Picasso 1917-1937. L’Arlecchino dell’arte

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Yve-Alain Bois

Picasso trickster

Pablo Picasso Arlecchino, 1927, particolare Olio su tela, 81,3 5 65,1 cm Z. VII 80 New York, The Metropolitan Museum of Art, The Mr. and Mrs. Klaus G. Perls Collection, 1997 (1997.149.5) (cat. n. 19)

L’identificazione di Picasso con Arlecchino, il celebre trickster della commedia dell’arte, è un elemento chiave nella letteratura sull’artista. L’interesse per questo personaggio che seppure in maniera discontinua ha accompagnato Picasso per tutta la vita è stato oggetto di studi approfonditi, dall’Arlecchino seduto (fig. 1) eseguito nel 1901 durante il periodo blu alla serie di disegni realizzati a settant’anni di distanza (ebbene sì, settanta!) che l’artista affidò quasi immediatamente al Musée Réattu di Arles1. Il corpus degli Arlecchini di Picasso è molto vasto e le ramificazioni semantiche di questa iconologia rappresentano una miniera d’oro per gli storici dell’arte. Per certi versi ci si aspetterebbe che una mostra intitolata “Picasso l’Arlecchino dell’arte” esplorasse quel corpus e queste ramificazioni – e va da sé che sarebbe un’iniziativa di grande interesse. Qui invece Arlecchino non è considerato in quanto figura rappresentata in numerose opere di Picasso – tra cui quelle in cui notoriamente appare con i lineamenti dell’artista, come Famiglia di saltimbanchi (fig. 2) o Al Lapin agile, entrambe del 1905 – ma piuttosto come metafora della straordinaria pratica artistica di Picasso, in particolare quella relativa al ventennio (1917-1937) sul quale abbiamo deciso di soffermarci. Secondo la tradizione Arlecchino è in continua trasformazione, in costante movimento. Agile e astuto, elude o aggira le regole con i suoi innumerevoli mascheramenti, sfoderando ogni volta un’identità totalmente inaspettata. Arlecchino è la diversità personificata. Anche lui, come il diavolo, ha mille volti. Il suo costume variopinto composto di tanti frammenti cuciti insieme, in origine indice di povertà, è perfettamente adatto a vestire un simile esempio di fantasia ed eclettismo. Il nostro proposito, insomma, è quello di analizzare la natura della formidabile multiformità di Picasso, la sua capacità – mai uguagliata da nessun altro artista – di sentirsi libero di dipingere o disegnare lo stesso motivo nel corso dello stesso giorno (o settimana o mese)

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in maniere diverse e talvolta radicalmente opposte (l’altro tratto specifico di Picasso è la vastità della sua opera, anch’essa rimasta insuperata – ma di questo aspetto nessuna mostra, per quanto imponente, ha mai potuto dar conto). Va tuttavia osservato che il confine tra Arlecchino come tema e Arlecchino come metafora di una pratica artistica contrassegnata dall’eterogeneità è decisamente sfumato. Questo aspetto emergerebbe in maniera lampante nella potenziale mostra che vedrebbe riunite tutte le versioni degli Arlecchini immaginati da Picasso alla quale accennavo poco fa. Si farebbe fatica a individuare tracce del minaccioso Arlecchino del 1915, definito da Picasso il “migliore finora” (fig. 3), nella briosa figura art déco in Arlecchino e donna con collana (fig. 4), eseguito a Roma all’inizio della primavera del 1917 insieme a L’italiana (cat. n. 1), nel malinconico Arlecchino neorinascimentale e noucentista concepito alcune settimane dopo (cat. n. 2), o nell’insolitamente rigido Arlecchino con violino (“Si tu veux”) dipinto all’inizio del 1918, poco dopo il ritorno a Parigi da Barcellona, benché quest’ultima opera abbia in comune con il quadro del 1915 e con la tela di Roma il generico idioma del cubismo “sintetico”2. Oppure, per citare altri esempi, l’intera serie dei pensosi Arlecchini “neoclassici” che Picasso sfornò nel 1923 con grande gioia del suo agente Paul Rosenberg (comprendente due ritratti del pittore Jacinto Salvado, uno al Kunstmuseum di Basilea, l’altro al Centre Pompidou, Musée national d’art moderne di Parigi, fig. 7) e, nello stesso spirito (anche se leggermente più sentimentale), Paulo vestito da Arlecchino del 1924 (Parigi, Musée Picasso), non sembrano creati dalla stessa mano che alcuni mesi dopo eseguì il beffardo e variopinto Arlecchino musicista (cat. n. 17); nessuna delle figure menzionate, inoltre, mostra l’espressione di (finto?) terrore a cui è improntato il volto dell’Arlecchino surrealista dipinto nel 1927 (cat. n. 19)3. Si può persino affermare che era lo stesso Picasso a far sì che il confine tra l’Arlecchino come tema e l’Arlec-


