Skan Magazine n.17

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Anno 2

N u me r o 1 7

S ka n

G e n n a io 2 0 1 4

La rivista multicanale di narrativa fantastica liofilizzata istantanea

AMAZING MAGAZINE

Bright Side Fumettando con A. D'Agostino Recensione di "Non prima che siano impiccati" di J. Abercrombie

Intervista all'ASPIS "Il Mangiateste" di S. Giorgi Un'altra casa Occasione Go c c e d i lu p p o lo I gabbiani Fegato alla veneziana N ASF ­ L e T re L une 7

Space Rats

Contenuto invisibile Il risveglio di Erode La macchina della realtĂ Pianeta stregato The Android's Dream Arnisan il longobardo I misteri di Samotracia Il tempio della notte U ltim a Darkiss 2 d i J a c k ie d e R ip p e r

A s i m o V La fine dell'eternita' oggi Avrebbe 94 Anni e li porterebbe benissimO Asimov Relaxing d i M a r ia n n a B a ld u c c i

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N o n pe r d e t e i l n u m er o d i F eb b r a i o 2 01 4 N el s eg n o di un a n u o va e r a


Sommario

del

Hanno collaborato L'editoriale ............................. 5

Jackie de Ripper e

Max Gobbo Roberto Bommarito Mirko Giacchetti Andrea Viscusi Luigi Bonaro Polly Russell Leonardo Boselli Christian Fedele Andrea Atzori Massimo Luciani Riccardo Sartori Martin Voigt Marianna Balducci

Bright Side

di Jackie de Ripper OLTREMONDO Cartunia Fumettando con A. D'Agostino di Max Gobbo .............. 6 Cronache dell'immaginario Un crudo e brutale proscenio del fantasy epico targato J. Abercrombie .................. 10 Due interessanti novità da Delos Digital ............... 13 Anteprima di "Ultima" da Dunwich Edizioni ....... 14 Una voce da Malta Intervista all'ASPIS ......... 15 di Roberto Bommarito Visti e letti da Giacchetti Tredici omicidi .................. 22 di Mirko Giacchetti Il Mangiateste (estratto) . 23 di Samuel Giorgi Being Piscu "Un'altra casa" ................. 26 di Andrea Viscusi Guest Star "Occasione"........................ 30 di Mirko Giacchetti Poscritti di futuro ordinario "Gocce di luppolo" ........... 32 di Luigi Bonaro ... e alla fine arriva Polly "I gabbiani" ....................... 34 di Polly Russell

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Cronache dal Multiverso "Fegato alla veneziana" di Leonardo Boselli ..... 40 Oltre lo Skannatoio Le Tre Lune 7 "Space Rats" ...................... 45 di Christian Fedele Nella pancia del Drago "Contenuto invisibile alla comunità non magica" di Andrea Atzori .......... 48 I libri sullo scaffale U. Moriano, "Arnisan il longobardo" ................ 51 I libri da rileggere G. Bear, "Il risveglio di Erode" .. 52 W. Gibson e B. Sterling, "La macchina della realtà" ..... 54 D. Gerrold e L. Niven, "Pianeta stregato" ......... 56 di Massimo Luciani Il libro da tradurre J. Scalzi, "The Android's Dream" di Massimo Luciani ..... 58 Il venditore di pensieri usati I. Asimov, "La fine dell'eternità" di Riccardo Sartori ...... 60 Narrativa interattiva "Darkiss 2" di Martin Voigt ............ 62 Vale più di mille parole "Asimov Relaxing" ........... 69 di Marianna Balducci DARK SIDE ........................... 70


Sommario

del

Hanno collaborato Il Lato Oscuro

Sol Weintraub willow78 Shanda06

(Alexandra Fischer)

White Pretorian Polly Russell Mark it zero

"Neve di sangue" di Sol Weintraub .......... 70

Skannatoio edizione XXV Dimenticare il futuro Le specifiche ..................... 73 "Futuro prossimo" di willow78 ................... 74 "La piastrella rotta" di Alexandra Fischer .... 80 "Promessa da marinaio" di White Pretorian ....... 85 "Non c'è piÚ posto in cielo" di Polly Russell ............ 88 "La stanza rossa" di Mark it zero .............. 92 Speciale ventiquattr'ore senza testa "Destino" di willow78 ................... 97 "Lo svago dell'una" di Alexandra Fischer .... 100 Risultati e classifiche Skannatoio 5 e mezzo ...... 104

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Dark Side


S ka n AMAZING MAGAZINE

Dimenticare il futuro

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S ka n

Oltremondo

Cartunia

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Skan Cronache dell'Immaginario Oltremondo

La trama

Glokta l’inquisitore ha un

compito arduo da portare a termine: riorganizzare le difese d’una città su cui sta per piomba­ re come un branco di lupi un ne­ mico implacabile, e risolvere il giallo della scomparsa del suo sfortunato predecessore. Intanto dalle oscure terre del nord, un’orda sterminata guidata dall’implacabile Bethod sta per attraversare con le peggiori intenzioni i confini dell’Angland.

