Skan Magazine n.20

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Anno 2

N u me r o 2 0

A p r il e 2 0 1 4

La rivista multicanale di narrativa fantastica liofilizzata istantanea

Bright Side

S ka n

AMAZING MAGAZINE

Francesco Falconi Alessandro Manzetti 300: Dalla Grecia con furore

S o li Chi semina vento... T er r i c c i o Ossessione A oriente N ASF ­ L e T re L une 8

GA T

Macelleria n.6

Purgatorio Destarsi dalla veglia L ' u ltim a

L a c ad u t a d i A r t Ăš Ossa della Terra Lo spazio deserto I figli della Luna La progenie L a c ad u t a Notte Eterna La spada di Shannara Muses Malanima WAR 2 Epidemia Zombie #2 La porta dei cieli William Killed the Radio Star

Monolith

di Diego Capani


N o n pe r d e t e i l n u m er o d i M a ggi o 2 01 4 S c a va r e , s c a va r e , s c a va r e . . .


Sommario Hanno collaborato

Jackie de Ripper e

Max Gobbo Roberto Bommarito Cattivotenente Alessandro Forlani Luigi Bonaro Polly Russell Marco Signorelli Francesco Fabrocile Matteo Ciccone Miksi Andrea Atzori Massimo Luciani Riccardo Sartori Diego Capani

del

L'editoriale ............................. 5 di Jackie de Ripper OLTREMONDO Incontra Francesco Falconi, il re dell'Urban Fantasy di Max Gobbo .............. 6 Alessandro Manzetti e la nuova frontiera dell'editoria di Max Gobbo .............. 12 Kinetografo Dalla Grecia con furore di Max Gobbo .............. 18 Novità A.Manzetti, "Malanima"17 Novità da Mezzotints .................. 20 Multiplayer.it ............. 21 Dunwich Edizioni ...... 22 La Mela Avvelenata ...24 Una voce da Malta "Soli" ...................................26 di Roberto Bommarito The Special One "Chi semina vento..." ...... 28 di Cattivotenente Il Grande Avvilente "Terriccio" .......................... 33 di Alessandro Forlani Poscritti di futuro ordinario "Ossessione" ...................... 38 di Luigi Bonaro ... e alla fine arriva Polly "A oriente" ......................... 40 di Polly Russell

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Bright Side Oltre lo Skannatoio Le Tre Lune 8 "GAT" ................................. 42 di Marco Signorelli Macelleria n.6 "Purgatorio" ...................... 44 di Francesco Fabrocile "Destarsi dalla veglia" .... 51 di Matteo Ciccone "L'ultima" .......................... 57 di Miksi Nella pancia del Drago J.R.R. Tolkien, "La caduta di Artù" di Andrea Atzori .......... 60 I libri da rileggere M.Swanwick, "Ossa della Terra".62 M.J.Harrison,"Lo spazio deserto"64 J.Williamson, "I figli della Luna"66 G. del Toro, "La progenie" ........... 68 G. del Toro, "La caduta" .............. 70 G. del Toro, "Notte Eterna" ......... 72 di Massimo Luciani Il venditore di pensieri usati T. Brooks, "La spada di Shannara" di Riccardo Sartori ...... 74 Vale più di mille parole "Monolith" ......................... 76 "The Bard's Tale" .............. 77 di Diego Capani DARK SIDE ........................... 78


Sommario

del

Hanno collaborato

Arianna Koerner TETRACTYS

Il Lato Oscuro "Viola di carta canta e vola" di Arianna Koerner .......78

Miksi

Concorsi "Morte a 666 giri" ............. 80

(Leonardo Boselli)

Skannatoio edizione XXVIII Chi ben comincia... Le specifiche ..................... 81 "Vis et Honor" "Topi di fogna" di TETRACTYS ............. 82 "Il dominio di Weiss" "Lacrime per Akratas" di Miksi ......................... 85 Risultati e classifiche Skannatoio 5 e mezzo ...... 86

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Dark Side


S ka n AMAZING MAGAZINE

Chi ben comincia... è a metà dell'opera. Questa massima si può applicare benissimo alla narrativa: dall'inizio spesso si capisce se vale la pena di continuare a leggere un racconto oppure no. Certo, non è detto che un principio stentato non possa celare un racconto da non perdere, ma è dovere dell'autore non scoraggiare il lettore, già così poco invogliato a impegnare tempo in un'attività che non valga veramente la pena di portare a termine, proponendogli fin dall'incipit qualcosa di intrigante che gli faccia girare pagina. Questo e altro ci spiega Marco Lomonaco (il Master dello Skannatoio) nell'articolo sulle specifiche dell'edizione XVIII di marzo. Infatti, la gara consisteva proprio nell'ideare due incipit all'altezza delle aspettative dei lettori: avvincenti, intriganti e con un cliffhanger che costringesse a girare pagina (pagina che, per inciso, non era stata ancora scritta). Nel " dark side" della rivista, è possibile leggere alcuni di questi incipit. Non bisogna temere, comunque: se lo Skannatoio non ha prodotto racconti finiti, la Macelleria n.6, invece, ne propone eccome. I lettori più affezionati hanno di che deliziarsi anche in questo numero. Gli altri contenuti presentano alcune novità, rubriche che giungono alla conclusione e autori che si alternano. La rubrica Oltremondo, curata da Max Gobbo, è particolarmente nutrita. Vengono proposte due interessanti interviste a Francesco Falconi, autore di Urban Fantasy, e Alessandro Manzetti, scrittore e amministratore delegato di Mezzotints, la nota casa editrice specializzata in ebooks. Oltremondo, poi, ha visto per voi "300: nascita di un impero", ed elenca le novità di ben quattro case editrici che operano nel genere fantastico.

In ambito narrativo, torna Roberto Bommarito, dopo la parentesi in cui si è proposto come intervistatore, con un suo corto fulminante. Inoltre, ci pregiamo di ospitare Cattivotenente, l'autore che sta dominando lo Skannatoio (proprio per questo non riusciamo mai a proporvi un suo racconto, visto che i vincitori saranno pubblicati in un ebook), con una sua spassosa storia tratta da un USAM di Edizioni XII. Gli altri autori ospiti sono: Luigi Bonaro, Alessandro Forlani e Polly Russell. Mentre, tra i concorsi extra-Skannatoio, è possibile leggere il vincitore de "Le Tre Lune 8" e ben tre racconti dell'edizione di marzo della "Macelleria n.6". Si torna alla saggistica con Andrea Atzori, la cui rubrica sul genere fantasy si sta, purtroppo, avviando alla conclusione. Massimo Luciani, recensisce ben sei, dico SEI, romanzi tra i quali la trilogia horror di Guillermo del Toro e Chuck Hogan. Riccardo Sartori, infine, ci parla di Terry Brooks e delle impressioni avute nella lettura de "La spada di Shannara". Dopo questa lunga carrellata di tanti contenuti, arriva il "dark side" che risulta un po' sguarnito, in effetti. Si apre, comunque, con un racconto di Arianna Koerner. Si parla, poi, del concorso letterario "Morte a 666 giri" e si conclude con quattro incipit del concorso dello Skannatoio di marzo. Il tutto è impreziosito da due meravigliose copertine di Diego Capani. Buona lettura! Jackie de Ripper

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Chi ben comincia...


S ka n

Oltremondo

Incontra

Benvenuto Francesco, è un vero piacere averti come ospite su queste pagine. Grazie a voi! È un pia­ cere rispondere alla vostra intervista. Ti va di parlarci un poco dei tuoi inizi co­ me narratore? Quando avevo 14 anni ero un ragazzo appas­ i quando in quando, l’universo sionato di fantastico, letterario e la galassia (tanto per me­ ma allora non c’era taforeggiare in termini astronomici) una produzione lette­ della narrativa di genere ci riservano raria e cinematografi­ della autentiche meraviglie, e ciò ca come quella non è poca cosa considerando il ma­ odierna. Dopo aver re di banalità prodotte e l’immensa letto “La Storia Infini­ schiera di epigoni impenitenti di ta” di M. Ende e visto quello o di quest’altro autore. il film, decisi di scri­ E così Francesco Falconi, colle sue vere un romanzo creature immaginifiche, desta mera­ fantastico che fosse viglia, e ci sorprende in un mondo totalmente mio. Così quello della fantasy, che oggi su un quadernone ini­ abbonda insopportabilmente di ste­ ziai a narrare la storia di un mondo reotipi. immaginario, Estasia, e di un regno Con la serie Muses uscita per in pericolo. Poi, durante il periodo in Mondadori, che rappresenta un vero cui frequentai il liceo scientifico e caso editoriale, lo scrittore grosseta­ l’università in ingegneria delle tele­ no (oggi vive e lavora a Roma), comunicazioni, abbandonai il qua­ impone all’attenzione della critica e dernone in un cassetto. Quando ini­ dei lettori un nuovo genere: l’Urban ziai a lavorare a Roma, durante il Fantasy. trasloco, ritrovai quel vecchio qua­ Per meglio capire cosa si cela dietro derno e decisi di riportare il ro­ questo successo editoriale, abbiamo manzo sul PC. Come per magia fui raggiunto l’autore di Muses per catapultato di nuovo nel mondo di sottoporgli alcune domande. Estasia, così lo riscrissi, lo comple­

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tai e infine, sotto consiglio di un amico, provai a presentarlo a qualche editore. La storia piacque ad Armando Curcio editore, che la pubblicò nel 2006. Da allora non ho più smesso di scrivere, e oggi ho dato alle stampe quattordici libri di vario genere: dai ragazzi, agli young e new adults, alla fantascienza, al gotico, ai racconti urban fantasy e weird, e persino la biografia di Ma­ donna. Cos’è l’Urban Fantasy e quali sono le


differenze maggiori col fanta­ sy tradizionale?

In Muses vi sono molti riferi­ menti a figure mitologiche della tradizione greca e classi­ Non amo moltissimo la classi­ ca in generale: potresti ficazione del genere fantasti­ parlarcene? co, anche perché si rischia di perdersi nelle sue varie decli­ Non mi ero prefissato un ro­ nazioni. In genere con il manzo che riportasse in auge fantasy si intende quello di la tradizione greca, in realtà. stampo anglosassone (tolke­ Il mio scopo – oltre quello di niano, per intendersi, con rendere tridimensionale la fi­ ambientazione immaginaria e gura della protagonista Alice di epoca medioevale), mentre – era quello di seguire ciò che l’urban fantasy si ambienta è il mio marchio di fabbrica: per l’appunto nelle metropoli la fusione fra arte e letteratura (immaginarie o esistenti), fantastica. Così, come sempre nell’età attuale, con un quando nasce una storia, mi collante maggiore alla realtà sono posto una domanda: do­ di oggi. Sono solo sfumature ve nasce l’ispirazione di un del fantastico, come dicevo. artista? La ricerca mi ha Alla fine ciò che conta è la sto­ condotto fino alla figura delle ria. muse della mitologia greca, e a quel punto mi sono posto un nuo­ vo quesito: cosa acca­ drebbe se le Muse esi­ stessero veramente e vivessero assieme a noi? Sarebbero di­ verse da come ci sono state narrate dai grandi poeti greci? Si sarebbero evolute e adattate ai tempi, in una sorta di darwini­ smo artistico? Questo è il “cuore fantastico” di Muses, per l’appunto. Nel se­ condo romanzo di Muses sono poi pas­ sato ad analizzare il “padre spirituale” delle Muse, il dio Apollo. Nella “duolo­ gia” ci sono molti rife­ rimenti alla letteratu­

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ra classica, ma la storia è totalmente attualizzata e inserita in un contesto mo­ derno. Alice, la protagonista è una giovane problematica, vero specchio d’una intera genera­ zione: uno stereotipo, o piuttosto come insegna Jung un archetipo? Senza dubbio Alice è più vici­ na all’orientamento junghia­ no, tanto che il ricorrente “angelo oscuro” deriva pro­ prio da ciò che dice Jung: “Dentro di noi abbiamo un'Ombra: un tipo molto


cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare.” Il riferimento sarà presente anche nel mio prossimo libro in uscita a fine Aprile, “Gray”, dove sarà declinato nel concetto di Anima Nera. Il personaggio di Alice non è stato programmato a tavolino, nasce da una mia esperienza di vita. Ero su un autobus a Roma, quando è salita una ra­ gazza dai capelli rasati, vestita di pelle, coperta di tatuaggi e piercing, proprio come la de­ scrivo nel libro. Si siede nell’unico posto vuoto, accanto a una signora di mezz’età. Quest’ultima la squadra dall’alto in basso, e con espressione schifata si alza borbottando: “brutta le­ sbica”. Da qui è nato il perso­ naggio tormentato di Alice, la difficile condizione familiare e il suo passato oscuro. Un mix tra l’eroe di Schiller e quello di Byron. Leggendo le tue opere, ad un occhio esperto, appaiono dei contenuti profondi, che vanno oltre la storia raccontata dalle parole: mi sbaglio? Il fantastico è solo un abito che veste una storia. Non mi prefiggo mai un particolare target di lettori, mi concentro su ciò che voglio narrare. Mu­ ses è stato inserito nella colla­ na Chrysalide di Mondadori, rivolta per lo più a young/new adults, ma il romanzo è stato apprezzato anche da un pubblico più adulto. Senza dubbio il mio obiettivo, e spe­

ro in parte di esserci riuscito, è quello di scrivere romanzi multistrato che possano esse­ re letti da persone di ogni età. Come una semplice storia fantastica o qualcosa di più complesso. Non salgo mai in cattedra, non ho l’arroganza di voler insegnare qualcosa. Osservo il mondo, lo riporto nei miei libri. Lascio aperta una porta al lettore, quella della riflessione. Tu hai compiuto un percorso di studi di tipo scientifico, e per professione abbisogni d’una notevole dose di razio­ nalità, mentre come autore fantasy necessiti di un’imma­ ginazione straordinaria: come convivono in te queste due istanze intellettuali? Sono sempre stato bipolare, fin da piccolo, diviso tra l’amore per le materie umani­ stiche e quelle scientifiche. La conseguenza più ovvia era quella di diventare un inge­ gnere e uno scrittore allo stes­ so tempo. Che il fantasy e la scienza sia­ no ambiti del tutto scissi non è assolutamente vero e la sto­ ria ce lo dimostra. Pensiamo a Jules Verne o a Leonardo Da Vinci. All’aspirazione dannata del Faust di Goethe. L’uomo, grazie all’immaginazione, si è spinto oltre i limiti del cono­ sciuto, trasformando l’impos­ sibile in reale, la magia in scienza. La fantasia è sempre stato il motore primario per raggiungere un più alto livello di conoscenza.

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I tuoi romanzi sono diretti (ma non solo) ad un pubblico di adolescenti: come riesci a compenetrarti, in quanto adulto, col loro mondo? Come ho accennato prima, non mi pongo mai un preciso target di lettori quando mi accingo a scrivere un ro­ manzo. Ritengo tuttavia che i ragazzi di oggi siano spesso sottovalutati, e che in realtà siano capaci di leggere e comprendere romanzi più complessi. Spesso mi capita di sentire ragazzi che già alle medie hanno letto l’intera opera tolkeniana senza diffi­


coltà. Proprio per questo ri­ tengo che i temi più complessi che sono presenti in Muses e in Gray possono essere compresi dai ragazzi. L’importante è fornire loro gli strumenti adatti e rendere semplice l’immedesimazione nel romanzo. Per questo mi concentro sul realismo dei miei personaggi: vivo anch’io nel mondo di oggi, sono a contatto con i giovani, perce­ pisco le loro problematiche e disagi. Non resta che osserva­ re e narrare, questo è il mio scopo. È vero, i tempi cambia­ no, ma alcuni bisogni primari ed emozioni rimangono immortali. La paura di rima­ nere soli, di non essere accettati e capiti, l’emargina­

zione, la crescita, la difficoltà nel comprendere i propri sentimenti, quali l’amicizia e l’amore. I tuoi personaggi, così come per il caso di Alice, ad un certo punto intraprendono un viaggio iniziatico, destinato a cambiarli per sempre: un’attualizzazione la tua, della struttura della narrazione dei grandi autori del passato? Da anni ormai mi sono staccato dai modelli letterari o filosofici che mi hanno formato, anche se restano ovviamente nel mio DNA di scrittore. Narro ciò che mi circonda, le persone che vedo, le difficoltà e le gioie che

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percepisco. Quando strutturo un libro non mi soffermo su archetipi o su strutture consolidate, lascio che la sto­ ria segua il suo corso. Poi, senza dubbio, questo comporta sempre uno schema che si ripete: un personaggio che affronta un dramma, il movimento, la caduta in un baratro, la ricerca di luce nell’oscurità. È nel dolore e nelle situazione estreme che si mette in evidenza la natura di un individuo. È in quel mo­ mento che compie il suo cammino, sbagliato o giusto che sia. Nei miei romanzi non c’è mai il bene o il male asso­ luto, mai il bianco o il nero. C’è il grigio. Gray, per l’appunto. Lascio, a tal riguardo, in lettura un pezzo di Gray che ho reso pubblico sul mio pro­ filo facebook. Credo che spie­ ghi proprio ciò che intendo. — Il bianco indica la luce della fine dell’esistenza. Rappresenta il game over. L’assenza di punti di riferi­ mento, il disorientamento. È sinonimo di paura, perché sul bianco si proiettano le ombre. Hai mai letto Cecità di Sara­ mago? Enrico accusa il colpo, si ri­ trae, ma non si dà per vinto. — Nero. Cambiamo i pannelli sul proscenio e mettiamoli tutti neri. — Il nero cosmico. Il Big Bang. La rinascita. Il buio della scienza che oscura la luce della fede religiosa. Il terrore dell’ignoto. La perdita


di confini. — Quindi va bene il nero? — Quindi va bene la perfezione. Cioè il grigio.

l’idea del mito?

È fondamentale per contrapposi­ zione, cioè per costruire e concre­ tizzare un antieroe che sia assimi­ labile a ciascuno di noi. Questo, Qual è il tuo libro preferito? del resto, è il cuore di Muses. Alice è una ragazza cresciuta nella peri­ Ce ne sono moltissimi, è difficile scegliere, sia nella letteratura clas­ feria di Roma, combatte contro la macchia oscura del suo passato, sica sia in quella contemporanea. vive emozioni dostoevskiane, si ri­ Sarebbe come per un padre sce­ bella al destino, diventa un mito e gliere tra i suoi figli. Ti dico La al contempo l’anti­mito stesso. Storia Infinita di M.Ende, perché da quel libro è nato il mio amore Quand’è che avverti l’ispirazione? per il fantastico. E cosa suscita la tua curiosità di narratore? Dovendo scegliere tra queste penne celebri? Dal mondo che mi circonda, da Tolkien esperienze che mi spingono a ri­ Stephenie Meyer flettere e che suscitano in me emo­ Howard zioni contrastanti. Dalle mie stesse J.K Rowling paure, emozioni, dai miei difetti e Semplice, non sceglierei la Meyer. limiti. Una domanda provocatoria: se­ condo te, è più fantasy Le Crona­ che di Narnia, o l’Orlando Furio­ so? Lo sono entrambi, ed entrambi con una forte matrice cristiana. Non voglio aprire una parentesi troppo lunga, purtroppo spesso gli adulti – e i docenti – ritengono i romanzi fantasy e fantastici fa­ centi partedi letteratura per bambini e di serie B, per poi ido­ latrare – giustamente – Calvino, Dante Alighieri, Ariosto o i contemporanei Murakami, King. Senza capire che tutti fanno parte, seppure in modo totalmente di­ verso di narrazione – dell’universo del fantastico. Quanto conta nella tua narrativa

Puoi darci qualche anticipazione dei tuoi progetti futuri?

A fine Aprile uscirà il mio quindi­ cesimo libro. Sarà un romanzo au­ toconclusivo dal titolo “Gray”. Stavolta sono partito dall’analisi di un altro tema che spesso ho affrontato in passato: la paura di invecchiare, di morire, di vedere ogni giorno sfiorire la propria bellezza. Nella ricerca del concetto di este­ tica sono quindi partito dal deca­ dentismo di Oscar Wilde, per attualizzare, re­inventare, tra­ sformare completamente il suo Dorian Gray in quella che è l’età contemporanea. Scevro delle sue censure, del suo totale pessimi­ smo, ho cercato la luce nell’Anima Nera, la ricerca di una risposta capace di sconfiggere un’ossessio­ ne. Ho lasciato che due personaggi totalmente diversi si scontrassero Cosa a tuo giudizio, rende una sto­ tra loro. Un Dorian Gray ria interessante? condannato all’eterna giovinezza, La sua onestà. Una storia per esse­ che si vendica sull’amore che non re convincete deve essere genuina, riesce a comprendere, vendendo il suo corpo e infliggendo il dolore. vera. L’autore deve sentire l’esi­ Il tormento di Layla, una ragazza genza indomabile di raccontarla. affetta da dismorfofobia, terro­ rizzata alla sola visione del suo Quale consiglio ti senti di dare ad corpo, capace però di vedere al di un autore esordiente che vuole là dell’apparenza. Sarà un ro­ occuparsi di fantasy? manzo con una lieve sfumatura fantastica, e una ricerca appro­ In primis, se un ragazzo vuole fondita nella psiche dei perso­ mettere su muscoli va in palestra. naggi. Se un ragazzo vuole diventare un autore deve leggere. La lettura è la Bene, non mi resta che ringraziarti palestra primaria per imparare a anche a nome dei nostri lettori e a scrivere. In secundis, non si deve presto. partire da un genere letterario perché si crede che vada di moda. Deve essere il genere – per l’appunto, la veste della storia – a scegliere l’autore.

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«Un libro appassionante, ricco di colpi di scena, che tiene incollati alle pagine e con una protagonista indimenticabile».

Licia Troisi TRAMA:

Quando scappa da Roma diretta a Londra, coperta di tatuaggi e piercing, Alice sente che la sua vita potrebbe cambiare per sempre. Ha appena scoperto di essere stata adottata, ma per lei questa notizia è quasi un sollievo. Cresciuta con un padre violento e una madre incapace di esprimere il proprio affetto, ora Alice deve scoprire le sue radici e l’eredità che le ha lasciato la sua vera famiglia. Decisa, risoluta, ribelle, è una violinista esperta ed è dotata di una voce straordinaria. Ed è proprio questa voce a guidarla verso la verità: le antiche nove Muse, le dee ispiratrici degli esseri umani, non si sono mai estinte. Camminano ancora tra noi. I loro poteri si sono evoluti. E Alice è una di loro. La più potente. La più indifesa. La più desiderata da chi vorrebbe sfruttarne gli sconfinati poteri per guidare gli uomini, forzarli se necessario, fino alle conseguenze più estreme. Ma un dono così può scatenare l’inferno. E sta per accadere.

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S ka n “Gooood morning ebooook! Ehi, non è una prova questa, questo è rock-n-roll!”

Se vi piacciono le novità, quelle scritte in maiuscolo, siete delle persone dalla mentalità aperta che hanno in odio gli schemi rigidi, le paludi dell’informazione stantia, il conservatorismo impenitente di canuti sapientoni legati ad ampollosi e vetusti modi di pensare: Mezzotints editore fa per voi. Se invece siete dei pasdaran della tradizione, dei nostalgici cartacei, dei topi di biblioteca amanti della polverosità di vecchi volumi consunti dal tempo, è giunto per voi il tempo di svecchiare certe consuetudini e guardare con occhio curioso a questo nuovo soggetto editoriale che fa dell’innovazione il suo vero as-

Oltremondo

Incontra

so nella manica. Tranquilli, nessuno vi sta dicendo di mettere come stampella del vecchio tavolo in salotto il romanzo cui tanto siete affezionati, né vi si vuol epigoni delle allegre combriccole sabbatiche che all’ombra dell’uncinata bandiera procuravano di dar alle fiamme gli odiati testi accusati di blasfemia dallo zio Adolf. Né si pretende che abbandoniate leggii, occhiali, e la possanza dei vostri bicipiti avvezzi a sollevare per ore tomi da un chilo e mezzo. Però è giunto il tempo di pensare ad una tecnologia amica della cultura, che si integri alla perfezione col mondo del libro tradizionale, senza pretese di esautorazione o di assurde defenestrazioni. Insomma non necessita trasformarsi in novelli Montag dall’accendino facile, se mai di aggiungere una modalità nuova e assai pratica di lettura. “Si parlerà mica di ebook? Risposta esatta! Il signore vince

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una bambola positronica”. “Ma dai! Chi vuoi che ignori l’esistenza di questi moderni ritrovati della tecnica editoriale?” “Certo che domanda sciocca: basta uscire in strada e chiedere in giro… Beh, forse non è poi un’idea così buona”. E allora che fare? Semplice, chieder lumi ad uno che se ne intende: Alessandro Manzetti, direttore generale e amministratore delegato di Mezzotints edizioni. Anzitutto benvenuto sulle nostre pagine. Però prima di proseguire sappi che questa è un’intervista semiseria. Allora Alessandro, perché Mezzotints? Il nome è un omaggio a Henry Miller, ai suoi “The Mezzotints”, fogli letterari distribuiti nei bar di Manhattan a metà degli anni ’20 dall’autore e dalla moglie, la celebre June che abbiamo sognato nel romanzo “Sexus”. Una scelta che


incarna lo spirito della nostra casa editrice: passione, originalità della proposta, massima interazione possibile con i lettori. Ti racconti in tre righe (non una lettera in più)? Le lettere sono letteralmente preziose. Sono un appassionato che si è trasformato da attento lettore in articolista, reviewer, editor, infine editore e autore per altre case editrici, non sto a raccontarvi tutti i passaggi di questa mutazione. Mi è spuntata roba strana dappertutto, qualcosa di davvero orrido. Hai presente il film “La Mosca” di Cronenberg? Mezzotints nasce come editore digitale: siete allergici alla carta? Siamo tutti molto legati alla carta, per passione e formazione, siamo allergici solo alla scarsa qualità che caratterizza, troppo spesso, la recente produzione editoriale italiana. Proporre un nuovo progetto sul mercato significa guardare avanti, verso il futuro, quindi verso il digitale. Si dice che il libro elettronico sia il futuro dell’editoria: credi che gli italiani leggeranno altrettanto poco anche in digitale?

Tutti i vantaggi e caratteristiche del digitale, fruibilità, portabilità, economicità, prospettive di condivisione dell’esperienza e di libro “esteso”, sempre più multimediale e interattivo, potranno avvicinare molti nuovi lettori e convincere anche tradizionalisti e nostalgici. La diffusione di tablet e dispositivi portatili “multiuso” rappresentano una grande opportunità, per editori e lettori. Ci vogliono nuove “energie” per risollevare questo mercato cronicamente malato. I grandi editori sembrano non aver compreso l’importanza e le possibilità degli Ebooks: prosopopea editoriale, ignavia cronica,

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o postumi da controriforma? Questo è un problema che riguarda gli editori italiani, in particolare, in altri paesi sono stati avviati diversi progetti digitali e anche i grandi editori hanno implementato strategie dedicate. Qui da noi, invece, si sta cercando di “frenare” l’innovazione. Molti editori, che la fanno da padrone da anni, temono di doversi riorganizzare, specializzare nuove risorse, riutilizzare asset e personale non qualificato, fare i conti con una concorrenza molto più veloce e competitiva. Il web è un campo di battaglia molto diverso dalla libreria tradizionale.


Dunque, meglio rimandare più possibile il cambiamento, applicando una politica di prezzi assurda e una comunicazione anti-digitale. Ci sarà una grande selezione, tra gli editori. Anche qualche major rischierà di restare con le gambe per aria. Il problema più importante è dover pensare in modo diverso, la cosa più difficile per chi ha sempre lavorato con una filosofia completamente diversa. Chi oggi “rimanda”e “boicotta”, per mettersi gli ultimi spiccioli in tasca, poi dovrà mettersi in coda dietro tanti altri operatori che, al contrario, avranno investito sul futuro. Quale delle seguenti frasi ti piace di più? - Gli ebooks produrranno una vera rivoluzione, ma senza spargimento di pagine - Gli ebooks limiteranno l’inquinamento, il buco dell’ozono, sono ecocompatibili, difendono i diritti dei pinguini, degli orsi polari e mandano in cassa integrazione l’eschimese che li caccia. - Gli ebooks sono moderni, cool, praticissimi, e fanno girare la testa alle ragazze (nel senso che guarderanno altrove). Preferisco la prima, mi piace molto il termine “rivoluzione”. Specie negli ultimi tempi.

