi del

trio di protagonisti Radcliffe-Grint-Watson) del difficile compito di trasporre i tre romanzi più lunghi e complessi della saga. Il risultato è che il pubblico cinematografico a digiuno della saga letteraria si è trovato davanti quattro pellicole difficili da seguire per la scarsa attenzione riservata a passaggi logici fondamentali per la comprensione della trama ma difficili da rendere sul grande schermo. Ancor più ostico discutere della Twilight Saga: all’amore viscerale per Edward Cullen (Robert Pattinson) e Bella Swan (Kristen Stewart) da parte delle lettrici della Meyer (e dei lettori, perché no!) si contrappone un’antipatia altrettanto viscerale da parte dei detrattori della serie, che gli aficionados della letteratura gotica giudicano incompatibile con la visione del vampiro di stampo classico. Tralasciando i giudizi di merito sulla saga della Meyer, la saga di Twilight prende le mosse quasi come una produzione cinematografica indipendente e


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a basso costo, con il primo episodio affidato a Catherine Hardwick (Thirteen). Sono gli incassi ottenuti già da Twilight a proiettare le successive pellicole (New Moon, Eclipse e Breaking Dawn) a un diverso livello, in America e all’estero, anche se Twilight non ha attualmente eguagliato i record di incassi di Harry Potter e Signore degli Anelli. C’è una saga pensata originariamente per il cinema e non per la parola scritta: si tratta del franchise di Pirati dei Caraibi, che si compone di quattro titoli: La maledizione della prima luna, La maledizione del forziere fantasma, Ai confini del mondo, Oltre i confini del mare. Dietro la produzione di Pirati c’è lo zampino della Disney, e si può notare la nascita già di per sé cinematografica del progetto se solo si pensa che uno dei motivi del successo di Pirati sta nella sua capacità di mescolare l’ambientazione piratesca allo humor e alla magia, un mix reso possibile in gran parte dall’interpretazione di Johnny Depp del pirata Jack Sparrow. Con la sua inseparabile bandana e le treccine aggrovigliate, Depp reinterpreta a modo suo lo stereotipo del pirata della

letteratura d’avventura classica, con un’ironia più vicina al gioco per pc Monkey Island. Non si tratta di un prodotto esplicitamente fantasy se per “fantasy” si intende high fantasy alla Tolkien. La saga di Pirati appartiene di diritto al filone nel nome dei suoi numerosi elementi fantastici (zombi, maledizioni, divinità, mostri marini e sirene) e, soprattutto, ha il merito di uscire nella stagione cinematografica più congeniale, perché non è detto che il successo riscosso dalla pellicola prodotta da Jerry Bruckheimer sarebbe stato lo stesso in un decennio cinematografico non dominato da tematiche fantastiche. Il successo al botteghino di saghe come Il Signore degli Anelli, Harry Potter, Twilight e Pirati dei Caraibi ha portato alla trasposizione di tutta una serie di altri cicli letterari: dalle Cronache di Narnia alle Cronache di Spiderwick, da Eragon a Una serie di sfortunati eventi. È curioso osservare come, benché alcuni di questi esperimenti non abbiano prodotto i risultati sperati, non portando quindi alla produzione di sequel, la tendenza è quella di proporre al cinema storie complesse e