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di Saruman, ingaggiano epiche lotte per assicurarsi il primato della banalità. Allora vien da chiedersi, dove ri­ sieda la ragione del grande successo delle sue opere, che ne­ gli ultimi tempi non sembrano voler più discendere dalle classi­ hi da un fantasy s’attende mondi fatati, gnomi, folletti, ma­ fiche delle vendite, cui sono ghi, guerrieri impavidi che vola­ giunte con sorprendete e irresi­ stibile rapidità. no al salvamento di leggiadre fanciulle; rischia di rimanere de­ Ma basta leggere qualche capito­ lo de Non prima che siano impiccati luso, perfino frastornato dalle , per farsi un’idea precisa della storie di Joe Abercrombie. Molto s’è scritto su questo giova­ sua potente vena narrativa e del suo stile di scrittura decisamente ne e brillante autore britannico, innovativo per la letteratura che alcuni hanno addirittura Frattanto il primo mago Bayaz fantasy. paragonano al barbuto guru guida un gruppo di guerrieri in della fantasy statunitense George Abercrombie è crudo, financo un viaggio denso d’insidie, fra spietato, proprio come alcuni lande desolate e antiche rovine di Raymond Richard Martin. Paragoni e similitudini a parte, è dei suoi personaggi. Non teme civiltà perdute. indubbio che l’autore della trilo­ le forme del grottesco, né si pre­ L’appello dell’ardimentosa occupa di ledere qualche cuore gia de The First Law dispone di pattuglia è presto fatto: Jezal sensibile, magari troppo abituato un notevole talento, che lo asse­ dan Luthar, il selvaggio Logen gna con pieno titolo trai maggiori alla milleflua presenza delle detto Novedita, la fascinosa ma creature della Meyer. scrittori fantasy contemporanei. spietata Ferro Maljinn, Si potrebbe dire che il suo stile Certo, l’opera abercrombiana l’apprendista stregone Malacus è fantasy scorretto, una provo­ non possiede il fascino fiabesco Quai e l’esperto navigatore Pie­ cazione alle immagini da sogno, della Rowling, né il solenne e delungo. poderoso incedere narrativo e la e alle meravigliose atmosfere cui indugiano molte opere dimensione mitologica di Così traversando deserti sconfi­ congeneri. nati, foreste impenetrabili, picchi Tolkien (ma questo era fuor Ovviamente la narrativa in esa­ strapiombanti e impenetrabili fo­ d’ogni dubbio), però si evi­ denzia per una certa originalità me abbonda da sempre di se­ reste in cui tengono mortale e per uno stile di scrittura pecu­ quenze d’azione e di battaglia. agguato torme di Gurkish Pur tuttavia, a rubare la scena, sanguinari, oscure maledizioni e liare che deborda dalla consue­ sono solitamente, il coraggio dei tudine della narrativa fantasy inconfessabili orrori, si dipana tradizionale: e questo non è cosa buoni (che lo sono per davvero), un nuovo e avvincente capitolo della saga abercrombiana. Come di poco conto, in tempi di grave che tra l’altro in ossequio e perpetuato conformismo lette­ dell’immagine sempre verde di andrà a finire? Molte domande principi sempre azzurri, sono rario, in cui schiere di epigoni, attendono risposte, misteri insondabili d’essere risolti e peri­ da far impallidire per numero le belli come adoni e puri come arcangeli. gliose avventure d’essere vissute. feroci avanguardie degli orchi Chiamato a far da barriera alla terribile minaccia, è un esercito male organizzato e inesperto alla cui testa è l’inetto principe Ladi­ sla. Un’impresa davvero disperata per il colonnello West, un vetera­ no dalla mano ferma e rotto a ogni esperienza sul campo di battaglia; ma proprio per questo dotato d’un realismo a tutta pro­ va, che lo spinge ad accettare fra le sue fila scalcinate un manipolo di audaci e feroci mercenari pro­ venienti dal nord.

Per farlo non occorre la magia di Bayaz, né il cuore intrepido di West, ma lasciarsi guidare dalla penna sicura e truculenta dell’autore.

C

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Ma le epopee del padre di The Heroes, che non è un sognatore, un delicato celebratore di virtutes immaginifiche e bellezze classicheggianti; ma semmai il sacerdote d’un rito narrativo fatto di violenza e ve­ risimiglianza guerresca, hanno il sapore del ferro e l’odore del sangue. I suoi eroi sono di frequente dei personaggi spregiudicati, cinici, spesso crudeli. Ma lo sono per necessità. Se uccidono o combattono, non lo fanno per amor della bella morte o per tro­ var posto in un qualche pantheon della mitologia nordi­ ca. Essi si battono e lo fanno spesso, unicamente per so­ pravvivere, o per portare a termine la loro missione. Per questo sono meno valorosi? Non credo, sono solo più reali­ stici, e irrimediabilmente umani. Nulla a che spartire coll’invinci­ bile e ultraterrena inconsistenza di altri protagonisti del genere, più preoccupati delle loro pose che delle lance del nemico. Abercrombie è da questo punto di vista un innovatore, e ciò ba­ sterebbe per renderlo degno della nostra attenzione. Riesce in molti casi ad essere avvincente, ricorrendo talora a scene dal gusto splatter, in cui si ha quasi l’impressione cine­ matografica d’essere sul luogo dello scontro, a pochi passi dalla morte. Inoltre lo scrittore di Lancaster, ha il pregio d’una certa ironia, anche se un po’ fosca e spesso disincantata; e il dono d’una chiarezza espositiva non orfana di efficaci descrizioni e di qualche digressione poetica pe­ raltro calzante. Ad una più attenta analisi sull’essenza del mondo creato da Abercrombie, si scoprono

delle assonanze e dei profili ge­ netici (sul versante letterario), interessanti . Innanzitutto l’autore d’oltrema­ nica, si è preoccupato di donare ai suoi personaggi un universo mitico, ancorché realistico in cui muoversi (un’operazione note­ vole in se). Così si viene a cono­ scenza di antiche maledizioni, di civiltà scomparse, di imperi de­ caduti e sepolti dalle sabbie del tempo. Tutto ciò ricorda e da vicino, il genere chiamato fantasy eroica, il cui fondatore il grande Robert Ervin Howard non disdegnava affatto la brutalità e la forza fisi­ ca dei suoi beniamini. Ciò in ossequio alla miglior tra­ dizione di certa letteratura ame­ ricana, e alle pubblicazioni pulp alla Weird Tales, meno sofi­ sticate degli scritti di C. S. Lewis, ma di sicuro effetto. E qui ci sembra che Abercrombie si inserisca in questo solco, quello alla sword

and sorcerers; anche se molto sword e poco sorcerers.

Fin qua i pregi d’un lavoro certamente apprezzabile, raccontato seguendo la formula dello intreccio, con isolati ricorsi all’analessi; ma che non è privo di alcune pecche. Accanto a certe sequenze un po’ prolisse, come quella dell’interminabile viaggio del drappello guidato da Bayaz, che nello (schema stavolta classico) del viaggio iniziatico, presenta i vari personaggi anche nelle loro psicologie, vi sono dei cliché evitabilissimi. Esemplare è il principe Ladisla: il classico esempio di vanaglo­ rioso, viziato e imbelle rampollo d’aristocratico lignaggio. Un personaggio quasi banale e del tutto prevedibile, di cui non s’avvertirebbe certo la

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mancanza. L’altro elemento che a un lettore attento, potrebbe risultare fasti­ dioso e di dubbio gusto, è la scelta (ma qui potrebbe in parte essere colpa della traduzione in italiano) di termini troppo mo­ derni, considerando che a parla­ re sono persone vissute in un imprecisato ma lontano passato (difetto comune però a molti au­ tori anglosassoni. Ne sono osce­ ni esempi alcuni romanzi sull’antica Roma , in cui par di ascoltare due tassisti newyorke­ si in luogo di legionari e senato­ ri); e di cui sfortunatamente anche Abercrombie sembra affetto. Valga per tutti un imperdonabi­ le ok, a pagina 107rigo V, tradu­ zione scellerata e anacronistica del più elegante e british, “all right”. A questo punto, chi dovrebbe leggere Non prima che siano impiccati? Il libro naturalmente è adatto a tutti coloro che amano il genere, o che sono alla ricerca d’una lettura avvincente e ricca d’azione. Non mancano le suggestioni legate a paesaggi selvaggi e incontaminati, come pure la descrizione dettagliata di ambienti e personaggi, spesso peculiari. Non resteranno delusi gli appassionati del ferro e degli scontri all’ultimo sangue, che non avranno di che lamentarsi. Solo ci sentiamo di avvertire quelle anime delicate, e gli esti­ matori della fantasy più eterea: che nel mondo di Abercrombie, non v’è traccia di gnomi e folletti, i quali in caso contrario, correrebbero il serio rischio di finire nel menù di Novedita e compagni. Max Gobbo


S ka n Oltremondo

Due interessanti novità da

Un’antica costruzione celata all’interno di un

Uantichi, na scoperta archeologica può far risorgere gli oscuri, terribili, Grandi Dei?