In altre occasioni hai dichiarato che il vostro obiettivo è quello di diventare un vero punto di riferimento per l’editoria digitale: pura ambizione, narcisismo intellettuale o v’è dell’altro? Si tratta di un obiettivo realistico, al quale stiamo lavorando con investimenti mirati, organizzazione e risorse, ricerca e sviluppo, adottando un piano industriale pluriennale costruito per aggiungere singoli step. Alla fine, per quello che stiamo mettendo in campo, ci aspettiamo di competere per la leadership del mercato digitale europeo. La nuova struttura aziendale e societaria, che abbiamo recentemente presentato, è la migliore risposta alla tua domanda. Rispondi a questa domanda: sotto l’ebook niente? Sotto l’ebook c’è davvero molto, già oggi, e ci sarà ancora più da scoprire nel futuro. Siete noti per la cura maniacale d’ogni dettaglio, e per la ricerca della qualità più alta possibile: da quand’è che sei in analisi? Forse una buona analisi mi sarebbe utile, ora che stiamo portando avanti una se-

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conda start-up, molto impegnativa, sia a livello industriale che artistico. Se hai un buon indirizzo, mandamelo via email. La filosofia editoriale di Mezzotints non è esclusiva di una sola persona, tantomeno mia, ma di una grande squadra che porta in dote tante visioni, esperienze, specializzazioni, passione, cultura del lavoro. Come dico spesso allo staff, io ho solo ispirato l’incendio, accendendo una piccola fiamma. Tutto il resto è frutto del lavoro di squadra, di competenze al massimo livello. Questo si rispecchia nel singolo progetto editoriale, nella cura di ogni dettaglio, nel concetto di “qualità globale” che spesso nel digitale viene inteso come secondario, mentre è davvero strategico. Mezzotints ha una squadra davvero interessante, con molte competenze e grande preparazione: mica volete candidarvi alle prossime elezioni? Perché con questi requisiti non avreste speranza. Siamo orgogliosi di poter contare su un team editoriale senza precedenti, che presto crescerà ancora. Il nostro obiettivo principale è il mercato internazionale, quindi abbiamo bisogno di tante risorse specializzate da dedicare a progetti


estremamente ambiziosi. Ma “le cose difficili ci piacciono”, come ama ripetete spesso il nostro responsabile editoriale, Sergio Altieri. Insomma, abbiamo troppe competenze per scendere in campo nella politica, non saremmo compresi. Vai a parlare di cultura del lavoro in alcuni palazzi… Tra i vostri c’è anche un personaggio noto per la sua eccellenza professionale ed esperienza, ovvero Sergio Altieri: un po’ come comperare una barca e assoldare il capitano Nemo per comandarla. Sergio Altieri ha condiviso questo progetto fin dall’inizio, come si dice: “in tempi non sospetti”, quando era difficile prendere una decisione del genere. Ci ha visto lungo, come gli è capitato spesso nella sua lunga carriera editoriale e autoriale. Oggi Mezzotints, dopo una prima start-up per presentarsi al mercato, si è dotata di tutte le risorse necessarie per competere ai massimi livelli. Chapeau per Sergio, per il suo speciale telescopio che vede sempre oltre. Un visionario. Anche come illustratori non scherzate mica! Dimmi un po’, tanto per completare la pattuglia, avete già pensato di evocare lo spirito di Raffaello?

Per Raffaello serve un budget molto alto, vedremo, non escludiamo nulla al momento. La “pattuglia” di illustratori Mezzotints è uno dei nostri fiori all’occhiello, siamo stati i primi, in Italia, ad aprire collaborazioni con grandi maestri dell’artwork internazionale, come Les Edwards, Alan Clark, Menton3, Vincent Chong, Ben Baldwin. Siamo stati anche tra i primi a scoprire e investire sui migliori talenti italiani. Ma non ci fermiamo, sono in arrivo altri grandi artisti, la tavolozza dei colori Mezzotints sarà sempre più ricca. Forte il vostro catalogo: Dario Tonani, Stefano di Marino, e altri nomi importanti della narrativa di genere italiana. Siete consapevoli che di questo passo agiterete il sonno di qualche grosso editore cartaceo? Il sonno dei grandi editori italiani è disturbato da ben altre cose, come ti dicevo prima. L’uomo nero con la scritta Kindle sul petto, l’orco Kobo, mostri digitali che ingoiano, in qualche grammo di pancia, intere biblioteche. Esseri sconosciuti, spaventosi. Notti insonni. Siamo orgogliosi che facciano parte del nostro

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catalogo i grandi autori della narrativa di genere italiana. Anche loro, come noi, stanno guardando con attenzione al futuro. Oltre a Dario Tonani e Stefano Di Marino, lasciami citare anche altre firme storiche che ci hanno dato fiducia fin dall’inizio: Gianfranco Nerozzi, Danilo Arona, Alda Teodorani, Paolo Di Orazio, Mauro Marcialis, Alessandro Defilippi, Diana Lama, Claudia Salvatori e tanti altri. Ma il meglio ancora dobbiamo mostrarlo. Il nostro calendario editoriale prevede, per il 2014, altre 27 nuove uscite. Oltre ai tanti ottimi narratori italiani, scopriremo insieme anche molti maestri anglosassoni. Offrite libri di narrativa di genere, e perché non pure degenere? La narrativa di genere è il nostro focus principale. Anche questa è una precisa scelta, e non certo la più semplice. Proponiamo anche molti autori degeneri, questo è noto. Profili davvero inquietanti. L’autore che più vorresti pubblicare? Uno solo? Una scelta difficile, l’ennesima. Uno forse c’è, ed è in uscita tra qualche mese, pensa. Ti voglio dare una antepri-


ma, ma sottovoce. Non dirlo troppo in giro. Sta per partire una nuova collana, chiamata “Lampi”, dedicata ai grandi classici della narrativa internazionale. Il primo titolo sarà “Sotto le Piramidi” di un certo H.P. Lovecraft, tradotto nientedimeno che da Sergio Altieri. Una vera chicca per gli appassionati. Il solitario di Providence è senz’altro uno degli autori che ho sempre sognato di pubblicare. Quello che non vorresti mai pubblicare? Scegli pure un nome qualsiasi dalla attuale top ten delle vendite in Italia. Il tuo film preferito? Ne scelgo tre, i primi che mi vengono in mente: “Pulp Fiction” di Tarantino, “Fino alla fine del Mondo” di Wenders, “Il tè nel deserto” di Bertolucci. Così citiamo anche un italiano. Dimmi la verità: ma tu il Necronomicon lo pubblicheresti in formato digitale? Hey man, hai letto la risposta sopra? Oggi tira il vento di Providence… Se esistesse davvero, metterei sotto contratto, per dieci anni, l’amico Abdul Alhazred. Quali sono i progetti futuri di Mezzotints? (non vale la conquista del mondo)

I progetti sono tantissimi, restiamo nel breve e medio termine. Qualche anticipazione sul catalogo editoriale 2014: Dario Tonani con “WAR 2”, il secondo episodio della serie military SCI-FI inaugurata un anno fa, Danilo Arona con “Malapunta”, uno dei due romanzi più importanti dell’autore (l’altro è “L’estate di Montebuio”), pubblicato in cartaceo tempo fa, “Manticora” una trilogia thriller inedita, di grande impatto, della coppia Novelli & Zarini, “La stretta del Pitone” di Franco Forte, un romanzo thriller già pubblicato in cartaceo, “Annapurna” una novella inedita di una nuova, esplosiva coppia: Alan D. Altieri & Caleb Battiago, una nuova serie thriller, ambientata nella Milano degli anni ’70, di Paolo Grugni, la prima edizione italiana del celebre saggio “Stephen King – Uncollected-Unpublished” di Rocky Wood, poi altri episodi della serie “Obscura Legio” di Stefano di Marino, “Memorie e Peccati” di Elena e Michela Martignoni, “Terminal Shock” di Giovanni De Matteo. Mi fermo qui, altrimenti scopro troppe carte. Quelle più preziose, naturalmente, te le ho tenute nascoste. Questo solo per le edizioni in italiano. Per il mercato

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internazionale, tradurremo diverse opere di autori italiani in lingua inglese, nel secondo semestre 2014. Parliamo di firme come quelle di Sergio Altieri, Gianfranco Nerozzi, Alda Teodorani, Paolo di Orazio, Caleb Battiago, Samuel Marolla. Se non conquisteremo il mondo, come dici tu, stiamo comunque programmando un vero e proprio “arrembaggio” al mercato statunitense. Esportare, non importare. Sempre le cose difficili… Un messaggio non occulto per i nostri lettori? Non vi accontentate di leggere solo quello che vi viene propinato a tutti i costi, cercate bene. Un messaggio occulto? Stessi destinatari. The Burden of Indigo. Non mi resta che salutarti anche a nome dei nostri lettori, e come dicono in Svezia, Ass Vhale! Ti ringrazio per questo spazio dedicato a Mezzotints. Un eretico saluto a tutti i vostri lettori. Max Gobbo


S ka n Esce per Kipple Officina Libraria, nell'ambito della neonata etichetta k_noir, la raccolta di racconti "Malanima – Storie di lame e presenze” di Alessandro Manzetti, direttore editoriale della casa editrice Mezzotints Ebook. Dieci storie crudeli e disturbanti di sesso noir, di visioni mistiche che urlano e si materializzano nella coscienza con un senso di sovrannaturale e magico, piccoli demoni che aleggiano e stravolgono la vita dei personaggi dall’anima malata. “Se davvero esiste una nuova frontiera dell’horror, del weird, del grottesco, con “Malanima”, esplosiva opera prima antologica, Alessandro Manzetti salta con l’asta quella stessa frontiera scavalcando il suo collaudato ruolo di deus-exmachina dell’editoria digitale per rivelarsi a sua volta autore tout-court tra i più magistrali apparsi negli ultimi tempi. Malanima, diamante nero della narrativa del darkside, è già un classico.”

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La quarta Dieci storie crudeli, disturbanti, di sesso noir. Visioni mistiche urlano e si materializzano nella coscienza, una pagina dopo l'altra, scivolando via nelle paludi, con le orme provenienti dalla Tanzania, dove si manifestano i crudeli figli del vulcano, passando poi per Roma e Milano, inferni metropolitani dove alligna la morte. Una morte che s’identifica con rituali crudeli e psichicamente distorti di sesso estremo, deviato. La presenza fisica della Morte ha le fattezze del mare pontino, screziato dalla follia sanguinaria di un truce omicidio che sa di desiderio sessuale. Su tutto aleggia un senso di sovrannaturale e magico, piccoli demoni che stravolgono la vita di personaggi dall’anima malata. I mostri atavici di luoghi disabitati e malsani si materializzano, emergendo dal rapimento ipnotico di territori vergini, mentre i ricordi dell’infanzia riaffiorano con forza nella coscienza, facendo fermentare il delirio assassino, nel modo più tragico e forsennato possibile. Last but not least, la fulminante prefazione, mai così apocalittica e ispirata, è firmata dal maestro Sergio “Alan D.” Altieri.

Sergio "Alan D." Altieri

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L'Autore Alessandro Manzetti, amministratore delegato della casa editrice Mezzotints Ebook, è Associate Member della Horror Writers Association. Ha collaborato con case editrici, portali e varie testate, tra le quali Edizioni XII, La Tela Nera, H L'Almanacco di Horror Magazine. Scrive racconti di genere, pubblicati in varie antologie cartacee ed ebook.


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Kinetografo

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Sarajevo Dum-dum

Anno 2032, Novo Sarajevo. Le neve continua a cadere sui palazzoni martoriati di Dario Tonani dai colpi d’artiglieria. Gli Snajper si celaMezzotints eBooks no nel silenzio di condomini animati da intelligenze artificiali prive di umanità. Prosegue la saga dei militech di Dario Flipper e Radimìr, cadaveri rianimati dalla Tonani, iniziata con “W.A.R. – Weamilitech , aspettano le loro pons. Androids. Robots”. Cadaveri ria- tecnologia prossime vittime. Il piccolo Ljuba e sua nimati da una tecnologia sconosciuta si madre tornano a casa con la spesa tra le muovono attraverso diversi scenari di braccia, come topi in una città ostile dove guerra, camminando con la morte. Soldati ogni telecamera è l’occhio di una mente perfetti, mossi da un fine misterioso. Nesmalata. Poco lontano, Mirjan e Cvetko suna pietà per i vivi. Questa nuova pattugliano con il loro 4X4 le vie di Sararaccolta contiene due racconti inediti, alla ricerca di corpi da riportare alla ZombieDrone e Sarajevo Dum-dum. jevo, centrale. Perché ogni cadavere in meno Dalla Russia della seconda guerra nelle strade significa un militech in meno mondiale fino alla Sarajevo del futuro i dall’altra parte della barricata. Si aprono le militech restano una presenza fissa, danze, mentre la neve turbina furiosa sulla inquietante, che cavalca il tempo e la cocittà e l’intelligenza artificiale del biopascienza. lazzo di Flipper e Radimìr impazzisce.

ZombieDrone

Seconda guerra mondiale, campagne intorno a Demidov, nell’oblast di Smolensk, Russia europea. Un colpo della contraerea abbatte l’aereo del Major Rudolf Ziegler, pilota della Luftwaffe ma soprattutto militech infiltrato tra le file del terzo Reich . Il soldato scampa al disastro, ma la sua missione si trasforma in pura sopravvivenza. Solo, oltre le linee nemiche. Sulle sue tracce, il capitano Friederich Keller, un paracadutista della 7. Fliegerdivision , incaricato da una commissione segreta istituita dal Führer in persona di dare la caccia ai Totengänger, nome in codice dei militech o ZombieDrone. Grazie alla loro misteriosa tecnologia in grado di riportare in vita i morti, la Germania nazista potrebbe infatti conquistare il mondo. E così le loro strade lentamente convergono, tra la neve e il silenzio, verso una casa dove l’imprevisto li attende.

L’Autore

Ha pubblicato diversi romanzi e un centinaio di racconti in antologie, quotidiani nazionali e nelle principali testate di genere italiane (Urania, Giallo Mondadori, Segretissimo, Millemondi, Robot). Nell’aprile del 2007, su Urania, è uscito Infect@ . A marzo 2009, ancora per Urania, è stato pubblicato il suo L’algoritmo bianco , mini ciclo dell'Agoverso, composto da due romanzi brevi. A marzo 2011, per la Delos Books, ha pubblicato l’antologia Infected Files. A settembre 2011, Urania ha ospitato Toxic@ , secondo capitolo del Ciclo dei +toon , seguito di Infect@. La mini saga steampunk di Mondo9 è stata pubblicata in versione digitale da 40k Books tra il 2010 e il 2102 e prosegue oggi per Delos Books. Il primo capito Cardani ca è stato tradotto in inglese e portato negli Stati Uniti. A fine 2012, il ciclo è uscito in cartaceo per Delos con il titolo di Mondo9 . A febbraio 2014 il vo-

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lume è stato pubblicato in Giappone. A gennaio 2013 è stata pubblicata da Mezzotints eBooks l’antologia digitale W.A.R.- Weapons. Androids. Robots., composta da due racconti, Necroware e Poliarmoidi . Dopo questa prima uscita, W.A.R è diventata una serie military SF. Ha vinto numerosi concorsi, tra i quali nel 1989 il Premio Tolkien, due volte il Premio Lovecraft (1994 e 1999), il Premio Robot (2013) e cinque volte il Premio Italia (1989, 1992, 2000, 2012 e 2013).


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Da M U L T I P L A Y E R . i t EPIDEMIA ZOMBIE #2 Z.A. Recht Narrativa - Survival-Horror

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Stefano Dipino Thriller

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Pietro Gandolfi Horror Little Wood è un piccolo angolo di paradiso

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EL PROSSIMO NUMERO

OLTREMONDO TORNERA’ CON UN REPORTAGE ESCLUSIVO DA

D e e p c o n 1 5 FESTIVAL Internazionale di SCIFI, FANTASYand HORROR in ITALY

E ALTRO ANCORA!

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S ka n Soli «Non voglio sentire». Elena si abbracciava le gambe, ginocchia contro il petto, come per difendersi dal mondo. O sottrarsi da esso. Dal mondo, o da me. «Il tuo cazzo di muro sanguina sempre!» Le mie parole non mi appartenevano. Voglio dire: uscivano dalla mia bocca, okay, ma era la rabbia a parlare. Un fuoco in gola. «Di sera finisco per farmi le seghe da solo a letto mentre tu dormi. Ci diciamo a malapena ciao. Mi spieghi che diavolo di relazione è questa?» «Se ti sei stancato, vattene, semplice». Non mi guardava. E, a essere onesto, le ero grato che non lo stesse facendo, perché altrimenti avrei taciuto come avevo fatto per tanto tempo, assecondandola, portando pazienza ancora un'altra sera, un'altra settimana, un altro mese, un altro anno. «Il muro è mio, non tuo. Se voglio farlo sanguinare sono cazzi miei».

Territori d'oltremare

Una voce da Malta

Ro b e r t o Bo mma r i t o

Prima di Elena c'era stata Cristina. Cristina e il cancro che si portava dietro ovunque, nel carrellino della spesa. Oggettivare il suo male le aveva salvato la vita. Sarò onesto: a me non dava fastidio, anche se ci toccava spendere cinquanta euro a settimana per nutrirlo. Ma mi incuriosiva, quello sì. Forse era proprio la curiosità che suscitava in me a renderla attraente. «Perché lo fai?» le domandai una volta. «Perché non lasci la tua malattia a casa, come fanno tutti?» «Sei stronzo». Mi scappò un mezzo sorriso. «Stronzo perché, scusa?» «Per come me lo domandi». «Lo sto facendo come tutti, no?» «No: la gente di solito me lo domanda in modo diverso». E si tolse di mezzo. In ogni senso. Alzò il suo bel culo dal mio divano e sculettando uscì dalla mia vita,

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portandosi dietro il suo cancro, con le protuberanze affamate che pendevano dai bordi del carrello come le frange di una sciarpa imbevuta di sangue. Il perché si offese lo capii solo anni dopo. «La tua malattia è un tentativo di ottenere quello che vuoi» sbottai, mentre Elena continuava a guardare qua, là, ovunque. Poi si voltò a fissare finalmente me, solo un istante, il tempo necessario a scandire la frase : «E cosa credi che voglia?», trafiggendomi l'anima con quegli occhi arrossati, lucidi, con tutta l'agonia autoindotta che contenevano. Due cosce che ti facevano dimenticare tutto. Ti facevano desiderare di averla, di sentirle stringerti forte come se avesse paura di perderti mentre ti muovevi dentro di lei, se non altro in quel momento, anche se per il resto del tempo invece ti sfuggiva. E anche quando non facevi


l'amore ci passavi sopra la mano, sentendole calde, vive, sentendo le ferite fresche. Elena si tagliava. A volte le persone che oggettivano il loro male finiscono per identificarsi con esso, dicevano gli psicologi televisivi. Grazie al cazzo, mi veniva da rispondere. Una pillolina magica per rimediare però non ce l'avete? Ogni taglio si traduceva in una ferita sul muro. Tagli che non diventavano mai cicatrici. Dopo poche ore sparivano. Le sue gambe tornavano lisce, immacolate, bugiarde. Perché Cristina, la mia ex, si portava dietro il tumore, vi chiederete? La risposta? Perché aveva bisogno dell'empatia delle persone, mentre io le avevo dato solo qualche scopata alle quattro del pomeriggio e una domanda che non avrei mai dovuto farle perché la risposta avrei dovuto già conoscerla. Per questo se ne andò. Perché Elena, invece, continuava a farsi male? «E cosa credi che voglia?» ripeté. «Che io smetta di farti sentire così sola» le risposi.

E lei tacque. Potevo sentire il suo respiro, il mio, l'orologio da muro ticchettare indifferente a tutto. Il suo sottrarsi a me, il suo tagliarsi, erano provocazioni, gridi di disperazione. Di aiuto. Allungai una mano. Lei sorrise. Si alzò. Mi diede le spalle. Mi guardò dalla cucina, ancora sorridendo, mentre col coltello si tagliava la gola. Federica guardò il muro, passando l'indice sopra il sangue incrostato. «A chi apparteneva?» «A Elena». «L'amavi così tanto da lasciarlo così?» La ferita alla gola non si era rimarginata in tempo. Sulla parete ne compariva solo un accenno. «Sei sana?» le feci io. Federica aggrottò la fronte: «Te l'ho già detto: sì. Che c'entra con la mia domanda?» «Lo ero anch'io» le dissi, mostrandole poi il nuovo muro sanguinante della casa. Il mio. «Non voglio più sentirmi solo». La sua risposta fu uno sguardo ebete. La mia parete, anche quella notte, avrebbe continuato a sanguinare.

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The Special One

Chi semina vento...

Ho giocato un gioco pericoloso e ho perso. Fa parte del rischio di voler ballare sul filo del rasoio, in bilico sull’abisso, scherzando con forze oscure, che vengono dal profondo, malvagie. Insomma, a furia di fare loffie silenziose, mi sono cagato addosso. È successo così, all’improvviso. Ero seduto alla scrivania del mio ufficio, intento ad ascoltare Carla, una manager di grado inferiore, dedicandole meno della metà della mia attenzione. Stava cercando di convincermi che alcune delle sue scelte più infelici non si sarebbero rivelate poi così dannose e, per ascoltare stronzate di quel livello, metà del mio cervello era più che sufficiente. Annuivo, seguivo a grandi linee le sue giustificazioni puerili e mi gustavo i suoi sforzi grotteschi, che da lì a un secondo avrei vanificato, di mantenere un contegno dignitoso. Il resto del mio encefalo si dedicava invece a un gioco pericoloso, sollecitato dalle leggere coliche residue dalla cena a base di asparagi della sera prima. Usando un magistrale controllo sul mio sfintere, stavo rilasciando

Ca t t i v o t e n e n t e

minime quantità del gas intestinale in eccesso che mi gonfiava la pancia, rapito dall’azzardo di riuscire a dosarne proprio il volume limite che, filtrato dalla stoffa dei calzoni e trattenuto dalla poltrona di pelle su cui sedevo, si sarebbe disperso nell’aria così rarefatto da non poter essere percepito da Carla. In quel momento, perso in una sorta di trance, non mi rendevo conto che la posta di quel gioco era il mio prestigio. Per quanto sia di per sé un fenomeno banale e comune a ogni individuo, l’emissione di gas corporeo è qualcosa che, in circostanze come quella, può minare l’ascendente di una persona su un’altra al punto da ribaltare completamente i ruoli. Se avessi sbagliato e avessi rilasciato una quantità eccessiva di gas, prorompendo magari in una sonora scorreggia e ammorbando l’aria, la credibilità della mia posizione di giudice e censore sarebbe crollata all’istante. Mai e poi mai avrei potuto sperare che Carla facesse finta di niente per diminuire il mio imbarazzo. Ma in realtà, il rischio era

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ancora più grave, perché la ripugnanza di quella donna sarebbe senza dubbio stata diffusa come un nuovo, maleodorante, vangelo, da predicarsi a quanti più colleghi possibile, per farlo giungere fino ai capi, e ai capi dei capi, su, fino a Dio in persona. Insomma, avevo talmente poca considerazione di Carla Testacci, che la mancanza di rispetto nei suoi confronti mi aveva indotto a giocare quel gioco potenzialmente letale, senza praticamente motivo. A fronte di un rischio tanto grande, infatti, in caso di riuscita dell’impresa non ne avrei ricavato altro che la modesta soddisfazione di aver scorreggiato per tutto il tempo in faccia a quella donna e alle cazzate che mi andava raccontando, mentre parlava con prosopopea delle tante cagate, quelle sì davvero gravi, che aveva fatto. Ecco, questa era la situazione quando, all’improvviso, accadde qualcosa d’imprevisto. La terza opzione, la possibilità che non avevo calcolato. Un attimo di confidenza di troppo con l’arma che stavo maneggiando, e partì il colpo


che avrebbe potuto uccidermi. Non fu però un rumoroso peto, quello che si liberò dalle mie profondità sfuggendo al mio controllo, ma un fuggitivo sibilante come quelli che lo avevano preceduto, che a differenza loro però si concluse in una sensazione bagnata in fondo alle mutande. Come dicevo, mi ero cagato addosso. Il panico rischiò di impadronirsi di me. Tornai improvvisamente alla realtà, strappato brutalmente al mio stato meditabondo. Smisi di annuire e dire “ha-a. . . ” e avvampai di colpo, consapevole che, da li a qualche secondo, la stanza sarebbe stata inondata da una terrificante puzza di merda fresca. Non potevo sapere quanto tempo avevo, non conoscendo l’entità dello straripamento. Semplice sgommata o vero e proprio riempimento di mutanda? Le sensazioni di rilascio di gas e di materia solida si confondevano nella mia memoria, sovrapponendosi. Per quanto tempo avevo lasciato uscire solo aria, e per quanto invece era stato altro? O era stato altro fin dall’inizio, senza che me ne rendessi conto? Non avevo tempo di pensarci, dovevo fare qualcosa entro i prossimi cinque, sette secondi al massimo, o sarebbe stata la fine. Probabilmente era un

tentativo disperato, ma dovevo provare. Allertai tutti i sensi in cerca di una via di fuga, come un coniglio inseguito da un serpente, e intravidi un esile filo cui attaccarmi per lanciarmi dall’altra parte dell’abisso che mi si parava davanti. La possibilità di afferrarlo si riduceva a frazioni di secondo, ma non me la lasciai scappare. Captai un passaggio del discorso di Carla in quel momento davvero provvidenziale. Stava attribuendo, indirettamente, la colpa di un errore commesso dal suo reparto a un mio dipendente. Tra l’altro, tra tutte le scuse improbabili e i distorcimenti della realtà accampati fino a quel punto, quella era di gran lunga l’affermazione più fondata che aveva fatto. In quel momento, però, non aveva alcuna importanza. E’ così che sono arrivato dove sono: non tirandomi indietro di fronte alle sfide impossibili e cogliendo al volo le occasioni quando si presentano. Calai un pugno vigoroso sul legno della scrivania, arrestando bruscamente il fiume di parole di Carla. Il colpo rimbombò nella stanza, facendola sobbalzare. - Ora basta! – tuonai – Con questa ne ho sentite abbastanza! Adesso la colpa per l’appalto con il porto sarebbe nostra!

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- Ma Ennio, non volevo dire… - fece lei, presa totalmente in contropiede. Rispetto a tutto quello che aveva detto prima, non credeva che avrei reagito in quel modo proprio a quello. - Non voglio sentire nemmeno più una parola – le sibilai, puntandole contro l’indice e cercando nel contempo di non muovermi sulla poltrona, per non accelerare l’espansione della marea di fetore che stava montando nei miei pantaloni. Sussultò, evidentemente turbata. - Non mi sembra il caso di… - cominciò però a rintuzzarmi, cercando di recuperare la sua alterigia, che per un attimo aveva ceduto il campo a un prudente istinto autoconservativo. Non potevo permettere il riassetto dei suoi equilibri, dovevo sbilanciarla fino a spingerla fuori dalla porta del mio ufficio senza alzarmi dalla mia poltrona. Una sorta di telecinesi verbale. E, a giudicare dal sentore debole ma inconfondibile che cominciavo a percepire, dovevo anche fare in fretta. - Non dire nulla di cui potrai pentirti – la minacciai, facendo intendere che stavo registrando la conversazione. Lei si ritrasse, sulla difensiva. Bene. -A questo punto, qualunque cosa tu voglia comunicarmi, sarà meglio che la metta nero su bianco.


