Nessun luogo è lontano | Catalogo Stefano Moras

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PICCOLI ATTI POETICI, FATTI DI INTAGLI, ASSOCIAZIONI DI FORME, MATERIALI E COLORI.


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1. River Residual - 270 x 300 cm - olio su tela, 2014 2. Drawing by removing - 30 x 40 cm - dettaglio, olio su carta, 2013 3. Facta ut ardeat - 130 x 200 cm - olio su tela, 2014 4. Burn - 21 x 29,7 cm - serie di carte, olio e fusaggine, 2013 5. Burn - 21 x 29,7 cm - serie di carte, olio e fusaggine, 2013 6. Burn - 21 x 29,7 cm - serie di carte, olio e fusaggine, 2013


Nessun luogo è lontano

UN PROGETTO DI

PROGETTO GRAFICO

Veronica de Giovanelli

Sottobosco

Sottobosco

Cristiano Menchini

MOSTRA A CURA DI

VISUAL IMPROVEMENT

Stefano Moras

Eugenia Delfini

Tiziano Manna

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PROMOSSO DA

MEDIA PARTNER

dal 6 Settembre

Assessorato alla Cultura e Turismo

Sherwood

al 5 Ottobre 2014

Comune di Padova

Ex Macello

CON I PATROCINI DI

via Alvise Cornaro 1/b

Fondazione Bevilacqua La Masa

Padova

FAI – Delegazione di Padova

Andrea Grotto

SPONSOR TECNICO Winezon

Kio-A-Thau Sugar Refinery Artist Village nessunluogo.tumblr.com sottobosco.net

Nonostante a un primo sguardo si possano cogliere notevoli differenze stilistiche tra i lavori esposti, sono diversi gli aspetti teorici e metodologici che li accomunano. Per gli autori in mostra l’uomo è parte integrante del paesaggio, non esterno ad esso, e la pittura di paesaggio non un’attività di mimesi ma lo strumento attraverso il quale tentare di riavvicinarsi e di riappropriarsi del reale. Questo movimento sui margini, tra il reale e la sua riproposizione estetica, permette loro di costruire una relazione sempre nuova con il mondo, di scoprirlo e di ripensare ciò che ci è conosciuto, contribuendo alla produzione di altri punti di vista. In questo lavoro di identificazione e successiva rielaborazione del paesaggio, la tela diventa sinonimo di possibilità e il lavoro un procedere per gradi: il tempo per soffermarsi su un particolare vissuto o luogo e per dare visione al presente, qualsiasi cosa suggerisca. Il nostro è sempre stato un paesaggio culturale, ovvero non solo natura ma anche opera umana, territorio sul quale l’azione dell’uomo ha inciso in profondità, attraverso i millenni, lasciando ben poco della sua conformazione originaria. Di conseguenza la nostra coscienza del paesaggio è quella di una natura percepita attraverso una cultura (Paolo D’Angelo) e l’esperienza che compiamo di fronte ad esso non può essere mai un’esperienza puramente sensoriale, ma un processo che organizza quel che vediamo sulla base di componenti immaginative, emotive, memoriali e identificative. Su questo discorso si innesta il lavoro di Veronica de Giovanelli che riflette sul paesaggio come dimensione relazionale frutto della mediazione tra stato di natura ed esigenze umane. La sua è una forma di esplorazione intima e di presa di coscienza della singolarità dei luoghi, un’indagine costante tra sé e i contesti attraverso cui cogliere e restituire le qualità inespresse di un determinato spazio. Da sempre interessata a quelle che sono le energie sottese e le variabili dello stato di natura, da una parte nelle sue opere inscena manifestazioni di fenomeni naturali e dall’altra gli interventi per mano dell’uomo che hanno inciso profondamente sul paesaggio. Attraverso il punto di vista aereo e l’applicazione di velature fresche, fatte sedimentare in tempi diversi, Veronica evoca i luoghi e le strutture che abitano il nostro territorio, evidenziando l’idea di paesaggio come palinsesto e stratificazione vorticosa. Il paesaggio è dentro di noi prima di essere intorno a noi (Ugo Morelli), per ciò la relazione con la natura non può ridursi alla sola identificazione estetica, come mera immagine, ma va ricercata anche all’interno di dimensione cognitiva e simbolica del paesaggio. Negli ultimi anni Andrea Grotto ha attraversato diverse fasi di ricerca che lo hanno portato a ripensare il paesaggio come ad un insieme simbolico di oggetti: realtà di riferimento da cui partire per interpretare il mondo ed esplorare i nostri universi concettuali ancorati al reale. Questo atlante simbolico in progress, annette forme sedimentate nel suo immaginario, delineando da una parte una sua personale geografia emotiva e dall’altra il suo interesse per le connessioni esistenti tra le immagini che compongono la nostra quotidianità e quelle radicate nell’immaginario collettivo. Il tempo è sospeso, gli ambienti non sono riconducibili a qualcosa di identificabile, il paesaggio si fa scultura, il fruitore è libero di identificarsi con l’immagine o semplicemente di farla propria. Il serbatoio di immagini da cui attingere non è più allora solo il paesaggio ma la sua personale memoria, i ricordi d’infanzia e le suggestioni legate a specifici luoghi: è a partire da tutto questo che Andrea ricostruisce dei set attraverso la sola riproposizione dei suoi elementi ausiliari - tappeti, scivoli,