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composte da più episodi. Cosa che, da una parte, è giustificata dalla necessità di garantirsi un incasso minimizzando i rischi comportati dall’investimento su un progetto nuovo, e dall’altra dalla tendenza verso l’unificazione dei linguaggi tra cinema e serialità televisiva. È indicativo anche l’aumento, registratosi negli ultimi anni, di produzioni televisive ispirate a saghe letterarie fantasy e horror: da Game of Thrones e Legend of the Seeker passando per i vampiri di Charline Harris in True Blood. Se l’ampliamento dell’offerta cinematografica e televisiva fantastica può rivelarsi una manna dal cielo per gli appassionati nonché la possibilità di scoprire un genere nuovo per i neofiti, dall’altra il surplus di produzioni fantastiche può incidere negativamente sulla qualità delle suddette produzioni: si inizia a trasporre le serie più significative per finire con quelle meno note in primis al pubblico di lettori. Senza dubbio il boom del fantasy cinematografico è un fenomeno ancora in atto, non può dirsi concluso ed è difficile tirare le somme. Nel 2012 ci attendono numerosi nuovi progetti di ambito fantastico: dalle pellicole ispirate alla fiaba di Biancaneve (Snow White and the Huntsman, Mirror Mirror: the Untold Adventures of Snow White) alla trasposizione del primo volume della serie dei Mortal Instruments di Cassandra Claire e man mano che passano i mesi ci avviciniamo al debutto de Lo Hobbit. Sarebbe auspicabile che a queste pellicole “derivate” dalla letteratura se ne affiancassero altre più propriamente cinematografiche, con storie progettate esplicitamente per il grande schermo soprattutto per quanto riguarda la sceneggiatura e la libertà nel casting, spesso influenzato dalla somiglianza fisica tra un attore e il personaggio da interpretare piuttosto che dalla bravura.

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Hugo Cabret e lo stupore del Cinema di BARBARA MAIO

Nella Parigi degli anni Trenta un orfano vive nella stazione ferroviaria cercando di riparare un automa, eredità di un padre scomparso troppo presto. L’incontro con una ragazzina e il suo tutore rivoluzioneranno la sua vita. Hugo Cabret è senz’altro il film che ha segnato questa stagione cinematografica. Lo era già prima che arrivasse sugli schermi poiché molta era la curiosità intorno all’opera prima in 3D di Martin Scorsese, uno dei maestri del cinema che ancora riescono a stupire e stupirsi. Ed è proprio su questo stupore che punta Scorsese, quello che sollevò il cinema di Georges Méliès, pioniere non solo per lo strumento stesso ma, soprattutto, per la scelta di affrontare la fantascienza e l’utilizzo di effetti speciali che aggiunsero meraviglia a meraviglia.

Scorsese parte dalla graphic novel di Brian Selznick La straordinaria invenzione di Hugo Cabret costruendo una riflessione sul cinema in generale e sul suo cinema in particolare, con gli occhi di un bambino (per la prima volta protagonista del suo cinema fatto solitamente di star del calibro di Robert De Niro e Leonardo Di Caprio). E l’utilizzo del 3D di inserisce perfettamente in questa costruzione metariflessiva, con i panorami dei tetti innevati di Parigi che ci appaiono più magici che mai. Non è un utilizzo dedito ad attirare l’attenzione dello spettatore in spericolate scene mozzafiato, cosa che purtroppo accade troppo spesso in questo nuovo tipo di visione 3D. Scorsese utilizza la nuova tecnologia per attirare sì lo spettatore ma in una sorta di favola. E chi meglio di un

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175 bambino può raccontarcela? E poi la contrapposizione tra il giovane protagonista e l’anziano Méliès. Laddove il primo, pur con tutta la tragedia già presente nella sua vita, non perde la fiducia nel futuro e nella possibilità di cambiare la propria vita (ideale rappresentato dall’automa la cui riparazione è l’obiettivo del ragazzo e ciò che gli dona la forza per sopravvivere), Méliès ha perso ogni speranza e sogno, nonostante il passato glorioso del quale resta solo qualche sbiadito ricordo. L’incontro con il ragazzo e il suo entusiasmo lo porteranno a rivivere la grandezza del passato e a meglio comprendere il suo ruolo nella nascita del cinema come nuova tecnologia ma, soprattutto, come mezzo per sognare una nuova vita. Un film fatto di scatole cinesi, di continui rimandi tra sogno e realtà e con un occhio particolare per il meccanismo-cinema, che prima che un’arte è una forma meccanica di riproduzione della realtà. Le virate tridimensionali tra gli ingranaggi degli orologi (sempre presente in maniera ossessiva, l’immagine, il tempo, quelli insomma di Deleuziana memoria), porta lo spettatore a vivere dentro la vita di Hugo. Ed Hugo stesso riesce ad uscire dalla sua vita in maniera anche fisica, abbandonando il suo rifugio segreto per