Strizzò gli occhi per studiarmi, poi fece per aprire la bocca, cercando forse l’ultima parola. - Non abbiamo più niente da dirci – la battei sul tempo, accompagnando la frase con un gesto noncurante della mano. Giurerei di aver potuto vedere il momento preciso in cui l’offesa trafiggeva il suo orgoglio femminile. Strizzando le labbra, e sicuramente meditando vendetta, si alzò e si diresse con passo impettito verso la porta. Una volta guadagnata l’uscita, però, sostò con la maniglia in mano, combattuta sul da farsi. Probabilmente stava cercando le parole per un’ultima stoccata risentita. Un puzzo indescrivibile m’invase le narici. - Fuori dal mio ufficio! – sbraitai. Trasalì di nuovo, ancora una volta presa di sorpresa dal mio comportamento, apparentemente inspiegabile. – Fuori ho detto! – quasi ruggii, trovando l’effetto cercato. Evidentemente persuasa che non avesse senso polemizzare con un matto aggressivo, ruotò la maniglia e varcò la porta, fermandosi solo un istante ad annusare l’aria, con una smorfia. Prima che richiudesse, riuscii a vederla mentre si guardava attorno nel corridoio, alla ricerca dell’origine di quel tanfo. Immediatamente dopo il “clic” del meccanismo, mi alzai di scatto dalla poltro-

na come un pupazzo a molla e, con piccoli goffi passettini a chiappe strette, coprii la distanza che mi separava dalla porta. Dovevo mettere in salvo il risultato, evitare che qualcun altro aprisse o che lei stessa, ripensandoci, tornasse all’attacco e comprendesse ciò che era accaduto. A quel punto, sarebbe stato ancora peggio. Inevitabilmente, avrebbe collegato il mio atteggiamento alla volontà di farla uscire dall’ufficio e, a quel punto, avrebbe capito che avevo lasciato che una banale funzione fisiologica incidesse sugli equilibri interni di un’azienda che fatturava miliardi. Non potevo assolutamente permetterlo. Riuscii a girare appena in tempo il nottolino della serratura, che già la maniglia stava ruotando verso il basso. Chi poteva essere? Nessuno si sarebbe mai sognato di entrare nel mio ufficio senza prima bussare, nessuno tranne… - Ennio, ci sei? – domandò la voce baritona del Presidente, dall’altra parte della porta. Raggelai. Solo un paio di centimetri di legno lo separavano da me, dal mio ufficio saturo di puzza nauseabonda, dalle mie mutande gonfie di cacca. Dopo il gelo, mi prese il panico. - Un attimo – gridai – sono in bagno – pronunciando

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quelle parole con tono colpevole, come se, da quella semplice frase, sarebbe stato per lui inevitabile ricostruire l’accaduto. - Ma sei là dietro? – domandò il dott. Rialto. Avevo gridato da appena dietro la porta e, inevitabilmente, se ne era accorto. Mi allontanai camminando all’indietro, continuando a fissare la porta, senza sapere cosa rispondere. Poi cominciai a respirare profondamente. Era assurdo, non potevo farmi prendere dal panico per una cosa ridicola come quella! Fu mentre indietreggiavo lentamente, che inciampai nella borsa da lavoro che Carla aveva dimenticato. Persi l’equilibrio e andai a sedermi pesantemente sulla sedia dove era stata lei fino a qualche manciata di secondi prima. Ebbi una sensazione stranamente familiare, il ricordo di qualcosa di accaduto molti, molti anni addietro, che mi riportava alla mia prima infanzia, a odori e sapori ormai dimenticati. Sentii chiaramente qualcosa di caldo e morbido all’interno delle mutande che si schiacciava, mentre mi ci sedevo sopra, probabilmente uscendo dagli elastici degli slip e invadendo il fresco lana del mio vestito da duemila euro. Rimasi immobile, come se il più piccolo movimento potesse peggiorare la situazione. Poi poggiai gli occhi


sulla borsa da lavoro. Entro pochissimo Carla sarebbe tornata a prenderla o, più facilmente, avrebbe mandato qualcuno. Non c’era tempo, dovevo muovermi. - Ennio, ma stai bene? – domandò il Presidente, porgendomi la cima di quella che mi apparve come un’ancora di salvezza. - No – risposi subito – Mi scusi presidente ma, in effetti, non mi sento tanto bene. Posso passare io da lei dopo? - Apri un attimo –, ribatté lui – Così mi fai preoccupare! - Non posso – gli risposi, sperando che si arrendesse. Com’era possibile che si stesse complicando tutto così tanto? - Non riesci a muoverti? Sei caduto? Lo ignorai, cercando di salvare la situazione. A cosa avrei detto per giustificarmi, avrei pensato dopo. Una paresi, un attacco di panico. Un principio d’infarto. Ecco, si, quello avrebbe potuto funzionare. Qualunque cosa sarebbe stata meglio della verità, che diveniva più inconfessabile di secondo in secondo. Già m’immaginavo portato via in ambulanza, ricoverato d’urgenza in cardiologia. Nessuno, nessuno al mondo avrebbe mai dovuto sapere com’erano andate veramente le cose. - Chiamate aiuto, si sente male! – sentii gridare da

dietro la porta. Cazzo! Questione di attimi e sarebbero entrati. Ero in trappola. Mi guardai attorno, in cerca di qualcosa con cui bloccare l’ingresso. Poi però come avrei spiegato la barricata? No, meglio precipitarsi in bagno e controllare quanto grave era realmente la situazione. Fu solo a quel punto, però, che mi resi conto di un altro problema: ero al trentaduesimo piano di un grattacielo e non potevo aprire le finestre. Come avrei fatto ad arieggiare l’ambiente? Dal corridoio, intanto, passi di corsa e voci che si accalcavano davanti alla mia porta. - Com’è possibile che nessuno abbia una copia della chiave, per l’amor di Dio! – sbraitava il Presidente. Mi avventai sul quadro dell’impianto di climatizzazione, azionandolo. Non mi c’ero mai trovato, con quella tastierina; di solito non toccavo nulla e lasciavo le impostazioni base, comuni a tutti gli uffici a seconda della stagione. Dopo qualche istante prezioso, comunque, riuscii ad avviare l’aria condizionata, ma mi accorsi subito che il ricambio, in quel modo, avrebbe impiegato svariati minuti a cancellare dal mio ufficio la puzza mefitica, che ormai mi appariva una presenza quasi solida, tangibile. - Prendete l’ascia antincendio! – udii da fuori

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la porta. “Esagerati”, pensai, trovando non so dove l’arguzia per sorridere del detto una puzza che si taglia con il coltello . Comunque, scherzi a parte, si stava mettendo davvero male. Dovevo usare il pensiero laterale. In fondo ero un creativo, che diamine! Non ero arrivato fino a dov’ero senza saper trovare soluzioni a situazioni in apparenza inestricabili. Se infarto doveva essere, che infarto fosse. Certo ero un po’ giovane, solo 38 anni, però con la vita che facevo ci poteva stare. Quel che contava, a ogni modo, è che tutti sanno che un infartuato, mentre cade a terra, si attacca a qualunque appiglio trovi. O almeno nei film succede così. Contraggono le membra artigliandosi il petto, barcollano e infine cadono, afferrando una tovaglia o una libreria e trascinando tutto a terra. In ogni caso, qualcosa va rovesciata, di solito. Presi allora il coraggio a due mani e afferrai la grande lampada a piantana verticale, in acciaio spazzolato, un vero pezzo d’arte contemporanea, e la brandii come un ariete. Colpii il vetro della finestra alle spalle della mia scrivania, senza riuscire a romperlo. Il contraccolpo dell’urto mi trasmise le vibrazioni dell’asta metallica fino alla spalla, ma non po-


tevo darmi per vinto. Colpii di nuovo il vetro, che si venò a raggiera dal punto dell’impatto. Mi rifeci sotto e, infine, una pioggia di minuscoli frammenti d’argento si sparse nel luminoso cielo mattutino, riversandosi coreograficamente sulla strada sottostante come polvere d’angelo trasportata dal vento. Da dietro la porta, udendo il rumore di vetri infranti, più di un’impiegata mandò un gridolino d’apprensione. Arrivato a quel punto, dovevo solo avere la freddezza di sostenere la mia storia. Avevo avuto un attacco di cuore, cominciato proprio qualche istante prima che il Presidente arrivasse alla mia porta. Uno spasmo di dolore mi aveva fatto rattrappire su me stesso e, per evitare la caduta, avevo cercato di tenermi in piedi sorreggendomi alla lampada, che invece era crollata trascinata dal peso del mio corpo, andando ad abbattersi contro la finestra, rompendola. Raccontata così, potrebbe sembrare una storia implausibile ma, ragionandoci su, mi convinsi che nessuno di fronte a quella scena avrebbe d’altro canto mai potuto ipotizzare qualcosa del tipo: “si, l’infarto è un’opzione, oppure… potrebbe anche trattarsi di un machiavellico piano per eliminare la prova di una scorreggia perpetrata all’interno del suo ufficio!”, smascherandomi come un novello Sherlock Holmes. Insomma, per quanto grottesca, la versione dell’infarto era più credibile.

Questo, di per sé, avrebbe dovuto farmi riflettere sulla ragionevolezza di quello che stavo facendo. Eppure, in quel momento, ogni cosa pareva avere un senso, ogni elemento del mio piano improvvisato s’incastrava con gli altri. - Datemi qui – vociò il Presidente mentre io entravo in bagno, levandomi le scarpe e calandomi i calzoni. Una sgommata di tre centimetri. Cinque grammi scarsi di merda. Tutto quel casino, per quel po’ di robetta. Ripiombai nella realtà tutto d’un tratto. Senza rendermene conto, mi ero lasciato sopraffare completamente dal panico. La mia fiducia di poter giustificare quel macello con la storia dell’infarto crollò improvvisamente. Per un istante, andai col pensiero alla pistola nel mio cassetto. “Ma che sto dicendo”, riflettei però subito dopo. No, ormai dovevo continuare su quella strada, l’unica salvezza era attenermi al piano. Ci avrebbero creduto, cercai di convincermi. Non avrebbero potuto fare altro. “La gente crede a quello che vuole credere”, mi dissi, e se il Presidente voleva essere l’eroe che mi aveva salvato la vita, doveva credere alla mia versione dei fatti. I miei pensieri furono interrotti da un sordo rumore metallico proveniente dalla porta. Troppo tardi, l’avevano aperta. Ero spacciato. - Gesù! – imprecò qualcuno – E’ saltata solo la maniglia! Avevo ancora una speranza, ma dovevo fare in fretta.

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Mi mossi rapidamente. Tolsi le mutande, mi pulii, rimisi pantaloni e scarpe, cercando di ricompormi alla bella e meglio, gettai gli slip nel gabinetto, coprendoli con alcuni strappi di carta igienica, poi schiacciai il pulsante del risciacquo. In quel preciso momento, una torma di persone faceva irruzione nel mio ufficio a pochi metri da me. Mi lasciai cadere a terra e abbracciai la tazza del gabinetto, appena in tempo per essere trovato, sofferente, in quella posizione fetale. Venni soccorso con ogni premura, adagiato sul tappeto del mio ufficio e, dopo appena qualche minuto, trasportato in barella fino all’ambulanza, e da lì in cardiologia. Mentre passavo attraverso l’ufficio invaso di frammenti di vetro, constatai con soddisfazione che la puzza era completamente scomparsa. L’avevo fatta franca. Il Presidente, dopo avermi “salvato la vita”, mi avrebbe avuto ancor più a cuore. Sarei diventato una testimonianza vivente del suo eroismo che io, dal canto mio, non avrei lesinato di magnificare. Nel mio folle trionfo di quel giorno, non notai quell’unico dettaglio stonato. Il chiodo storto, il sasso nella scarpa. Il led della telecamera di sorveglianza in un angolo della stanza che, normalmente spento durante il giorno, brillava invece di un bel rosso intenso.


S ka n Terriccio

Vincenzo si sostenne al corrimano, il lezzo di putredine lo offuscò di vertigini. La Calegari, affacciata alla porta, si coprì la bocca e il naso con uno straccio bagnato; Varnelli, immobile sull’uscio, sbiancò dalla nausea, stette zitto, inghiottì. Il medico e gli infermieri, pallidi, madidi, muti di mascherine e fasciati di cellophane, portarono la barella per tre rampe di scale. «… ma come è successo?», pispigliò la professoressa. «Un infarto, hanno detto», l’anziano le riferì. Il telo cenerognolo che copriva il cadavere era appena sollevato rispetto il piano della lettiga, quasi che al di sotto non ci fosse stato nulla: «Il vecchio Soro doveva essere ridotto male quando l’avevano ritrovato», Vincenzo schifò. Uno dei Carabinieri sigillò l’appartamento; un’altra, la maresciallo, con un taccuino carta-carbone, li inchiodò sul pianerottolo con le domande di rito: «Siete parenti? viveva solo? come avete scoperto?» «La tivù tutta la notte accesa», spiegò la Calegari, «al massimo del volume.» «E la chiazza sul mio soffitto», Varnelli incalzò, «e

Il Grande Avvilente

Al e s s a n d r o F o r l a n i

stamane l’odore.» Vincenzo, si rese conto, non aveva granché da aggiungere: le circostanze di quella morte in solitudine, un anziano abbandonato nel torrido della metropoli, erano banalità che in estate si leggevano sui giornali ogni giorno d’agosto. Confermò la testimonianza dei due condomini; aggiunse «silenzioso, riservato, gentile», tuttavia le parole gli sembrarono inutili. L’agente compilò la modulistica quasi senza ascoltare risposte, persuasa dall’ordinario, ringuainò la matita; scoccò uno strano sguardo: «Che cosa mi dite degli animali domestici?» Vincenzo esitò: «Non teneva animali in casa.» «O magari non l’ha detto a voialtri», nicchiò la Carabiniere, «l’appartamento è una porcilaia: graffi, morsi, impronte e terriccio. C’è da capire di che bestia si tratti: noi all’interno non ne abbiamo trovate, e le tracce sono molto confuse; non è da escludere sia scappata da una finestra o dal sifone del water.» «Come, dal water?», arrossì la Calegari. «La gente, signora, si tiene in casa pitoni, tarantole, igua-

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ne… Sono animali che s’intrufolano ovunque. Vediamo di fare il punto: domani è Ferragosto, e il collega della scientifica è in ferie fino alla prossima settimana: con lui, vedremo raccapezzarci. È una brutta esperienza, non è stato un bello spettacolo. Ma tranquilli: fino ad allora; non correte nessun pericolo.» Vincenzo e i due vicini salutarono gli agenti. Si scambiarono un’occhiata e rientrarono nei loro loft. Si affettò mezzo melone, mezz’etto di prosciutto: il disgusto e fetore in gola gli stringevano lo stomaco; lasciò gli spicchi gialli, il San Daniele nel piatto e si sporse dal davanzale e si accese una sigaretta. Era l’una e quarantacinque, c’era un sole assassino: ma nel cortile arroventato del condominio, sotto i canestri di truciolato, i ragazzi del circondario schiamazzavano a basket. Vincenzo guardò l’orologio, la serranda abbassata della camera di Varnelli, contò gli ululati per i tiri da tre punti e i tonfi del pallone sull’anello di metallo. Scommise con sé stesso l’ennesima sigaretta che la partita, alle 14.00, si sarebbe


interrotta. Le 13.57. Il vecchio dirimpettaio si affacciò dal terrazzo, lui ne rise, si accese un’altra Malboro: «Puttanalamadonna!», Varnelli sbraitò, «Tutti i giorni che il Signore manda in terra! A quest’ora, d’estate, c’è gente che dorme! Andate a far casino da un’altra parte!» La Calegari, in cuffia di bigodini, si sporse dal cucinino con argomenti più miti: «C’è morta una persona in questa casa, stanotte.» Le finestre oscurate degli altri interni del condominio, tutti inabitati ad eccezione dei loro tre dalle fughe d’agosto, dal declino dell’edificio, ripetevano quell’orazione per un defunto in un coro di polvere e di guano sui davanzali. L’ocra dell’intonaco bruciava nel solleone, l’aria tremolava sul tappeto d’asfalto. In cortile i ragazzini spernacchiarono Varnelli, l’apostrofarono col dito medio; chini, con gli occhi bassi alla Calegari, raccolsero la palla e sospesero la partita. Vincenzo riattaccò con il prosciutto e melone, gli riuscì di ingoiare ma mangiò senza appetito. Dalla cucina si trascinò nel salotto, abbassò le tapparelle e si stese sul sofà. Sudò fra tre cuscini. Ruttò e s’assopì. Aprì gli occhi per un tonfo sordo che echeggiò nel pianerottolo o la tromba delle sca-

le; e schianti, colpi e cigolii che non riusciva a capire dove, ma fuori. Trillarono al chiamino e bussarono al portone. Vincenzo si levò dal divano, traversò la cucina; aprì il rubinetto sulle posate e sul piatto sporco. L’orologio a parete segnava le 17.00: «Cristo, che schifo: ho dormito tre ore.» Si sciacquò la faccia madida, arrossata dal sonno; ripeté «con calma, arrivo» al campanello insistente e trovò sulla soglia Varnelli e la Calegari. Lividi, balbettanti: «Venga, Vallorani: deve vedere cos’è successo.» Vincenzo li seguì fino alla torre dell’ascensore, all’angolo con l’appartamento di Soro e la rampa di gradini che scendevano ai garage: quel tratto di scale, le mattonelle del pianerottolo, erano cosparse di gelatina e di terriccio maleodorante. I battenti dell’ascensore fischiavano spalancati, all’interno lampeggiava una spia. Il tettuccio dell’abitacolo era a pezzi, sfondato. «Stavolta li denuncio», Varnelli imprecò, «l’hanno fatta davvero grossa!» Vincenzo con lo sguardo interrogò la professoressa; il vecchio puntò la pila nel vano: schiarì, a tre metri sopra il tettuccio, le identiche impronte che insozzavano la gabbia, gli stipiti, il fondo di linoleum e le piastrelle del

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pianerottolo: «Datemi retta», grugnì, «sono manacce di ragazzini.» La Calegari scambiò le lenti da presbite con gli occhiali da miope che le pendevano al collo, chiese in prestito la torcia elettrica: «È impossibile, fino lassù. E come avrebbero fatto, a sfondare la paratia?» «A pedate signora, non ci vuol niente: è resina, alluminio, vetro.» Vincenzo calciò con i sandali le schegge di plafoniera, plastica e metallo sparse fin gli zerbini dei tre loft di quel piano. Si strinse nelle spalle, annuì sconsolato, persuaso della qualità dei materiali in capitolato: «Avrebbero anche potuto ammazzarsi!», la Calegari trasecolò. «Che vuole che ne capiscano? Deficienti, teppisti!» «Se invece fossero gatti, o topi, o un uccello che ha fatto il nido là dentro?» «Ci sarebbero riusciti anche meglio, a sfondare ed arrampicarsi per quattro piani.» «L’ha detto il Carabiniere: gli animali del signor Soro.» «Insisto che le impronte mi sembrano di ragazzini.» «Ci assomigliano», Vincenzo concesse; si sporse naso all’aria oltre lo squarcio nell’abitacolo, tornò sulle scale, «ma i ragazzini non camminano sulle mani.» Quella traccia di segni sudici proseguiva nei sotterranei. Se il vecchio aveva ragione, a


sospettare di un dispetto infantile, doveva ammettere che si trattava di acrobati, per saltare sui palmi di gradino in gradino: «Oppure d’una scimmia», suggerì la professoressa. Varnelli sbirciò, dal ciglio del sottoscale, nel fondo di chiazze d’acqua e mattonelle crepate: «È assurdo tenersi in casa una scimmia», lasciò loro la torcia elettrica e rientrò nell’appartamento, ne uscì l’istante dopo con un bastone e una scacciacani, «ma avanti, andiamo a cercarla.» Vincenzo stupito scrollò la bicicletta dai mucchi di sudiciume sul pavimento fra i due garage: «S’è intasata una fogna?» «Non ha mica piovuto», osservò la Calegari, che restava schifata a due gradini dal pavimento. La terra e la gelatina che sporcavano l’ascensore si accumulavano, sul basculante di Soro, in grumi puzzolenti che arrivavano alle caviglie. Il mucchio era tale che il battente di acciaio cigolava reclinato, per forza socchiuso: «… ma almeno non è merda», Varnelli garantì, affondando le dita grosse nella sozzura viscosa. Vincenzo si rassegnò, scalzato dei sandali, a frugare il ripostiglio delle scope e le pale e procurare qualche sacco dell’immondizia; il vecchio posò la torcia, la pi-

stola e la mazza: «Lasci perdere, Vallorani, mi aiuti: qui c’è il caso sia crollata una parete, scoppiata una tubatura... Apriamo questa porta, facciamoci un’idea.» Lui lasciò le scope, l’assistette col basculante. La Calegari, sulle scale, strillò. Un orrido miagolio proruppe dal lucernario, qualcosa spiccò il volo da un’anta accostata. Vincenzo alzò lo sguardo, la cosa lo assalì, gli saltò sulle spalle, lo punse, guaiolò. Strisciò sotto Varnelli. Scomparve fra i pilastri del labirinto delle rimesse: «Un ratto, un gattaccio!», il vecchio gridò; batté i muri con il bastone, ripetendo quel salmo, con le gambe che gli tremavano; fulminò in ogni angolo, «Cos’era?! Cos’era?!» Vincenzo si accasciò con il cuore impazzito. «Un bello spavento!», lo compatì l’insegnante «quel coso l’ha morsa? Dovrebbe disinfettarsi.» Lui le tacque che quella bestia, al contatto, era stata pelosa, viscida e scagliosa; sia calda che fredda, morbida, coriacea. Si grattò la puntura che gli arrossava la spalla destra: un bitorzolo di tafano. «Vallorani, si sente bene?», Varnelli gli tese il braccio, Vincenzo annuì, guardò con desiderio la scacciacani del vecchio. Si alzò con il fiato corto,

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tornarono al lavoro. Il battente si aprì su tre scaffali di scatole dal fondo di legno e le pareti di vetro; il coperchio d’ogni scatola sigillato con ceralacca. Alcuni contenitori, infranti sul pavimento, tracimavano di quel terriccio e quel grasso che sporcavano l’intero condominio. Lui si accorse delle schegge di cristallo che spuntavano taglienti da quel concime disfatto, si trattenne a piedi nudi sulla soglia del garage. Riprese una saggina e spazzò per qualche metro. Invitò la Calegari e si inoltrarono fra gli scaffali: «Non le sembra una serra?» Varnelli illuminò tubi intatti, pareti immacolate dietro le scatole trasparenti: «È strano, però: c’è solo quell’humus.» Al barbaglio della pila su uno stipite, lui scoprì l’alone grigio di un quadro e il buco di un chiodo che mancava dalla parete. Tolse la terra in corrispondenza sul pavimento: trovò, spaccata fra i vetri rotti, una tavola di legno infilzata di post-it. Vincenzo la raccolse, la scrollò dal terriccio, interdetto dagli appunti insensati su qui fogli scritti a stilo che puzzavano d’orina: «Che ne pensa, professoressa?» La Calegari si aggrottò sui post-it, alternò per quattro volte le due lenti sul naso:


Varnelli sbiancò, «È uno schifo da non metterci le mani. Domani chiameremo l’agenzia dei rifiuti, l’unità sanitaria, i vigili del fuoco e un tecnico per l’ascensore: che ci pensino loro.» «E’ il quindici, domani: chi vuole che le risponda?» Lui rinvenne un libro fra i ripiani caduti in pezzi: «Di cosa si occupava nel «C’è altro», lo scrollò dalla tempo libero il signor Soro?» polvere, ammirò la copertina «Di sicuro di cose sporche», di un volume rococò Varnelli grugnì, e prese con ribrezzo da uno scaffale un De Humana Animantium Restitubarattolo di vetro dal conte- tione nuto lanoso. Lutetia Vincenzo lo agitò: quella MDCCLXXXIX che fu una confezione di marmellata, di sottaceti, di con l’immagine di un uomo sughi precotti, era piena di in ricchi panni, e zinale da batuffoli di capelli farciti di fabbro, che soffiava su una unghie e impastate di feci: caraffa di dalla quale conservati nella gelatina che sgorgavanosabbia animali. insozzava tutto il garage. lo lasci: è latino», glie«Era coprofilo. Feticista», lo«Me tolse la Calegari, «voglio scandì la Calegari. darci un’occhiata.» Lui si accorse di parecchi barattoli in ordine sugli Vincenzo sollevò le tappascaffali; si alzò sulle punte relle alla brezza respirabile per accertarsi del contenuto, che veniva il buio. L’uniporse a Varnelli la ripugnante co lampionecon che illuminava il composta: cortile fu subito affollato di «Ehi, non s’azzardi!», zanzare e falene. Dalla strada l’anziano lo scostò. Il baratto- all’altro lato dell’edificio lo si ruppe sul pavimento, la fuga di autospargendo il contenuto fra i echeggiava mobili e scooter, lo scambio mucchi di terriccio. irriverente di schiamazzi, di Vincenzo, maldestro, sussultò clacson, il cicaleccio del pasper il crac, si tenne agli seggio e dello shopping sui scaffali, che caddero schiantati; ruppe altri baratto- lungoviali. Il rettangolo tombale del li nell’humus scomposto. condominio seppelliva la sua I vapori di putredine satura- serata in ovattata tristezza. rono il box. Vincenzo si ingobbì sulla «Basta, andiamocene», tavola da sparecchiare, labor: gallina + gatto + grillo labor: cicala + cane + corvo labor: ramarro + ratto + rombo (ne trovi di fresco al mercato del pesce) degeneri i quattro – conserva nel freddo proibite le tue proprie particole – conservale per un risveglio coagulum empium

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s’appollaiò sul palmo madido della mano, accese la televisione, tormentò il telecomando con lo zapping ininterrotto. Gli esausti vecchi film dell’estate, le dirette circensi, i cinodromi canori, si rincorsero specchiati sulla portiera del frigorifero. «Apra subito, Vallorani! Mi apra!», implorò la Calegari al portone. Il singhiozzo azzittì Steven Seagal nell’ennesimo Black Dawn in onda su Italia 1. «E adesso che c’è?!» Lui lasciò cadere la seggiola. In calzini di spugna, con in mano il telecomando, corse ad aprire con l’insulto sulle labbra. Non c’era nessuno. Uscì sul pianerottolo. Ruppe sotto un piede qualcosa che lo ferì. Vide sul pavimento due paia d’occhiali in pezzi. Sporcò, con il tallone sanguinante, le pagine aperte di un libro ammuffito. Udì dietro l’angolo i battenti dell’ascensore che gemevano bloccati impediti da qualcosa. Il rantolo dell’insegnante. Vincenzo inghiottì, si sporse oltre lo spigolo. La vide stesa fra cabina e pavimento con le gambe sanguinanti, graffiate, morse e punzecchiate: «Ohggesù!», la tolse dall’abitacolo. «Ho letto, ho tradotto! Sono tornata nel box», farfugliò la Calegari, «palingenesi animale, genetica, alchimia… resuscitare bestie morte dai loro sali; mescolare le ceneri… rianimare creature! con il


caldo il processo va da sé. Mai coagularne più di quattro! creature degeneri! nel terriccio delle teche andate in pezzi… quante se ne sono mescolate? con quest’afa sono fuori controllo! ma il peggio…» Gemette, atterrì, perse i sensi. Lui la trascinò dall’abitacolo al pianerottolo, l’ascensore si chiuse; le spie della corsa si accesero verso il basso. Vincenzo udì il bramito dell’argano, l’eco dell’arresto nelle tenebre dei garage. Buttò il telecomando, raccolse il vecchio libro. Un cachinno agghiacciante. Uno sbattere, un galoppare, uno strisciare di cose; uno sbavare un attorcigliarsi un ululare su per le scale. L’ascensore si mosse, l’abitacolo tremò nel vano. I numeri sulla pulsantiera si illuminarono da -1. Vincenzo trasportò la Calegari fino al loft di Varnelli, picchiò sul campanello. Il vecchio gli aprì in canottiera, pannolone, mutande; una liquida demenza negli occhi arrossati. Alla vista della vicina senza sensi, ferita, trasecolò; lui calciò la porta, lo spinse ed entrò: «Chiuda subito!» «…cosa?...» Varnelli impietrì sull’uscio aperto. Gridò. Vincenzo, sdraiata su un tappeto la Calegari, saltò sulla soglia, lo tirò per un braccio. L’anziano strabuzzò, si accasciò sullo

stipite. Il diodo del terzo piano si accese sull’ascensore, un’orrida cavalcata apparve sui gradini. Ibridi goffi, impazziti, schifosi li travolsero freddi, si strusciarono viscidi; li punsero irsuti, ruvidi, ossei. Gli occhi scombinati di quelle cose, che arrancavano bipedi, piumate e quadrupedi, imitavano gli insetti su sei zampe feline, e tentavano il volo impedite dalle chele, lacrimavano sangue. Si appiattirono nel terriccio, s’acquattarono nel sottotetto, frantumarono le vetriate e s’aggrapparono alle canalette. «Non ci hanno fatto niente», Varnelli balbettò. La Calegari riaprì gli occhi e gemette, si alzò sul tappeto: «Gli sfuggono, sono bestie: non l’hanno con noi…. reagiscono… torturate….» A Vincenzo la domanda si seccò sulle labbra, e qualcosa si schiantò nel suo cervello al pensiero di quale orrore spaventasse quei mostri. Nel pallore di Varnelli immobile sulla soglia, incapace di alzarsi da una pozza di orina, lesse lo stesso dubbio e lo stesso orrore per la risposta. L’insegnante tese il braccio verso il libro ammuffito. Ricadde. Lui sfogliò le pagine sottolineate e lesse un foglio notes con appunti di traduzione:

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La palingenesi dei vegetali non sarebbe che un oggetto di divertimento, se questa operazione non ne facesse intravvedere delle altre più grandi e più utili. Si fa sugli animali ciò che fai sulle piante. Il grado più meraviglioso della palingenesi è l’arte di praticarla sui resti degli animali: mescola i loro sali e le ceneri, otterrai stupefacenti creature. Quale incanto godere del piacere di perpetuare l’ombra di un amico, quando egli non è più? Le tue particole ti permettono di risorgere dalla morte. Ma guardati dal mescolare i sali dell’uomo con quelli degli animali.

L’ascensore si fermò, i battenti si aprirono. Una lingua gelatinosa eruppe dall’abitacolo, strisciò, si contrasse, si stese e rattrappì; si erse un metro e ottanta dal suolo in un orrore pispigliante e tremulo. Dal corpo nero, viscido e terroso si protesero e ritirarono vibrisse e runcigli, zoccoli, pseudopodi, una fila di vertebre. Una gamba ed un braccio umano. E un grappolo raggrinzito e canuto di denti gialli, in disordine, una sola narice; occhi scombinati e un orecchio deforme: «Buona sera, Varnelli. Come va, Vallorani?» Era il volto di Soro.


S ka n Ossessione

Successe tutto all’improvviso. Quella mattina, trovò un biglietto sul tavolo della cucina, vicino al grosso posacenere decorato a fiori. Poi, più niente. «Non ce la faccio più» gli disse. «Sono sicuro che non tornerà più» si disse. Da quando era successo, le cose tra di loro non erano state più le stesse. Da quando succedeva, lui non era più lo stesso. Adesso, avrebbe dovuto vendere in fretta la casa e andare a vivere con Carla. Si accese una Morley [Marca inventata di sigarette. Il termine proviene dall’episodio 7 della 4° serie di XFIles: ”Musings of a Cigarette Smoking Man”].