Fig. 1 Pablo Picasso, Arlecchino seduto, 1901 Olio su tela, 82,7 5 61,2 cm New York, The Metropolitan Museum of Art

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Fig. 2 Pablo Picasso, Famiglia di saltimbanchi, 1905 Olio su tela, 212,8 5 229,6 cm Washington, National Gallery of Art

Fig. 3 Pablo Picasso, Arlecchino, 1915 Olio su tela, 183,5 5 105 cm New York, The Museum of Modern Art


Fig. 4 Pablo Picasso, Arlecchino e donna con collana, 1917 Olio su tela, 200 5 200 cm Parigi, Centre Pompidou, MusÊe national d’art moderne

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Fig. 5 Pablo Picasso, Arlecchino (Ritratto del pittore Jacinto Salvado), 1923, Olio su tela, 130 5 97 cm Parigi, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne

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chino come metafora restasse sfumato. Consapevole che la versatilità era il perno attorno al quale ruotava il personaggio, faceva in modo di rappresentarlo contemporaneamente negli stili più diversi ogni volta che aveva voglia di riprenderlo come soggetto. Per essere più precisi, Picasso adottò questa strategia a partire dal 1916 e la sviluppò pienamente dal 1917 in poi (essa durò in tutto una decina d’anni, dopodiché la figura di Arlecchino fu sostituita da quella del Minotauro, una creatura che sotto la sua penna e il suo pennello si sarebbe rivelata non meno proteiforme). Circolano diversi aneddoti sull’origine della rinnovata passione di Picasso per il nostro personaggio teatrale dopo un intervallo quasi ininterrotto durato circa un decennio4. Il più famoso ha per protagonista Cocteau, che nella sua seconda visita a Picasso, durante l’estate del 1915, si presentò travestito da Arlecchino per divertire l’artista e invogliarlo a fargli il ritratto e poi gli lasciò il costume in regalo5. Che Cocteau pensasse già di convincere Picasso a collaborare con lui a un nuovo balletto della compagnia di Diaghilev e l’infantile mascherata facesse quindi parte di una lunga opera di seduzione che sarebbe sfociata in Parade non è sfuggito agli storici. Sono già state scritte molte pagine su come il balletto non solo riaccese l’interesse di Picasso per Arlecchino ma gli offrì anche l’occasione di approfondire la sua conoscenza della commedia dell’arte, in particolare durante il soggiorno a Roma in cui lavorò ai costumi, al sipario e alle scenografie (febbraioaprile 1917), e nel corso delle visite a Napoli con la troupe di Diaghilev6. Ciò di cui, stranamente, si parla meno è che Arlecchino non era menzionato nel libretto di Cocteau né appariva mai nel balletto. La sua presenza sulla scena di Parade era circoscritta all’immenso sipario (fig. 6) dipinto da Picasso a Roma – che peraltro, come ha osservato Elizabeth Cowling7, sarebbe stato visibile solo per pochi minuti all’inizio di ogni spettacolo durante l’esecuzione dell’ouverture di Satie. Picasso, insomma, sentiva di aver bisogno di Arlecchino benché nulla nel balletto in sé giustificasse l’immagine di questo personaggio al centro del sipario, se non la volontà di segnalare agli spettatori che la rappresentazione alla quale stavano per assistere si iscriveva nella tradizione della commedia dell’arte. Quando nel 1915 il giovane Cocteau si presentò alla porta di Picasso travestito da Arlecchino, in ogni caso, il progetto del balletto non era stato ancora nep-



Opere


Pablo Picasso 1 L’italiana Roma, aprile-maggio 1917 Olio su tela, 149 101,5 cm Z. III 18 Zurigo, Fondazione Collezione E.G. Bührle