la confortevole casa di Méliès, alla ricerca di una chiave, fisica e simbolica. Con i 5 premi Oscar vinti, Hugo Cabret ha confermato la sua potenza, anche se Scorsese non ha vinto come miglior regista mentre, nella stessa categoria, ha vinto il Golden Globe. Nella notte degli Oscar hanno prevalso premi più “tecnici” come quelli per Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo che, come accade spesso, hanno regalato ulteriore magia al film con il loro splendido lavoro nella costruzione del set. Divergenti gli incassi e le critiche: il film è stato accolto tiepidamente al botteghino (soprattutto in relazione al suo enorme costo di produzione stimato in circa 170 milioni di dollari) nonostante sia stato presentato come un film per famiglie; inoltre, la critica si è fortemente divisa in due poiché a chi ha gridato al capolavoro si è contrapposto chi ha letto l’opera di Scorsese come una furberia, una voglia di rientrare nel grande circuito Hollywoodiano dalla porta principale utilizzando un 3D abbinato ad una storia scontata e banale. Come per ogni film, ognuno avrà la sua lettura ed un suo giudizio. Quel che è certo è che Scorsese ci ha mostrato un modo diverso di utilizzare il 3D, forse aprendo nuove strade all’utilizzo di questa tecnologia visuale.


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Elementare,

Sherlock! di ROBERTO GERILLI

Indossa il cappello, fuma la pipa e risolve casi con il metodo deduttivo. Di chi sto parlando? Di Sherlock Holmes, ovvio, anzi... elementare, non trovate?

della pipa ricurva o dell’esclamazione “Elementare, Watson!”), ma hanno conservato quella vena supereroistica che è alla base del personaggio.

Sherlock Holmes è il protagonista di quattro romanzi e cinquantasei racconti firmati dalla penna di sir Arthur Conan Doyle, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo. È un investigatore colto, geniale e iperattivo, ma è anche arrogante, saccente e asociale. Un personaggio letterario complesso che è stato capace di varcare i confini d’inchiostro e conquistare la fantasia dei lettori di ogni età, sesso ed estrazione sociale.

Che sia nella sua veste originale, in quella patinata di alcune pieces teatrali, di alcuni cartoni animati di successo (Basil l’investigatopo della Disney e le serie anime Il fiuto di Sherlock Holmes e Detective Conan), o ancora in una delle numerose trasfigurazioni più o meno fedeli (come i personaggi di Gil Grissom o Gregory House), Sherlock Holmes è un uomo intelligente e scorbutico, sempre pronto a fare la cosa giusta. Un supereroe, appunto.

Ha fatto il suo esordio nel 1887 nel romanzo Uno studio in rosso e nel 2012 è il protagonista di un multimilionario franchise cinematografico e di una serie tv che sta appassionando gli spettatori italiani. In questi centoventicinque anni di storia, Holmes è stato il protagonista di decine di adattamenti che ne hanno mutato i dettagli in maniera radicale (nei romanzi di Conan Doyle non c’è traccia del cappello da cacciatore,

Questa considerazione è il fondamento dell’ultima versione cinematografica pensata dal regista Guy Ritchie e dallo sceneggiatore Lionel Wigram, che hanno riscoperto il vero personaggio creato da sir Arthur Conan Doyle, inserendolo in un contesto adrenalinico tipico degli action movies di Hollywood. Ritchie e Wigram hanno portato sul grande schermo lo Sherlock Holmes originale

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177 (senza cappello e pipa e con problemi di alcol e droga), estremizzandone la capacità deduttiva fino a renderla simile a un superpotere. L’Holmes interpretato da Robert Downey Jr è un eroe moderno, sarcastico e anticonvenzionale, ma sempre pronto a salvare il mondo. Un cavaliere indomito, in una luccicante corazza di logica.