_ P. D’Angelo, Filosofia del Paesaggio, Quodlibet, 2010 U. Morelli, Paesaggio e mente, Bollati Boringhieri, 2011 M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, 2009

vasi, bastoni e scatolini - come fossero muti testimoni da cui ripartire per una rielaborazione dei luoghi del vivere. Rispetto a questo approccio sui confini tra il proprio mondo interno e quello esterno, Stefano Moras vive il paesaggio come una materia sempre ricca di suggestioni, luogo dell’accadere, palcoscenico delle trasformazioni organiche e vegetali. I suoi lavori sono il risultato di studi ravvicinati della natura, un discorso molto personale tra autore e linguaggio, una ricerca costante che gli permette di comunicare e relazionarsi con il mondo. I suoi quadri sono come delle piattaforme sulle quali frammenti stratificati e parcellizzati della realtà si accumulano, scompaiono o riemergono. Fuori o dentro la superficie pittorica, la sua è una ricerca legata ai processi che possono suggerirci delle visioni del nostro reale, un modo di procedere nel quale ogni esperienza si sovrappone a quella precedente in un continuum ed incessante evolversi e ridefinire il suo apparire. Stefano non è interessato alla riproduzione o alla traduzione della realtà fine a sé stessa quanto alla sua rielaborazione a cui arriva attraverso un delicato lavoro di scomposizione e ricostruzione per frammenti. Così la tela diventa spazio vivo dove individuare delle coordinate e procede attraverso la proposizione di piccoli atti poetici, fatti di intagli, accostamenti, associazioni libere di forme, materiali e colori. Negli ultimi lavori in particolare l’ascolto dei fenomeni naturali e dei loro passaggi di stato non è più qualcosa di esterno ma qualcosa che si ritrova nel suo stesso fare, riscoprendoli come parte del processo pittorico. Nulla è stabilito, si tratta di inseguire una necessità, legata al proprio sentire, che tende verso processi di scoperta ignoti e inaspettati che si cristallizzano in visioni di insieme, frutto del confronto costante con la realtà circostante. Il paesaggio è allora ciò che risulta dalla nostra relazione con il mondo, ovvero il risultato artificiale di una cultura che ridefinisce perpetuamente la sua relazione con la natura, tanto che l’esperienza del paesaggio è in generale e in primo luogo, un’esperienza di sé (Michael Jacob). Perché esista un paesaggio devono allora esserci inevitabilmente un individuo e la natura, e tra i due deve innescarsi una relazione. La ricerca di Cristiano Menchini nasce proprio dal confronto fisico con il paesaggio, dal contatto diretto e dallo studio quasi scientifico di microcosmi vegetali. Muovendosi nello scarto che c’è tra il vero e la finzione, Cristiano ripropone universi simbolici, metafore di un mondo percepito, superfici dinamiche e indipendenti dalla realtà, non tanto per riprodurre un semplice gioco di rassomiglianze, quanto per evocare spazi altri senza tempo, che da qualche parte forse esistono o sono esistiti. L’interesse è per i processi a noi invisibili che determinano lo sviluppo del mondo vegetale, la parte organica e morfologica della natura che cambia a seconda del clima, del vento, della luce. Alcuni suoi lavori evocano calibrati ecosistemi vegetali, altri invece scenari primitivi realizzati in scala reale, altri ancora infine, attraverso la ripetizione di un unico elemento vegetale nello spazio della tela, orientano il discorso verso l’astrazione formale. Nessun luogo è lontano nasce come punto di incontro di più esperienze per osservare il quotidiano attraverso l’arte e per riflettere sui differenti modi di vedere, percepire e fare esperienza del paesaggio. In un’epoca in cui la relazione con la natura non è più data ed è da reinventare e ricreare, la mostra, vuole restituire il desiderio di entrare in risonanza con il paesaggio, provando a recuperare questa relazione attraverso la visione estetica e la sua rappresentazione. Il titolo della mostra, tratto dal libro omonimo di Richard Bach, riporta l’attenzione su questo: nessun luogo è lontano, tutto ciò che non è in mostra è possibile guardarlo fuori o ritrovarlo dentro di noi come qualcosa che non è mai andato perduto. Eugenia Delfini