L’italiana, che Picasso dipinse nella primavera del 1917 a Roma, dove soggiornò per due mesi durante i quali lavorò intensamente con Diaghilev e la compagnia dei Balletti Russi alle scene e ai costumi di Parade, presenta un accorgimento formale che negli anni cubisti aveva fatto solo una timida comparsa ma che qui appare in tutta la sua potenza: il volto della figura è visto simultaneamente di fronte e di profilo1. Questo elemento sarebbe diventato un ingrediente fondamentale dell’arte di Picasso soprattutto negli anni Venti, quando l’artista diventò più abile e veloce nel trasformare il contorno del profilo nell’asse simmetrico del viso, ma qui il dualismo è accentuato dalla piattezza dei piani di colore attraverso cui la figura è costruita. L’intero quadro sottolinea in effetti l’estetica cubista del montaggio, dando l’impressione che l’immagine derivi dalla sovrapposizione di frammenti indipendenti e discontinui ritagliati da fogli di carta colorati. Questa amplificazione, o stilizzazione dell’idioma di ciò che gli storici chiamano cubismo sintetico, ha un intento parodistico, come se Picasso si stesse prendendo gioco del proprio stile – o meglio di ciò che ne fecero seguaci quali Fortunato Depero, che l’artista aveva appena conosciuto a Roma2. Che lo spirito di Picasso fosse parodistico è confermato dal fatto che lo

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spunto del dipinto gli fu offerto da una modesta cartolina cromolitografica per turisti in cui era raffigurata una contadina italiana con cesto, collana, orecchini e una strana cuffia, e che lo schizzo preparatorio finale era un pastiche a imitazione del pointillismo di Seurat3. La confluenza di cultura alta e bassa in quest’opera (la cartolina come fonte, la piattezza tipica dei poster, la cupola di San Pietro stilizzata come in un dépliant di viaggi) è stata sottolineata da diversi critici e trova effettivamente riscontro nell’interesse per la commedia dell’arte che Picasso coltivò durante il soggiorno romano. Nondimeno le orbite vuote e le ombre scure della figura ritratta, come pure la marcata artificiosità del suo aspetto derivante da elementi enfaticamente disparati, potrebbero simboleggiare qualcosa di più tetro: forse un richiamo silenzioso al fatto che, mentre Picasso lavorava intensamente a Roma e ne visitava gli antichi monumenti, l’Europa era dilaniata da una guerra i cui orrori inusitati avrebbero potuto portare alla fine della civiltà. YAB 1 Come osserva Leo Steinberg, Alfred Barr evidenziò questo accorgimento in un’opera datata al 1912 (L’arlesiana, Z. II* 356, Daix 497), ma vista la sterminata produzione di Picasso è assurdamente rischioso parlare di un dato elemento come se apparisse per la prima volta nel suo corpus di

opere. Più rilevante è il fatto, brillantemente dimostrato da Steinberg, che nonostante tutti i cliché sulla simultaneità dei punti di vista del cubismo, quest’ultima sarebbe diventata una caratteristica dominante dell’arte di Picasso solo dagli anni Venti. Vedi Steinberg 1972, pp. 192 e sgg. 2 La somiglianza tra L’italiana e l’opera di Depero (ma anche quella di Gino Severini o Juan Gris) è stata sottolineata da Elizabeth Cowling (Cowling 2002, p. 311). Sull’incontro tra Picasso e Depero, vedi Richardson 2007, pp. 11-16. 3 Per la cartolina, vedi Cowling 2002, p. 309. Essa ispirò a Picasso molti disegni e acquerelli (Z. III, 14-15; XXIX, 218-220, 226, 228-30, 242). Lo schizzo pointillista corrisponde a Z. XXIX 224. Sul pastiche di Picasso a imitazione del metodo di Seurat nel 1917, vedi Krauss 1998, capitolo 3, in part. pp. 204 e sgg.