inglesi). Il telefilm riprende i personaggi di Conan Doyle ma li trasferisce nella Londra contemporanea, aggiustandone le loro caratteristiche secondo gli usi e i costumi della nostra società. Essendo un programma televisivo, Sherlock deve sottostare a tutti quei dettami politicamente corretti tanto cari agli inglesi, ma nonostante questo Moffat e Gatiss sono riusciti a realizzare un Di tutt’altro genere è lo Sherlock adattamento intelligente, che si avvicina dell’omonima serie tv, creata per la BBC molto alle opere originali. Lo Sherlock da Mark Gatiss e Steven Moffat (già Holmes televisivo (che ha il volto di produttore e ideatore di molti serial


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Benedict Cumberbatch) è un giovane troppo intelligente per capire la vita sociale moderna. La sua mente brillante lo aiuta a risolvere casi intricati, ma al contempo lo rende fragile verso quei rapporti umani spesso privi di razionalità. Sia al cinema che in tv, il personaggio di Sherlock Holmes è stato restaurato. Sono stati eliminati, strato dopo strato, tutti gli orpelli aggiunti dalle innumerevoli rivisitazioni e si è scoperto che, nonostante la veneranda età, il famoso investigatore è ancora attuale e verosimile. La accoppiate Ritchie-Wigram e Moffat-Gatiss, hanno aggiunto il loro personale tocco per rimodernare Holmes, ma i piccoli accorgimenti usati hanno reso ancora più evidente la maestria di sir Arthur Conan Doyle, capace di creare non solo un’icona del metodo scientifico-deduttivo, ma anche un protagonista complesso e fuori dal tempo, che, a distanza di centoventicinque anni, è ancora in grado di appassionare.

“Tutto ciò è divertente, anche se elementare, Watson.”

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C INEMA TV di BARBARA MAIO Amano il cinema, la televisione, la letteratura popolare, i fumetti, e tutto quello che ruota intorno al mondo dei geek, dai videogiochi in giù. Sono i cosiddetti “fanboys”, fenomeno tipicamente statunitense che definisce questa nuova frontiera dello spettatore-consumatore di cultura popolare. Ma andando oltre, esiste anche il fanboy autore, ovvero l’autore di un prodotto di cultura popolare che, a sua volta, è anche un grande e attento consumatore di essa e, quindi, infarcisce le sue creazioni di tutta una ragnatela di citazioni e omaggi alle sue passioni. Come detto, si tratta di un fenomeno tipicamente statunitense e prevalentemente maschile. Tra i nome che più spiccano in questa categorie vale la pena citare almeno quelli di Joss Whedon e Kevin Smith. Joss Whedon (New York, 1964), inizia la sua carriera come sceneggiatore (Toy Story, Alien: La clonazione) ed evidenzia sin dagli esordi la sua linea autoriale prediligendo il cinema

di genere, il fantasy declinato in varie forme e l’ibridazione di mezzi e generi. Nel 1992 scrive la sceneggiatura del film Buffy The Vampire Slayer che portato sul grande schermo passa praticamente inosservato. Qualche anno dopo Whedon ripropone, questa volta in tv, la sua cacciatrice di vampiri e da il via ad una serie che segnerà la fiction a cavallo degli anni Duemila. Con Buffy e con i prodotti successivi Angel, Firefly e Serenity, Dollhouse, Whedon definisce chiaramente la sua estetica e, soprattutto, comincia a lavorare trasversalmente tra i media: le sue serie si muovono tra cinema, televisione e fumetti, creando universi cross mediali pronti a soddisfare i fans più accaniti. Anche il web diventa il suo regno con la web-series Dr.Horrible che, realizzata in tempi di sciopero degli sceneggiatori, diviene un successo commerciale nonostante