Per il momento, Isi sarebbe stato ancora lì, in quel posto buio che era prima la sua casa, a scrutare come un topo, attraverso le tendine della finestra che dava sul vialetto d’ingresso, le persone sotto l’enorme scritta vendesi. Due giorni fa, era in cucina quando aveva sentito un rumore di tacchi sotto il portico, poi il cigolio dello sportello della buca delle lettere collocata nella porta. Ansioso, aveva ciabattato rumorosamente fino in soggiorno, farneticando di assurde proposte di vendita da parte di fantomatiche agenzie immobiliari o di messaggi da parte di danarosi compratori privati. Una busta rettangolare era proprio lì, sotto la buca, riversa

Poscritti di futuro ordinario

Lu i g i Bo n a r o

sul parquet antistante la porta. Avvicinandosi, riconobbe sul lato la sua grafia precisa nel corsivo della dedica per Isidoro. Angosciato, rimase fermo, lì in piedi, vicino alla busta. Poi, con i polpastrelli umidi di sudore, si chinò per raccoglierla e la infilò meccanicamente nella tasca del suo pigiama azzurro. Opium mugugnò sentendo il suo profumo. Sapeva benissimo che la lettera conteneva il suo, ormai consueto, invito per la sera. Era stato magnifico con lei, all’inizio. Adesso, con le cose che erano finite a quel modo, non aveva più voglia di continuare. «Non mi sento più libero» aveva detto. Nutriva per quella donna un’esagerata attrazione fisica ma nulla più di quello. Avrebbe voluto finire quella bizzarra relazione. «Basta me ne vado per sempre» le aveva detto seriamente quel giorno, mentre lei si faceva beffa di lui con un sorriso ammaliante. E certe mattine, ci aveva pure provato, a lasciarla s’intende, ma i suoi tentativi non avevano superato il crepuscolo, si era ritrovato, senza neanche rendersene conto, a premere con insistenza il campanello all’ingresso della casa di lei. E comunque, c’era da dire che quella donna era sempre lì, pronta ad aprirlo. A guardarla, Carla, là sull’uscio, mentre sorrideva a Isi, con quella lingerie

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che avrebbe resuscitato un morto, c’era veramente da lasciarci le coronarie. Isi ritornò in cucina e si accese una Morley e, mentre espirava il fumo, lo osservava addensarsi davanti a un calendario con delle pin-up che lei le aveva regalato assieme a un flacone del suo profumo. «Per non dimenticarti di me» le aveva sussurrato, quella volta, delicatamente in un orecchio. La signorina di Febbraio con le mutandine nere piumate gli faceva l’occhietto. lsi era sempre più consapevole del fatto che desiderava il corpo di Carla e lo desiderava in modo anomalo, come un animale senza volontà, senza una ragione precisa, senza uno straccio di motivazione razionale, tralasciando tutto il resto, con tutto se stesso, senza condizioni. Questa era l’ossessione di Isi per Carla.

Vieni da me questa sera. La sua

voce calda echeggiava continuamente nella sua testa. Uno strano presentimento lo rendeva conscio del fatto che c’era di più, molto di più, dietro quella semplice attrazione fisica. Infatti, sebbene lui provasse a resisterle razionalmente, aveva un’estrema necessità del suo corpo: l’unica. Fu così che


Genni decise di andarsene. Quella mattina, Genni gli lasciò un biglietto sul tavolo della cucina, vicino al grosso posacenere decorato a fiori. Poi, più niente. «Sono sicuro che non tornerà più». Si disse Isi amareggiato. Amava molto Genni ma l’ossessione per Carla lo consumava nelle viscere e nella mente e non lasciava spazio a nulla che non fosse quell’eccitazione morbosa. Adesso che Genni non c’era più, e a dirla tutta mancava anche il grosso portacenere a fiori, la sua vita stava andando a rotoli. La sua casa era diventata vecchia e polverosa tutto insieme e, dal lavabo della cucina, spuntavano piatti di non so quale pranzo, nel frigorifero deserto avvizziva lentamente mezzo limone mentre una porzione singola di salsa barbecue di Mac Donald scintillava lucida in prossimità di un sedano marrone in corso di mummificazione. Di tutto questo, lui non si curava. Si sentiva molto debole e da un po’ di tempo aveva anche smesso di mangiare. Passava il tempo a fumare tutte quelle Morley, seduto nell’oscurità di quella cucina, in attesa della sera. Su tutta questa vicenda, Isi aveva le idee veramente confuse ma di un fatto ben preciso aveva certezza assoluta, questa sua ossessione aveva incominciato, da qualche tempo, a fargli veramente paura. Quella sera,

un’eccitazione smisurata, quasi sovrumana, mista a un profondo senso di terrore, lo condusse, di corsa, sullo zerbino di Carla. La voce diceva: «vieni, corri. Ho bisogno di te». Con sorpresa, Isi notò che la porta era socchiusa. Si introdusse in casa, diretto in camera da letto. Allora la vide. Carla era lì, il cervello fracassato dal grosso posacenere decorato a fiori, proprio di fianco a lei sul cuscino. I suoi canini erano aguzzi e insanguinati così come le spuntavano dalla bocca immortalata in una smorfia sorridente. Dritto, dalle rotondità del seno nudo, spuntava, conficcato in profondità, un enorme paletto. Da dietro la porta, proruppe una voce: «La stronza ha morso anche me». In quel momento, Isi intravide Genni, il sangue che le scendeva da un morso sul collo e la trovò fisicamente desiderabile in un modo ossessivamente morboso. Così come aveva sempre fatto con Carla, senza parlare, si avvicinò sedendosi davanti a sua moglie porgendole il collo. Lei si chinò verso di lui e lo morse con voluttà. Dalla tasca di Isi cadde un pacchetto di Morley rosse quando, quel giorno, un aguzzo paletto di frassino gli trafisse il torace.

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S ka n

... e alla fine arriva Polly

A Oriente

Po l l y R u s s e l l

del mondo. Mi sfilo di dosso il telo, Manu è ferito e ne ha più bisogno di me. Mi fermo e lui mi imita, il suo bellissimo viso, velato da un dubbio. Una raffica più forte mi sposta in avanti e finisco tra le sue braccia. Milioni di aghi conficcati nella schiena e nelle cosce. Trattengo un grido e gli giro il telo sulle spalle. «Che stai facendo?» SusPossibile io sia tanto pazza? surra con un filo di voce, la Eppure sono qui in mezzo macchia rossa sulla sua caal nulla, eppure lui mi ha micia e più grande di seguita, pazzo più di me. quanto ricordassi. Sarei dovuta fuggire da so- «Lasciami fare.» Gli copro la, non dovevo permettergli la testa e le spalle poi lo di seguirmi. Geme, ogni abbraccio e riprendiamo a sferzata è un lamento. Gli camminare. cingo le spalle col braccio, ma la sabbia vetrificata se Ma a oriente, a oriente, c'è ne frega e continua a far acqua da bere, c'è un piatto male. Maledetta tempesta. di terra ed uno di sole; «Ce la fai a proseguire?» a oriente, a oriente c'è un Manu solleva lo sguardo su sogno da fare e notti più di me. Gli occhi ridotti a fresche per dormire. fessure ma ancora tanto lucenti. Un sorriso appena Vento, sabbia e oltre il maaccennato, poi china di re strade chiare, strade nuovo il capo per riprende- scure, nuvole basse da evire a camminare. Che dotare, nuvole che coprono il manda inutile, dove mai po- sole, nuvole che offendono tremmo fermarci? Ovunque il sole. riesca a spingere lo sguardo c'è solo sabbia. Grumi di La tempesta si è placata fimuro ammassati come tu- nalmente. La città è lontana mori sulla pelle giallo ocra chilometri, come il pick-up Notte notte scendi in fretta, vieni a soffiare sui miei occhi. Notte notte scendi adesso, porta lontano i rumori, dammi un riparo fino a domani. Odore di nebbia e fumo che appare, non li voglio più sentire; campi senza più colore, non li voglio più vedere.

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che avevo rubato, come la milizia. Non hanno nemmeno provato a seguirci. Hanno ragione, non si sopravvive qui fuori senza protezioni. «Come stai?» Lui non risponde, il fianco deve fargli un male d'inferno, sorride. «Fermiamoci per un po’.» Lo conduco fino a quelle che sembrano rocce sporgenti. Solo quando le raggiungiamo mi accorgo che non è altro che la carcassa di una vecchia utilitaria. Tanto meglio. Riesco ad aprire uno sportello con un clangore stonato. I sedili anteriori mancano, ma quello posteriore è ancora lì. Sorreggo Manu per un braccio e lo aiuto a entrare in quello che la ruggine ha risparmiato dell'abitacolo. Tra poco farà buio, e il freddo farà sembrare la tempesta di sabbia sembrerà un bel ricordo. «Passeremo la notte qui. Non ce la fai a proseguire e l'accampamento della resistenza è lontano.» Si morde le labbra mentre cerca di distendersi, con la destra si stringe il fianco, del sangue gli cola tra le dita. «Come fai a dirlo? Non sai nemmeno se siamo nella direzione giusta. Le


bussole non funzionano, fuori.» «Ho già fatto questa strada. Sono stata al campo diverse volte,» è stupido ma ho voglia di sorridere, «non a piedi, certo. Ma la direzione è la stessa. Il sole tramonta sempre a ovest.» Gli sposto i capelli dal viso, è sudato, deve avere la febbre. Tolgo il kit di pronto soccorso dalla sacca e accendo la torcia. La fasciatura che gli avevo fatto in città è solo una poltiglia rossa. Soppeso la colla epidermica tra le dita e la ripongo, «non posso suturare, il proiettile è ancora dentro. Dobbiamo arrivare alla "tana". Lì hanno l'attrezzatura adatta.» Mi limito a cambiare le garze, il suo torace si alza e si abbassa in fretta, lo sento digrignare i denti. Mi stringe una coscia tra le dita. Mi dispiace. «Non avrei dovuto coinvolgerti. Non era la tua guerra.» La sua voce è solo un sussurro, «è la tua. Fa lo stesso.» Ha un sussulto, e io non posso fare altro che abbracciarlo. Ci sono ancora cinque o sei ore di cammino prima di arrivare alla "tana" e lui non può farcela. È colpa mia se gli hanno sparato. Ero io il bersaglio. Un rivoluzionario dovrebbe lasciarsi tutto alle spalle e io non l'ho fatto. Gli prendo

il viso tra le mani, lui si appoggia al mio petto. «Mi dispiace Manu. Dovevo portarti in un ospedale.» «Ti avrebbero arrestata alla prima scansione della retina.» Mi stringe, «però potevi dirmelo. Ti avrei capita. Ti avrei aiutata.» «Volevo solo proteggerti, e non sono riuscita nemmeno in questo.» Comincia a fare freddo, lo squarcio che abbiamo fatto nell'ozono, in questi ultimi cento anni, ha gridato vendetta e l'ha avuta. Al posto di questo deserto c'era una pianura, mi hanno detto. E città, e strade. Ora non c'è più nulla. «La vita nella cupola non era così male, però.» Ha anche la forza di ironizzare. Bacio quelle labbra morbide e sorrido. «Non lo era per te e pochi altri...» «Lo so, lo so...» Sta tremando, mi guarda ma non credo che riesca a vedermi. «Manu?» Sorride, lo sguardo fisso oltre me. Non vedrà la società che ho sognato anche per lui, gli stringo la testa al seno, il suo respiro è più lento. Le sue mani scivolano dal mio grembo e l'unica cosa che mi viene in mente è una ninna nanna che mi cantava mia madre. Una melodia antica, nata prima della desertificazione, prima delle città-bolla, prima della dittatura della corporazione, quando le cose avevano un senso. Vorrei

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piangere ma non ci riesco, avvicino le labbra al suo orecchio, anche se non può più sentirmi e canto «Ma a

oriente, a oriente, c'è acqua da bere, c'è un piatto di terra ed uno di sole; a oriente, a oriente c'è un viaggio da fare e occhi di donna da incontrare. E se non basterà il fiato per un passo e un passo ancora, avrò aria sul vestito, avrò scarpe migliori. »


S ka n

OLTRE LO skannatoiO GAT

NASF

Le TRE LUNE 8

signorellimarco@yahoo.it

Fuori dal negozio pioveva, una pioggia fredda, battente e fitta, ma che non poteva nulla contro il sudiciume che oscurava il vetro della porta. L’omino, dietro al bancone ingombro e polveroso, stava sfregando le mani tra di loro; non era un gesto di cupidigia, serviva per mantenere la circolazione attiva nel freddo locale, ma l’effetto ottenuto non era piacevole a vedersi – Bene bene. Sempre piacere chi ha idee chiare. – L’accento dell’omino era, se possibile, ancora più odioso del suo continuo sfregare. Avvolto nel suo cappotto di servizio blu, con distintivo d'oro della doppia spirale sul bavero guanti termici e calzature impermeabili, Tuker non sentiva il freddo esterno, ma stava tremando – Può procurarmelo? – La tensione e l’impazienza erano palpabili; sarebbe bastato osservare la sua postura, per non parlare della

voce tremante che stava trasmettendo tutti i sentimenti senza nessun filtro. – Si si che può. Non facile questo. No no. Ma può se soldi bastano! Le mani smisero di sfregarsi e, la sinistra, si aprì con il palmo verso l’alto per venire tesa lievemente verso Tuker – Anticipo! No possibile negozia. Tuker rispose rigido, non sopportava gli imprevisti, ogni azione doveva essere pianificata con un discreto tempo di maturazione – Come anticipo? Non mi hanno detto nulla su nessun anticipo. La mano dell’omino non si mosse, il gomito leggermente piegato sembrava in grado di reggere quella posizione per sempre – Io sa. Difficile compito ora, ma tu sa bene! Anticipo nuovo per articolo. – La mano si chiuse a pugno, venne ruotata, infine l’indice si tese indicando

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il bavero del cappotto – Io favore. Tu da. Io ritorna te quando tu paga. Tuker portò istintivamente la mano a coprire il distintivo, un veloce scatto che gli fece sentire la sagoma del freddo metallo sul palmo aperto. – Non posso! L’omino non aggiunse nulla, continuò a tenere l’indice puntato verso il piccolo distintivo dorato. *** – Tuker! Il distintivo? – Il Capo lo stava guardando fisso negli occhi. Grande e grosso incuteva un timore che era, per alcuni, solo un gradino sotto il terrore puro. – Co…Cosa? – Finse di stupirsi e si toccò il punto dove sapeva benissimo che non c’era più nulla – Oh... credo che … si… Ho lavato il cappotto e… devo averlo dimenticato nello stipetto del bagno – Divenne rosso,


rosso di rabbia, e questo lo aiutò nella messa in scena venendo scambiato per il colore della vergogna. – Torno a casa a … – Fece per girarsi su se stesso. Il capo lo stava squadrando. – Non essere sciocco! Ti scrivo una giustificazione; in tutti questi anni è la prima disattenzione… – poi una grassa risata – La prima nota di biasimo. – guardò Tuker sbiancarsi per poi ridere ancora – Tranquillo, non la registro. Può capitare a chi ne ha solo uno. La grassa risata del Capo era irritante, ma Tuker dovette solo ingoiare anche l’allusione al suo magro stipendio e a tutto quello che sottintendeva. – Avanti… che avete da guardare! Producete! *** L’omino teneva il distintivo ben in vista sopra il bancone – Come detto. Pegno anticipo. Paga! Tuker afferrò il distintivo e se lo applicò senza neppure guardare. Solo dopo estrasse una busta marrone rigonfia. – C’è tutto! Se non è quello che ti ho chiesto… – Ma la minaccia suonava vuota anche a se stesso. *** I colpi alla porta lo fecero sussultare. Ancora e ancora, ogni colpo era preciso e intervallato da un secondo

di silenzio. Inutile fissare la porta sperando che smettessero. Rassegnato fece scattare la serratura. – Tuker! – Il Capo entrò da solo, lasciando due figure scure sul pianerottolo. – Capo. Non è come pensa era… è… – – Illegale! Non penso nulla di più. Hai commesso un reato sapendo di commetterlo – Il Capo fece un gesto vago con la mano e i due figuri con la maschera protettiva entrarono in silenzio ed in silenzio iniziarono a colpire Tuker con metodo. Non provò neppure ad opporsi ai colpi o a ribattere con un tiepido tentativo di ribellione; quando venne trascinato fuori aveva perso i sensi e la speranza. Il Capo osservò il piccolo locale che rappresentava tutta la zona giorno, notte e cucina, aprì la porta che dava su una stanza annerita e odorosa di acre fumo e plastica bruciata, poi andò nel bagno dove osservò il kit di clonazione ancora in funzione dentro la vasca. Lì attese che la Squadra di Decontaminazione arrivasse con tutta la strumentazione ed iniziasse a raccogliere le prove. – Capo! – Salutarono in coro i due tecnici con le loro tute protettive e le buffe cuffiette mentre si apprestavano ad aprire le loro pesanti valigie. Uno aggiunse – Che storia triste vero? Si

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sa chi stava clonando? La moglie o il figlio? Il Capo indicò l’incubatore – Quello lo avrei anche capito! Ma non c’era nulla da recuperare dopo l’incendio, nulla da usare come matrice. Entrambi i tecnici guardarono nell’incubatrice – Ma è… un cane? – Si avvicinarono per scrutare meglio dentro il piccolo oblò di poliacrilammide. Guardarono prima il piccolo cucciolo che stava ad occhi chiusi al caldo nell’incubatrice. Lo osservarono muoversi in cerca di un calore meno artificiale. Poi spostarono l'attenzione verso il Capo prima che uno di loro parlasse – Che ne facciamo? Il Capo si grattò il testone. – Lui non ha colpe. Portatelo al centro… lo affideremo ad una famiglia meritevole. – Poi si voltò e lasciò i tecnici al loro lavoro. Arrivato alla porta vide il cappotto blu e le due eliche che si intrecciavano sul bavero. Allungò la mano e la staccò per infilarsela in tasca. Scese le scale ripide e dai gradini sudici infine si ritrovò in strada – Stupido – disse alla pioggia fredda che gli rispose aumentando di intensità.


S ka n Purgatorio V per Vermiglio vpervermiglio.altervista.org Camminavano in silenzio. Cinquantuno ragazzi, fra i quindici e i sedici anni, segui­ vano l'uomo con il cappotto rosso nell'ingresso del palazzo. Le divise scure davano loro l'aspetto di uno strano gregge, la cui marcia era scandita dal ritmo lontano delle percussio­ ni. Camminavano, e a ogni passo i loro volti diventavano più contratti, sotto lo sguardo divertito delle guardie schie­ rate ai lati dell'enorme corri­ doio. Procedevano, a testa bassa, consapevoli che ogni metro percorso li avvicinava al momento più importante della loro vita. Lucas quella mattina aveva sa­

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Macelleria n.6

lutato i suoi genitori fra le la­ crime e aveva strappato loro la promessa che si sarebbero rincontrati dall'altro lato. Senza nessun bagaglio e senza accompagnatori, come chiede­ va la lettera, aveva lasciato il quartiere La Spiga e si era di­ retto verso il Palazzo del Tra­ passo. Suoi unici compagni nel tragitto, i ricordi e la tri­ stezza. Ma non voleva pensarci più. Per riuscire a entrare fra i Po­ tenziali, lui e la sua famiglia avevano fatto tanti sacrifici e adesso non poteva correre il rischio di mandare tutto in fu­ mo. Doveva scrollarsi di dosso la nostalgia e prepararsi per ciò che lo attendeva. Tuttavia – ed era questo il punto – nessuno sapeva cosa fosse. Chiunque passasse per quel palazzo non aveva molta voglia di raccontare quello che

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aveva vissuto e per questo erano nate tante storie inquietanti su cosa accadesse fra quelle mura. Tanto che, dalla sua parte del muro, quel posto lo chiamavano il Purgatorio. Il soldato che li guidava – non un semplice soldato, bensì un Guardiano – raddrizzò l'elmo a punta sulla sua testa e si arrestò dinanzi a un portone abbastanza grande da essere attraversato da un'unità di ca­ valleria al galoppo. Su entrambe le ante, decorazioni dorate rappresentavano un falco che vola fra cinque stelle. Il Guardiano si batté con forza tre volte il pugno sul petto. «Gloria a te, Antisia,» urlò, «per te vivremo, per te combatteremo e per te mori­ remo. Splendi sempre, Lavi­ nia, perla dell'Oceano Centra­ le, e preparati ad accogliere


fra le tue mura i Vili che entra­ no in questo palazzo, poiché lo lasceranno solo da uomini ve­ ri». Le parole lasciarono il posto a un lungo attimo di silenzio, in cui cui il sottofondo delle percussioni fu poco più che il pulsare di un cuore. Un istante sospeso, rotto solo dallo scricchiolio del legno. La porta si spalancò. L'odore penetrante dell'incenso e un ritmo incalzante investirono Lucas. Con gli occhi lucidi di meravi­ glia, varcò l'ingresso e si ritro­ vò in una sala ellittica. Lungo il perimetro i soldati della guardia cittadina percuoteva­ no grosse botti con bastoni dalla punta fasciata, coi volti sudati in preda a un sacro fu­ rore. Nello spazio fra ogni botte, disposti a distanze regolari, si trovavano tre uomini con la divisa scura e i guanti bianchi che osservavano impassibili i ragazzi entrare nella sala. Al centro, su una pedana a forma di scudo, un uomo attendeva a braccia incrociate. La luce soffusa rischiarava il suo corpo solido e solenne co­ me la statua di un tempio e i capelli scuri incorniciavano il volto spigoloso che li osserva­ va sorridente. Anche lui indos­ sava il lungo cappotto rosso dei Guardiani, ma non indos­ sava l'elmo a punta e inoltre nella sua figura era più ri­ scontrabile la scaltrezza degli alti funzionari che la brutalità del soldato.

Sotto il suo sguardo i Po­ tenziali si sparpagliarono nella sala, distribuendosi ai piedi del piccolo palco. Annuì compiaciuto. Un attimo dopo, strinse alta la mano in un pu­ gno. Il silenzio inghiottì la sala. L'uomo si batté il petto, tre volte. «Gloria a te, Antisia!» urlò, e la sua mano descrisse un rapido arco verso la sala in gesto di esortazione. I soldati e i Potenziali rispose­ ro come una sola persona, con tre pugni sul cuore e un grido che rimbombò fra le mura: «Per te vivremo, per te combatteremo e per te mori­ remo!» «Sapete bene perché siete qui» disse, con la voce di un confessore. «O, almeno, cre­ dete di saperlo. Credete di es­ sere qui per entrare nella Cittadella, ma state confondendo lo scopo con la causa, una verità scomoda per voi: siete qui perché il seme che vi ha generato è marcio». Le successive parole lasciaro­ no la bocca come proiettili infuocati. «I vostri padri si sono macchiati di peccati terribili. Peccati che gettarono la nostra amata Elisia nella miseria e nel caos, spingendola a un passo dal baratro. Tradirono e sabotarono il loro stesso paese e per questo vennero chiamati “Vili”. Furono banditi dalle grazie di Antisia e dalle mura di Lavinia. Ed è giusto che per le loro colpe continuino a pa­ gare a lungo».

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Lucas sentì un nodo allo sto­ maco. Conosceva bene la sto­ ria del suo paese, o almeno quella che insegnavano nelle scuole collettive, e sapeva che quelle parole corrispondevano a verità. Ciò nonostante, la sua mente ne rigettava completa­ mente alcune implicazioni. Anche a suo padre era un Vile. Come poteva considerare un traditore l'uomo che tornava a casa dopo otto ore di lavoro nei campi e lo aiutava a fare i compiti? Quello stesso uomo che avrebbe rinunciato a tutto pur di non vedere suo figlio condannato alla stessa misera vita. Non poteva accettarlo. La mano, istintivamente, si infilò nella tasca dei pantaloni, in cerca dell'unico piccolo oggetto che aveva portato con sé come ricordo della sua fa­ miglia: un cane intagliato nel legno insieme a suo padre. Come se avesse intuito i suoi tormenti, l'uomo sul palco proseguì dicendo: «Conosco i dubbi che suscitano queste parole in voi Potenziali. Non fate queste facce, è normale. È colpa del veleno che scorre nel vostro sangue. Gli anni di scuola collettiva vi avranno insegnato tante cose sulla Crisi Nera o sulla Gloriosa Purga e avranno fatto di voi dei Vili più civilizzati,. ma per di­ ventare cittadini... Beh, per quello sarà necessario il tra­ passo». Scosse la testa come a scacciare via dei pensieri. «Voi non c'eravate... Se aveste visto, non avreste alcun dubbio. Ma


dato che così non è, toccherà a me, William O'Ryan, rendere le vostre menti e i vostri cuori degni della Cittadella.» Un cenno della testa. Lucas vi­ de i soldati dal mantello bianco venire verso di lo­ ro;ognuno posò la mano sulla schiena di un potenziale. Venne scelto da un ragazzone sorridente, le cui guance carnose sembravano pronte a scoppiare da un momento all'altro. Eppure c'era qualcosa nei suoi occhi, un lontano luccichio, che aggiungeva una sfumatura sinistra all'aspetto goffo. Una volta che ogni soldato ebbe preso in consegna un Po­ tenziale, O'Ryan disse: «Bene. L'uomo che avete al vostro fianco sarà il vostro Custode. Imparate ad amarlo come il padre che nella vostra misera vita da Vili non avete avuto!» «Ascoltatelo!» urlarono i Cu­ stodi. «Poiché sarà lui l'uomo che vi trasformerà in un vero cittadi­ no Antisiano». «Ascoltatelo!» «Un Rosso, lo chiamereste voi. Un uomo, dico io!» «Ascoltatelo!» Un breve silenzio, squarciato da un tuono. «Custodi, condu­ ceteli alle celle di trapasso!»

chi della paura. E non era la naturale apprensione che pre­ cede un evento importante, quanto piuttosto l'atavico terrore che l'uomo può prova­ re solo davanti al congiungersi di ignoto e ineluttabile. Non potevano tornare indietro e non sapevano cosa li attendes­ se: per molti di loro fu davvero come preparasi a morire. Percorsa un'ultima rampa, giunsero in un lungo corrido­ io. Il lato destro era composto da un'unica vetrata da cui la luce sanguigna del tramonto inondava l'ambiente. Lucas osservò il panorama e rico­ nobbe l'inconfondibile profilo del quartiere La Spiga, con i suoi edifici grigi e ammassati. Poco più distante, i palazzoni del quartiere operaio si sta­ gliavano nel cielo infuocato. Nel lato opposto del corridoio si aprivano numerose porte in cui le coppie formate dai Po­ tenziali e dai Custodi entrava­ no e sparivano. Lucas e la sua guida percorsero molti metri prima di fermarsi davanti alla loro meta, una stanza vuota e scura. «Avanti, ragazzo» gli disse il Custode, indicandogliela. Lucas entrò nella cella con una certa delusione. Il Purgatorio era incastonato all'interno del Grande Muro e dato che nel Come un silenzioso serpente, corridoio alla sua destra aveva il corteo di Potenziali e Custo­ visto i Sobborghi, dall'altro di risalì le scalinate del pa­ lato si era illuso di poter trova­ lazzo. Alcuni giovani volti re la Cittadella. Sarebbe stata sembravano impazienti di la prima volta in cui riusciva a giungere a destinazione, ma su vederla in tutta la sua bellezza, tutti erano evidenti gli strasci­ ma in fondo alla stanza, al po­

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sto dell'agognata vista, trovò una spessa tenda scura che la­ sciava filtrare solo un alito di luce. Il Custode accese una piccola lampadina che pendeva dal soffitto e la pallida luce artifi­ ciale rischiarò il viso di Lucas. L'uomo notò l'espressione sul volto del ragazzo e rise. «Sei impaziente, eh? Non ti pre­ occupare, la vedrai, ma prima abbiamo un bel po' di lavoro da fare. Sono il Custode Waters e... Beh, direi che pos­ siamo iniziare». Chiuse la porta dietro di sé e così cominciò il lungo trapasso del Potenziale Lucas Mori. All'inizio furono domande semplici, quasi informali. Lu­ cas, che non era uno sprovve­ duto, mantenne comunque alta la guardia e scelse accu­ ratamente ogni sua parola, nonostante avesse l'impres­ sione che il Custode stesse fa­ cendo di tutto per metterlo a suo agio. Ma il loro colloquio prese pre­ sto una piega diversa. Il ragazzo era in piedi da quando aveva lasciato casa e cominciava a non farcela più, ma nella stanza era presente un'unica sedia, occupata da Waters. La stanchezza lo spinse a rompere gli indugi. «Custode Waters, mi perdoni signore, potrei sedermi sul pavimento? È da stamattina che sono in piedi...» La risposta del Custode lo ge­ lò. «No, Lucas, mi dispiace, non posso consentirtelo. È un


piccolo sacrificio per il premio che ti aspetta, non ti pare?» Lucas cercò di cancellare in fretta lo stupore dal suo volto e annuì. «Bene» disse Waters. «Ti va di parlare un po' della Gloriosa Purga?» A quella domanda, il ragazzo sentì improvvisamente le energie tornargli. Era stato scelto fra i Potenziali proprio per i suoi straordinari risultati scolastici e la storia era la sua materia preferita. . «Con il termine Gloriosa Purga si indicano gli effetti del provvedimento di urgenza 133 dell'anno 818. Con esso si ordinava l'allontanamento immediato dalla zona rossa – quella che oggi conosciamo col nome di Cittadella – di tutti gli iscritti nelle liste nere stilate dal Ministero della Sicurezza. Con la sua approvazione, il go­ verno del cancelliere Volkov riusciva venti anni fa nel diffi­ cile intento di gettare le basi per una riorganizzazione se­ condo principi meritocratici dell'intera società Antisiana, suddividendola...» Il guardiano lo interruppe con un gesto della mano. «Sono al corrente delle tue ottime co­ noscenze storiche, Lucas. Quello che voglio sapere è co­ sa ne pensi tu». Il ragazzo esitò per un attimo. Doveva riorganizzare i suoi pensieri. «Credo che il Cancelliere abbia fatto ciò che fosse neces­ sario per salvarci». Waters si piegò verso di lui e

inarcò un sopracciglio. «Tu credi?» Messo alle strette, Lucas cercò di ribadire la sua risposta nella maniera più convincente pos­ sibile. «Sì, ne sono sicuro». «Molto bene». Waters sorrise e si riassestò sulla sedia. «Perché, vedi, dalle tue parti sappiamo che sono molto diffusi altri tipi di idee. Mai sentito parlare della Purga co­ me di un violento colpo di stato, o del cancelliere come uno spietato e ambizioso de­ spota?» Lucas distolse lo sguardo. Certo che lo aveva sentito. Le aveva sentite sussurrare nei corridoi della scuola, nelle strade del quartiere... e pgni tanto c'era perfino qualche incosciente che ne discuteva ad alta voce. Perfino suo padre aveva maledetto il cancelliere diverse volte quando lui era più piccolo, anche se ormai erano anni che aveva smesso di farlo. Tutti nei Sobborghi se l'erano presa almeno una volta col governo o con la Purga, era inutile negarlo. «Sì, potrebbe essermi capi­ tato». «Ma queste non sono opinioni che condividi, vero?» «No, assolutamente no, signo­ re». «Bene, Lucas. Perché questo è veleno, non lasciarti inganna­ re. Chiunque pronunci parole del genere è un Vile della peggior specie, troppo stupido per capire o troppo codardo per ammettere le proprie colpe. Gente che denigra il go­

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verno perché ha avuto il co­ raggio di punirli come merita­ vano; bambini che, messi in punizione a scuola, tornano a casa e inventano una storia per far sembrare la maestra un mostro. Bugiardi e traditori, Lucas. Giustificare gente del genere vuol dire essere come loro, e tu non vuoi più essere un Vile, vero?» «No». Se significava essere un codardo e un bugiardo, lui non lo voleva. Ma davvero tutti gli abitanti dei Sobborghi erano così? «Tu sei molto più intelligente e retto di loro. È per questo che sei riuscito ad arrivare qui dentro. Hai imparato a distinguere cosa è giusto e co­ sa è sbagliato. Sai che l'unica verità inconfutabile è quella che si ricava dei fatti, vero?» «Sì, signore». «E i fatti dicono che Volkov e il Partito per la Patria ci hanno salvato dal baratro, sei d'accordo?» «Sì». «Quindi, noi tutti dovremmo essere loro riconoscenti, giu­ sto?» «Assolutamente sì». «E allora questa gente, questa feccia, anzi, che dopo aver messo in pericolo l'intera na­ zione ha anche il coraggio di mettere in giro menzogne così sfacciate, non merita forse tutte le pene che patisce?» Un terremoto. Fu questo che Lucas sentì nella sua mente. Alcune delle sue convinzioni, crollarono sotto la scossa delle parole del Guardiano Waters.