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Pablo Picasso 2 Arlecchino (Léonide Massine?) Barcellona, autunno 1917 Olio su tela, 116 90 cm Z. III 28 Barcellona, Museu Picasso

Benché Picasso avesse cominciato a eseguire ritratti neoclassici dei suoi amici nel 1915 (il celebre Ritratto di Max Jacob segnò l’esordio di una lunga serie), questo Arlecchino rappresenta la prima importante affermazione di un suo ritorno alla tradizione pittorica occidentale parallelamente all’interesse per il cubismo. L’artista teneva quest’opera in grande considerazione, o quanto meno era ben consapevole della sua attrattiva popolare poiché dopo meno di due anni dal suo completamento la donò alla città di Barcellona. Come è stato osservato da diversi commentatori, in questo Arlecchino che eseguì poco dopo aver lasciato Roma per recarsi a Barcellona (insieme alla futura moglie, la ballerina Olga Koklova, e alla compagnia dei Balletti Russi), Picasso rende omaggio al noucentismo, movimento modernista provinciale a cui aveva aderito negli anni di gioventù ma i cui protagonisti sembravano ormai far parte del passato (Elizabeth Cowling nota come i pallidi e sottili strati di colore ricordino chiaramente le opere realizzate all’epoca dal vecchio amico Joaquim Sunyer)1. Come sottolinea la studiosa, tuttavia, è soprattutto all’antica tradizione del ritratto formale di tre quarti, nato nel Rinascimento e privilegiato da manieristi quali Pontormo e Bronzino, che questa tela si rifà in

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maniera più evidente (e a questa affiliazione se ne potrebbe aggiungere un’altra, a sua volta derivante dalla tradizione rinascimentale: quella del ritratto romantico). Lo sguardo malinconico dell’attraente giovane, il costume sfarzoso, la pacatezza del contegno, l’ambientazione sobria eppure teatrale sono tutti elementi che riflettono un’ascendenza tanto onorata. Nulla potrebbe essere più lontano dallo scontro di culture proclamato nel dipinto cubista L’italiana (cat. 1), eseguito solo qualche settimana prima, o dallo spirito dei tanti esuberanti Arlecchini febbrilmente disegnati da Picasso a Roma per celebrare il suo incontro con la Commedia dell’arte. Il protagonista di questa tela, insomma, non ha niente del comico briccone che Arlecchino incarna. Questo dipinto è stato considerato per lungo tempo un ritratto di Léonide Massine, il giovane coreografo e danzatore con cui Picasso aveva fatto amicizia mentre lavorava al balletto Parade e al quale aveva dedicato un piccolo disegno di Arlecchino (Z. III 26). La spiegazione sarebbe avvincente ma oggi la maggior parte degli specialisti ha finalmente ammesso che i lineamenti dell’uomo rappresentato non hanno nulla in comune con quelli del danzatore (più volte ritratto da Picasso) ed è concorde nel riconoscere che non fu

Massine il modello. Palau i Fabre, a cui Picasso lo confermò, ritiene che l’opera sia un “autoritratto trasposto”, ipotesi che quanto meno risulta coerente con la ben nota identificazione tra l’artista e la maschera della Commedia dell’arte che avrebbe accompagnato Picasso per tutta la vita2. YAB 1

Su questo collegamento, vedi Cowling 2002, p. 274. Sul noucentismo in generale, vedi McCully 1978. 2 Vedi Palau 1999, p. 71.


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Pablo Picasso 3 Composizione/Bicchiere Montrouge, 1918 Olio e inchiostro di china su tela, 33 24 cm (Non in Zervos) Succession Picasso, inv. 12189 Collezione Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso para el Arte Durante la prima guerra mondiale, nello studio di Montrouge, Picasso dipinse un numero cospicuo di tele in cui approfondì diversi aspetti del suo metodo cubista. All’inizio del 1918 si concentrò in particolare sulla sperimentazione di materiali diversi in una serie di nature morte, tra cui questa Composizione. Qui, i piani e le forme sono differenziati tramite tessiture e strati pittorici, motivi e sottili variazioni cromatiche. La trasparenza del bicchiere al centro dell’immagine è resa tramite una forma circolare che rivela il colore smorzato del fondo; il bianco e il nero sui lati descrivono la luce e l’ombra. Il bicchiere sembra posato sulla superficie (marroncina) di un tavolo, raffigurato dentro la cornice interna. Quest’ultima è ottenuta tramite marcate pennellate a olio intorno al margine più ampio, mentre la cornice che contorna la natura morta è realizzata con linee doppie a inchiostro di china. Nella correlata Composizione con bicchiere (Z. III 120) il pittore ha usato la carta vetrata per definire la cornice interna, il bordo sinistro del bicchiere posto al centro e anche la pipa dietro a quest’ultimo. In un’altra versione, Bicchiere e pipa (Palau 1999, n. 211) la carta vetrata è utilizzata per lo sfondo e circondata da una cornice interna dipinta in marrone. In un’altra opera della serie, Pacchetto di tabacco e pipa (Z. III 121) compare la