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181 una prima distribuzione gratuita. Anche al cinema Whedon si cimenta in film che richiamano la sua passione con la regia del prossimo The Avengers, già destinato ad essere cult prima ancora della sua uscita. Come ben sanno i suoi seguaci, Whedon predilige una scrittura che richiama in continuazione mondi paralleli fatti di comics e supereroi, musica pop e classica, personaggi letterari e cinematografici. Le sue opere restano saldamente nell’universo popolare ma si evidenziano per la loro solidità e ricchezza, senza mai scadere nella banalità o nella volgarità. A quasi cinquanta anni Whedon è ormai un autore completo ma ancora con una voglia di sognare e di giocare intatta. Kevin Smith (Red Bank, NJ, 1970) segue un percorso, per certi versi, molto simile a quello di Whedon. Il suo successo inizia nel 1994 con il low budget Clerks che dimostra come sia possibile realizzare un film divertente ed originale grazie ad una ottima scrittura e pochi soldi. Da qui parte una carriera trasversale che seppur rimane al cinema si serializza portando sullo schermo personaggi ricorrenti tra cui Silent Bob interpretato dallo stesso Smith. Da un film all’altro, da Generazione X a Jersey Girl, dal pilot per la tv Reaper alla serie animata tratta da Clerks, Smith – come Whedon – tesse una ragnatela di citazioni ed autocitazioni che vanno ad espandersi trasversalmente anche sui generi, creando commedie romantiche, film generazionale, parodie sgangherate e perfino andando a sfidare la religione con Dogma, film a lungo censurato pur se alla fine si rivela inoffensivo. Dal 2008 Smith sembra aver imboccato la svolta del mainstream (come lo accusano i suoi fans più integralisti), prima realizzando Zack & Miri. Amore a primo sesso che, anche se sembra muoversi sulla strada dei film precedenti, evidenzia subito la ricerca di un pubblico più ampio, non tanto per il cast che vede protagonisti Seth Rogen (Molto incinta e successivamente Green

Hornet) e Elizabeth Banks (la saga cinematografica di Spider Man) poiché i film precedenti di Smith avevano visto spesso tra i protagonisti Matt Damon e Ben Affleck quanto, piuttosto, per la voglia di tentare la strada della commedia romantica senza perdere la propria impronta autoriale. La svolta è ancora più evidente con il successivo Poliziotti fuori con Bruce Willis e Tracy Morgan, questo sicuramente un film mainstream dove l’autore del New Jersey deve piegare la sua estetica al servizio di un film destinato al grande pubblico. Ancora diverso il suo film successivo Red State che segna la definitiva maturazione dell’autore ma si allontana dalla sua precedente produzione, non una pecca a mio giudizio ma un segno di come questo tipo di autori vadano presi sul serio poiché alla fine, il cinema non è solo un grande gioco?


C INEMA TV cinema, colori e suoni, prima – ma molto, molto prima – di ROBERTA MACIOCCI di THE ARTIST A costo di risultare impopolare, la recensione del film Oscar The Artist e la parabola similviale del tramonto – annessi riscatto finale ed amore platonico del protagonista – non saranno oggetto delle mie considerazioni. Vuoi per tutto quello di cui sopra, vuoi perché media di ogni genere se ne sono abbondantemente occupati, ma soprattutto per la preferenza che accordo ad Hugo Cabret di Scorsese. Lasciando comunque da parte opinioni personali, vorrei fornire qualche curiosità sulla nascita del colore e del sonoro nel cinema, decisamente più appetibili per i lettori cinefili. Si tratta di notizie “archeologiche” relative alle due istanze che avrebbero migliorato – o peggiorato, a detta di qualcuno, soprattutto per quanto riguarda il sonoro – i testi della Settima Arte. Il resto, dalle immagini analogiche a quelle digitali, dal supporto in vinile al cd è storia più o meno recente, e forse più nota alla maggior parte dei lettori e degli amanti di cinema. Cominciamo, dunque, dalla “primitiva” colorazione dei film. Già il “mago” Georges Méliès girava i suoi film in bianco e nero, per poi colorarli tramite due tecniche, il viraggio (immersione della pellicola in soluzione chimica che accentuava le zone scure, lasciando quasi neutre quelle chiare), o l’imbibizione (immersione nella tinta della pellicola già sviluppata, con colorazione delle parti chiare e mantenimento del nero per quelle scure).