Parigi, la Ville Lumière: splendida, luminosa, illuminista, modernissima. In superficie: ma sotto il livello della strada, oscuri misteri richiamano l'attenzione del Circolo dell'Arca. Uno dopo l'altro vengono trovati i cadaveri di un gruppo di archeologi, appena tornati da una spedizione - apparentemente senza successo - a Samotracia. Manca all'appello il capo spedizione, il misterioso dottor Eisner. Il sospetto è la spedizione non sia tornata a mani vuote: ma che abbia portato indietro qualcosa. Qualcosa che ha a che fare con un antico culto di cui pochissimo è stato tramandato, il culto dei Grandi Dei. Roberto Guarnieri, classe 1963, è un ingegnere civile e lavora nell’Amministrazione comunale della sua città (Civitanova Marche). È appassionato di fantascienza, fantasy, archeologia e tematiche sui misteri delle antiche civiltà perdute. Ha pubblicato diversi racconti su riviste (Delos, Altrisogni, Writers Magazine Italia, Carmilla, Urania) e antologie (tra le più importanti le serie 365 racconti e Il Magazzino dei Mondi, tutti della Delos Books, oltre ad altre delle Edizioni Scudo). Ha frequentato nel 2012 un corso on-line di scrittura creativa con Franco Forte. È stato finalista al Premio Blakwood Algernon 2012, al Premio Urania Stella Doppia 2013 e al Premio della rivista Effemme 2013.

parco nel cuore stesso della città assediata da­ gli zombie nasconde un mistero terribile

Allo scoppio del morbo, Amelia si trova intrappolata insieme ad Abhi nel tempio della notte, un’antica co­ struzione celata all’interno di un parco nel cuore stesso della città assediata dagli zombie. Amelia nasconde un segreto dentro di sé, un dono che, con l’aiuto di Abhi, la porterà forse a svelare un mistero, quello del tempio della notte. Qual è il significato di quella costruzione, perché lei sente che è di così vitale importanza? Asserra­ gliati dall’orda degli zombie, Amelia e Abhi si ritrovano coinvolti in una pericolosa ricerca, e non solo per salva­ re la propria vita… Quinto episodio di The Tube: Exposed (racconti esposti al morbo), collana spin­off della saga zombie The Tu­ be ideata da Franco Forte. Il tempio della notte è stato se­ lezionato nell’ambito del contest letterario sul forum della Writers Magazine Italia fra le decine di autori che stanno partecipando. Ferrarese, classe ‘76, assicuratore, Diego Matteucci ha pubblicato il romanzo horror Seguimi! (Editrice Clina­ men), la raccolta di racconti Lame nell’anima (0111 Edi­ zioni). Altri suoi racconti si possono trovare nelle anto­ logie Dodici Giovani Narratori Ferraresi (Este Edition), nonché 365 Racconti Horror, 365 Racconti sulla fine del

mondo, 365 Storie d’amore e 365 Storie di Natale di Delos Books.

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S ka n Oltremondo

Antepri ma

ULTIMA EL PROSSIMO NUMERO

OLTREMONDO OSPITERA’

LUIGI MILANI PER PARLARE D'

HORROR

E PER L'EDITORE DEL MESE ...

RACCONTATE DA MAURO SARACINO - 14 -


S ka n Intervista all'ASPIS

Atlantide, Antico Egitto e le nuove frontiere della ricerca eterodossa: un'intervista ai ricercatori Fabio Marino e Pier Giorgio Lepori in occasione della nascita di ASPIS, Associazione Scientifica per il Progresso Interdisciplinare delle Scienze. Le nuove tecnologie, come ogni altra invenzione umana, sono una lama a doppio taglio. La rete globale ha aperto illimitati orizzonti nel campo della comunicazione. Al contempo, però, forse mai come in questa fase della storia umana la falsa informazione

Territori d'oltremare

Una voce da Malta

Ro b e r t o Bo mma r i t o

ha avuto tanto terreno fertile a disposizione per crescere e propagarsi. È proprio per questo che in occasione della nascita dell'ASPIS, Associazione Scientifica per il Progresso Interdisciplinare delle Scienze, sono contento - e sopratutto onorato - di ospitare all'interno della rubrica Una Voce da Malta gli stimati ricercatori Fabio Marino e Pier Giorgio Lepori. RB: I vostri nomi sono ben noti nel panorama italiano della ricerca eterodossa. Ma, per chi non vi conoscesse ancora, che ne direste di presentarvi brevemente?

(oggi noti con il termine di "E.V.P.") fin dal Luglio del 1977 con notevoli ed interessantissimi risultati, contempoFM: Certo! Prima, però, voraneamente interessandomi ad glio ringraziare te e la tua ruUFOlogia e Clipeologia. In brica per l'opportunità che ci a pochi anni, avevo già concedi con questa intervista. capo una vastissima biblioteca Sono nato nel 1964 e sono comprendente, ad esempio, Medico, con formazione clas- tutti i libri del mito degli anni sica ma forte inclinazione '70, il mai abbastanza scientifica, e fin dalla prima Peter Kolosimo; un adolescenza, grazie alla "cura" compianto grande e notevole impulso alla di uno zio residente a Roma, mia formazione specifica e ma con cui ho sempre avuto alla mia visione di queste telegami molto stretti, mi sono matiche mi deriva dall'Umainteressato all' "Insolito" in ge- nesimo Scientifico propugnato nerale. Ho compiuto i miei pri- dai Grandi che, negli anni '70 mi esperimenti di registrazione e fino ai primi anni '90 del sedelle voci magnetofoniche