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medesima pipa e lo sfondo evoca la luce che filtra da un avvolgibile dietro al piano del tavolo; assicelle simili compaiono anche in Composizione/ Bicchiere e, come ombre, in Bicchiere e pipa. La tela compare in una fotografia di Olga che legge, appesa a una parete della casa di rue La Boétie (vedi Anne Baldassari, Picasso and Photography, Houston, Museum of Fine Arts, 1997, p. 166). MM


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Pablo Picasso 4 Tavola, chitarra e bottiglia 1918-1919 Olio su tela, 127 74,93 cm Z. III 437 Northampton, Smith College Museum of Art Acquisito grazie al Sarah J. Mather Fund Nonostante l’accentuata astrazione e la beffarda ambiguità dell’organizzazione spaziale che ha pochi equivalenti nell’opera di Picasso, Tavola, chitarra e bottiglia può essere interpretato come una rappresentazione condensata eppure fedele dello studio dell’artista. Il bordo eseguito in maniera approssimativa che circonda i quattro lati della tela non è una cornice dipinta come si potrebbe supporre a prima vista, ma rappresenta la parete e il pavimento. Di fronte alla parete, sollevata appena sopra al pavimento, una grande tela collocata nella stessa posizione in cui spesso Picasso metteva i nuovi quadri prima di fotografarli si offre allo sguardo dell’osservatore/artista. Per due terzi dell’altezza questo “dipinto nel dipinto” raffigura una chitarra poggiata orizzontalmente su un guéridon con una bottiglia sulla sinistra. Osservando più da vicino quest’area focale, tuttavia, ci si rende conto che a ridosso della parete non vediamo soltanto una, bensì diverse tele di vario formato addossate l’una all’altra come tante carte da gioco (il profilo della gamba del tavolo verso la parte inferiore della tela, per esempio, è ripetuto due volte su ciascun lato come se ci fossero almeno due dipinti di guéridon posti uno di fronte all’altro). Numerose fotografie giunte fino a noi mostrano che Picasso aveva l’abitudine di

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tenere le tele ammucchiate contro le pareti dello studio o appoggiate a cornici vuote (di cui era sempre molto ben fornito) e spesso esponeva più di un quadro sullo stesso cavalletto, come si può osservare in diversi disegni raffiguranti l’atelier di rue La Boétie. Il fatto che in questo periodo producesse le sue nature morte in serie implicava che in uno qualsiasi dei mucchi potessero sovrapporsi immagini con la stessa iconografia, in una moltiplicazione di richiami visivi che rende impossibile definire quanti siano gli strati visibili in Tavolo, chitarra e bottiglia. Il dipinto può anche essere interpretato come una riflessione sulla pratica di Picasso durante il periodo del cubismo “sintetico”, dal momento che in ogni data area tende ad alternare zone piatte come un muro e parti aggettanti simili a un rilievo cubista, mentre gli effetti di stratificazione e sovrapposizione evocano la tecnica del collage. Le zone a bande evocano ora la carta da stampa ora il cartone ondulato e la presenza verso il centro della composizione di quelle che sembrano forme ritagliate accentua l’impressione di piani collegati che emergono o ricadono all’indietro come in un libro pop-up. Questo oscillare di illusioni ottiche è ulteriormente complicato dalle proprietà intrinseche dei colori e delle tonalità utilizzati da Picasso, che hanno l’effetto di far recedere o proiettare in

avanti le forme sulla superficie pittorica. Evocazione dell’atelier e meditazione sull’arte, Tavolo, chitarra e bottiglia può essere definito una sorta di bilancio tracciato da Picasso in un momento critico della sua vita professionale e privata. Anche la collocazione della firma contribuisce a ribadire questo punto: anziché essere nascosta in uno degli angoli come vuole la convenzione, è apposta sulla parete dello studio perché è in questo luogo che l’artista riflette sulla propria opera. EC (Tratto da Cowling 2002)