Pur ritenendosi un buon anti­ siano, Lucas aveva sempre creduto che gli abitanti dei sobborghi avessero le loro buone ragioni per avercela col governo, viste le misere vite che conducevano mentre i Rossi si ingozzavano di vini pregiati e pesce fresco e lavo­ ravano quattro ore al giorno. Ma ora, per la prima volta, co­ minciava davvero a credere che ci fosse una ragione valida per tutto questo. «Sì. È giusto che il governo premi i cittadini migliori, co­ me è giusto che punisca quelli peggiori». La voce, ferma e ri­ soluta, non tradì un minimo della stanchezza che provava il suo corpo. Waters annuì compiaciuto. «Molto bene Lucas, veramente molto bene». Il sorriso conti­ nuò a illuminare il viso dell'uomo per qualche se­ condo, poi, l'euforia svanì e assunse una posa più pensie­ rosa, col mento poggiato fra pollice e indice. «Vedi, Lucas, capisco perfetta­ mente perché tu sia stato scelto come Potenziale. Potrei farti saltare direttamente alla fase finale di questa benedetta procedura, ma significherebbe fare male il mio lavoro e io so­ no stato uno dei migliori allie­ vi di O'Ryan. Tu sei quasi pronto, ma il tuo distacco dai Sobborghi non è ancora completo». «No, Custode Waters, le posso assicurare che non è così». «Davvero? Allora, Lucas, indi­ cami il nome di almeno una

persona del tuo palazzo che ti abbia parlato male del go­ verno o del cancelliere e ti la­ scerò completare la procedura in questo istante. Ma – ti avvi­ so – quella persona domani mattina, mentre si reca a lavo­ ro, incontrerà una squadra della Milizia... e non sarà pia­ cevole. Avanti, ti ascolto...» Puro orrore sul volto di Lucas. Il compiacimento suscitato dagli elogi di Waters era scomparso e adesso il ragazzo lottava nella morsa di due pulsioni contrapposte. Una parte di lui cercava la forza per fare un nome, magari qualcu­ no di antipatico come quella megera della signora Sati o quell'ubriacone del signor Lu­ ther, per dimostrare a Waters e a se stesso che ormai era pronto a essere un Rosso. Ma c'era anche anche qualcosa che lo spingeva a ricordare le facce degli uomini che avrebbe denunciato e a immaginare i loro colpi riversi nel sangue, circondati da famigliari in la­ crime. E quella forza era davvero molto potente. Alla fine abbassò la testa e ri­ mase in silenzio. «Come immaginavo... Sei ancora uno di loro, ragazzo, ma nulla è perduto. Posizio­ nati dietro di me, con lo sguardo rivolto verso la tenda». Lucas raggiunse il punto indi­ cato dal Custode e congiunse le braccia all'altezza dell'addo­ me. La voce di Waters gli giunse da dietro le spalle cordiale e

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perentoria allo stesso tempo. «Da questo momento in poi, anche se non sentirai la mia voce, tu non ti girerai per cercarmi, né chiamerai il mio nome almeno che non sia io a chiedertelo, chiaro?» «Sì, Custode». Lucas senti un foglio di carta toccargli le mani. Lo afferrò e cominciò a leggerlo. «Ti batterai il pugno sul petto per tre volte, poi leggerai quello che c'è scritto lì, con voce forte e decisa, come fosse un giuramento. Finito di leggere batterai di nuovo il pugno tre volte e fisserai la tenda, visualizzando i numeri da uno a dieci. Visualizzando, chiaro?» «Chiaro». «Bene. Fatto questo rico­ mincerai da capo, tutte le volte che saranno necessarie, fino a quando non sarò io a fermarti. Non addormentarti e non se­ derti. Un vero antisiano ha motivazioni in grado di fargli attraversare in volo gli oceani, figuriamoci di sconfiggere sonno e stanchezza. E non ti voltare, mai. Potrebbe non piacerti quello che seguirebbe. Domande?» «No, nessuna». Ne aveva un'infinità, ma sapeva qual era la risposta che voleva il Cu­ stode. Un buon Eliano non chiedeva mai “perché?” «Bene, Lucas. Comincia... e non deludermi». Il Vile è un bugiardo, un invi­ dioso, un essere dal cuore pa­ vido e dal cervello piccolo. Il


mio cuore invece è puro e la mia mente è una spada affi­ lata al servizio di Antisia. No, io non sono più un Vile. Non sono più come loro. Io amo questo paese e questo governo e chiunque si schieri contro di essi dovrà pagare, come io ho pagato per le colpe dei miei genitori. Ma io ho saldato i miei debiti e merito di essere accolto nella Cittadella. Io ora merito la prosperità di Lavi­ nia e per questo sarà odiato da tutti i Vili. Io ora sono un cittadino di primo livello, onesto e leale, e per questo odio tutti i Vili. Le prime volte che pronunciò quelle parole, la voce di Waters lo esortò a leggerle con più passione. Ma più ripeteva le frasi che all'inizio aveva pronunciato con freddezza e imbarazzo e più queste affondavano radici dentro di lui. Dopo un po' non sentì più la voce del Guardiano, poiché la propria era convinta e vee­ mente, e le parole ormai erano scolpite nella memoria. Uno, due, tre... Lucas non riuscì mai a capire quanto tempo trascorse in quella cella, ma l'impressione fu di averci trascorso una vita. Diverse volte fu tentato di gi­ rarsi o di chiamare il suo Cu­ stode, ma riuscì sempre a resi­ stere. Nella sua mente erano ancora vive le raccomanda­ zioni dell'uomo, nonché quelle di suo padre, che lo esortava a

entrare nella Cittadella senza mai guardarsi indietro. No, non avrebbe fallito. Ripeté il suo giuramento ancora e ancora, fino a che le parole non uscirono dalla bocca come ubriachi che la­ sciano la taverna all'alba e la sua vista si riempì di formico­ lii ed evanescenze. Non era più nemmeno sicuro di star vera­ mente parlando, ma visto che nessuno lo richiamò, andò avanti.

fatto per finire in quella fogna, costringendo anche lui a cre­ scerci dentro. No, non lo odiava ancora, ma un certo fastidio cominciava a provarlo. … Sette, Otto...

Vortici di luce su uno sfondo nero. Parole che più escono fuori e più scavano dentro. Contava e ricontava, ma poi, alla fine, dov'è che er? Si trovava ancora nei Sobborghi? Se sì, perché? No, “perché” non va bene. “Come”. … Quattro, Cinque , Sei... “Perché” è troppo da Vile . La parte peggiore era resistere Non poteva essere ancora lì, quello non era il suo posto. al sonno e alla stanchezza. Qualcuno doveva averlo fre­ Non aveva idea di quante ore avesse ormai passato in piedi, gato. Lui era un Rosso, male­ ma sentiva che avrebbe potuto dizione, mica un lurido Vile. uccidere per un giaciglio. Si ... Nove e Dieci! sentiva sfinito. Proba­ bilmente, pensò, per un letto Una mano sulla spalla. Una adesso offrirei anche i nomi voce lontana. dell'intero condominio. Lucas non capiva. Sentì un Perché doveva subire quel getto di acqua gelata supplizio? Lui non aveva mai piombargli addosso. fatto niente di male. Maledisse i Vili. Era colpa loro «C­cosa?». La sua faccia era pallida e stravolta. se quella tortura si era resa «Ci siamo quasi, Lucas. Ma necessaria; tutto quello che aveva dovuto patire era colpa ora devo farti una domanda ». «Ok...» loro. Avrebbe potuto vivere quindici anni nell'agio e nella «Conosci Victor Mori?» serenità della Cittadella, inve­ Victor Mori. Quel nome non gli era nuovo. Un momento... ce che nello squallore e nella povertà dei Sobborghi, se quei «È... è mio padre». Waters annuì e sventolò un bastardi non avessero co­ fpglio. «Questo rapporto del stretto con i loro complotti il cancelliere a erigere il Grande Ministero della Sicurezza ri­ sale all'epoca della Gloriosa Muro. Anche suo padre faceva parte Purga. Ascolta attentamente. “Il signor Mori ha passioni e di quell'esercito di traditori? simpatie pericolose. Vota ed è Forse, non sapeva dirlo. iscritto all'Unione Riformista. Qualcosa doveva pur averlo

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Nonostante la tragedia che sta scuotendo il nostro paese, continua a somministrare te­ stardamente le sue velenose lezioni su pacifismo e ugua­ glianza ai suoi alunni. Lo abbiamo avvertito già diverse volte, ma il soggetto non colla­ bora. Non possiamo permetterci di intossicare con queste idee anche le genera­ zioni future. Non un uomo co­ sì non può rimanere al suo po­ sto. Deve essere inserito nella lista nera”». Il Custode si schiarì la voce. «Che ne pensi?» Lucas fissò in silenzio Waters, le pupille come grosse macchie di inchiostro al centro dello sguardo perso. «Io... Io mi vergogno di lui...» Il Custode sorrise. Con passo deciso si diresse verso la tenda e con un gesto brusco la strappò via. La luce filtrò dalla finestra, ferendo gli occhi del ragazzo e co­ stringendolo a nasconder il vi­ so fra le mani , rimandando l'agognato primo sguardo. Ma che importava? Allontanò i palmi dagli occhi e la Cittadella apparve in tutto il suo splendore. Una tenue luce ne esaltava l'aspetto celestiale, nello splendido scorcio d'alba... o era di tramonto? Poi c'era qualcos'altro fuori dalla finestra, ma in un primo momento gli apparve troppo sfocato. «È il momento di scegliere da che parte del muro stare, Lu­ cas. La Cittadella ti attende, basta che tu dia l'ordine». Il ragazzo strizzò gli occhi. Le due forme indefinite divenne­

ro due uomini che procedeva­ no lungo il cammino di ronda. L'uomo con l'elmo a punta spingeva l'altro con la canna del fucile verso un'apertura a strapiombo nella merlatura, una breve passerella di pietra che terminava sul vuoto. «Chi è?» chiese Lucas incurio­ sito. «Non lo riconosci?» Lucas si sporse verso la ve­ trata. «Non saprei... Forse...» «Guardalo bene». L'uomo si trovava adesso sulla sottile lingua di pietra, il viso rivolto verso la vetrata e le spalle sul vuoto. Con i palmi delle mani supplicava la guardia di fermarsi, di ri­ sparmiarlo, mentre il suo sguardo scrutava in lungo e in largo in cerca di qualcuno che potesse salvarlo. Nonostante gli sforzi e la pro­ spettiva favorevole, Lucas era troppo provato per mettere a fuoco quel volto. Fu l'istinto a suggerirgli la risposta. «È mio padre?» «Esatto, Lucas». «Davvero?»Non c'era pre­ occupazione nel suo tono, solo curiosità. «Pensi che ti mentirei?» «No, signore». «No, infatti». Waters sorrise. «Sai perché è lì?» «Perché ha tradito?» «Esatto, Lucas, perché ha tra­ dito. Ora, un vero cittadino non esiterebbe un attimo a eseguire questa condanna, ma tu puoi scegliere. Dai l'ordine di procedere e diventerai uno di noi. Risparmialo e tornerete insieme alla vostra vergognosa esistenza».

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Lucas abbassò lo sguardo. Non c'era alcuna emozione sul suo viso, non un muscolo che fremesse sotto quella masche­ ra malconcia. «Che paghi quello che deve pagare...» Il ragazzo non vide il sorriso che comparve sul volto di Waters a quelle parole. Non era il gesto cordiale che gli aveva rivolto diverse volte quella giornata, bensì la gioia di un demonio che ha messo le mani sull'ennesima anima. Un'emozione provata innu­ merevoli volte, ma che conservava sempre un gusto speciale. Con quell'espressione ancora dipinta sul volto si avvicinò alla finestra e diede il segnale. Lo sguardo di Lucas non si spostò dal pavimento. Sentì lo sparo, poi un un urlo stra­ ziante che si spense a poco a poco, dissolvendosi all'improvviso. Waters gli poggiò una mano sulla spalla. «Benvenuto nella Cittadella, cittadino Mori». Tuttavia, proprio nel mo­ mento in cui il governo acco­ glieva Lucas nelle sue gra­ zie,una voce risuonò nella testa del ragazzo, un grido di libertà che spinse la sua mano verso la tasca. Lì trovò e strinse il piccolo oggetto che aveva portato con sé furtiva­ mente, unico ponte rimasto in piedi per un mondo in cui era libero di pensare che suo pa­ dre fosse un genitore amore­ vole e un uomo per bene. Un'unica grossa lacrima, rara crepa nel lavoro del Custode, solcò il viso di Lucas.


Destarsi dalla veglia Fu un meteorite a svegliare Alfonso Spartano. Il ragazzo era impegnato a godersi la fresca brezza del pomeriggio su La Sterpaia, mentre il sole calava rosso oltre la linea del mare. Sulla spiaggia ristavano ancora pochi bagnanti; la maggiorparte era sparita da un pezzo verso i bungalow per prepararsi alla cena. Ma le voci di quei pochi che parlavano non incrinavano l'immensa pace che il ragazzo sentiva dentro. Dopo l'incontro e la conoscenza di Sabrina, avvenuto verso le dieci di quel medesimo giorno, per Alfonso era stato un crescendo di sensazioni trascinanti, un'emozione continua e in aumento per ogni cosa che gli era capitata sotto gli occhi. Ormai era innamorato, e si sa che gli innamorati sono troppo drogati per analizzare I fatti della vita sotto la luce dell'oggettività. Persino il bisticcio col suo amico e compagno di bungalow, avvenuto dopo le quattordici a causa del disaccordo su come organizzare la giornata di domani, non era riuscito a guastargli quella visione paradisiaca della realtà. Ora, mentre passeggiava, e ogni tanto buttava un'occhiata al tramonto, era sordo ai suoni dell'intorno e non pensava

altro che a Sabrina. Sabrina, Sabrina, Sabrina... Che nome! Aveva il suono morbido della sabbia, aveva la freschezza della brina; e aveva gli occhi della favola. Dove si era nascosta, mentre lui, venticinquenne da pochi mesi, era andato a zonzo per il mondo, a farsi coinvolgere da falsi amori della durata di pochi mesi a essere fortunato, di pochi giorni quando il destino diceva no? Che ragazza! Eppure fra i due non si era verificato che qualche scambio di battuta: un accidenti, uno scusa, un ecco, ti prendo il libro, perdonami, correvo come un idiota, e lei ma no, tranquillo, mi verrà il bernoccolo ma come vedi ho i capelli lunghi, li farò cadere davanti al viso così nessuno mi guarderà e io non guarderò più dove metto i piedi... Simpaticissima, aperta, solare, una ragazza meravigliosa. Era rimasto lì a tentennare per mezzo minuto, quando si erano infine separati, prima di scattarle al seguito per chiedere di rivedersi. Lei aveva detto sì; tanto era alloggiata nel villaggio turistico per i prossimi otto giorni e di occasioni ne avrebbero trovate. Ecco, proprio quando Alfonso era lì lì per rivivere nella memoria per la milleunesima volta l'attimo in cui lei gli dava il suo numero di cellulare, il meteorite, delle dimensioni di un mandarino,

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lo colpì alla nuca, facendolo svenire sul colpo. In effetti, il meteorite svegliò Alfonso mettendolo a dormire. Quando rinvenne, si scoprì sguazzare nella confusione più grande. La testa gli faceva male, e gli spasmi del risveglio gli causarono impennate diaboliche nelle pulsazioni dolorose che sentiva più intense in tutta la parte posteriore del capo. Con la capacità di ragionare che stava ritornando, decise di starsene sdraiato un momento, attendere che le sinapsi e i neuroni prendessero piano piano a funzionare del tutto. Poi, però, mandando in vacca ogni buon saggio proposito, si sollevò a sedere in un colpo. Mezzo secondo dopo cercò anche di saltare in piedi, ma una vertigine lo rimandò giù. La sorpresa non scemava, e i dolori cerebrali furono acuiti dal confuso e frettoloso ragionamento che attivò per spiegare il mistero che lo circondava. Perché era questo: anziché risvegliarsi su una spiaggia ancora riscaldata dal sole, si era trovato su un pavimento di cemento grigio e freddo. E anziché indossare i pantaloncini corti e la t-shirt che portava prima, era abbigliato ora con vestiti pesanti: pantaloni lunghi, maglione e giacca, tutti di stoffa grezza e ruvita. Per un attimo gli sovvenne il ricordo di una fo-


to dei deportati nei lager nazisti, i quali indossavano più o meno divise simili nella manifattura. O, almeno, aveva avuto quella sensazione nel vedere l'immagine. Però non stava in un lager, di questo ne fu sicuro quasi subito. Il pavimento era senza dubbio quello di una strada, visto che proseguiva diritto e lungo e aveva ai lati due filari continui di casamenti squadrati e severi; e là in fondo la strada sbucava in un incrocio o su uno spiazzo. Il cielo oltre i tetti era nuvoloso e tetro, quello che può capitare alla fine di una giornata autunnale. Beh, pensò, almeno

l'ora mi torna. . . mi sa che sono rimasto svenuto una trentina di minuti.

A fatica si sollevò in piedi. La vertigine ritornò, ma attenuata. Aumentò quando s'accorse di una nuova stranezza, che non aveva notato prima, evidentemente, perché la stranezza del posto e degli abiti avevano rubato la sua attenzione. Dalla sua persopna si emanava un puzzo micidiale, nauseabondo. Aveva ventiquattro anni, e quel fetore indicava una mancanza d'igiene che durava esattemente tanto. Impossibile! Eppure i sensi erano incontestabili: non solo il naso percepiva l'afrore, ma anche la sua pelle, mentre si muoveva e grattava sotto stoffa dei vestiti, gli rimandava una sensazione sgradevole di

sporco. La fugace visione di una cute incrostata da strati di sudori mai lavati, impastatisi con polvere e terra in anni e anni, lo fece quasi vomitare. Quando abbassò il capo per analizzare meglio lo stato dei vestiti, un barbone cisposo si schiacciò sul petto e venne su, occludendogli bocca e naso. E scoprì così di avere, appunto, anche una notevole barba incolta. Capelli? Bastò scuotere la testa – non energicamente per non aumentare il dolore – e se li vide ondeggiare rigidi con la coda degli occhi. Barba e capelli lunghi come se non avessero mai conosciuto un paio di forbici o un rasoio in tutta la loro vita. Incredibile. Decise che poteva camminare e mosse i primi passi verso lo spiazzo o l'incrocio che s'intravvedeva in fondo al vicolo. Intando registrava altri particolare: non c'erano lampioni e il silenzio che gravava intorno era assoluto. Solo in sottofondo udiva un ronzio rauco, sommesso. Non capiva da dove provenisse, perché sembrava pregnare ogni centimetro cubo dell'area. La sorpresa spingeva il suo cervello a lavorare a una velocità forsennata per trovare una soluzione. Possibile che qualcuno gli avesse giocato uno scherzo? Si toccò la nuca, trovandola vischiosa. Sangue, capì portatasi la mano agli occhi. Che botta!

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L'amico, ancora scotto per la litigata, lo aveva tramortito, vestito a quel modo e portato in qualche zona industriale abbandonata o forse no ma vuota in quel momento... Ma come tesi era troppo assurda. Incapace di raccapigliarsi, sentì arrivare la paura per le cose misteriose. Si fermò un attimo. Non si era allontanato molto da dove stava prima, quindi si girò. La strada proseguiva diritta anche da quella parte e anche di là pareva sbucare in uno slargo. Allora si accorse di qualcosa che giaceva nella pozzetta del suo sangue. Ritornò indietro e prese il sasso. Perfettamente levigato, ma superficie irregolare: pareva una patata. Era leggero, ma non gli sfuggi che se scagliato con forza avrebbe potuto tramortire qualcuno cozzandogli in capo. Poi ricordò un'altra foto vista anni prima, in un libro di astronomia. Un meteorite? Possibile? In effetti la forma e l'aspetto lo ricordavano molto... Un primo tassello del mistero si fece strada in lui e si posizionò stabilmente nel puzzle. No, non era stato uno scherzo dell'amico o l'azione maligna di qualcun altro. Si chiese quanti avrebbero potuto vantare come lui di essere usciti vivi da un incidente simile... Ma sono davvero vivo? Riprese ad andare verso il primo slargo visto. Fortu-


natamente il sangue si stava coaugulando, non ne aveva perso molto, ma il dolore alla testa poteva essere sintomo di un trauma cranico che non andava sottovalutato. Per prima cosa bisognava uscire da quella stradina, cercare qualcuno. Spinto da un'inattesa speranza s'infilò le mani nelle tasche della giacca... o, almeno, cercò di farlo, prima di capire che non c'erano tasche. Anche I pantaloni ne erano sprovvisti. Aveva sperato di trovare il cellulare, ma a quanto pareva gli avevano tolto tutto insieme ai vestiti. Accanto alla paura sentì montare la rabbia. Era un bonaccione, lui, eppure giurò che se avesse scoperto chi gli aveva giocato quel tiro, lo avrebbe menato a sangue. Spogliarlo, toccarlo... Non volle immaginare con quale attegiamento le mani anonime avevano maneggiato il suo corpo. I fatti però non tornavano. Era stato tramortito da un meteorite, e qualcuno lo aveva prelevato da lì e posizionato in un diverso luogo dopo averlo svestito e rivestito altrimenti... No, no, no. Bisognava calmarsi e cercare qualcuno. Quando sbucò dal vicolo, però, trovò una stradina appena più larga che si distendeva diritta a destra e sinistra e che veniva interrotta da quelle che potevano essere altre stradine.

Tuttavia, il buio della sera stava avanzando, ed era già più difficile soffermarsi sui dettagli, specie se così lontani. Tirò una moneta immaginaria per decidere la direzione da prendere. Sentiva l'urgenza d'uscire da quelle casone alte e uguali, allineate a schiera. La sensazione di trovarsi in un labirinto senza segnali stradali era assurda quanto inevitabile, perché le case, sempre ammesso che fossero case, non avevano dettagli che le personalizzavano: ogni parete era grigia allo stesso modo delle altre, ogni porta era un semplice pannello di metallo nero come le altre; e non c'erano finestre, pareva. Fortunatatamente la direzione che aveva preso era stata quella giusta, perché arrivò in una strada più larga, ma soprattutto era meno lunga e la vicinanza del posto in cui si affacciava gli diede speranza. Infatti a non molte decine di metri scorse un traffico di persone che avanzava lento e silenzioso attraversando l'incrocio. C'era anche dell'illuminazione, sulla via trafficata, anche se appena sufficiente a vedere dove si mettevano i piedi. Alfonso sentì le pulsazioni nella testa placarsi. Evidentemente buona parte del dolore era stato causato dai pensieri a rotta di collo, dalla preoccupazione, dall'istinto di autoconservazione frustrato

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perché non si sta combattendo con qualcosa di chiaro. Chissà quante emicranie nella vita di milioni di persone avevano la stessa causa... Notò che la gente era abbigliata come lui. Mentre si avvicinava all'incrocio, chiamò parecchie volte: «Ehi? Aiuto!» ma nessuno rispose né si voltò. Era una folla mista, c'erano uomini di varie età e c'erano donne di varie età. Non c'erano bambini, ma qualche ragazzino sopra i tredici anni sì. Alfonso continò a chiamare. Ma i richiami si affievolirono, perché ad aumentare era la perplessità. La gente andava tutta in un'unica direzione. Il procedere era lento, pareva un ruscello di persone. La luce, per quanto fioca, evidenziava volti inespressivi, occhi aperti, occhiaie oscure, qualche bocca schiusa per pesantezza di mascella e muscoli distesi. Non c'era una sola voce, non un sussurro. Il silenzio della folla sarebbe parso sovrannaturale se non fosse stato per il coro di scarpe di gomma e respiri. Alfonso fu riconquistato dalla paura di poco prima. Si arrestò presso l'incrocio, incapace di risolversi all'azione. Un altro dettaglio gli saltò all'occhio: tutti avevano capelli lunghi e scomposti, e i maschi anche le barbe. Come lui stesso. In virtù di qualche prodigioso intuito, scoprì che la lunghezza di barbe e


capelli era legata all'età: i vecchi avevano chiome che arrivavano ai piedi, per tacere delle barbe su quelli di sesso maschile, i più giovani invece meno. Anche il logorio dei vestiti sembrava essere direttamente collegato all'età, o meglio alla quantità di tempo che aveno trascorso addosso ai rispettivi proprietari. Tutti erano snelli, non magri. Cosa succedeva e che razza di posto era quello? Più vigile che mai, Alfonso si avvicinò alla folla, e ne fu disgustato, perché l'odore che lo invase parve quello che emanava lui, solo potenziato decine di volte. Anche quella gente, se non stava recitando in un qualche scherzo da un milione di euro che qualcuno aveva organizzato ai danni di un povero sfigato colpito da una meteora, non si lavava da anni. I volti erano spaventosi. O, meglio, la loro espressione, che era uguale su ogni faccia: trasognata, persa, vuota. Sembravano sonnambuli intenti a partecipare a un'unica visione che li portasse verso un'unica meta. «Ehi» si arrischiò a dire Alfonso. Ma, come si aspettava, nessuno gli badò. Quella gente stava dormendo. Dormiva in piedi e a occhi aperti, e andava... Dove andava? Volle scoprirlo. Doveva scoprirlo. Si mise al seguito. Il quartiere, perché di quartiere si trattava – o di area indu-

striale: chissà cosa contenevano quegli edifici – finì. Alfonso aveva seguito la corrente umana per quelli che gli sembrarono dieci minuti. Considerata la lentezza della marcia, doveva aver percorso un paio di chilometri. Sulla via si affacciavano altre viuzze e strade più larghe. Alla folla si erano inseriti altri gruppi di persone, che arrivarono dai vicoli confinanti, ma tutti avevano quella stessa espressione e il silenzio non era diminuito. Non c'erano segnali stradali, né cartelli di qualche altra natura informativa. Non vide un murale, non vide un simbolo, un marchio. Non vide una sola lettera o numero. Il cielo era diventato nero quando la zona urbana finì e ne cominciò un'altra di diversa natura. Alfonso, però, non era sicurissimo del cambiamento, perché morfologicamente l'unica differenza sostanziale, rispetto all'area in cui era rinvenuto, era il rimpicciolirsi e il disgiungersi della maggiorparte delle case e il fatto che le porte stessero aperte. L'idea di uscire da un ambiente asfissiante finì di colpo, perché il separarsi delle case dava la sensazione di ariosità e spazio aperto. La gente cominciò a distribuirsi nelle vie. A gruppi di dieci entravano nelle case più grandi, rigidi cubi senza dettagli proprii. Seguì uno dei gruppi e scopri che si erano