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colo scorso, scrivevano da veri Maestri sul "Giornale dei Misteri". Mi riferisco a personaggi del calibro di Cassoli, Boncompagni, Conti, Sani, all'allora famoso Centro di Studi e Ricerche Culturali di Prato (attivissimo nel campo della Miracolistica) e a tutto lo squadrone della "Corrado Tedeschi Edizioni", di cui possiedo l'intera "Biblioteca del Mistero". Nel corso del tempo, pur mantenendo il mio interesse per il Paranormale, ho spostato la mia principale attenzione, per quanto riguarda il campo strettamente hobbistico, all'Astronomia (possiedo 6 telescopi e svariate attrezzature), e, per ciò che concerne un'attività più approfondita, allo studio di ipotesi alternative allo sviluppo storico convenzionale ed ortodosso, con particolare riguardo all'Egitto (e alla sua preistoria) e all'Archeologia biblica, ovviamente in un quadro sicuramente eterodosso. Attualmente, oltre a diversi gruppi Facebook sul tema, collaboro alle riviste digitali "Tracce d'Eternità" dell'amico Simone Barcelli e a "Signs" di Roberto La Paglia; numerosi miei articoli su fatti biblici di presunta matrice clipeologica sono apparsi quest'anno sulla rivista cartacea "Xtimes". PGL: Molto volentieri e sono onorato io per lo spazio che mi avete concesso. Mi chiamo Pier Giorgio Lepori, sono un ricercatore indipendente, appassionato di enigmi che riguardano il passato della nostra umanità. Sul web forse è più noto lo pseudonimo ‘Archeomisterica’, con

il quale tengo conferenze – soprattutto in Biblioteca Zavatti a Civitanova Marche – e firmo le mie riflessioni. L’Eterodossia è ciò che potrei definire la mia ‘ultima frontiera’, quella visione dell’uomo improntata sull’importanza rivestita dal Mito e da una concezione ‘circolare’ dell’esistenza, un processo di corsi e ricorsi non soltanto intuiti filosoficamente ma basati sull’osservazione delle stelle, primo ‘grande amore’ celeste che ha arricchito la spiritualità di un’umanità transitata dai miti ctoni a quelli uranici, sulla Precessione degli Equinozi che i nostri grandi ‘maestri’ eterodossi, De Santillana assieme a Von Dechend, hanno riconosciuto nel linguaggio mitologico delle antiche civiltà. Siamo, sono convinto, di non appartenere alla prima grande civiltà tecnologicamente e antropologicamente avanzata: noi siamo oggi ciò che furono umanità scomparse ieri, probabilmente cancellate da cataclismi periodici che il Mito chiama ‘diluvi’: in realtà sono la normale ritmica esistenziale della Natura, da immaginare come il tracciato del battito cardiaco su un ECG.

tando i Pink Floyd: "United we stand, divided we fall". Sono infatti convinto che, davanti alla dicotomia facile creduloneria/scetticismo ad oltranza, sia indispensabile mantenere la barra a dritta per tutti i Ricercatori, indipendenti o no, che siano realmente desiderosi di trovare risposte, mai definitive ma necessarie per il progresso RB: Da quale necessità nasce della conoscenza della Storia, l'ASPIS e quali sono i suoi nell'ambito non di astruse quanto principali obiettivi? improbabili teorizzazioni né all'interno di gretta ottusaggine FM: L'A.S.P.I.S. nasce dalla volta a conservare l'esistente, ma constatazione che, nel panorama utilizzando il pensiero speculatieterodosso italiano (ma non so- vo e l'analisi del Mito, fra gli lo), esistono troppe iniziative lo- altri strumenti, come forma di devoli, ma scollegate ed indivi- conoscenza volutamente traduali. Potrei riassumere la ragion smessa da parte dei nostri Anted'essere dell'Associazione cinati. Il tutto, ovviamente, in un

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ambito strettamente scientifico, con mentalità aperta, mettendo in discussione molto dell'attuale paradigma scientifico, sulla scorta delle indicazioni, fra gli altri, di Kuhn e Grof. PGL: ASPIS è un progetto teso a trasformare l’Eterodossia da carnet disordinatamente pieno di enigmi a un sistema di pensiero strutturato secondo i canoni della scienza ortodossa. Mi spiego meglio: accettare ad esempio la tesi funeraria del complesso di al-Jizah è una follia culturale ma soprattutto un freno alla comprensione di ciò che fu davvero l’umanità in passato, anzi: una certa umanità. Applicare il metodo lineare in ogni angolo del pianeta o della Storia è sinceramente un attentato al buon senso. Provate a considerare il megalitismo: dove è possibile applicare la linearità progressuale quando la crasi tra civiltà e cronologie profondamente diverse è sotto gli occhi di tutti?

composito di origine greca ha il significato di ‘retta opinione’; Eterodossia, stessa origine etimologica, ha come significato ‘altra opinione’. Si tratta di un punto di vista diverso, un panorama cognitivo che considera l’evidenza dei fatti da un’altra angolatura. In più ‘retta opinione’ è spesso confusa con ‘convenzione’: lì dove l’Ortodossia non riesce a dare una spiegazione credibile, spesso se la cava con un’imposizione gnoseologica. È questa una deontologia assai discutibile. Come dice il mio amico Fabio Marino ‘Eterodosso è colui il quale ha visto ciò che hanno visto tutti ma ha pensato ciò che nessuno ha pensato’ parafrasando un grande scienziato come Gyorgy.

massimo, penso che il neoevemerismo pecchi in primo luogo sotto il profilo teorico, essendo incapace, in realtà, di fornire risposte serie e convincenti. Limitarsi ad affermare che gli dèi dell'Antichità, JHWH, Dio e un po' tutte le altre divinità siano in realtà degli alieni sbarcati da chissà dove ha la stessa valenza scientifica di affermare che l'asino un tempo volava. Nessuno nota, ad esempio, che le manifestazioni di questi presunti alieni sarebbero durate per millenni, per poi sparire senza apparente motivo; nessuno sottolinea che non esiste alcuna costruzione teorica credibile in grado di spiegare, ad esempio, da dove venissero e cosa cercassero sul nostro pianeta. Anzi, a ben guardare sembra quasi di rivedeRB: Una delle correnti più re, in questi supposti alieni, noi diffuse nel campo della ricerca stessi, con le nostre medesime alternativa è il neoevemerismo, debolezze e cupidigie: che sia un ovvero la tesi secondo cui le fifatto di proiezione, in termini digure sacre presenti nei testi sanamici? Per non parlare, poi, cri siano in realtà entità aliene. delle cospicue aberrazioni Iniziato negli anni '60, oggi – linguistiche messe in mostra in anche grazie a internet e protraduzioni "letterali" che sono RB: Ci potreste dare una defigrammi televisivi come Ancient intanto assolutamente scorrette e nizione della ricerca eterodosAliens di History Channel – il del tutto inesatte (come ripetutasa? neoevemerismo comincia a mente dimostrato da molti, fra prendere piede anche nella cui, molto modestamente, Pier FM: Molto in breve, penso che cultura mainstream. Esistono Giorgio e me stesso), con la migliore definizione sia para- però dei grossi problemi, per l'aggravante di partire da posifrasare Albert Szent Gyorgy: quanto riguarda il neovemerizioni preconcette (maldestra"Eterodosso è chi vede ciò che smo, che purtroppo vengono ra- mente celate) sulla base di un tutti gli altri hanno visto, e pensa ramente sottolineati. Vi assai sospetto "facciamo finta ciò che nessun altro ha pensato". andrebbe di illustrarceli? che...". In questo modo si coPer quanto applicabile a molti struiscono le favole, non le ipoaltri campi, è una definizione FM: Sul tema ho scritto numero- tesi. Aggiungo, infine, che il che mi piace molto! si articoli e compiuto parecchi Neoevemerismo non tiene in studi, come Pier Giorgio, e il minimo conto la possibile vaPGL: La scienza ufficiale è defi- mio sodalizio con lui è nato lenza archetipica e psicologica di nita Ortodossia, il vocabolo anche su questo. Sintetizzando al certi racconti, sacri o no.