Finito di stampare nel mese di settembre 2014

La parola paesaggio designa tanto una porzione di territorio nella sua concreta realtà fisica e morfologica, quanto la rappresentazione di una porzione di spazio dotata di valori estetici: a partire da questo presupposto, le ricerche in mostra indagano il paesaggio sia in quanto espressione della nostra identità sia in quanto generatore di esperienze estetiche.


UNA CONVERSAZIONE TRA EUGENIA DELFINI E STEFANO MORAS Una pratica che volge l’attenzione al paesaggio, all’esterno, a tutto ciò che sta fuori dall’uomo ma è l’uomo stesso in quanto estensione ed espressione della sua identità storico culturale: qual è stato il tuo percorso? E cosa ti ha portato, oggi, ad occuparti di “pittura di paesaggio”?

Provengo da una cultura che non presta molta attenzione a dove vive, preoccupandosi principalmente di cose poco utili e che ha fatto del superfluo un proprio lifestyle. Si è frammentata in una specie di Babele sensoriale. Forse è più che altro distrazione: basta uscire di casa e ti imbatti in centri commerciali, il più delle volte costruiti senza criterio alcuno, e si è completamente immersi in stimoli che ti urlano addosso. Ero in quarta superiore (indirizzo informatico) a Pordenone quando incominciai a chiedermi se stare davanti ad un computer in ufficio fosse davvero il mio scopo. Mi sentivo inadeguato, studiavo grafici e linguaggi che non mi aiutavano a comprendere il mondo, ma solo un suo dettaglio e per quello che l’Istituto mi offriva non vedevo come poteva aiutarmi a conoscermi meglio, così ho radicalmente cambiato direzione. Ad aiutarmi nei primi anni è stato solo un certo senso di sopravvivenza. Credo di aver sempre dipinto paesaggi, prima erano atmosfere poi piattaforme dove accadevano situazioni, adesso l’impianto dell’immagine è più strutturato, stratificato. Affronto il lavoro con una certa paura di cadere, perdere l’equilibrio; credo sia proprio la paura a spingermi alla pratica, mi pongo delle domande che mirano a risolvere queste paure, esorcizzarle in un certo senso. Viaggio perché ho paura di perdermi, spero così che quell’istinto riemerga per darmi qualche riferimento, non chiedo molto, mi basta solo che qualche volta ci sia (anche per caso) quel piccolo tremore nel cielo. Non capisco se sono più codardo o incosciente. Torno al lavoro e il risultato è un paesaggio. Vorrei cogliere la suggestione da cui sei partito per chiederti se nella nostra “babele sensoriale” la riflessione sul paesaggio possa essere sviluppata oltre che come ragionamento sulla condizione del vivere, anche come un modo di osservare e arricchire il rapporto tra lo sguardo, il mondo e la rappresentazione del mondo.

Sicuramente è una possibilità cui un artista può trarre idee e sviluppi nella sua arte. Tuttavia la costante parcellizzazione della nostra attenzione rende difficile vedere le cose nel loro insieme, comprendiamo il frammento cioè la singola parte, difficilmente l’organismo composto. Nel catalogo realizzato l’anno scorso per la tua personale al Sugar Rafinery Art Village in Taiwan, scrivi che un quadro è per te come un corpo dipinto, come una piattaforma sulla quale via via si stratificano frammenti di colore. Vuoi raccontarmi meglio che cos’è un quadro per te e in che modo nasce e si sviluppa?