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Pablo Picasso 5 Schizzi da una finestra Saint-Raphaël, estate 1919 Penna e inchiostro su carta color avana, 31,2 49,1 cm Z. III 387 Ann Arbor, The University of Michigan Museum of Art Acquisto museo, 1948/1.284 Picasso amava lavorare su serie di opere. E anche quando non lo faceva la sua capacità di concentrarsi su un determinato tema era straordinariamente alta, come testimoniano la vasta quantità di schizzi preparatori per Les Demoiselles d’Avignon (con cui riempì non meno di 16 album) e i numerosi ripensamenti, disegnati o dipinti, che seguirono il completamente della grande tela del 1907. Non che all’artista non capitasse di annotare rapidamente un’idea e poi abbandonarla con la stessa velocità se non la trovava soddisfacente, oppure di accantonarla temporaneamente se in quel dato momento distoglieva troppo la sua attenzione. Quando un progetto lo entusiasmava, tuttavia, gli piaceva affrontarlo da tutte le angolazioni possibili e prima di passare ad altro voleva essere certo di averne esplorato ogni aspetto. L’ampio corpus di disegni, acquerelli e dipinti (comprese due piccole costruzioni in cartone) sul tema “Natura morta di fronte a una finestra aperta a Saint-Raphaël”, al quale si dedicò dall’estate del 1919 all’inizio del 1920, resta tuttavia uno dei più ricchi nella sua produzione dal 1907 e fino al gruppo di opere eseguite in preparazione o derivanti da Guernica nel 1937. Stremato dai due intensi mesi trascorsi a Londra per lavorare alle scene e ai costumi di Tricorne, il secondo balletto per cui Sergej Diaghilev aveva

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richiesto la sua collaborazione (lo spettacolo, con musiche di Manuel de Falla e coreografie di Léonide Massine, fu presentato il 22 luglio 1919), a metà agosto Picasso partì per SaintRaphaël, una piccola località balneare sulla Costa Azzurra. A Londra aveva preso accordi con Paul Rosenberg, suo agente dal 1918, per l’allestimento di una mostra – la sua prima grande personale a Parigi dopo decenni – che si sarebbe tenuta tra l’ottobre e il novembre del 1919. Vista la stanchezza di Picasso e il poco tempo a disposizione per lavorare a nuove tele (due mesi scarsi), Rosenberg aveva proposto di esporre soltanto 167 opere su carta. Dato che nel catalogo della mostra i lavori sono elencati collettivamente per soggetto, non è possibile determinare quali furono inclusi. Sappiamo tuttavia che in esposizione figuravano venticinque Finestre aperte a SaintRaphaël (elencate con i nn. 47-71 nel catalogo del 1919) e che, a giudicare dal disegno eseguito per il cartoncino di invito, Picasso attribuiva particolare valore alla serie (la copia presentata qui [cat. n. 12] fu colorata ad acquerello e data a Massine). Possiamo inoltre affermare con una certa sicurezza che la splendida ed enigmatica gouache conservata al Museum Berggruen di Berlino (Z. III 396) era tra le opere esposte, visto che più o

meno in quel periodo Rosenberg ne volle realizzare una riproduzione con la tecnica del pochoir (Riproduzione a stencil di cat. n. 10). Il pochoir di un’altra versione più piccola e decisamente più geometrica della stessa composizione (cat. n. 11), eseguita mentre la mostra era in corso (ubicazione ignota, Z. III 417), fu probabilmente realizzato nella stessa circostanza poiché faceva parte di un album che Rosenberg intendeva pubblicare1. Come ha osservato Brigitte Léal nell’eccellente saggio dedicato a questo ampio gruppo di opere eseguite con le tecniche più varie, “è un compito molto delicato ricostruire la cronologia di una serie di variazioni, giacché Picasso non lavorava per tappe lineari e successive ma girava intorno a un soggetto sperimentandone diverse versioni”2. Non meno difficile è stabilire esattamente l’inizio di una serie (Léal nota che il motivo di una natura morta cubista su un tavolo di fronte a una finestra era già apparso tra gli schizzi per le scene di Tricorne) e la sua effettiva fine – soprattutto quando, come in questo caso, non esiste neppure una versione privilegiata per dimensioni visto che tutte le opere note della serie sono relativamente piccole (curiosamente, il pochoir realizzato a partire dalla gouache del Berggruen è più grande dell’originale). Picasso affermò diverse volte “che