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Insomma, nonostante il relativo successo di questa "corrente di pensiero", con buona pace di Downing (autore, nei '60, de "La Bibbia e i dischi volanti") e dei suoi emuli non vi è nulla di serio in tutto ciò. Diverso, invece, il discorso per la Clipeologia. PGL: ‘Mi rimetto alla clemenza della Corte…’ (sorriso). Su questo argomento Fabio è molto più ferrato di me; darò comunque la mia interpretazione in tal senso. Evemero da Messina, IV-III sec. a. C., formulò un pensiero decisamente diverso e più credibile su questa storia. In sostanza egli affermava, con un agnosticismo ante-litteram, la presenza in passato di uomini straordinari ai quali l’umanità – ma soprattutto il trascorrere del tempo (non ultimi cataclismi di cesura sulla continuità storica delle civiltà) – tributò onori divini facendoli assurgere agli altari della devozione. Questa visione, oltretutto, non è così distante da certa Eterodossia: il termine ‘giganti’ che troviamo nel Genesi, ad esempio, in greco è espresso come ‘oi ghigàntes’ alla lettera non tanto ‘giganti’ (italianizzazione) quanto ‘i più grandi sulla terra’. Aggiungo: ad una più attenta analisi etimologica scopriamo che la radice gamma-iota o gamma-eta fa da sostrato anche ai verbi ‘ghignosco’ e ‘ghignomai’ (‘conosco’ e ‘sono nato’) e di seguito al sostantivo ‘ghè’ (‘terra’). Il risultato è: ‘coloro che erano nati sulla terra e possedevano la conoscenza’. I neoevemeristi alla Alford, Von Daeniken, Tsoukalos e non ultimo

Sitchin consideravano invece i ‘giganti’ come coloro che ‘discesero dal cielo’: tra traduzioni errate e interpretazioni personali potremmo parlarne per ore… Inoltre la paleostranautica, tranne indizi basati sulla personalistica lettura di alcuni reperti, non ha mai evidenziato prove definitive ma indizi probatori spesso deboli oggettivamente e interpretabili in senso eterodosso come manufatti appartenenti a civiltà scomparse che raggiunsero vette cognitive tali da non invidiare minimamente le odierne.

viltà rimandano, ad un'analisi anche solo superficiale. Qui stiamo parlando, insomma, di un'epoca ben anteriore a quella che noi immaginiamo, probabilmente dell'ordine di RB: Uno dei temi che ha grandezza di un Anno Platonico sempre affascinato e continua a 25.920 anni), che ha voad affascinare la gente è quello (pari luto trasmettere se stessa attradi Atlantide. Da una prospettiva verso l'artificio del Mito nel eterodossa, a cosa si riferisce corso polveroso dei millenni davvero il mito di Platone? perché si serbasse memoria di un passato che altrimenti non FM: Bella domanda! La mia avremmo mai nemmeno soidea, che credo di condividere fondamentalmente con i membri spettato. di ASPIS, sia che, in buona soPGL: Ad un continente perduto stanza, l'idea di Atlantide, oltre in epoca antidiluviana. le indubbie stratificazioni arche- esistito Addirittura delle radici tipiche, antropologiche e cultu- interpretativeadeuna cognitive rali, si riferisca alle reminiscenza dell’intera vicenda storica umadi una preesistente Civiltà Glo- na. Il problema maggiormente bale, cancellata dal tempo e nel affrontato dall’Eterodossia per tempo ben prima di quanto noi giustificare una presenza insulaimmaginiamo. Troppi indizi, in Atlantico è la tettonica a infatti, conducono a due aspetti: re placche: questa teoria, in primo luogo, la costante simi- figlia dellesecondo Deriva litudine di moltissime Civiltà del di Wegener, non viContinentale sarebbe posto passato, insieme al "corpus" dei per Atlantide nella Dorsale meMiti, ben illustrati nel fondadio-atlantica. Peccato però che mentale "Mulino di Amleto" di l’Islanda che non solo è de Santillana e von Dechend; in esista viva e vegeta ma è un prodotto secondo luogo, la netta sensazio- del lavoro effusivo, continuo, ne di "retaggio" che molte Ci-

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della Dorsale. E se vi è l’Islanda non si possono escludere affioramenti insulari in epoche trascorse aggiungendo, oltretutto, l’abbassamento del livello oceanico in epoca glaciale di circa 180 metri medi e il sollevamento dei fondali ad opera del rimbalzo isostatico dettato dai continenti allora esistenti di gran lunga più pesanti a causa di calotte da km di permafrost che premevano sul Mantello: fa circa 210 metri di dislivello medi. Tivoli, l’antica Tibur, rispetto al livello di Roma (non più di 20 metri s.l.m.) si trova a 235 metri d’altezza s.l.m., oggi conta 60.000 abitanti e in passato contrastò l’egemonia romana. Se tanto mi dà tanto… RB: Altro tema molto coinvolgente è senza dubbio quello dell'Antico Egitto.

distorsione di pratiche realmente "vissute" in epoca remota, e confusamente mantenuta nelle pieghe di quello che noi chiamiamo "Mito". Le stesse Grandi Piramidi di Gizah, poi, sono di FM: Qui mi inviti a nozze, e ri- fatto impossibili da replicare con schierei di dilungarmi eccessiva- la supposta strumentazione degli mente. In ogni caso, la risposta Egizi del III Millennio a.C., coè: "secondo i medesimi criteri di me indirettamente ha dimostrato, Atlantide". Personalmente, per checché se ne dica, il Progetto esempio, ho analizzato, con gli NOVA di un ortodosso come occhi di Medico (quale in effetti Lehner. Per non parlare della sono) un paio di elementi del Sfinge, la cui costruzione va Mito egizio: nello specifico, la certamente retrodata, sulla scorta cerimonia dell'apertura della di oggettive analisi geologiche, bocca e il mito di Osiride. In di qualche millennio, un fatto entrambi emergono, se si legge contestato ormai solo da chi è oltre le righe, il chiaro segno di abbarbicato ad una visione retriun racconto di chi vuole spiegare va e riduttiva della Storia qualcosa che non capisce, e che dell'Umanità. è correlabile a tecniche rianimatorie. L'ossessione tipicaPGL: Primo, in assoluto, contemente egizia per l'Aldilà e la Re- stare la presa d’atto che detta cisurrezione fa pensare alla viltà sia nata già ‘vecchia’, ‘matura’. È sinceramente assurdo. Poi rivedere le tesi di T.G.H. James sull’assoluta indiscutibilità dei culti solari quando, testi di Unas in primis, si parla di religione stellare e pertanto molto più antica e adiacente al passaggio tra culti ctoni e culti celesti. E perché non considerare l’egittologa Jane Sellers come ‘spina nel fianco’ dell’accademia? O Sir Edwards a lungo direttore del British? Personalmente seguo molto West e de Lubicz poiché ho trovato riscontri qabbalistici e aderenti alle culture mesopotamiche residenti a pochissima distanza dall’Egitto. La strada è ancora lunga… Adottando sempre un punto di vista eterodosso, come andrebbe rivisitata la concezione che abbiamo di questa antica civiltà?