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diretti verso un tavolo su cui erano posti dei grandi bicchieri di stagno. Ognuno prese un bicchiere e se lo portò alle labbra. Alfonso si avvicinò e vide che nei biccchieri c'era una poltiglia blandamente odorosa di cibo. Stavano bevendo, ma in verità mangiando, un pappone di qualche tipo. Quando finirono, si voltarono e uscirono. Lui decise di segurli. Camminarono in direzione di un altro casone. Mentre si avvicinava, Alfonso sentì arrivargli il puzzo inequivocabile di cessi sporchi. Dentro la costruzione il gruppo di dieci si calò le braghe e chinò. Defecarono quasi all'unisono in dei fori sul pavimento, posti ognuno in mezzo a una leggera depressione in cui fluì anche il piscio. Quando ebbero finito, si sollevarono e ricoprirono, e uscirno anche da lì. Perplesso oltre ogni norma, il ragazzo li seguì in un altra casa, dove si sdraiarono su dei materassi di spugna o lattice disposti sul pavimento, in ordine uno accanto all'altro. E rimasero così, con occhi aperti e sguardo perso, fermi. Sembravano morti, non fosse per i petti che respiravano. Vagò nella notte. L'illuminazione cittadina si era spenta pochi minuti dopo che le strade si erano svuotate, ma per fortuna dopo lo sgombero del cielo una luna quasi piena


gli aveva impedito di sbattere contro un muro. La città si mantenne senza sorprese: case grigie, cubiche, assenza di finestre, silenzio, vie senza nomi. Non seppe dire quando precisamente cominciò a concentrarsi sul suono. Era il suono che aveva sentito nel vicolo al suo risveglio, che gli era sfuggito dall'attenzione dopo l'incontro coi primi uomini, ma che, a quando pareva, non si era mai interrotto. E mentre concentrava l'udito per capire di cosa si trattasse, ebbe su di lui uno strano effetto calmante. Forse fu il suono e forse la prostrazione che aveva accumulato; la debolezza per aver perso sangue e il digiuno di cena... O forse furono entrambi i fattori, il fisico provato che si arrendeva al suono, e il suono che scavava in quella resistenza blanda ancora più consenso, conquistandolo. Sentì la mente imblandirsi, e una stanchezza generale colse la reattività del corpo. Veniva avvolto da una pace sconfinata... E fu in quella pace che, appunto, riprese a dormire. Si svegliò sulla spiaggia, poche ore dopo essere svenuto. Chi lo aveva colpito? Non poteva dirlo. Trovò un sasso lì vicino, nella pozza di sangue che andava essiccandosi nella sabbia. Un meteorite, capì subito per chissà quale intuizione geniale. Lo prese e si avviò verso il bungalow. La

testa non gli faceva male, ma avrebbe chiesto all'amico di accompagnarlo all'ospedale. Non si sa mai, con le cose delicate. E mentre andava, costruiva il mirabolante discorso che avrebbe fatto a Sabrina quando si sarebbero rivisti. Lei certamente sarebbe rimasta affascinata dall'incidente. E, chissà, con quello strumento lui avrebbe avuto più possibilità di farsela ragazza. Quando i due tecnici di terzo livello della Classe Addestratrice trovarono l'uomo, scoprirono con gran piacere che gli impulsi subliminali avevano già riportato la situazione alla normalità. Infatti il lavoratore, anche se aveva la nuca sporca di sangue, avanzava piano, in perfetto automatismo, verso il suo giaciglio per la notte. I due, tuttavia, si misero al passo del soggetto e lo analizzarono con gli strumenti. «Sembra tutto a posto» disse uno dei due, vedendo sul pannello dello scannerometro i parametri cerebrali. «Sta sognando, ma la percentuale di onde è correttamente maggiore nell'ampiezza delle Delta. Sogna a intermittenza, in brevissimi attimi. Le energie cerebrali sono economicamente nella media.» «L'incidente gli ha causato una leggera commozione cerebrale» disse l'altro. «Guarirà senza il nostro intervento.» «Tuttavia il fisico risulta debilitato dello 0,23%.»

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«Beh» aggiunse l'altro «lo credo bene. Ha camminato molto. Inoltre deve aver avuto una forte emozione. Solo quella può aver causato un'ingente perdita di energie.» «Vero. Inoltre ha saltato la razione serale del nutriente.» Il tecnico stava passando ai sensori il contenuto dell'intestino. «Non vedo chimo.» Quando entrambi rimisero gli strumenti nelle brose, restarono lì a guardare il lavoratore che andava via e spariva dietro un angolo. Entrambi non si capacitavano di come quei sonnambuli riuscissero a orientarsi in quel dedalo senza indicazioni per i coscienti. Quelli del primo livello della Classe Addestratrice facevano un gran lavoro nell'istruire e consolidare lo status di sonnambulismo in quelle persone. «La Classe Dirigente ha rischiato grosso» disse il primo poco dopo. «Già. Bisognerà rivedere le direttive di sicurezza. Chi poteva immaginare che si verificasse un caso simile in un posto come questo, dove le attività sono seguite costantemente e al massimo dell'attenzione?» L'altro chiese: «Secondo te le perdite a quanto ammonteranno, nel rapporto di domani?» «Difficile dirlo. Considerando che l'incidente è avvenuto a fine turno lavorativo, sarà dell'ordine di vari deci-


mali sotto lo zero per cento.» «Un disastro!» «Poteva andare peggio. La produzione non può subire perdite... comprometterebbe la rispettabilità e l'efficienza della Classe Dirigente, e questo causerebbe la fine della nostra società.» «Ehi, il drastico sono io!» «Vero, vero, forse ho esagerato. Ma qualcosa di grosso accadrebbe.» «Un riassemblaggio del primo livello, senza dubbio. Gente più seria, più ferma.» «In verità non potrebbe esserci nulla di meglio della gente che ci governa ora.» «Cosa vuoi dire?» «Che sono secoli che la nostra società va avanti precisa e perfetta. Quello che è accaduto ieri sera è stato un evento unico più che raro. Non è colpa di nessuno, perché nessuno può prevedere l'inverificabile. Anzi, il primo livello ne uscirà con più rispetto, se coglie l'occasione al balzo...» «E come potrebbe farlo?» «Beh, aumentando la sicurezza. Impiantando più satelliti per l'intercettazione di corpi vaganti che sono in rotta verso questa zona del pianeta. Non sarebbe la prima volta che la Classe Dirigente consolida la sua posizione di fronte a problematiche varie. All'inizio la Classe Moralità non voleva la Classe Produttrice asservita come lo è oggi. Ma i dirigenti di allora dimostrarono che i lavoratori produttivi avrebbero reso di più se privati di coscienza.

Solo in quel modo avrebbero ottimizzato il tempo e le energie dei lavoratori. Ma questa è storia...» S'incamminarono verso il veicolo. «Certo che a volte mi dà da pensare» disse quello drastico. «Cosa?» «Ma la situazione di questa gente. Lavorano, producono dalla mattina alla sera e non ne sono al corrente.» «Beh, eseguono azioni automatiche inculcate in loro in anni di addestramento.» «Non è quello» negò l'altro, accompagnando la frase con un gesto sconsolato del capo. «È che sono schiavi e non sanno di esserlo.» «E dov'è il problema?» «Non ti sembra che sia ingiusto, qualche volta?» «No, è la loro mansione, come la nostra è quella di intervenire quando uno di loro si ammala, e lo curiamo, o lo sopprimiamo se necessario per essere sotituito con un soggetto più giovane.» «Sì, ma non hanno scelta!» «Noi ce l'abbiamo?» L'altro ponderò sulla faccenda. In effetti neanche loro erano nella posizione di poter scegliere dove andare e cosa fare. Fin da giovani tutti venivano addestrati, nelle rispettive sezioni della Classe Addestratrice, a svolgere il lavoro che avrebbero fatto da grandi. Anche se coscienti, loro non avrebbero potuto cambiare lavoro o esitare nello svolgere quello assegnatogli. D'altro canto nessuno

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poteva scegliere di licenziarsi... Anche perché i diritti dei lavoratori si erano estinti da secoli, macinati da un meccanismo efficiente e perfetto. «No» convenne il dubbioso «non abbiamo scelta.» «E che siamo coscienti non fa di noi neanche la classe più privilegiata.» «Ossia?» «Beh, noi dobbiamo affrontare la nostra realtà con tutti i suoi limiti e obblighi. Loro almeno sognano di vivere delle vite migliori. Forse qualcuno no, per carattere genetico improntato al pessimismo o alla mestizia. Ma ognuno di loro è artefice del proprio mondo, e in ciò sono più liberi di noi.» «Però non è vero niente.» «Ne sei sicuro? Sei sicuro che anche tu non sia un lavoratore che sogna di essere un tecnico di terzo livello della Classe Addestratrice e di trovarti in un mondo diviso rigidamente in classi sociali, mentre il "tuo" mondo reale è diversissimo da questo?» «Mmm... Ora basta coi ragionamenti. Andiamo, su. C'è da stilare un rapporto.» Il compagno accese il silenziosissimo mezzo con un ghigno beffardo. Il mezzo, silenzioso perché nella Classe Produttrice era obbligatorio non produrre forti rumori per non offuscare gli stimoli subliminali uditivi e per non urtare il "riposo" dei lavoratori, partì sulla stradina anonima e scomparve svoltando un angolo.


L'ultima Xhan scostò in malo modo gli appunti dal tavolino basso del living, spargendoli sul pavimento. Deve essere da qualche parte pensò tra i mugugni. Non riusciva ad articolare frasi di senso compiuto. Si avvicinò alla foodwall, sbattendo sui mobili di metallo lucido senza sentire il dolore. Aprì gli armadietti: cibo consumato per metà, scatole di fagioli accanto alle pasticche di agente pulente, liquido refrigerante nello stesso scomparto del latte liofilizzato. Per un attimo si dimenticò che cosa stesse cercando. La scatola , visualizzò l'oggetto in un attimo di lucidità e si diresse verso il vano doccia passando accanto alla cuccetta doppia zeppa di scartoffie. Fissò per un paio di minuti il quadro regolatore della temperatura dell'acqua, poi si decise a premere quattro numeri: 0110. Esitò sull'ultimo, non era affatto sicuro che potesse essere la combinazione giusta. Se avesse sbagliato sarebbe scattato l'allarme e i corpi speciali gli sarebbero piombati in casa nel giro di pochi istanti. Tutto il lavoro delle ultime settimane sarebbe andato sprecato. Il comparto si aprì rivelando un piccolo astuccio, Xhan ne

trasse una fiala dal colore verdognolo e una pistola ad aghi. Caricò l'arma e se la puntò nell'incavo del gomito. Chiuse gli occhi, i microcircuiti organici cominciarono a frizzare negli innesti cerebrali, lanciando piccole scariche elettriche che gli percorrevano il corpo. Sentì crescere la tensione e un ronzio insistente cominciò a martellargli i timpani, come se gli provenisse da dentro le ossa. Il ronzio aumentò, fitte di dolore gli perforavano la mente, il ventre, la cartilagine dietro le rotule. Sempre più violente. Poi, d'un tratto, tutto si quietò. L'ambiente gli parve più luminoso, il ronzio era divenuto un solletico piacevole dietro la base del collo, i microcircuiti in overclock gli facevano sembrare il mondo estremamente lento. Guardò una goccia d'acqua cadere verso il piatto della doccia in quello che gli sembrò un tempo interminabile. Anche il dolore dell'anima se n'era andato, quel dolore che lo teneva sveglio da giorni. Non c'era spazio per la stanchezza: in dosi normali la xelerate la faceva passare in secondo piano. In dosi quadruple, riusciva a farti persino dimenticare il suo significato. Guardò l'orologio subdermale, un piccolo conto alla rovescia scorreva placido, ventinove minuti e quarantuno secondi. Un ultimo sguardo all'olografia sulla parete: capelli biondi

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che si avvolgevano attorno a petali scarlatti. Un tuffo al cuore. Presto avrebbe riposato. Con lei, per sempre. Le grandi ruote, il corpo basso e compatto, Xhan lanciò la sua moto a velocità folle lungo Upper Avenue. Sfrecciava nella notte schivando auto sospese e tram magnetici, nella mente un unico obiettivo, nelle vene l’unico modo per raggiungerlo. In quei giorni a Xhan era capitato diverse volte di sentire una voce dietro di lui ma, tutte le volte che si era voltato, si era sempre ritrovato solo. Gli era parso altre volte di vedere una figura invitante rigirarsi sulla cuccetta ma poi aveva sempre realizzato che era solo un'illusione. La prenderò per te , si disse l'uomo, stavolta lucido, totalmente cosciente delle mosse da compiere. Arrivò in vista della Forgotten Things Laboratory Bank alle nove di sera. L'edificio si ergeva nel centro di Old Square in tutta la sua esagonale imponenza e a quell'ora brulicava ancora di gente. La vita diurna aveva via via perso popolarità da quando il colore del sole era diventato più deprimente del buio notturno. I grandi pannelli luminescenti posti su ogni facciata della F.T. trasmettevano l’immagine di due bambini intenti a gio-


care con un gattino in un prato colmo di margherite, seguiti dal sorriso incoraggiante di un team di scienziati. In sovraimpressione campeggiavano i loghi della Floratech e della Faunatech, i rami più prosperi della società NewLife e l’ispirazione del suo slogan: la resurrezione è un’arte. La pubblicità mostrò due innamorati che assaporavano un cesto di fragole, ai loro piedi un cucciolo di cane riposava tranquillo. Il clone del frutto era stato il primo traguardo del laboratorio e il fiore all'occhiello dell'azienda. La nonna di Xhan ne aveva assaggiato uno, una volta. Disse che sapeva di acido di batteria andato a male, le si velarono gli occhi di lacrime. Xhan, che allora era poco più che un bambino, non capì bene, ma immaginò che fosse una cosa terribile. Pagherete anche per questo , disse. Puntò il muso della moto verso l'ingresso della F.T. e diede gas; l’impatto infranse la vetrata, che piovve in pezzi sui riflessi accelerati di Xhan, gli sembrò di sentire il rumore di ogni frammento sul pavimento di marmo, la sirena d’allarme partì come un suono lontano, Xhan attraversò il salone d’ingresso in un lampo, ma a lui bastò per soffermarsi sugli sguardi tristi degli uomini e delle donne in attesa del proprio turno per consegnare alla Banca qualche vecchio ci-

melio dietro misero compenso. Riuscì a distinguere chi si trovava costretto dalle ristrettezze economiche a vendere le loro ultime memorie da chi aveva troppa paura che le Società li scoprissero durante una delle loro perquisizioni. Nessuno consegnava volentieri l'ultimo quadro o l'ultimo libro della città, scampati a decenni di pulizia culturale e lordura urbana.

e moderne ma puntò dritto le scale verso l'androne del settore 3, la vista del logo della Floratech gli fece ribollire il sangue nelle vene.

Le urla si moltiplicarono attorno a Xhan, la gente fuggì o si appiattì contro le pareti. Dai sei angoli del salone sciamarono uomini in completa tuta antiradiale blu scura armati di overGlock 2020 e occhiali laser a cermet sinterizzato dai riflessi verdi fosforescenti. L'uomo sorrise, assomigliavano proprio ai puntini neri sparsi sui suoi schemi, puntini che andavano eliminati in fretta. Premette il primo tasto a destra sul quadro di comando della moto e il vano posteriore si aprì scoprendo quattro missili in carburo di vanadio. Partirono all'istante. L'esplosione fece crollare due pilastri al centro della stanza, parte del tetto cedette con un fracasso assordante ed eliminò gran parte degli inseguitori. Xhan non degnò di uno sguardo il settore 4, colmo di denaro, né il settore 2, rinomato deposito di armi antiche

La porta blindata si trovava in fondo al corridoio centrale, Xhan spiò il countdown: tredici minuti e trentadue secondi. Un muro di guardie gli si parò davanti ma con una raffica di colpi di mitraglia ad acido l’uomo riuscì ad aprirsi un varco e a passare quasi indenne dall'altra parte. L'acido sciolse le tute di protezione pensate per disperdere gli impatti, ci mise un attimo ad arrivare a contatto con la pelle e i soldati cominciarono a tentare di strapparsi di dosso i vestiti, rotolandosi a terra. Davanti al caveau Xhan fermò la moto, in pochi attimi fissò un composto esplosivo a base di amatolo potenziato al tetrilex sul contorno della porta e fece saltare le barre di sicurezza. Accecato da rabbia e adrenalina si precipitò all'interno alla ricerca dell'unico motivo per cui era arrivato fin lì: l'ultima rosa del mondo. La trovò in una teca cubica,

Nemmeno lei.

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Esperti biologi e maledetti assassini. Resurrezione, ma a quale costo?

Una guardia sopravvissuta all'esplosione sembrò spuntare dal nulla, ma l'uomo con uno scatto riuscì ad aprirsi il comparto innestato sull'ulna e fece partire una raffica dal minigun automatico. Centro.


tra altre specie floreali estinte e di cui a malapena avrebbe ricordato i nomi se non fosse stato per quello che lei gli aveva insegnato. Il fiore sembrava intatto, tenuto in vita da chissà quale diavoleria chimica. Uno sguardo all’orologio subdermale: quattro minuti e quindici secondi. Xhan arrivò al cimitero di Hilbury completamente distrutto, solo la forza della disperazione lo aveva condotto fin lì. Il contatore sul suo orologio aveva ormai raggiunto lo zero: l’effetto dell’adrenalina si era annullato. Sentiva gli inseguitori ogni secondo più vicini. Il mondo aveva ripreso la propria velocità e Xhan si sentiva lento, come se ora fosse tutto il resto a correre troppo veloce per lui. Ora tutto era tornato nella stessa oscurità di quel pomeriggio, la stanchezza prese a sovrastarlo con più cupidigia delle ombre fameliche che lo attorniavano, ma ancora non voleva crollare. Si diresse al loculo riservato a sua moglie, sperando che il buio del luogo lo nascondesse almeno per il tempo necessario. Ripensò a lei, al sorriso che aveva mentre coltivava le rose. Non ci riusciva nessuno, nessuno sapeva farle più. Xhan le aveva consigliato di smettere, che il Governo non le avrebbe

permesso di continuare se l'avesse scoperta. L'aveva implorata, lei aveva pregato lui di lasciargliene tenere almeno una. D'accordo, solo una Xhan ripeté queste parole con un sussurro mentre procedeva a passi lenti verso la tomba. Ma la floratech l'aveva scoperta, proprio a causa di tutte le rose di cui si era disfatta, le avevano trovate e, in un mattino di poche settimane prima avevano fatto irruzione in casa. Si erano presi il fiore e la vita di Jen, colpevole di aver tentato di difenderlo. Era stata l'ultima volta che aveva dormito, pochi minuti, prima che gli spari lo risvegliassero, solo per metterlo di fronte a una serra lavata nel sangue della sua donna. Quel sangue, gli spari, le urla, non poteva chiudere gli occhi senza vederli, senza sentirli. Arrivò alla nicchia con inciso il nome della donna e finalmente vi poggiò la teca che teneva in mano. Buon anniversario, amo re , riuscì a dire appena prima di essere raggiunto da un proiettile bifido nel cranio. Xhan cadde riverso a terra, gli schizzi di sangue disegnarono una corolla imprecisa sulla parete di ceramica bianca.

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Nella pancia del Drago

http://www.sulromanzo.it/redazione/andrea-atzori

J.R.R. Tolkien "La caduta di Artù" Bentornati cari lettori in questo antro gastrico di approfondimento fantasy. È con grande piacere che “Nella pancia del drago” vi offre una chicca: l’ultimo inedito niente meno che di John Ronald Reuel Tolkien, La caduta di Artù, da poco pubblicato dalla Bompiani. Si tratta di un poema epico incompiuto, ricostruito dagli appunti di Tolkien dal suo ormai miglior editor, il figlio Christopher; pubblicato questo maggio 2013 in Inghilterra dalla HarperCollins e dedicato al Ciclo Arturiano. Il poema è composto nei versi allitterativi dell’antica letteratura norrena che tanto furono cari a Tolkien e che il lettore potrebbe ricordare in certi canti lirici all’interno de Il Signore degli Anelli, nel Lay ofthe Children of Húrin e nel dialogo drammatico The Homecoming ofBeorhtnoth .

La genesi e l’evoluzione dell’opera non risultano chiare dalle carte personali di Tolkien ma, tramite alcune corrispondenze epistolari, il poema si può datare tra il 1931e il 1934, anno in cui probabilmente fu abbandonato. Era il periodo in cui Tolkien ricopriva già la cattedra di Anglo-Sassone a Oxford, e il figlio Christopher attribuisce l’abbandono dell’opera ai numerosi impegni accademici, ma soprattutto al mutamento artistico che dopo The Hobbit diede vita al mito di Nùmenor e pose le basi per la grande epopea della Terra di Mezzo in The Lord ofthe Rings. Prima ancora che per l’epica cavalleresca, il poema è frutto dell’amore di Tolkien per il metro allitterativo del Beowulf a cui dedicò parte della sua carriera accademica, e della sua intenzione di asservirlo all’inglese moderno. Il risultato è straordinario: un poema narrativo che, in soli cinque canti, risulta di grande potenza evocativa, eleganza e leggerezza. A leggere Tolkien in originale, e in versi, si ha la sensazione di leggere il vero Tolkien, il Tolkien filologo, il Tolkien filosofo. Il lettore si troverà di fronte una bellissima edizione con testo originale affiancato a una non meno elegante traduzione di Sebastiano Fusco. Nei cinque canti, il poema rielabora il mito arturiano concentrandosi sulla figura di Mordred, sulla guerra intestina scatenata in Britannia, su Artù lontano a portare battaglia ai Goti di Mirkwood (Schwarzwald, Foresta Nera, che diede poi il nome al Bosco Atro nella Terra di Mezzo), e in maniera minore sull’amore tra Ginevra e Lancillotto. Il lettore non appassionato del Ciclo Arturiano potrebbe avere qualche difficoltà nell’apprezzare la chiave interpretativa

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offerta da La caduta, ma il sistema di note e le appendici di approfondimento aiutano nel ripasso del corpus della Leggenda Arturiana attraverso i secoli, anche tramite le sinossi redatte dallo stesso Tolkien per supportare la creazione dei canti. La pubblicazione merita davvero, ma il lettore deve considerare che il poema interrotto rappresenta non più di un terzo del libro, che per il resto è un’opera di approfondimento bibliografico e filologico. La caduta di Artù non è per i lettori del Tolkien più “mainstream”, ma è di certo imperdibile per gli amanti del Tolkien poeta più ispirato, per chi è alla ricerca della genesi etica, concettuale ed estetica di ciò che sarebbe stata la grandezza della Terra di Mezzo (specialmente in relazione a il Silmarillion), e per tutti coloro che sono appassionati di epica e del Ciclo Arturiano. Augurando una buona lettura, e in ascolto delle voci che bisbigliano di un film sulla vita di Tolkien, ci auguriamo anche che il signor Christopher trovi ancora qualche vecchia carta del padre chiusa e dimenticata in un baule polveroso di una soffitta. Ci ritroveremo con la puntata finale della rubrica Nella pancia del drago. E vissero tutti felici e contenti Si conclude Nella pancia del drago, l’esplorazione gastrica di quello che ormai, se non lo era, è diventato il vostro genere letterario preferito. Tirando le somme come asce da lancio: cosa rimane degli stereotipi sulla letteratura del fantastico? Ce la farà l’Italia a relazionarsi al fantasy con disinvoltura? Chi lo sa, il drago brontola, ed è ora di tornare all’aria aperta, anche se glisseremo sul come… magia!

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I Libri da rileggere Os s a d e l l a T e r r a di M. Swanwick

Ossa della Terra di M. Swanwick

Il romanzo “Ossa della Terra” (“Bones of the Earth”) di Michael Swanwick è stato pubblicato per la prima volta nel 2002. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nei nn. 1467 e 1605 di “Urania” nella traduzione di Roberto Marini. Richard Leyster è un paleontologo che lavora per la Smithsonian Institution, dove si

occupa in particolare di dinosauri. Un giorno un certo Griffin gli offre un lavoro che richiede assoluta segretezza avvertendolo che c’è il rischio di morte violenta. Non gli fornisce alcun particolare ma gli lascia un contenitore e, dopo che se n’è andato, Leyster lo apre e vi trova un’autentica testa di Stegosauro. Leyster scopre che i viaggi nel tempo sono possibili ma solo grazie al fatto che qualcuno ha fornito la possibilità di compierli agli esseri umani. Lo sfruttamente di questa possibilità è però soggetto a regole precise, che comunque permettono spedizioni scientifiche nel Mesozoico. I pericoli, oltre a feroci dinosauri, vengono da un gruppo di terroristi creazionisti, per i quali i viaggi nel tempo vanno fermati a ogni costo. Nel 1999, Michael Swanwick aveva pubblicato il racconto breve “Scherzo con il tirannosauro” (“Scherzo with Tyrannosaur”), vincitore del premio Hugo. L’autore aveva successivamente espanso la storia di una ricerca scientifica nel Cretaceo nel romanzo “Ossa della Terra”, che unisce la speculazione scientifica riguardante l’ecosistema in cui vivevano i dinosauri alla fine del Mesozoico a quella riguardante i viaggi nel tempo con i suoi possibili paradossi. “Ossa della Terra” comincia con la scoperta dei viaggi del tempo da parte del paleontologo Richard Leyster, che viene coinvolto dal misterioso Griffin in una ricerca scientifica che non avrebbe mai po-

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tuto immaginare. Questa parte iniziale è piuttosto lenta perché c’è molta conversazione e poca azione. Michael Swanwick ha scelto di usarla per fornire molte informazioni sulle regole che riguardano i viaggi nel tempo e ci sono anche parecchie informazioni scientifiche riguardanti i dinosauri. In effetti, tutta la parte di “Ossa della Terra” dedicata alla paleontologia è un po’ pesante perché c’è un ampio uso di gergo scientifico come ad esempio i nomi di parecchie specie di dinosauri e riferimenti anatomici assortiti. È sicuramente utile che il lettore abbia almeno qualche interesse per l’argomento per evitare di rimanere perduto in tutte queste informazioni. Almeno, dopo la parte iniziale, comincia a esserci parecchia azione con tanti colpi di scena. “Ossa della Terra” contiene parecchie speculazioni sull’ecosistema del Mesozoico e sui rapporti tra le varie specie animali nel periodo Maastrichtiano, quello che conclude quell’era geologica. Si tratta di idee che a volte sono piuttosto azzardate ma personalmente le ho trovate intriganti. Le ricerche sui dinosauri sono portate avanti da un gruppo di paleontologi. Nel corso della storia, Richard Leyster si trova ad avere a che fare con la brillante e ambiziosa collega Gertrude Salley. I rapporti tra i due sono diversi nel corso del tempo ed è facile perdersi tra i vari salti avanti e indietro nelle varie epoche in cui i due si incontrano e si scontrano. Assieme a Griffin, sono i personaggi meglio sviluppati del romanzo. Le ricerche sui dinosauri costituiscono un elemento importante in “Ossa della Terra”, anche perché oltre al pericolo che corrono i paleontologi nei contatti con i dinosauri ci sono quelli dovuti ad un gruppo di terroristi creazionisti. I viaggi nel tempo sono quanto di peggio possa esistere per questi cristiani fondamentalisti dato che essi permettono a chiunque di vedere la falsità delle loro credenze. Per questo motivo, essi sono pronti a

tutto per sabotarli. C’è chi ha criticato “Ossa della Terra” come anticristiano per il modo in cui dipinge questi creazionisti. Questo, assieme a varie scene di sesso piuttosto esplicito ha certamente contribuito a certi giudizi negativi sul romanzo. Tuttavia, va tenuto presente che questi personaggi sono fanatici e certe notizie di cronaca riguardanti i cristiani fondamentalisti americani li fanno sembrare decisamente realistici. Tutto ciò sarebbe già ampiamente sufficiente per un romanzo, invece Michael Swanwick va oltre e ci fa intravvedere qualcosa della storia futura della Terra, anche nel futuro remoto. Fin dall’inizio del romanzo, viene chiarito che gli esseri umani hanno ricevuto la tecnologia dei viaggi del tempo da qualcun altro e cominciano a essere inclusi i primi riferimenti agli Immutabili. Nell’ultima parte del romanzo i protagonisti devono affrontare alcuni paradossi causati da una biforcazione della linea temporale. Wibbly-wobbly timey-wimey, come direbbe il Dottore. In questo finale, Michael Swanwick rivela i misteri legati agli Immutabili e i motivi per cui gli esseri umani hanno avuto la possibilità di compiere viaggi nel tempo. “Ossa della Terra” contiene davvero tante idee ma proprio per questo a volte è un po’ dispersivo. Il romanzo non è molto lungo perciò è impossibile dare tutto lo spazio necessario ad uno sviluppo esauriente dei vari elementi. D’altra parte, c’era il rischio che un allungamento comportasse anche un ulteriore appesantimento del romanzo. Vista la complessità della storia, forse è stato scelto il minore dei due mali. Nonostante questi difetti, secondo me “Ossa della Terra” è un romanzo molto buono perché trovo che i pregi siano molto maggiori. Ve lo consiglio soprattutto se vi piacciono i dinosauri e le storie di viaggi nel tempo.