in una sequenza di dipinti era spesso la prima o la penultima versione a sembrargli più riuscita; quella finale era quasi sempre troppo rifinita”3. L’artista decise forse di lasciare la serie aperta senza concluderla in maniera grandiosa in modo da sottolinearne il carattere sperimentale? Gli undici piccoli schizzi a penna e inchiostro raggruppati su un unico foglio di carta (cat. n. 5) rappresentano varie vedute di e dalla stanza d’albergo che Picasso e la moglie Olga occuparono durante il soggiorno a Saint-Raphaël, come se l’artista volesse studiare attentamente i dintorni prima di mettersi a dipingere. Uno di essi mostra chiaramente il balcone in ferro battuto che dava sul mare, la cui ombra lunga sarebbe stata una presenza incombente nella gouache del Berggruen. Tuttavia la maggior parte degli elementi disegnati rapidamente su questo foglio – ad eccezione della portafinestra con tutti gli annessi e connessi (tende, persiane, porta, balcone, vista sul mare) – sarebbe stata eliminata dalla serie. Ogni cosa, compreso il tavolo, era quindi immaginaria. La semplice ambientazione architettonica costituiva la scena relativamente fissa sulla quale Picasso avrebbe lasciato che motivi variati all’infinito interpretassero una sorta di commedia, come fossero attori impegnati in una suite di tableaux vivants eseguiti in

rapida successione. La connotazione teatrale della serie, sottolineata da diversi critici, risulta particolarmente accentuata in un gruppo di disegni quali cat.n. 9 che portarono (o ne erano il risultato?) a una piccola costruzione in cartone dello stesso motivo, simile a un modellino per la scena di un teatro di marionette (M.P. 258; Spies 61.B). Il più sorprendente di tutti gli elementi che sotto sembianze diverse continuano ad apparire nell’intera serie è la natura morta cubista che troneggia sul tavolo. Picasso eseguì parecchi studi della chitarra, molti dei quali estremamente precisi ed elaborati, talvolta accostandoli a soggetti non correlati – per esempio mani – disegnati in uno stile classico (come in cat. n. 9). Ciò che colpisce in queste opere è il fatto che la natura morta sia concepita come una rappresentazione realistica di una scultura cubista, come se si trattasse di un bozzetto di scena da consegnare a uno scenografo. In effetti Picasso realizzò una piccola costruzione della natura morta su cartone e tela (M.P. 257; Spies 61.D), ma ancora una volta è impossibile stabilire se la scultura fu fatta dopo i disegni o se disegni e acquerelli come Chitarra e guéridon (cat. nn. 7, 8, oltre a molti altri) raffigurano un oggetto già esistente. Proponendo una rappresentazione realistica di una costruzione cubista


in un’ambientazione teatrale in cui questi diversi stili possono essere contrapposti, la serie di Saint-Raphaël possiede una qualità stranamente onirica. Per molti aspetti il cielo illusionistico della gouache del Berggruen preannuncia l’emergere del surrealismo di lì a cinque anni. YAB

1 Su questi pochoirs, vedi Léal 1992, pp. 33 e 37, nota 20. 2 Ibidem, p. 37, nota 21. 3 Come riportato da John Richardson in un colloquio con Susan Grace Galassi (Galassi 1996, p. 146). Da qualche parte, non ricordo esattamente dove, ho letto una testimonianza simile di almeno un altro conoscente di Picasso.

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Pablo Picasso 6 Studio per mani e chitarra Saint-RaphaĂŤl o Parigi, 1919 Matita su carta, 21 27,5 cm (Non in Zervos) Succession Picasso inv. 2519 Collezione privata Vedi scheda n. 5

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Pablo Picasso 7 Chitarra e guĂŠridon (recto); Mani (verso) Saint-RaphaĂŤl o Parigi, 1919 Matita su carta, 12 17,5 cm (Non in Zervos) Succession Picasso inv. 2525 Collezione privata Vedi scheda n. 5

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Pablo Picasso 8 Chitarra e guĂŠridon Saint-RaphaĂŤl o Parigi, 1919 Matita e acquerello su carta, 15 10,5 cm (Non in Zervos) Succession Picasso inv. 2539 Collezione privata Vedi scheda n. 5

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Pablo Picasso 9 Studi di mani e chitarra su un tavolo di fronte a una finestra aperta Parigi, autunno 1919 Punta di piombo e gessetto, 24 34 cm Z. XXIX 443 MP 860 Parigi, MusĂŠe Picasso Vedi scheda n. 5