RB: Quando si parla di preisto-

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ria, la prima immagine che salta alla mente è quella del cavernicolo che trascina per i capelli la sua donna. Eppure la realtà dei fatti potrebbe essere molto diversa. Qual è l'evidenza a sostegno della possibilità che sia esistita una civiltà avanzata antecedente quella storica?

FM: Praticamente ognuno degli aspetti a cui ho fatto cenno in precedenza. L'inimitabilità di centinaia di monumenti, il "fil rouge" che appare legare nello spazio e nel tempo tutte le grandi civiltà del passato, il complesso dei miti e delle credenze condivisi, nelle linee generali e talora nei dettagli, dalla gran parte dei popoli antichi sono elementi che introducono ben più di un semplice sospetto sul problema della effettiva esistenza di una Civiltà altamente progredita alle radici del tempo. E per progredita intendo un grado culturale, tecnologico e di sviluppo globale almeno pari alla nostra. Più probabilmente superiore. A mio parere, il punto non è "se" una simile Società sia esistita. Il punto è "quando" è esistita. E questa ricerca è, in definitiva, la ragion d'essere dell'ASPIS. PGL: ‘Horribile visu atque dictu’ ma è la stessa Ortodossia che fornisce un quadro chiaro della preistoria in tal senso. I ceppi umani nei precedenti 5 milioni di anni di storia non sono mai stati assolutamente conseguenti l’uno all’altro bensì – spesso – contemporanei. Questo rivoluziona l’immagine a due di-

mensioni che va dal Proconsul al Sapiens: l’idea reale di questa avventura si struttura su di un piano tridimensionale in cui è possibile identificare periodi di convivenza anche superiori ai 100.000 anni come nel caso Neanderthal-Sapiens. Purtroppo la convenzione non aiuta poiché diktat imposti sulla considerazione del Sapiens dovrebbero essere rivisti in chiave eterodossa. Sembra sia un divieto culturalmente strutturale.

ni del tempo. Capire e disvelare questa necessità può rappresentare un fatto vitale per il prosieguo del cammino della nostra Società su questo pianeta. PGL: Tre sono le considerazioni RB: Essenziale ai fini della rida fare: mito come fantasia, mito cerca eterodossa è la come visione dell’esistenza, micomprensione del mito. Cos'è il to come cover-up. Non è banale, mito e in cosa consiste la sua tutt’altro. Prendiamo ad esempio importanza? il più famoso tra i miti, il Diluvio. Qualora fosse una fantasia, FM: Per come l'Eterodossia bisognerebbe spiegare perché interpreta il Mito, esso è esso si moltiplica per oltre 500 null'altro che ciò che pretende di racconti in tutto il mondo tra ciessere: il resoconto semplificato viltà oggettivamente distanti tra di un complesso sistema di coloro in termini temporali e geonoscenza, ritenuto indispensabile grafici; la visione esistenziale per il genere umano. La sua introdurrebbe comunque ad un importanza corrisponde proprio inconscio collettivo junghiano di alla necessità di comprendere complessa interpretazione; come come mai alcuni elementi sicu- metafora di un evento realmente ramente astronomici (penso alla accaduto, cover-up – ‘copertura’, Precessione degli Equinozi, ma è direttamente proporzionale al non è che una semplificazione) pensiero eterodosso, catastrofisiano stati considerati così vitali, sta, in cui si giustifica un ricordo da necessitare di una trasmissio- rimosso e trasformato in culto a ne, in forme svariate e talvolta causa dell’enorme shock subito altamente poetiche, oltre i confi- dall’umanità. Una data? Circa il

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10.000 a.C. epoca coincidente con la fine, critica, del Pleistocene e dell’ultima glaciazione Wurm. Una data misteriosamente coerente con il racconto platonico dell’Atlantide. Troppe coincidenze enunciano una teoria. RB: È stato un vero piacere avervi ospiti su queste pagine e spero di potervi ospitare di nuovo in futuro. Prima di lasciarci, però, vi andrebbe di indicarci alcuni siti da voi curati dove le persone interessate possano informarsi ulteriormente sui temi che abbiamo appena trattato?

FM: Naturalmente! In primo luogo, segnalo il sito dell'ASPIS, raggiungibile all'indirizzo www.associazioneaspis.net; poi, il sito tracce.orizzonteassoluto.com, che comprende tutta la produzione PDF della rivista "Tracce d'Eternità" diretta da un altro fondatore di ASPIS, Simone Barcelli. Segnalo anche, seppur rivolto ad un pubblico in qualche modo meno sofisticato, www.orizzonteassoluto.info; per finire, se mi consenti l'immodestia, il mio sito di Astronomia, con le mie immagini, all'indirizzo www.orizzonteassoluto.com PGL: A quelli già nominati da Fabio, aggiungerei Archeomisterica www.archeomisterica.com Ancora grazie a tutti voi.