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I Libri da Rileggere Lo spazio deserto di M. John Harrison

di stabilità nella sua vita dopo che il suo ex marito, il fisico Michael Kearney, è sparito, presumibilmente morto. Le cose però sembrano sempre complicarsi in qualche modo e al difficile rapporto con sua figlia si aggiungono strani avvenimenti come il vedere la propria casa andare a fuoco e avvertire la presenza di Michael. Nel XXV secolo, l’equipaggio dell’astronave Nova Swing è alla ricerca di manufatti alieni. Nel corso di quell’attività illegale ne trovano uno davvero particolare. Nel frattempo, l’assistente deve investigare sull’apparizione di una serie di cadaveri che fluttuano nell’aria. Dopo alcuni anni, M. John Harrison è tornato al Fascio Kefahuchi con un romanzo che è in parte il seguito sia di “LuLo spazio deserto ce dell’universo” che di “Nova Swing”. di M. John Harrison Tuttavia, chi ha letto questi due romanzi sa che in questa serie nulla è semplice e soprattutto non lineare. “Lo spazio deserto” riprende varie tematiche e molti personaggi già apparsi ma non i loro protagonisti, che sono spariti, presumibilmente Il romanzo “Lo spazio deserto” (“Empty morti. Anche in questo caso, le cose non sono così semplici. Space”) di M. John Harrison è stato pubblicato per la prima volta nel 2012. È il terzo romanzo della serie del Fascio Kefa- “Lo spazio deserto” continua in parte le sottotrame iniziate nei romanzi precedenti huchi. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nel n. 1604 di “Urania” nella ma sia in quella ambientata nel XXI secolo che in quelle ambientate nel XXV secolo traduzione di Flora Staglianò. salta avanti di parecchio tempo. Tutto ciò Anna Waterman è riuscita a trovare un po’ non vuol dire che questo romanzo abbia

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pochi legami con i precedenti, anzi essi formano una grande storia che sarebbe meglio leggere tutta assieme per cercare di orientarsi nelle sue complessità. La struttura de “Lo spazio deserto” è più simile a quella di “Luce dell’universo” che a quella di “Nova Swing”, nel senso che c’è una sottotrama ambientata nel XXI secolo e altre sottotrame ambientate nel XXV secolo. Ancora una volta, il collegamento è la misteriosa anomalia cosmica chiamata Fascio Kefahuchi. Lo stile de “Lo spazio deserto” è quello già sperimentato nei romanzi precedenti. La trama è per molti versi vaga, frammentata in episodi che a volte non sembrano avere connessioni con il resto della storia. In realtà c’è una sorta di percorso, anche se tutt’altro che lineare, ma anche se c’è una conclusione gli elementi di base di tutta la serie rimangono inspiegati. Se cercate una storia che hanno una risoluzione in cui trovare risposte alle domande poste in essa, i romanzi del Fascio Kefahuchi non fanno per voi. Anche alla fine del terzo romanzo, non aspettatevi di aver capito la natura di quest’anomalia cosmica né di scoprire chi sia l’entità conosciuta come Shrander e occasionalmente con tanti altri nomi. In certi momenti, l’impressione è che “Lo spazio deserto” non vada avanti nella storia bensì torni in qualche modo indietro con mille connessioni a eventi, personaggi e gatti dei romanzi precedenti. Emblematico in questo senso è il comportamento di Anna Waterman, che si è risposata e ha avuto una figlia eppure dopo molti anni sente nuovamente la presenza dell’ex marito Michael Kearney.

La storia di Anna non è però lineare perché da una parte cerca nel passato dell’ex marito, tanto da interessarsi alle sue vecchie ricerche, ma dall’altra ha una visione dell’incendio della sua casa che non esiste, almeno nel presente. Anche in questo caso, c’è un evento potenziale che non è necessariamente connesso alla linea temporale di Anna. Forse è solo un’illusione ma la realtà come viene concepita normalmente è un’illusione. Dei tre romanzi, “Luce dell’universo” è quello in cui gli elementi di fisica quantistica sono più espliciti ma tutta la serie sembra costruita come un insieme di eventi quantistici. Le storie raccontate da M. John Harrison non hanno una rigida progressione di causa ed effetto. Invece, ci sono singoli eventi che non sono necessariamente fissi e possono collegarsi ad altri molto distanti nello spazio e nel tempo. Secondo me, “Lo spazio deserto” è migliore di “Nova Swing”, che alla fine era un po’ limitato per essere parte di una serie come quella del Fascio Kefahuchi. “Luce dell’universo” mi sembra ancora il più brillante della serie, con i suoi mille elementi e ispirazioni. Ne “Lo spazio deserto” M. John Harrison è meno fantasioso ma questo romanzo ha il pregio di rafforzare i precedenti con i tanti collegamenti ad essi. Se vi sono piaciuti i precedenti romanzi della serie del Fascio Kefahuchi è probabile che vi piacerà anche “Lo spazio deserto”, altrimenti probabilmente lo stile di M. John Harrison non fa per voi. Se non avete letto gli altri romanzi, vi consiglio di cominciare da “Luce dell’universo”.

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I libri da rileggere I Figli della Luna di J. Williamson

Negli anni successivi al primo sbarco sulla Luna, le missioni spaziali si spingono sempre più lontano portando astronauti su altri pianeti del sistema solare. Questi viaggi trovano possibili forme di vita aliene ma alcune scoperte sono bizzarre e hanno conseguenze imprevedibili. Gli astronauti di una missione sulla Luna vedono cose diverse e quando tornano sulla Terra le loro testimonianze sono contraddittorie. Come se non bastasse, le loro mogli danno alla luce figli con caratteristiche anomale. Kim Hodian è il fratello di uno degli astronauti i cui figli sono stati soprannominati i Figli della Luna. Suo nipote è il più strano tra i bambini perché ha anche forti anomalie fisiche che lo fanno sembrare tutt’altro che umano. Assistendo I figli della Luna alla loro crescita, che rivela sempre più le di J. Williamson loro doti straordinarie, si rende conto anche del ruolo dello strano materiale cristallino riportato sulla Terra dai loro padri. “I figli della Luna” inizia con l’arrivo del primo uomo sulla Luna. Nel romanzo, Il romanzo “I figli della Luna” (“The questo è solo l’inizio di un grande sviMoon Children”) di Jack Williamson è luppo delle missioni spaziali con astronaustato pubblicato per la prima volta nel ti. Le conseguenze sono però inaspettate 1971 a puntate sulla rivista “Galaxy”. In perché tre astronauti tornati da un’esploraItalia è stato pubblicato da Fanucci Editore zione Lunare hanno figli decisamente fuori nel n. 7 di “Futuro. Biblioteca di Fantadal normale. scienza” e da Mondadori nel n. 134 di “Urania Collezione” nella traduzione di La nascita di questi bambini, soprannomiRoberta Rambelli. nati i Figli della Luna, fa pensare al classi-

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co “I figli dell’invasione” di John Wyndham, anche per le capacità straordinarie che dimostrano. Il riferimento esplicito ai cuculi del titolo originale di quel romanzo messo da Jack Williamson nel suo romanzo sembra davvero un omaggio al classico inglese. Tuttavia, i Figli della Luna mostrano fin da subito atteggiamenti diversi rispetto ai bambini creati da Wyndham. I Figli della Luna generalmente non mostrano segni di ostilità verso gli esseri umani normali e sembrano essere i primi ad aver bisogno di capire il senso della loro esistenza. In particolare Guy, che dei tre nati è quello che mostra tali anomalie fisiche da avere un aspetto davvero alieno, sembra la prima vittima degli alieni che hanno modificato suo padre e i suoi colleghi per far nascere i Figli della Luna. La storia è raccontata in prima persona dal punto di vista di Kim Hodian, lo zio di Guy, che assieme ai Figli della Luna e al resto dell’umanità cerca risposte al mistero della loro esistenza. Molti li odiano solo perché sono diversi ma la paura nei loro confronti si combina con l’altro tema del romanzo, cioè i problemi creati dai contatti con le forme di vita di altri pianeti del sistema solare. Nella loro esplorazione del sistema solare, su vari pianeti gli umani hanno trovato ecosistemi incompatibili con quello della Terra. Alcune forme di vita aliene, disturbate da quella sorta di invasione, si dirigono verso la Terra, causando un progressivo caos perché non possono essere combattute in una guerra convenzionale. In certi casi, sembrano malattie più che invasori alieni. Sia nel caso dei Figli della Luna che degli ecosistemi alieni, l’ignoranza degli umani è il problema fondamentale. Il comportamento degli umani nel corso delle loro esplorazioni è per certi versi goffo: hanno interferito con

processi vitali alieni ma non li hanno veramente capito e non hanno scoperto forme di intelligenza. Quando forme di vita aliene arrivano sulla Terra, cercano solo di distruggerle e non di comunicare con esse. Quello de “I figli della Luna” è un universo pieno di vita, anche intelligente, in forme molto diverse tra loro. Capire perché i bambini del titolo sono stati creati rappresenta per l’umanità la chiave per comprendere quell’universo. Questo però è possibile solo superando paure e incomprensioni causate dalla ristrettezza mentale di molti umani. Jack Williamson aveva cominciato a scrivere fantascienza quando le storie di questo genere erano tendenzialmente di tipo avventuroso. Nella sua maturità, questo maestro della fantascienza ha dimostrato di poter affrontare anche temi profondi, anche se in questo romanzo avrebbero meritato un maggiore sviluppo. A causa della narrazione in prima persona parte degli eventi vengono raccontati al protagonista invece che essere narrati direttamente, togliendo qualcosa al sense-of-wonder che pure è abbondante nella storia e a volte rallentando il ritmo. Jack Williamson scriveva storie di lunghezza limitata per gli standard odierni e questo penalizza un po’ un romanzo come “I figli della Luna”. Questo è uno dei casi in cui un romanzo più lungo, anche con varie sottotrame parallele, avrebbe permesso un migliore sviluppo dei temi contenuti. Nonostante i suoi limiti, secondo me “I figli della Luna” è un gran bel romanzo in cui Jack Williamson mischia sense-of-wonder con temi profondi. Ne consiglio la lettura.

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I libri da rileggere L a P r og e n i e di G. del Toro & C. Hogan

La progenie

di G. del Toro & C. Hogan

Il romanzo “La progenie” (“The Strain”) di Guillermo del Toro e Chuck Hogan è stato pubblicato per la prima volta nel 2009. È il primo romanzo di una trilogia. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nella collana “Omnibus” e nel n. 3 di “Urania Horror” nella traduzione di Gaetano L. Staffilano.

Un Boeing 777 arriva all’aeroporto JFK di New York ma subito dopo l’atterraggio le comunicazioni si interrompono e nessun segno di vita arriva dai passeggeri o dall’equipaggio. Il dottor Ephraim “Eph” Goodweather, che dirige un team che si occupa di possibili minacce biologiche, viene chiamato per verificare se sia un caso di bioterrorismo e quando entra nell’aereo trova passeggeri ed equipaggio quasi tutti morti senza apparente motivo. Mentre Eph e i suoi collaboratori effettuano le autopsie dei morti, i pochissimi sopravvissuti sembrano in stato di confusione. Come se non bastasse, viene avvicinato da Abraham Setrakian, un ex professore sopravvissuto dell’Olocausto che gli racconta una storia apparentemente assurda. Quando però i cadaveri cominciano a scomparire e i sopravvissuti manifestano stranissimi cambiamenti, anche una storia di vampiri comincia a sembrare l’unica che possa avere un senso. Il regista Guillermo del Toro aveva ideato una storia come una serie televisiva ma non aveva trovato nessun acquirente. Gli venne quindi consigliato di adattarla in una serie di romanzi, un lavoro ben diverso rispetto a quello del regista e anche dello sceneggiatore perciò lo fece assieme a Chuck Hogan, uno scrittore che aveva già parecchia esperienza nel campo dell’horror. Il risultato è una trilogia in cui si può dire che Dracula viene portato nell’era di CSI. Questa è certamente una banalizzazione di questi romanzi

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ma dà l’idea di come elementi tradizionali delle storie di vampiri siano stati inseriti in una storia in cui la moderna analisi scientifica di una possibile scena di un crimine è basilare. Proprio come nella storia di Dracula, in “La progenie” un antico vampiro viene trasportato in una nuova terra in una cassa ma nel terzo millennio anche queste creature usano gli aerei di linea. Qualcosa di molto brutto succede alla fine del viaggio e le autorità competenti vengono allertate perché inizialmente c’è il timore di un atto di terrorismo. Quando quasi tutti i membri dell’equipaggio e i passeggeri dell’aereo vengono trovati morti, comincia un’indagine che ha lo scopo di appurare se ci sia una minaccia biologica. I risultati sono sempre più sorprendenti perché in “La progenie” il vampirismo viene visto come una forma di parassitismo che causa notevoli cambiamenti fisici nelle vittime. Nel corso del romanzo, le indagini condotte dal team guidato da Ephraim Goodweather mostrano la vera e propria metamorfosi che avviene nei corpi delle vittime dei vampiri. Questo è un elemento importante nella storia e davvero gli elementi horror classici sono mischiati a quelli di polizieschi moderni come CSI. Se il romanzo non iniziasse con la leggenda di Jusef Sardu, la parte iniziale darebbe l’impressione di essere un thriller. Successivamente però gli elementi horror emergono sempre di più, anche con il coinvolgimento attivo di Abraham Setrakian, che conosce la vera natura della forza malefica all’opera. L’originalità non è il punto forte di “La progenie”. Il romanzo mette assieme elementi presi qua e là e non solo dalle storie classiche di vampiri. Il personaggio di Abraham Setrakian sembra ispirato al Saul Laski di “Danza Macabra” di Dan Simmons, anche per i flashback ri-

guardanti il suo scontro con l’antico vampiro durante la II Guerra Mondiale. Gli altri personaggi del romanzo sono generalmente costruiti su cliché, a cominciare dal protagonista Ephraim Goodweather, il cui matrimonio è fallito perché è troppo dedito al lavoro e per lo stesso motivo fatica ad avere un rapporto col figlio. Riguardo ai nomi dei personaggi, quello del miliardario Eldritch Palmer è un riferimento al romanzo “Le tre stimmate di Palmer Eldritch” di Philip K. Dick. “La progenie” non ha ambizioni di essere grande letteratura. Nonostante le contaminazioni moderne e il fatto che l’infestazione vampirica venga trattata per molti versi come un’epidemia, alla fine si tratta di un romanzo horror. Il suo scopo non è fare approfondimenti filosofici bensì di suscitare emozioni nel lettore. In “La progenie”, la tensione è inizialmente data dal mistero attorno all’aereo atterrato all’aeroporto JFK. Nel corso del romanzo, gli elementi horror diventano sempre più importanti e sono descritti con parecchi particolari e parecchio sangue che scorre. C’è parecchia azione e Abraham Setrakian sembra davvero arzillo vista la sua età e le sue condizioni fisiche. Il ritmo però a volte è abbastanza lento quando gli elementi del “procedural drama” sono dominanti. i ha entusiasmato. È scritto con mestiere perciò la lettura è scorrevole ma non l’ho trovato brillante. Probabilmente piacerà maggiormente agli appassionati di horror che lo possono leggere nelle serate buie per provare qualche brivido. Va detto che alla fine del romanzo la storia non termina perciò bisogna cominciare a leggerlo con l’idea di andare avanti con gli altri romanzi della trilogia.

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I libri da rileggere La caduta di G. del Toro & C. Hogan

Il gruppo eterogeneo formato dal professor Abraham Setrakian, dall’epidemiologo Ephraim Goodweather, dalla sua collega Nora Martinez e dal disinfestatore Vasiliy Fet sta cercando di organizzare la resistenza contro il virus letale che sta causando un’epidemia decisamente fuori dal normale a New York. Gli ammalati vengono trasformati in vampiri, parte del piano di un antico padrone che vuole imporre il suo potere. Al mondo esistono altri antichi vampiri, che in genere operano nell’ombra. Quando la tregua viene rotta, decidono di prendere le contromisure. Assoldano Gus Elizalde, un membro di una gang di New York, perché dia la caccia ai nuovi vampiri che infestano New York per ripristinare il vecchio status quo. La caduta di G. del Toro & C. Hogan “La progenie” era finito con il fallimento del tentativo da parte del gruppo di Abraham Setrakian di uccidere il Padrone, l’antico vampiro che aveva dato inizio all’epidemia di vampirismo a New York. La storia era stato concepita fin dall’inizio Il romanzo “La caduta” (“The Fall”) di come una trilogia perciò è stata spezzata in Guillermo del Toro e Chuck Hogan è stato tre libri. Di conseguenza, è indispensabile pubblicato per la prima volta nel 2010. È il leggere “La progenie” prima di cominciare secondo romanzo di una trilogia ed è il se- “La caduta”. guito de “La progenie”. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nella collana Il primo libro era impostato nello stile di “Omnibus” e nel n. 4 di “Urania Horror” CSI, nel senso che l’inizio dell’epidemia nella traduzione di Gaetano L. Staffilano. di vampirismo era stata esaminata dal

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punto di vista scientifico con esami approfonditi dei corpi delle prime vittime. “La caduta” rappresenta una fase successiva, in cui New York sta cadendo nel caos e serve un’azione di tipo militare per arginare l’infestazione. In una storia divisa in una trilogia, il primo libro serve a mettere in moto i vari elementi della trama per poi svilupparli nel secondo libro. Ben presto ne “La progenie” avevamo visto che il piano del Padrone, com’è conosciuto l’antico vampiro arrivato a New York, era supportato dal miliardario Eldritch Palmer. Ne “La caduta” scopriamo di più su questo piano e sul ruolo di Palmer. La situazione a New York sta degenerando ma le autorità non prendono contromisure adeguate. È proprio Eldritch Palmer che usa la sua influenza per fare in modo che i media forniscano informazioni rassicuranti, dando alle autorità la scusa per limitarsi a promettere controlli sulla salute pubblica. Abraham Setrakian e il suo gruppo devono affrontare la minaccia dei vampiri ma non sono soli. Gli altri antichi vampiri reagiscono al piano del Padrone, che ha rotto la tregua che assicurava a tutti loro la possibilità di agire nell’ombra, e forniscono a Gus Elizalde i mezzi per permettergli di guidare alcune gang di New York nella caccia ai vampiri. Un’altra speranza per Abraham Setrakian arriva quando viene messo all’asta un libro che contiene alcuni segreti dei vampiri. La lotta per impossessarsene è anche un’occasione per Guillermo del Toro e Chuck Hogan per raccontare altri episodi del passato di questo cacciatore di vampiri, che ne “La caduta” riguardano vari periodi.

Un maggiore sviluppo dei personaggi rispetto al primo libro della trilogia è una caratteristica de “La caduta”. Inizialmente, essi erano stati costruiti usando vari cliché e forse gli autori avevano ricevuto qualche critica su questo punto perché in questo secondo libro cercano di dar loro maggiore profondità. Ciò avviene in vari modi: usando flashback sul loro passato, con intermezzi narrati da alcuni di essi in prima persona o fornendo informazioni sulle loro origini. Questo sviluppo da una parte migliora certamente la qualità della storia ma a volte frammenta la narrazione e fa sì che il ritmo sia diseguale, a volte rapido ma altre volte lento. La parte della trama riguardante Zach Goodweather, il figlio di Ephraim, cercato dalla madre trasformata in vampiro, serve ad avvicinare il lettore ai personaggi ma in alcuni momenti sembra una digressione dagli elementi importanti della storia. Alla fine, l’impressione generale che ho avuto da “La caduta” è che Guillermo del Toro e Chuck Hogan non avessero abbastanza materiale per la parte centrale della loro storia e abbiano dovuto aggiungere qualche altro intermezzo per riempirla un po’. Secondo me ciò ha indebolito questo secondo libro. “La progenie” non mi aveva entusiasmato e “La caduta” ancor meno. Chi era rimasto soddisfatto del primo libro probabilmente si farà un’opinione migliore del secondo, in attesa del terzo che conclude la storia.

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I libri da rileggere N OT T E E T E R N A di G. del Toro & C. Hogan

no L. Staffilano. Il piano del Padrone per conquistare il potere ha funzionato. Ha usato armi atomiche per causare un inverno atomico con una notte quasi perenne. In due anni ha preso il controllo di quasi tutto il mondo creando una società in cui gli esseri umani superstiti sono divisi tra i suoi servitori e il “bestiame”, usato per fornire sangue e per la riproduzione. Il gruppo formato dall’epidemiologo Ephraim Goodweather, dalla sua collega Nora Martinez e dal disinfestatore Vasiliy Fet continua a cercare di formare una resistenza contro il Padrone. Essi sono aiutati dal misterioso Quinlan, che serviva gli altri antichi vampiri e ora continua cercare il punto debole del Padrone in una lotta Notte Eterna che sembra disperata. di G. del Toro & C. Hogan Il libro finale della trilogia Nocturna comincia in maniera devastante due anni dopo che il Padrone ha messo in atto il suo piano. La narrazione fa un salto avanti nel tempo dopo la fine de “La caduta” e il Il romanzo “Notte Eterna” (“The Night lettore si trova in un mondo di tenebre Eternal”) di Guillermo del Toro e Chuck quasi perenni dominato quasi completaHogan è stato pubblicato per la prima mente dai vampiri. volta nel 2011. È il terzo romanzo di una trilogia ed è il seguito de “La caduta”. In La resistenza contro il Padrone sembra sconfitta, anche perché la morte Abraham Italia è stato pubblicato da Mondadori Setrakian ha reso molto più difficile la denella collana “Omnibus” e nel n. 5 di “Urania Horror” nella traduzione di Gaeta- cifrazione dell’Occido Lumen, un libro

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che contiene i segreti dei vampiri. Ephraim Goodweather, che dovrebbe essere uno dei leader della resistenza, è quasi impazzito dopo che suo figlio è stato catturato dal Padrone. I toni di “Notte Eterna” sono davvero apocalittici e non solo perché la situazione per gli esseri umani è davvero brutta ma anche proprio per il cambio di impostazione di fondo. La trilogia era iniziata con toni che, pur contenendo elementi classici delle storie di vampiri, sembravano più un misto di fantascienza e “procedural drama” dato che il vampirismo era descritto come una sorta di epidemia. Fin dall’inizio, la trilogia non ha brillato per originalità e la storia dell’epidemia di vampirismo ricordava in vari modi il film “Space Vampires”, tratto dal romanzo “I vampiri dello spazio”. La Manhattan infestata dai vampiri della trilogia Nocturna riecheggia per certi versi la Londra di quel film. Il tono della vicenda cambia decisamente in “Notte Eterna”, virando verso il mistico / religioso. Sia l’Occido Lumen che alcuni flashback rivelano elementi decisamente soprannaturali connessi ai vampiri. La storia dei tentativi della resistenza di distruggere il Padrone non arriva fino a quel punto ma contiene anch’essa connotazioni religiose. Questa disomogeneità rispetto ai libri precedenti della trilogia può lasciare perplesso il lettore eppure “Notte Eterna” mi è sembrato il più robusto dei tre. Ciò perché la trama può concentrarsi sulla parte risolutiva della storia, senza bisogno di una parte introduttiva dal ritmo spesso basso e senza le debolezze del libro centrale. “Notte Eterna” è soprattutto un romanzo d’azione in cui anche i flashback contengono elementi connessi alla risoluzione finale. La storia è complessa e gli eventi non vanno

sempre in maniera diretta dall’inizio alla fine del romanzo ma è lì che portano anche le deviazioni. Anche in “Notte Eterna” c’è un vasto uso di cliché ed elementi non proprio originali. L’Imperat… ehm, il Padrone che cerca di portare Zack Goodweather al “lato oscuro” sa di già visto, anche se in questo caso usa il figlio per arrivare al padre. Quinlan, che comunque è un personaggio interessante, non è un vampiro come gli altri e il fatto che Guillermo del Toro abbia diretto il film “Blade II” fa sospettare quale sia l’ispirazione. Anche il finale non è esattamente sorprendente. Il ritmo elevato compensa solo in parte i difetti del romanzo ma se alla fine ci si pensa un po’ sopra è impossibile ignorarli. C’è di positivo che i protagonisti siano molto umani, per certi versi perfino Quinlan, e non eroi senza macchia e senza paura. L’idea della trilogia Nocturna era stata originariamente concepita per creare una serie televisiva da Guillermo del Toro. Dopo anni di tentativi per trovare i finanziamenti necessari al progetto, un episodio pilota sceneggiato dallo stesso del Toro assieme a Chuck Hogan e diretto da del Toro è stato girato e approvato dal canale FX, che ha ordinato una stagione da 13 episodi che dovrebbe debuttare negli USA nel luglio 2014. Alla fine, la trilogia Nocturna può essere considerata un unico romanzo diviso in tre libri che raccontano una storia poco originale e con problemi di disomogeneità. Per chi apprezza le storie di vampiri, soprattutto quelli classici, assolutamente spietati, piuttosto che il glamour di quelli fighetti di certe produzioni moderne, può comunque essere una lettura divertente.

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IL venditore dI pensieri usati LA SPADA DI S H A N N A RA di Terry Brooks

Allora… sono deluso. Molto. Vabbè che è la prima cosa che ha scritto, ma non si possono lasciare a metà certi eventi! Ma partiamo dal principio: Parliamo di una compagnia poco numerosa di persone, tra cui nani, elfi, un mago che va via per i fatti suoi, un tizio che poi si scopre che è erede al trono, un oscuro personaggio che dall’ombra dirige un grosso esercito per conquistare il mondo… Vi ricorda magari qualcos’altro? Tipo “Il Signore degli Anelli”? Inizia un viaggio lungo e pericoloso, la compagnia si frammenterà e ogni gruppo avrà la propria avventura. Solo il druido Allanon terrà intrecciati i fili della storia, che non vi sto qui a racontare perché è un pratico riassunto della più nota opera di Tolkien. Perché è di questo che stiamo parlando: di una storia pressoché identica raccontata in metà spazio. Poca originalità, personaggi già visti, anche se sostituiti (per esempio sostituisce gli gnomi agli orchi, dei piccoli uomini agli hobbit, e via discorrendo.), qualche forzatura. Ecco. In ogni caso, un libro di oltre 600 pagine non può iniziare a essere interessante dopo le “prime” 400, e comunque

non mi può lasciare la battaglia decisiva, alle porte e all’interno di una città fortificata che difende l’accesso a tutte le altre terre (ehm… No, non è Minas Tirith…), a metà! Perchè io avevo lasciato la città che era praticamente messa a ferro e fuoco, conquistata da troll (…) e gnomi (gnomi, non orchi, come dicevo poc’anzi), i nostri allegri compagni che stavano soccombendo… e tutto d’un tratto li ritrovo festaioli! Che è successo, nel frattempo?

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E che fine ha fatto l’esercito elfo che non si capiva se stesse arrivando o meno? E come ha fatto il fratello del protagonista (ah: il protagonista è un inetto che si è ritrovato in mezzo agli eventi perchè erede di un talismano…), che stava salvando il re elfo e tentando di raggiungere il druido, scappando da un esercito di gnomi inferociti con troll al seguito… insomma che stava facendo prima di festeggiare? Ah, già… stava facendo qualcosa con gli elfi, dopo essere in qualche modo sfuggito agli inseguitori… E come si è ricongiunto alla compagnia? E alla fine ha ritrovato il druido? E come mai è felice, alla fine fine, di riabbracciare un personaggio di cui, presumo, ha solo sentito parlare? Tutte domande che non trovano risposta, perché, ripeto, molti eventi rimangono in sospeso. Se Tolkien si lasciava aiutare, a volte, da fortuiti aiuti che arrivavano ai protagonisti, Brooks proprio non ci spiega come riescano a uscire dalle situazioni. Mah! Proverò a leggere anche il prossimo. Brooks si è rivelato un buon autore, alla fine… e il ciclo succesivo, quello di Landover, lo dimostra. L’ho divorato, il ciclo di Landover. Purtroppo non avevo ancora iniziato a prendere nota di quanto leggevo, e ormai è passato troppo tempo per poterne scrivere. Spero che nel prossimo ci saranno accenni a ciò che è successo prima, così, per capire il passato. Alla prossima, cari lettori.