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Pablo Picasso 10 Riproduzione a stencil [pochoir] di Natura morta di fronte a una finestra aperta a Saint-RaphaĂŤl 1919, Museum Berggruen, Berlino, s.d. (1919-1920?) Gouache su carta, 64,5 50 cm MP 3519 Parigi, MusĂŠe Picasso Vedi scheda n. 5

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Pablo Picasso 11 Riproduzione a stencil [pochoir] di Natura morta con fruttiera, spartito musicale, bottiglia e chitarra di fronte a una finestra aperta a Saint-RaphaĂŤl 1919, proprietario sconosciuto, Z. III 417, s.d. (1919-1920?) Gouache su carta, 30,1 24,9 cm MP 3505 Parigi, MusĂŠe Picasso Vedi scheda n. 5

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scontornata

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Pablo Picasso 12 Cartoncino di invito per la mostra di Picasso alle Galeries Paul Rosenberg Parigi, ottobre 1919 Litografia e acquerello su cartone, 13,2 8,4 cm Dedicato sul recto: Pour LĂŠonide Massine/Paris/16 Octobre 1919 Versione simile in Zervos: Z. VI 1371 Collezione privata Vedi scheda n. 5

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Pablo Picasso 13 Donna che legge (Juan-les-Pins? Estate?) 1920 Olio su tela, 166 102 cm Z. IV 180 Parigi, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne,

È stato osservato da più parti come la mano simile a un mollusco di questa massiccia lettrice, con le dita aperte che sfiorano il mento e l’indice quasi indipendente, sia una citazione del Ritratto di Madame Moitessier seduta di Ingres (Londra, The National Gallery) nonché dell’antico modello utilizzato dal pittore, un imponente Eracle presumibilmente rappresentato nel momento in cui riconosce il figlio Telefo in un affresco romano proveniente da Ercolano che Picasso aveva visto a Napoli nel 19171. La tela fu preparata da un disegno datato 31 luglio 1920 (ora a Parigi, Musée Picasso; Z. XXX 92; M.P. 928), in cui la modella (sua moglie Olga) è ritratta nella stessa posa (immersa nella lettura di una missiva), con gli stessi abiti (inclusa la pantofola spaiata) e sulla stessa poltrona. Le differenze principali riguardano le proporzioni e i lineamenti del viso. Mentre nel disegno le dimensioni della figura sono realistiche (semmai solo la vita sembra leggermente sottile), nel dipinto la testa e i capelli occupano quasi lo stesso spazio del torso e il corpo è schiacciato nella poltrona che ora appare minuscola, come fosse per bambini. Il naso si è dilatato e, come quello di tanti busti romani, è in linea con la fronte. In breve, Picasso ha trasposto un soggetto inizialmente reso nel suo consueto stile lineare (neoclassico) nel

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linguaggio eroico dell’arte antica, sottolineando l’artificiosità della strategia formale attraverso la natura prosaica dell’attività dell’imponente lettrice. È inoltre possibile che questa trasposizione ne seguisse un’altra di tipo diverso: dieci giorni prima dello schizzo del 31 luglio, infatti, Picasso aveva realizzato una Donna in poltrona in stile cubista (Z. IV 127) di cui neppure una settimana dopo disegnò la versione neoclassica (ancora una volta con Olga in poltrona). Donna che legge sembra essere la prima di una lunga successione di tele con figure scultoree maschili e femminili di discendenza greco-romana. Picasso avrebbe portato avanti la serie fino al 1924, anche se dopo la realizzazione del Flauto di Pan del 1923 (Parigi, Musée Picasso; Z. IV 141), che ne rappresenta il punto culminante, ridusse progressivamente il numero di esemplari prodotti. Poiché amava soffermarsi su ogni nuova idea come a testarne la validità, l’artista dipinse un’altra versione di Donna che legge in cui Olga è ritratta esattamente nella stessa posa e con gli stessi attributi, solo a mezza figura (Musée de Grenoble; Z. IV 183). YAB 1

Vedi per esempio Cowling 2002, pp. 410-411 e Richardson 2007, p. 163.

Centre de création industrielle Ex collezione del barone Kojiro Matsukata destinata nel 1959 al Musée national d’art moderne in applicazione al trattato di pace con il Giappone 1952, inv. AM 3613 P


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