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S ka n

Visti e letti da Giacchetti

Samuel Giorgi

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S ka n Il Mangiateste Forse non ho ancora detto che oltre alle intuizioni, oltre a funzionare come il pentotal, possiedo un'altra dote: i sogni rivelatori. Non mi capita sempre, non in tutte le indagini, intendo. Non è una cosa legata alla complessità del caso, o al

L'estratto

il Mangiateste

livello di coinvolgimento emotivo al quale vengo sottoposta. Soprattutto non arrivano a comando. Ed è un peccato, visto che la maggior parte delle volte questi sogni sono di estrema utilità. Non come le incarnazioni di Widmann nella Stanza Azzurra, ovviamente, non sono tanto potenti e risolutori. Sono solamente fotogrammi, schegge di percezioni e sensazioni o, come le spiega Wid, epifanie bonsai. Le epifanie bonsai sono improvvise e volatili illuminazioni, talvolta talmente impalpabili da risultare assolutamente inutili. Le immagini che mi vengono a trovare in sonno si ripetono notte dopo notte, senza alcuna variazione di rilievo, fino a quando la mia ricerca si conclude, che io li abbia sfruttati o meno. Qui a Grazzeno, la sequenza era costituita da tre scene differenti che si fondevano insieme. Nella prima camminavo in bilico su un lungo cavo metallico teso da un piano alto di un grattacielo verso la sommità di una collina erbosa. Sotto di me il vuoto fino al livello della strada, dove un fiume di persone aveva

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invaso ogni centimetro della superficie visibile, avanzando silenzioso in ogni direzione. Una marea che si estendeva oltre i limiti del mio sguardo, fino all'orizzonte. Era una manifestazione di piazza alla quale aveva aderito tutta la popolazione di quell'immensa e sconosciuta metropoli o, forse, persino dell'intero pianeta. Erano intere generazioni, passate e future, tutte lì ammassate sotto i miei piedi, riversate in strada, vestite curiosamente di arancione. Anch’io avanzavo, ma sul cavo, senza tremare, guardando in basso e voltandomi a destra e sinistra senza timore di perdere l'equilibrio. Procedevo verso l'ignoto che nascondeva quella verde collina, unico punto in tutto il paesaggio a essere risparmiato dall'onda arancione. Più mi avvicinavo al centro è più la fune si incurvava verso il basso e oscillava. Si allungava come un elastico, e mi portava sempre più vicino alle teste della gente. Avrei potuto vedere i loro volti, se solo ne avessero avuta una. Invece, la loro era solo una nube densa che fluttuava all'interno della scatola cranica. Omini arancioni che vagavano persi con la nebbia al posto della faccia. Mentre li guardavo, non


smettevo di camminare e, passo dopo passo lungo il cavo, lentamente risalivo. O almeno era l'impressione che avevo. In realtà, non mi avvicinavo affatto alla collina. A questa scena, seguiva la seconda. Mi trovavo in un castello, non quello di Evelina. Era un castello in stile classico, medievale, con tre grandi saloni dai pavimenti in terra

battuta, arazzi e stendardi inchiodati alle pareti, armature, lance e scudi. La stanza in cui mi trovavo, probabilmente la cucina padronale, oltre che da due giganteschi camini era illuminata da un grandioso lampadario in legno che reggeva decine di candele, a sua volta sostenuto da possenti catene collegate a carrucole fissate a terra e al soffitto. A parte questi dettagli, il castello appariva deserto e spoglio, privo di qualsiasi arredo. Sentivo l'eco dei miei passi e una leggera brezza provenire dai passaggi ad arco tra un locale e l'altro. Nonostante la situazione potesse apparire più rassicurante, mi sentivo ancora più in ansia che nella scena della fune. Qui tremavo letteralmente, pregando di tornare il prima possibile a penzolare nel vuoto. Il fatto era che percepivo l'incombenza di un’aggressione, l'arrivo di qualcuno alle mie spalle, qualcuno armato, qualcuno dal quale non mi sarei potuta difendere. Per questo continuavo a muovermi attraverso i tre saloni, per ritrovarmi sempre nella cucina, di fronte ai due camini. Non c'era via d'uscita. La presenza minacciosa era nell'aria, la sentivo ovunque mi spostassi, dietro ogni angolo, nascosta a spiarmi in ogni anfratto buio, persino dentro gli spessi muri di mattone e calce. Chi mi stava seguendo? Chi voleva farmi del male?

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Perché non trovavo alcuna via di fuga? Perché, soprattutto, l'aria là dentro si faceva via via più rarefatta e inconsistente, gli spazi sempre più vuoti e desolati? Così galleggiavo nel panico fino a quando, esausta, perdevo i sensi e mi ritrovavo in una stanza dalle pareti imbottite, con addosso una camicia di forza arancione. Arancione! Qui, il mio stato d'animo era più simile a quello della prima scena: non avevo particolari timori, non c'era nessuno che volesse farmi del male. Sapevo solo che la porta imbottita non era chiusa a chiave, che avrei dovuto aprirla e andare a cercare qualcosa o qualcuno. Anzi,


qualcuno che aveva un messaggio per me, qualcosa di importante, di vitale, benché ignorassi di cosa si trattasse. Allora aprivo la porta col piede e mi trovavo costretta in fila con altre persone sconosciute, anch'esse in camicia di forza come me. Non sapevo dove fossimo diretti, e neanche me ne importava, sapevo solo che dovevo uscire da quel flusso arancione e trovare quella persona e avere il suo messaggio. Peccato fossi bloccata da ogni lato. Non era una fila sola, erano quattro parallele e occupavano in larghezza e lunghezza tutto il corridoio. Si avanzava lentamente, pressati ai lati e sospinti da dietro. A un certo punto, iniziavo ad avvertire i classici sintomi della claustrofobia, anche se nella vita reale raramente mi era capitato di provarne. Qui erano collegati più all'ansia di adempiere alla missione che al fastidio della camicia di forza o dello spazio ristretto. D'un tratto venivo gettata attraverso una porta sulla sinistra, e da qui in un salone, la palestra di una scuola, con canestri, spalliere e materassi ginnici blu. Al centro del campo da basket vedevo una fila di banchi e, al di là, delle strane figure sedute. La scena era più o meno quella di un esame scolastico: la tua seggiola da una parte e i professori dall'altra, disposti in bell'ordine come gli apostoli nell'Ultima Cena. Solo che qui gli apostoli erano sostitui-

ti da figure grottesche dal corpo umanoide e il cranio a fiore. Sei fiori stupendi con forme e colori differenti. Nell'aria sentivo il loro profumo, talmente intenso che faticavo a respirare (si respira nei sogni?). Allora mi giravo cercando la porta dalla quale era arrivata e scoprivo che era scomparsa. Cercavo altre uscite, ma senza vederne. Ero bloccata in quel posto, anche se ora, invece della camicia di forza, indossavo un camice da medico, bianco. Avevo ancora nel naso il profumo dei fiori, solo che adesso erano molto lontani, come se il pavimento della palestra si fosse allungato sotto i miei piedi. Persino il profumo era cambiato, diventando un tanfo insopportabile. Sentivo, di nuovo, il panico montare, faceva freddo e la morte stava lì di fronte a me e mi tendeva la mano con la faccia d'un fiore e profumo di pestilenza. Di solito a quel punto mi svegliavo. Appena in tempo per vomitare. CONTINUA...