Ogni volta è diverso e questo rende il processo che genera l’immagine qualcosa che è sempre utile affrontare. Si ricerca sempre l’autenticità di un lavoro, ma per arrivarci o anche solo addentrarsi è richiesta molta decisione. Recentemente ho parlato con Antonio Bonvecchio, cartografo e professore trentino, e ho chiesto che cosa per lui fosse il paesaggio. Rispose che il paesaggio lo percepisce come una memoria a perdere, un dove in cui le tracce e residui si accumulano, scompaiono o riemergono; aggiunse che proprio grazie ad esso riesce a rivivere il passato di un luogo o la sua storia portando così nel presente qualsiasi cosa gli suggerisca. Sono rimasto molto colpito da questa sua visione, è pittura. I soggetti di natura astratta che dipingi o componi nelle sculture o installazioni, a volte rendono visibili mondi a noi ignoti, altre volte invece, come nel caso delle sculture, ci inducono a ripensare il mondo come un insieme di parti combinate. Vuoi introdurci alla tua ricerca?

Quello che più di tutto mi emoziona nella pittura è la capacità che ha di suggerirci delle cose, cioè che da un lavoro possa succedere qualcos’altro. É un discorso molto personale tra autore e linguaggio, anche quando la pittura si apre ad altre forme più performative, questo però non toglie che un’opera sia la possibilità per chiunque di percepire quello che essa può offrirgli perché fondamentalmente è comunicazione. Di per sé la pittura è un medium tra i più completi e ricchi ed essendo molte cose assieme o forse una sola, ma molto complessa, cerco di riscoprirla in realtà diverse tra loro, ho un’idea davvero molto vaga della pittura come essenza. Spesso trovo qualcosa che mi interessa sviluppare al di fuori della superficie dipinta, alle volte invece accade il contrario. Lavoro costantemente al fine di capire l’uno dall’altro processo. Quali aspetti ti interessano della relazione uomo - natura? E cosa intendi quando parli del mondo come “palinsesto”?

A me interessa soprattutto capire “dove” si colloca esattamente l’uomo, nelle mie immagini pare non esserci spazio per esso. Come modificatore

_ Stefano Moras nasce nel 1985 a Pordenone. Nel 2009 trascorre un periodo di studio alla University of Applied Sience, Lahti (Finlandia) e nel 2011 consegue il Diploma in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Dal 2012 collabora con il Kat-Sugar Refinery Art Village a Kaohsiung (Taiwan) e nel 2013 realizza la sua prima personale in Asia presso il LuFu Cultural Center a Taichung (Taiwan).

o interprete che sia, è sempre intervenuto sulla natura, come se l’atto di rendere il paesaggio un palinsesto stratificato fosse sinonimo di progresso. La Neghentropia è un concetto da cui sono nate una serie di tue considerazioni a proposito del territorio lagunare di Venezia, ti andrebbe di spiegare cos’è e perché questo concetto ti ha guidato nelle tue scelte progettuali?

La Neghentropia è un pensiero postumo alla riflessione sui miei lavori. Grazie alle esperienze promosse dall’Accademia di Belle Arti di Venezia in collaborazione con Forte Marghera e ai workshop estivi sempre diversi e dinamici, ho capito a fondo quanto fossero importanti i luoghi del “fare arte” più che del mostrare l’arte; mi incuriosiva molto come questo sistema lagunare “respirasse” già semplicemente quando il nostro Atelier di Pittura si trasferiva dall’isola al Forte che, paradossalmente, è anch’esso un’isola. In questo movimento ho sentito una grande concentrazione di risorse personali e di energie coinvolte, che sono poi sfociate in un determinato lavoro risultato dal lavoro del singolo in relazione alla produzione collettiva. Ed è proprio questo il concetto di Neghentropia, cioè l’opposto dell’entropia o, se vogliamo, della dispersione, ossia ciò che porta un sistema ad accumulare energie e risorse al fine ultimo di svolgere un lavoro. In questi ultimi anni hai tradotto in immagini luoghi a te familiari, come Venezia e la sua laguna, fino ad arrivare a dipingere luoghi che non esistono, che vanno oltre i confini terrestri ma che al contempo sono il risultato del dialogo sotteso tra il tuo immaginario e la realtà circostante, vuoi raccontare questa fase della tua ricerca?