Il colore si diffuse soprattutto a partire dal 1903-1904, quando la casa di produzione francese Pathé Fréres aveva ideato un metodo di colorazione meccanica tramite tampone (pochoir in francese, stencil in inglese), anche se il colore era riservato soprattutto a film densi di “effetti speciali” come quelli di Méliès o a pellicole che avevano per protagoniste signore riccamente abbigliate. Successivamente, già alla metà degli anni venti si cominciarono ad usare pellicole pancromatiche che – a differenza delle ortocromatiche le quali registravano solo alcuni colori – fotografavano l’intero spettro cromatico. La diffusione incrementò grazie alla produzione di pellicole sempre più economiche, ad opera della Eastman Kodak. Passando al sonoro nel cinema è notorio che i primi, brevissimi filmati erano commentati dal un sottofondo musicale su vinile, dalle voci degli attori dietro lo schermo, o dalle parole dell’esercente stesso della sala cinematografica. Ancora: i film potevano essere accompagnati da un sottofondo musicale creato da un singolo elemento (un pianoforte) oppure, da un’orchestra formata da elementi di numero variabile, in base al “prestigio” della sala cinematografica. Una curiosità su un’altra antesignana – dal punto di vista funzionale – del sonoro, la didascalia: le prime didascalie presenti in un film americano furono quelle inserite da Edwin S. Porter ne La capanna dello Zio Tom (1903), adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo.

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183 Contemporaneamente all’innovazione del colore – rappresentata dalla pellicola pancromatica – si svilupparono le prime tecniche del sonoro nel cinema: già infatti nel 1923, la pellicola 35mm fu dotata di suono, grazie all’invenzione di Lee DeForest, il Phonofilm. Le onde sonore erano inserite su una striscia a lato del fotogramma. Le svolte ulteriori e decisive furono rappresentate però da altri brevetti, realizzati dalle aziende americane leader per tecnologia dell’epoca. Il Vitaphone, ad esempio, invenzione della Western Electric: fu utilizzato come metodo innovativo di registrazione da parte dei fratelli Warner, per la prima volta, il 6 agosto del 1926. Altro sistema era il Movietone, utilizzato invece dalla Fox Film Corporation a partire dal 1927. Anche la RCA, sempre nel 1927, produsse un sistema di riproduzione a pellicola sonora, chiamato Photophone: tuttavia, a seguire dell’accordo sempre dello stesso anno tra le cinque principali case cinematografiche,

fu il Vitaphone della Western Electric ad essere scelto quale sistema principe per la sonorizzazione. Va ricordato, anche se noto ai più, che il primo film sonoro fu proiettato il 6 ottobre del 1927, ed è Il cantante di jazz di Alan Crosland. Altra curiosità sul sonoro: come precedentemente accennato, molti personaggi di rilievo espressero qualche perplessità sull’avvento del suono nei film. Luigi Pirandello, tra questi, ed uno dei più grandi teorici del cinema, se non il maggiore: Sergej Ėjzenštejn, il quale, nel 1928 fu autore della Dichiarazione sul futuro cinema sonoro, insieme ai due colleghi Vsevolov Pudovkin e Grigorij Alexandrov. Detto anche ‘Manifesto sull’asincronismo’, a grandi linee, il testo sostiene la validità di tale innovazione per il cinema, solo quando il suono venga utilizzato in maniera contrappuntistica rispetto al testo visivo e soprattutto non ne impoverisca le caratteristiche.


“Shirakawa Yofune” (Sonno Profondo) Omaggio a Banana Yoshimoto Petra Zari (©2001) Tempera acrilica e pastello secco su tela

Speechless ©2012 - numero zero www.speechlessmagazine.com


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