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S ka n Mi chiamo Diego Capani e sono un Graphic designer. Forse alcuni di voi mi conoscono come il Drugo. No? Fa lo stesso. Che dire di me… mi divido tra la toscana, dove vivo e riposo, e Milano dove invece lavoro e mi affatico. Ho iniziato a fare grafica digitale intorno alla metà degli anni ‘80 con un Amiga 1000 e il mitico “Deluxe paint”. Facevo quella che oggi si chiama “pixel art”. Vi assicuro che non era affatto semplice: volevi imparare? Ok, c’era il manuale cartaceo a corredo del software e le riviste d’importazione che potevi ordinare in edicola. Tutto in lingua anglosassone (tenete presente che una volta l’inglese lo parlavano per lo più solo gli inglesi, per ovvie ragioni, e qualche posseduto). Niente internet, almeno non nella forma e nelle dimensioni odierne. In pochissimi anni sono cambiate un sacco di cose e io continuo a fare “grafica”, adeguandomi. Non riesco a smettere… e pare che la cosa sia destinata ad andare avanti ancora per un bel po’ (ho fatto dei figli, ho cambiato un paio di case e, come se non bastasse, ho sottoscritto un abbonamento con un noto mensile che mi terrà vincolato per i prossimi dieci anni). Sono stato un pioniere nel campo delle produzioni multimediali e ho avuto la fortuna di sfornare un paio di idee niente male al momento giusto che hanno dato una svolta decisiva alla mia attività professionale. Questo ha permesso di confrontarmi con nomi prestigiosi del made in Italy e non. Cito e non senza un pizzico di orgoglio: il gruppo Armani, Cacharel, Ralph Lauren, Helena Rubistein, Lottomatica, Cartasì, Mtv, Cremonini, Lavazza, Garzanti, Rizzoli, Touring Club, Smart Italia, Regione Lombardia, Regione Toscana e altri ancora.

VALE PIU' di mille parole T h e B a r d ' s Ta l e

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Dal 2013 collaboro con un noto brand francese di videogames. Attualmente sto curando il concept e la realizzazione di alcuni personaggi che faranno parte di un gioco rpg fantasy di prossima uscita per le nuovissime mega console. Da qualche anno, inoltre, mi occupo di formazione per aziende e privati. Formo grafici e futuri Art director da sacrificare a clienti crudeli e senza scrupoli. Alcuni sopravvivono, altri no. Ho una passione morbosa per il cinema di genere e nutro un insano amore per G. Romero, cioè non per lui, sia chiaro, ma per la sue “creature”. Quando gli impegni professionali me lo consentono, ammesso che mia moglie non mi spedisca in missione in cerca di cibo o medicinali, il mio “essere” tende a concentrarsi nella rappresentazione grafica di scene e personaggi dell’immaginario fantastico. Solitamente prediligo quelle figure e tematiche che maggiormente hanno saputo terrorizzarmi e/o affascinarmi (zombie, vampiri, demoni, alieni o grigi, killer seriali il tutto condito da apocalissi varie). Se ti vuoi affascinare e/o terrorizzare anche tu, guarda qui: diegocapani.hitart.com Faccio parte dell’attivissimo gruppo ESC (facebook.com/ElectricSheepComics) e, insieme a Roberto Napolitano che ne ha scritto la sceneggiatura, sto lavorando a “Aurux 43”: una Graphic novel, Survival-HorrorSci-Fi-OldStyle, qualsiasi cosa voglia dire. Sarà qualcosa di “veramente particolare”. Per “capire” a fondo il significato di “veramente particolare” è consigliabile dare una sbirciatina qui: facebook.com/Aurux43 (mettete “mi piace” così capisco che avete capito).

VALE PIU' di mille parole Monolith

Vabbè, faccio un salto in Skyrim. Se mi cercate di solito bazzico la locanda del “Gigante addormentato”. Chiedete del Drugo…

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Il Lato Oscuro

Ar i a n n a K o e r n e r

Viola di carta canta e vola Piove. Il passi lenti del tempo, scanditi dal tamburellare di dita umide sulle tegole rotte e le assi marce di questa soffitta. I balzi di un gatto solitario in cerca di riparo. Mi guarda. Lo guardo. Una goccia si getta nel vuoto, suicida. Muore sulle mie labbra. Mi volto. Muoio sulle tue labbra. La sensazione della tua pelle contro la mia. Calore. Questo è dunque vivere? Essere? Anche prima ero. Si. Ma in modo diverso. Ricordo. Sento le mie braccia tendersi in un innaturale e convulso balletto. Inumano. Forzato. Ero. Io. Un tempo. Forse troppo vicino. Ricordo. Paura. Ho paura. Cerco la tua mano. Appoggio il viso sulla tua pelle. Odore di muschio e pioggia. Mi guardi. Ti guardo. Sorridi. Ricordo. Suonano gli archi. Viola di carta canta e vola. Il palco è un mare, una foresta.

Una dolce speranza d'amore infiamma due cuori sinceri. Ma la sorte continua a colpire e ci induce a più tristi pensieri.

Nacqui amata, e condannata. Consacrata a un’eterna tristezza dalle sadiche mani del mastro padre-padrone che scolpirono la mezzaluna discendente delle mie labbra. Solco immobile ed eterno. Ebbre di onnipotenza dipinsero il mio volto di pallido candore, solcandolo di nere lacrime. Unico dono le vesti sgualcite per coprire le mie nudità nodose. Mani forate, aggiogate a catene di filo, schiavitù che mi lega alla mobile volontà del creatore. Sono la Vergine dei balocchi. La giullare dei pezzenti. Tintinnio di campanelli d’ottone ad annunciar l’entrata in scena della principessa della morte. Ogni sera. Schiava. Tra i rossi drappi del palco. Anni di non vita. Di movimenti spasmodici. Di danze macabre. Non volute. Non cercate. Forzate. Suonano gli archi. Viola di carta canta e vola.

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Il palco è un mare, una foresta. Vieni, Amore, soccorri gli amanti, che per te sono pronti a lottare. Dopo tante fatiche e tormenti, fa' che tornino un giorno a sperare.

Mia dimora un chiodo arrugginito e ricurvo. Lì riposano attorcigliati i filicatene. Impiccata osservo la lacrimosa corte dei pupazzi. Scintillio di porpora, argento e oro. Armature di cavalieri e merletti di dame. Svolazzare di magiche tuniche e bocche di mostri irte di denti. Come sono lontano da tutto


questo. Io. Tra la polvere dei dimenticati, dei balocchi mal riusciti. Bambole monche e giullari decapitati. Pierrot di porcellana dalla testa fracassata. Braccia, gambe, viscere di stoppa. Freddo e lacrime nere. Solitudine. Ricordo. Suonano gli archi. Viola di carta canta e vola. Il palco è un mare, una foresta. Fa' che il mio cuore non muti, e sebbene sia nata di legno. Che in questa mia vita m'aiuti e un giorno ne possa far pegno.

Il teatro è un deserto d'oro e spettri. Sciacalli affamati vagano in cerca di sogni. Siamo l'esercito di illusioni. Poeti del miraggio. La pentola d'oro in fondo all'arcobaleno. Il maestro è un pittore di specchi che si ciba di disperazione.

Ricordo. Una sera ti vidi. Eri lì, seduto tra i cani. Mi guardavi danzare costretto. I fili tirati. Piangevo. Piangevi, per me. Capivi. Tendevo le dita, cercandoti. Un attimo. Sforzando i pioli ed i giunti. Lottando contro l’eterno tirare. La danza incessante del mastro-signore. Solo un attimo. Sfiorare la tua pelle. Il petto orgoglioso. Dagli occhi di notte lacrime vere. Lacrime nere, le mie. Danzavano gli sguardi. La triste signora e il saggio guerriero. Amore impossibile. Eppure sentivo il sordo tuonare di un cuore lontano. Nel petto di legno. Nel ventre di stoppa. Poi a tutto strappata, dai drappi richiusi. Frontiera di mondi e destini. Addio, amore. Ricorda.

Cercavo il tuo viso. Invano. Ricordo. Lo squarcio improvviso, il ventre pulsare, i fili cadere. Alzarmi e volare. Non legno ma carne. Non stoppa ma sangue. E correre. Correre, via. Oltre quel limite. E la pioggia. Il freddo. Che freddo. Ora vero. Sentito. Gridavo, il tuo nome. Senza saperlo lo conoscevo. E ti amavo. E mi amavi. Ero tua. Sotto la pioggia. Le labbra scarlatte, colate e imperfette. E lacrime nere di ombretto dissolto. Le vesti cadenti. La pallida carne scoperta e tremante. Nessuna frontiera tra noi, solo tende di notte. E amore. Amore. Amore. Ancora. Ricorda. Ricordo. Per sempre.

Suonano gli archi. Viola di carta canta e vola. Il palco è un mare, una foresta. Con te chiuso nel cuore, sola Suonano gli archi. Viola di Suonano gli archi. Viola di nella foresta, triste, pur carta canta e vola. carta canta e vola. amando, rimarrò pura e caIl palco è un mare, una fore- Il palco è un mare, una fore- sta. sta. sta. Saprò tener vivi con soave Con un cuore addolorato non A te soltanto apparterrà il saggezza, amore e devozione, conviene ragionare. mio cuore, non temere alcuna rispetto e tenerezza. Dar consigli, suggerire, è un infedeltà. Riflettete fanciulle che soparlare sempre a vuoto. Perché di esso sei tu il vinci- gnate l'amore, di licenze e Non ci resta che aspettare tore, e sarò tua per l'eternità. piaceri non si nutre il cuore. con coraggio e con pazienza. Non siate compiacenti, ma E anche questa sofferenza Ancora prigione di fili e di serie e dignitose, serbatevi prima o poi dovrà passare. chiodi. La notte piovosa, tra i per chi vi renderà orgogliose.

morti di legno.

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OLTRE LO skannatoiO

Concorsi

Al vincitore sarà riservato un premio interessantissimo ed esclusivo, ovvero l’inserimento del proprio racconto all’interno della versione cartacea del romanzo La notte che uccisi Jim Morrison di Luigi Milani edito da Dunwich Edizioni. Al vincitore verrà riconosciuta una royalty del 10% sul prezzo di copertina del libro.

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Inoltre riceverà due copie omaggio del libro cartaceo de La notte che uccisi Jim Morrison con il proprio racconto pubblicato. I dieci migliori racconti, infine, saranno inseriti in un ebook creato ad hoc e intitolato Morte a 666 Giri, edito sempre dall’etichetta di Mauro Saracino e riceveranno in regalo un libro a testa scelto dal catalogo Dunwich Edizioni.


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AMAZING MAGAZINE

S k a n n a t o i o e d i z i o n e XXV I I I C hi b e n c o m i nc i a . . . Questo mese, signore e signori, la XXVIII edizione dello Skannatoio affronta un tema cruciale per ogni storia che si rispetti: l'incipit. I lettori e ancor più gli editori, quando devono valutare uno scritto, SE VA BENE, leggono i primi 50mila caratteri (se si tratta di un romanzo). Gli strumenti per tirare uno schiaffo in faccia a chi legge qualcosa di vostro e fargli dire: "Dai, questo lo leggo, gli do una chance", sono un incipit esplosivo e dei cliffhanger degni di questo nome (quindi che somiglino a Stallone) a fine capitolo.

LE SPECIFICHE Lunghezza (globale). Minima: 3mila caratteri. Massima: 12mila caratteri. Genere: Horror, giallo, fantastico e relativi sottogeneri. Particolarità: a) Questo mese, il vostro compito sarà quello di scrivere DUE DIVERSI incipit per delle storie che idealmente dovrebbero eccedere i 50mila caratteri. Ognuno degli incipit dovrà essere lungo da un minimo di 1500 a un massimo di 6mila caratteri. I due incipit dovranno essere di due generi letterari diversi. b) OGNUNO dei due incipit dovrà contenere un MINIMO di 3 fili pendenti. Un filo pendente è una cosa detta/mostrata/etc. che può fungere da spunto di trama ma che, in quanto pendente, non è ancora ovviamente stata risolta. Un filo pendente può essere - esempio - un'ombra misteriosa che spia il protagonista e che ancora non si è scoperto chi/cosa sia, oppure - altro esempio - un dettaglio notato

in un'investigazione, che dalla narrazione magari si capisca che è importante, ma che ancora non sia servito a niente perché c'è l'idea di usarlo in seguito. In coda a ogni incipit bisognerà esplicitare quali saranno stati i fili pendenti utilizzati e quali sviluppi dovrebbero portare nel prosieguo della storia. c) Ogni incipit dovrà concludersi con un cliffhanger. LE COCCARDE Questo mese saranno assegnate 2 coccarde: 1) La coccarda "migliore apertura" sarà assegnata al migliore intro di un incipit. Dove un incipit sono migliaia di caratteri, questa coccarda valuterà la prima/prime 2 o 3 frasi e basta. Valore: 3 punti 2) La coccarda "devo sapere come va avanti!" sarà assegnata, sempre a insindacabile giudizio del giurato di riferimento, a colui che avrà creato il migliore cliffhanger e avrà invogliato di più il lettore a proseguire con la lettura. Valore: 3 punti Il mio "in bocca al lupo", stavolta ve lo do con una delle migliori frasi di apertura che io abbia letto in vita mia: Immagina di ficcare un pungolo per bestiame su per il culo di un rinoceronte, gridando “Pesce d’aprile!”, e sperando che il rinoceronte lo trovi divertente. Dare la caccia a un vampiro è più o meno divertente uguale.

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Master


S ka n Vis et Honor

Decio strisciò tra gli arbusti finché non raggiunse i due commilitoni nascosti nell’erba alta. Di fronte a loro, alla tenue luce della luna, si intravedeva una pista lastricata, costeggiata da alti pini marittimi. «Cosa ne pensate?» chiese sottovoce. «Sembra una strada consolare. Se fossimo fortunati, potremmo addirittura essere nei pressi della Capitale», rispose Quinto, «ma la Fortuna ci ha voltato le spalle da tempo». Settimio aggiunse dubbioso: «C’è qualcosa che non mi convince. Tutte quelle pietre fuori posto... la manutenzione lascia a desiderare». «Zitto», lo interruppe Decio. «Cos’è questo rumore?». I tre legionari cominciarono a percepire alle loro spalle una strana vibrazione, come un rombo sommesso. Proveniva da un'altura poco distante. Si trattava di un rumore continuo che si intensificava con regolarità. «Non ne ho idea», rispose Quinto. «Non sembra il brontolio che segue un tuono...». In quell’istante, preceduto da un agghiacciante sibilo, un enorme serpente d’acciaio uscì ruggendo a folle velocità da un’apertura nel pendio. Impazziti dal terrore, i tre saltarono fuori dai cespugli e si misero a correre a perdifiato, oltre la strada, per i

campi. Il serpente sparì nella notte. Sembrò averli ignorati, ma loro continuarono a fuggire a lungo, incespicando e rialzandosi, finché non crollarono esausti. 19 secoli prima I combattimenti per sedare le rivolte dei Traci si stavano trascinando da mesi. L’azione offensiva della terza legione Macedonica, al comando del generale Flavio Massimo, incontrava una strenua resistenza. Sembrava che nulla potesse fiaccare le forze dei ribelli, una fastidiosa spina nel fianco che impediva la pacifica romanizzazione del paese. La legione era accampata presso Uskadama in attesa di muovere verso le frange di resistenza che trovavano rifugio tra le alture più a nord. La vita dei soldati, in quei giorni d’attesa, si svolgeva tra noiose esercitazioni e incombenze quotidiane. Quella sera, di fronte alla centuria Felix schierata davanti al pretorio, era in corso l’esecuzione di alcune punizioni. Il centurione Decio Marcello ricevette un rotolo dal comandante e lesse ad alta voce la sentenza: «Settimio Ario, sei stato riconosciuto colpevole di furto e condannato alla fustigazione. Ti saranno inflitte venti nerbate e verrai tradotto al capoluogo per

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scontare il resto della pena». Il condannato, legato a un palo infisso nel terreno, aveva la schiena scoperta. Quinto Gaio, un veterano delle guerre in Dacia, mentre fingeva di saggiare la consistenza della frusta, gli si avvicinò sussurrando: «Settimio, sei pronto?» Il condannato non rispose, ma serrò i pugni intorno ai lacci che lo legavano. Decio iniziò a contare ad alta voce. Quinto faceva seguire a ogni numero una scudisciata che imprimeva sulla schiena di Settimio una striscia livida. All’ottava frustata, il condannato, che fino ad allora aveva per orgoglio trattenuto i lamenti, cadde sulle ginocchia. A partire dalla dodicesima, la sferza cominciò a lasciare tracce sanguinolente. Alla ventesima, Settimio perse i sensi e il supplizio ebbe termine. Il comandante era soddisfatto e Decio ordinò alla centuria di rompere le righe. *** «È una specie primitiva. L'unico pregio consiste nella resistenza fisica, peraltro gestita in modo inefficiente». L’ufficiale scientifico U’fik stava svolgendo con cura l’autopsia di un cadavere. Il corpo fluttuava al centro del laboratorio mentre alcune sonde ne analizzavano le varie parti. Dopo aver esaminato a lungo gli organi interni, aggiunse:


«Solo ulteriori esami potranno confermarne l'utilità. Io penso che valga la pena di raccogliere alcuni campioni e di portarli con noi». Il primo ufficiale U’nak era perplesso. Si chiedeva a cosa potessero servire degli esseri così poco evoluti, che per svolgere qualunque tipo di attività utilizzavano solo la forza muscolare. Senza considerare, poi, quel loro aspetto ripugnante e la puzza che emanavano. «Se la pensate così, raccoglieremo i campioni. L’unico vantaggio di questo ingrato compito è che, finalmente, potremo tornare in patria». *** Il centurione Decio procedeva a cavallo attraverso la gola. Alte pareti rocciose si innalzavano a destra e a sinistra. “Il luogo ideale per un’imboscata”, pensò. Era seguito a passo di marcia da una lunga fila di prigionieri incatenati, scortati da alcuni legionari. Quinto, in tenuta da battaglia, indossava l’elmo e sosteneva con la sinistra lo scudo rettangolare, mentre cadenzava il passo seguito dagli altri soldati. Vicino a lui si trascinava Settimio, gravato dalle catene. Il veterano sentì che si lamentava e gli disse: «Questa volta l’hai fatta grossa». Non ottenne risposta, solo un gemito.

«Sei sempre stato veloce di mano, ma prima o poi dovevano beccarti». «Lasciami in pace! La schiena mi tortura già abbastanza: devo anche sopportare le tue chiacchiere?» sbottò Settimio. «Ti lascio in pace, ma non tormentarmi coi tuoi lamenti: un po’ di pazienza e, in dieci anni di lavori forzati, le ferite si rimargineranno». «Dieci anni? Non c’è prigione o catena che possa trattenermi. Quando mi verrà a noia la sbobba, fuggirò». In quel momento, un turbine di vento si alzò sopra le loro teste. Ne seguì un sibilo e un bagliore accecante. I legionari, dopo attimi d'incertezza, sguainarono il gladio e si posero al riparo degli scudi, mentre i prigionieri, impediti dalle catene, cercavano scampo da quell’improvvisa tempesta di vento e fulmini. Il cavallo del centurione s’imbizzarrì. Decio tentò di domare la sua cavalcatura, ma venne disarcionato e perse conoscenza per la violenta caduta. Continua...

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Topi di fogna "Le viscere della terra digeriscono i fetidi umori della superficie. Il marciume si stratifica, i rifiuti si compattano gli uni sugli altri e i miasmi della decomposizione tolgono il fiato. Eppure, anche nel più lurido dei buchi, c'è chi banchetta felice con un torsolo di mela roso dai vermi. Ciò che è scartato dà nuova speranza, ciò che è morto genera nuova vita. " (Gerard Messier, servo degli Ultimi)

Terapolis, 15 brumaio CCCXLI Luc si svegliò e cercò di ricordare dove si trovasse. Un’enorme insegna pubblicitaria appesa sull'edificio di fronte illuminava la camera da letto attraverso la finestra. Si alzò sui gomiti e si accorse che una donna stava dormendo accanto a lui. Alla luce intermittente ne riconobbe il profilo. Si erano conosciuti la sera prima e avevano passato insieme la notte. La osservò respirare; nella semioscurità vedeva il seno sollevarsi lento e la pelle distendersi per poi rilassarsi. Si domandò il nome di quella donna. Si sorprese: di solito, il giorno dopo, non gli interessava ricordare come si chiamasse la compagna occasionale di una notte, perché non l'avrebbe mai più rivista.


Ci pensò e concluse che non gli importava neppure questa volta. Un orologio indicava le sei del mattino. Decise di alzarsi, si rivestì senza fare rumore e uscì dall’appartamento. Aveva un paio d'ore. Sarebbe passato da casa per una doccia e, poi, avrebbe preso servizio al distretto. *** Terapolis era uno dei maggiori agglomerati urbani del pianeta. Col tempo il suo perimetro aveva inglobato città preesistenti, superato i confini di antiche nazioni, ricoperto mari e deserti. Le abitazioni, gli uffici, i centri commerciali, gli edifici governativi, le fabbriche, tutto ciò che era necessario per la vita degli abitanti, si ammassava per migliaia di chilometri senza soluzione di continuità. In ogni quartiere si ripeteva la stessa struttura. Era organizzata a strati: al di sopra delle costruzioni si tesseva la rete di un intenso traffico; la cima degli edifici più alti era occupata da residenze di prestigio e uffici dirigenziali, poi seguivano i piani inferiori, sempre meno ambiti, fino ad arrivare alla superficie, che raccoglieva i rifiuti e il sudiciume degli strati superiori; il piano stradale, ormai in disuso, era occupato dagli esclusi della società, un’umanità abbrutita e dolente, che viveva del superfluo dei privilegiati; infine, al di sotto della superficie, tra tunnel abbandonati e fognature, ribolliva un mondo invisibile: là sotto si nascondeva tutto ciò che non

aveva diritto all'esistenza. Giunto alla centrale di polizia del distretto di Nice-Marseille, Luc entrò nello spogliatoio. Diversi agenti si stavano cambiando seduti sulle panche o in piedi di fronte agli armadietti. C'era anche Martin, il detective con cui investigava. Era raggiante. Appena lo vide gli andò incontro e gli disse: «Luc, ho una buona notizia! Michelle avrà una figlia: ieri abbiamo ricevuto il permesso dal Ministero». «Veramente? Sono davvero contento. Sei il primo che conosco a esserci riuscito. Fai i complimenti a tua moglie da parte mia». «Glieli farai di persona. Abbiamo organizzato una cena per il prossimo Duodì e sei invitato. Non deluderci!». «Sai che le feste mi deprimono». «Questa volta non ci sono scuse. Porta anche quella tua amica... come si chiama?». «Ti riferisci a Marianne? È acqua passata: non la vedo da più di un mese». «Ah, non lo sapevo. Beh, porta chi vuoi». «Vedrò cosa riesco a rimediare». Mentre parlavano, lo sguardo di Martin s'era fatto lucido, così Luc chiese: «Ma che c'è? Non sei contento?» L'amico, con la voce spezzata, gli confidò: «Sai, il permesso è giunto appena in tempo. Michelle aveva iniziato a chiedersi perché stavamo ancora insieme... senza di lei non potrei sopportare questa vita». Dopo l’ultima frase, l’uomo

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tornò verso il suo armadietto e riprese a cambiarsi. Luc non vedeva le lacrime sul volto dell’amico, ma poteva immaginarle. Nel frattempo, Jacques, un agente della squadra d’assalto, entrò nello spogliatoio e disse: «Ragazzi, credo proprio che oggi non ne usciremo vivi». Quella frase suscitò un coro unanime di ingiurie e scongiuri. Qualcuno gli chiese cosa ci fosse in programma. «Abbiamo un codice 452 nel settore 37». La notizia fece cadere lo spogliatoio nel silenzio. Il settore 37 si trovava a nord della giurisdizione. Di per sé non era una zona malfamata, c’erano alcune industrie e una centrale energetica, mentre il piano stradale era piuttosto tranquillo. Il vero problema era il sottosuolo: laggiù si dipanava un intrico di gallerie che comprendeva una vecchia miniera, un’antica tratta della metropolitana e l’imponente intreccio delle fognature. Luc indossò lentamente gli anfibi e il giubbotto antiproiettili, poi prese il casco e si avviò con i colleghi all’armeria. Il capitano avrebbe di certo assegnato lui e Martin alla squadra d'assalto, perché un codice 452 aveva la precedenza su tutto: indicava un’operazione di “derattizzazione”, uno dei compiti più ingrati e pericolosi. Continua...


S ka n

Il dominio di Weiss

Scariche elettriche come maledizioni sul suo corpo nudo, illuminano la notte che non vuole finire. La donna si contorce, ma non urla, digrigna i denti, ma ci guarda con fermezza. E rabbia. I suoi lunghi capelli argentei si sollevano con cadenza regolare, scoprendo per qualche secondo le spalle candide. Krizia ha i polsi e le caviglie ben fissati al suo letto di tortura, la luce bluastra della sala non tradisce alcun senso di colpa sui volti gelidi degli Osservatori. Persino le mie labbra sono serrate. La guardo soffrire e penso a quante volte l’ho vista muoversi sopra di me, sinuosa e sicura, senza veli, libera. Quante volte la mia lingua ha giocato sugli arabeschi del suo marchio: «È solo il passato» mi diceva all’inizio «un giocattolo d’infanzia». Allora scendevo, dal seno verso l’ombelico, e lei mi afferrava i capelli. Ha sempre creduto di essere molto forte. «Signore, dobbiamo continuare?» mi chiede il Dottor Lutenev. «Ho detto fino a che non urlerà» gli rispondo calmo. «Ma Signore, finiremo per ucciderla» «Allora resterà inutile, esattamente come lo era prima» Krizia incrocia il mio sguardo coi suoi occhi chiari, dice qualcosa che non penetra la sfera in cui è rinchiusa. Immagino mi stia dando del bastardo, o qualcosa del genere. Vergognati

pure di quello che mi hai detto, razza di mostro. Pentiti di avermi mostrato chi sei. Il mio pensiero pare arrivarle dritto al petto, la sua schiena si inarca e gli occhi si serrano con forza. «Ci siamo quasi!» urlo all’operatore «ancora una, un po’più forte» Le labbra livide della donna si spalancano, il petto si solleva. Piccole scintille iniziano a sfrigolarle sui contorni del marchio. Continua...

Lacrime per Akratas

parecchie miglia più a est le parve di intravedere le guglie della sua amata città spuntare dalla foresta che la proteggeva. Si portò una mano al petto e strinse il grosso medaglione che le pendeva dal collo. «Non lo avranno, Nifu, dovessi scappare fino alla fine dei miei giorni, non lo avranno» La piccola creatura sogghignò di piacere. «Ne sono certo, mia signora, ma ora mi segua, ho già controllato questa via» Dalyen afferrò la mano nodosa del suo servitore e si lasciò condurre per qualche passo. Aveva sempre considerato gli halfling creature meschine, niente a che vedere con la purezza degli elfi e i valori che suo padre le aveva insegnato. Ma Nifu era diverso, si era dimostrato utile e onesto con la sua famiglia, con lei. Grazie alla sua guida, la dimora del grande Calavos pareva raggiungibile, la salvezza di Akratas possibile. I due si incamminarono tra gli alberi, ciascuno scrutando tra le fronde all’erta di ogni movimento sospetto. Le prime luci dell’alba creavano delle strane ombre e i suoni della natura parevano meno familiari del solito. Dalyen si strinse nel suo mantello bianco e sussurrò parole di preghiera, fini e melodiose. D’un tratto un fruscio alle sue spalle la zittì: l’elfa sfoderò la spada ancor prima che Nifu potesse voltarsi. Non vide nessuno, ma sentì accanto a sé un suono gutturale, un ringhio sommesso e carico di ferocia.

«Mia signora?» «Sì, Nifu?» «In verità credo che nessun nano sia sulle nostre tracce, almeno per ora» «E cosa te lo fa pensare?» chiese l’elfa, dubbiosa. «La scorsa notte ho lasciato dei boccali di birra poco distanti dal vostro giaciglio e non sono ancora stati toccati» Dalyen si rianimò e sorrise di cuore dello scherzo, per la prima volta dopo giorni. «Questo è bene, molto bene, mio buon amico. Ma siamo davvero fuori pericolo?» Questa volta fu l’halfling a rabbuiarsi: «Non posso ancora dirlo, mia signora. Non sappiamo quanti potrebbero essere né quando potrebbero arrivare. Possiamo solo rimetterci in marcia e sperare che Akratas resista» L’elfa lanciò uno sguardo speContinua... ranzoso verso la vallata:

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S ka n

risultati e classifiche

1 - Rovignon - 47 2 - CMT - 46 3 - Cattivotenente - 45 4 - TETRACTYS - 41 5 - Miksi - 33 6 - Polly Russell - 32 7 - Lavinia Blackrow - 31 8 - White Pretorian - 29

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1 - Cattivotenente - 24 2 - TETRACTYS - 1 9 3 - Rovignon - 1 8 4 - LeggEri - 8 5 - CMT - 6 6 - Miksi - 4 7 - White Pretorian - 3 8 - Lavinia Blackrow - 2 9 - Wellax - 2 1 0 - willow78 - 1


N o n pe r d e t e i l n u m er o d i M a ggi o 2 01 4 S c a va r e , s c a va r e , s c a va r e . . .


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Morte a 666 giri

Chi ben comincia...

Vis et Honor

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T op i d i fogn a d i T E T R A CT Y S

Il dominio di Weiss d i M ik s i

Lacrime per Akratas d i M ik s i

R is u lt a t i e c la s s ific h e

The Bard's Tale di Diego Capani


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