Non ho mai tradotto in immagini la laguna veneta, il mio non è mai stato un lavoro di traduzione. Non è il presupposto con cui sono partito per poi giungere con Neghentropia: ho notato un’attinenza tra il mio lavoro e la laguna, luogo in cui risiedevo, e l’ho sviluppato come progetto. Fondamentalmente è successo proprio l’opposto. Mi sono sentito perso in un mare di cose, fenomeni e ambienti e stavo annegando. Questa sensazione, poi, mi è mancata, la rivoglio indietro. Adesso lavoro per riprendermela. Parlami di quello che secondo me è il tuo manifesto: My Night.

Ad esempio in My Night non sapevo in che cosa mi sarei imbattuto, non sono partito con nessuna idea in particolare e mi interessava soprattutto il processo. My Night è un dipinto che ho realizzato in Taiwan, con il progetto AiR presso Bywood Kat-sugar Refinery, durante il mese previsto per la residenza. Il lavoro è il risultato della mia reazione a tutti gli stimoli visivi che ho ricevuto durante la mia permanenza sull’isola di Formosa e nelle caotiche metropoli (Taipei e Kaohsiung). Non è quindi la traduzione ad aver avuto un ruolo, bensì l’interpretazione che fino all’ultimo non era consapevole. Cercavo un paesaggio spettacolare e volevo trovarmi di fronte a qualcosa di simile, proprio come facevo in quei luoghi e, in ogni occasione o circostanza, un po’ come faccio adesso. Determinante nel tuo lavoro è l’attitudine a scomporre e ricomporre il mondo per immagini. Il processo che implica questo movimento, e che ha come oggetto il paesaggio parcellizzatesi in frammenti, è diventato negli ultimi anni parte consapevole del tuo lavoro. Ti va citare qualche tuo lavoro a proposito di questo?

Come già ti dicevo in My Night il processo era la cosa che più mi interessava, come negli altri lavori la scomposizione e ricomposizione tramite “strappi” di carta (alle volte come maschere altre invece come metodo per ottenere texture differenti di colore) ha avuto un ruolo principale: mascherando continuamente diversi livelli di colore, anche casualmente, si rafforza la possibilità interpretativa che ne deriva, con un notevole sforzo iniziale. Non ricordo bene quando ho iniziato, ma ricordo il primo lavoro che ha dato un risultato seguendo questo processo e si tratta di Deepblue Equilibrium. Stavo temporeggiando con la pittura, cioè continuavo ad aggiungere, aggiungere senza mai vedere nulla di particolare, non avevo una struttura che potesse darmi delle coordinate su quel lavoro, in pratica non potevo neanche esprimere un parere su quello che stessi facendo, se fosse utile o no così, prima che si spegnessero le luci dell’Atelier in Accademia, ho appiccicato di rabbia tutti i fogli di giornale che ho trovato e che raramente usavo come escamotage per degli effetti. Il giorno dopo sono ritornato con l’ansia del disastro che dovevo sistemare e, foglio per foglio ho tolto tutto: è apparso qualcosa che mi ha emozionato a tal punto che ho capito cosa e come dovevo procedere così ho solo lavorato sul background ed è nato un quadro che ora ricordo con affetto. Da lì in poi le frequenti decalcomanie non sono più state, per me, un escamotage o un effetto, ma una parte costitutiva del lavoro: la sua struttura. Per questo dico che ora lavoro per perdermi nuovamente.

Alcune tue sculture o installazioni, realizzate secondo il processo addizionale di strati di carta, come Everything, Everywhere o Bodies sembrano essere la riproposizione scultorea formale di alcuni tuoi soggetti pittorici, è così?

Dal processo pittorico deriva il materiale con cui realizzo altri lavori, perché è pittura esso stesso, porta con sé un significato e dà continuità alla mia pittura. L’idea che da una serie di frammenti nasca sulla tela un corpo che cresce e che poi invece, fuori la superficie questi elementi rimangano divisi, ma con un qualcosa in più, mi ha sempre attratto. A split body sostanzialmente è proprio questo, cioè il mio punto di vista sull’idea del corpo e del frammento, che poi dal colore si è spostato in tutta una serie di piccoli elementi, ma a generare l’intuizione e a darne senso è stata la pittura. Lavori come Everything, Everywhere o Bodies sono la risposta a tutti quei pezzettini di carta dipinta che ottenevo, sono il mio punto di partenza per dare a questo materiale un maggiore ruolo nella mia ricerca. Procedendo invece per sottrazione nasce A drawing by removing e successivamente seguendo un processo ancora più complesso che non a fine neanche con la realizzazione stessa dell’opera nasce la serie di carte oleate Journey, The Winter vuoi parlarmi di quest’ultimo progetto?

A drawing by removing è una riflessione all’interno della parcellizzazione di uno spazio, in questo caso un foglio dipinto, e di un elemento residuale che genera un’altro spazio, è legato alla serie A split body e quest’idea ha generato la serie Journey, The Winter in quanto associazioni più libere e forse, come direbbe A. Jodorowsky sono i miei piccoli atti poetici: azioni che sebbene alle volte siano semplici, come intagli o accostamenti, generano un’immagine complessa e poetica. I lavori che esponi all’ex Macello mostrano come tu stia vivendo un ulteriore atto nel tuo modo di lavorare sia in base all’uso che fai della materia stessa sia per una certa visione che restituisci del paesaggio, in quanto forma viva in continuo mutamento. Mi vengono in mente in particolare Galaverna e Nebbia. Vuoi parlare di come nasce nella tua ricerca la riflessione sul “passaggio di stato” all’interno del paesaggio?

Il tema del passaggio di stato è qualcosa che ho letto attraverso il lavoro e non come punto di partenza nella riflessione, è successo strada facendo. Mentre dipingevo non facevo che sovrapporre la stessa cosa in diversi livelli, continuavo ad accumulare e, mano a mano, la struttura iniziava a descrivere il contenuto del lavoro. Quasi come se si espandesse, conquistando la superficie della tela, il colore ha mutato lo spazio attraverso l’accumulo ed è qui che, parlandone con un amico, Galaverna si è risolto come lavoro. É proprio la genesi di questa particolare brina ad avermi colpito, cioè essa nasce dal rapido cambiamento di stato da gassoso a solido accumulandosi continuamente sopra sé stessa, elemento dopo elemento. L’entusiasmo è dovuto proprio al fatto di aver trovato la corrispondenza a posteriori ed al fatto che non sono stato io ad osservare questo, ma Sebastiano Morandi che mi ha ascoltato mentre descrivevo questo lavoro riscoprendo un fenomeno naturale nel mio processo pittorico. Anche per i pensieri e, nel caso di Nebbia, i ricordi, credo si possa parlare di cambiamento di stato da una materia all’altra. Nebbia infatti, appena prima di completarlo, mi ha ricordato Taiwan e il suo paesaggio. Forse molto personale come osservazione, però in un contesto diverso con un altro clima, può forse una sensazione che ci manca riemergere e condensarsi in un’immagine senza che ce ne rendiamo conto se non all’ultimo? Un’altro aspetto su cui stai lavorando è la dimensione del sacro, a proposito di questo vuoi introdurci a Facta ut ardeat?

Ho dipinto questa serie nello studio-mulino di Paolo Dolzan e se ci ripenso è stata davvero una bella avventura. Paolo è un artista che non scende a nessun compromesso, ma sa sempre come aiutare le persone e non esita un solo minuto nel farlo. Il suo mulino è una nicchia incastrata in una forra poco distante dal centro di Stenico in provincia di Trento: isolato, misterioso e vecchio, si divide tra studio e casa abitabile in cui, tra una stanza rossa (la sua wunderkammer dove custodisce una collezione di oggetti, opere e cataloghi) e un corridoio ricoperto di opere d’arte, ci si immerge in un’altra dimensione. A pochi passi la cascata del Rio Bianco scende fragorosa nel suo letto di rocce e muschi, di fianco ad essa un sentiero si addentra nel bosco. Alcune cose sono per noi un punto di riferimento, nascono per ardere, perché quella è la loro natura. Sono lì, sempre.


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