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S ka n

Being Piscu

An d r e a Vi s c u s i

Un'altra casa * Martedì 20 Maggio Duemilaotto

Io non so cosa scrivere anche se la maestra ci ha detto che dobbiamo scrivere sul diario tutti i giorni quello che facciamo per abituarci a scrivere. Dice che è improtante scrivere sempre così poi siamo più bravi delle altre classi ma io non ho scritto nulla gli altri giorni perchè non so cosa scrivere oggi però succedeva qualcosa e allora lo scrivo ora. Mamma ha detto che siamo pronti e domani andiamo nella casa nuova. Ci sono tutte le scatole aggiro e tutti i piatti e i biccheri e le forchette che non si trovano più e usiamo quelli di plastica. Allora domani partiamo e siamo nella casa nuova e li è già tutto pronto e da domani abitiamo lì. Io non lo so perchè andiamo via dalla casa nostra ma mamma e babbo volevano un altra casa e andiamo lì. Dove andiamo è lontano da qui ma però non so quanto ci sono stato una volta ma non mi ricordo se c’era vicino il campino. Oggi lo chiesto a mamma e lei diceva che non era vicino quello ma ce nera un altro e posso andare li. Di-

ceva anche che poi lanno prossimo cominco la scuola nuova vicino alla casa dove andiamo e per ora invece finisco dove sono ora. Io non ho capito se nella scuola di là c’è di nuovo la maestra CARLA percè mi sembra strano che viene con noi se noi andiamo lontano. E i miei amici pure Fili e Manu anche loro non so se vengono o se sono da solo. Ho chiesto anche questo a mamma ma lei dice che anche li dove andiamo non sono solo perchè comuncque allinizio c’è lei e poi la scuola nuova. Io non lo so bene, però io non lo so se voglio andare lì. Stiamo bene qui e secondo me non serviva unaltra casa. *

In partenza…

E così ci siamo. Domani si va. È anche possibile che non scriverò per un po’, potrei avere da fare. Di certo stare ad aggiornare il blog non sarà il mio primo pensiero, in Canada. Male che vada, ci risentiamo quando torno. In fondo sei mesi non sono così lunghi. Certo mi dispiacerà abbandonare la famiglia, gli amici, tutte le piccole cose che

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fanno parte della mia vita quotidiana, ma è solo per un po’. Mezzo anno. E poi sarò di nuovo qua. Questo è il mio primo vero e proprio trasloco. Cioè, senza contare quello di quando avevo sei o sette anni. Quella volta ci siamo spostati ad appena una decina di chilometri, e comunque ero piccolo e non ricordo niente. Se non fosse che i miei mi hanno detto che ci siamo trasferiti, a quell’epoca, io non lo saprei nemmeno. Chissà che fine hanno fatto gli amici che avevo allora (ne avrò avuti, immagino). Non ricordo nemmeno i nomi, sennò li avrei ricercati su internet. Poco male, credo che in ogni caso avremmo poco da spartire. Se tu che stai leggendo eri un mio compagno delle elementari non te la prendere a male, mi raccomando. Stavolta invece farò un bel viaggio. Forse chiamarlo “trasloco” non è corretto, perché non sto andando a STABILIRMI da un’altra parte. Sono sei mesi di studio all’estero, tutto qui. Sì, intendo davvero STUDIO… XD Furbescamente ho organizzato


il piano di studi in modo che gli esami che mi toccherà dare laggiù siano piuttosto facili. Cioè, almeno qui in italia sarebbero facili, poi non so come la cosa funzioni a Edmonton. Ma bene o male credo che me la caverò. E se non dovessi nemmeno cavarmela, oh, alla fine mi son fatto sei mesi di campus, non è mica da buttar via! Dovrei andare a letto perché parto piuttosto presto domattina, anzi, QUESTA mattina. Però sono un po’ nervoso. Credo sia normale. E non sono nemmeno sicuro che scrivere sul blog mi aiuti a scaricarmi. Potrei andare avanti per ore, a descrivere, o almeno tentare di descrivere, tutte le cose che mi passano per la testa. Ma al lettore occasionale fregancazzo, giustamente, quindi forse è bene chiuderla. Insomma, tra poco si parte, e io mi sto praticamente cagando addosso. Ma va bene così. Mi lascerò alle spalle un po’ di cose, ma le ritroverò al mio ritorno. E poi potrebbe anche piacermi lì. Potrei anche cercarmi un’altra casa da quelle parti, no? Chissà. A presto. turing02 ha elucubrato alle 00:48 del 2/1/2024 tag: vita, viaggi, variedeventuali commenti (0) – g-link – detrack

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DIARIO DI BORDO RAPPORTO # 1 – 081131 Questa è la prima volta che scrivo sul diario di bordo. Veramente non mi aspettavo nemmeno di doverlo fare io. Sulla Blender sarei il tecnico informatico, e solo dopo la partenza è venuto fuori che occuparsi della salute dei computer di navigazione implicava anche scrivere almeno un rapporto al giorno. Non so se tutto questo abbia un’utilità, ma è la prassi. Il viaggio durerà solo un paio di mesi, quindi dovrei riuscire a sopportare questa seccatura. Non so nemmeno cosa sarei tenuto ad annotare. Siamo partiti più o meno nove ore fa, non ci sono stati problemi durante il decollo, stiamo seguendo la rotta, gli strumenti funzionano. Tutto normale, insomma. A essere onesti, normale è una parola esagerata (mi scuso con l’eventuale lettore, la parola normale dovrebbe essere enfatizzata con virgolette o corsivo ma pare che il software del giornale di bordo non permetta queste formattazioni). Sicuramente è esagerata per me: sono agitatissimo, e non credo di essere l’unico. Solo i membri dell’equipaggio sembrano tranquilli, ma loro saranno abituati. Per me, come per la maggior parte degli altri a bordo, è il primo viaggio nello spazio. O forse dovrei scrivere Spazio, con la maiuscola. Ho già spiegato che non me ne intendo. Se ci penso, quasi riesco a

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convincermi che tutto questo non sta succedendo. Trovarmi su un’astronave in viaggio verso un pianeta appena colonizzato non è affatto come da bambino vedevo la mia vita futura. Per la verità, nemmeno cinque anni fa avrei immaginato uno scenario del genere. Le cose si sono accelerate, ultimamente, e in tempi che una volta non sarebbero bastati nemmeno per dimostrare un teorema tutto è cambiato: siamo quasi diventati obsoleti rispetto alle nostre stesse scoperte. Forse è per questo che alcuni di noi stanno fuggendo. Abbiamo paura di un mondo che ci ha lasciati indietro, che non ci appartiene più. Come se una mattina ci fossimo svegliati e avessimo trovato la nostra casa completamente ridipinta e riarredata. Nessuno qui a bordo ne parla in questi termini, ma sono sicuro che nel profondo qualcosa del genere valga per tutti. Non siamo stati forzati a partire, e se pure abbiamo avuto fortuna a essere scelti tra migliaia e migliaia di aspiranti, è certo che tutti noi volevamo andarcene. E dire che prima di oggi il mio viaggio più lungo è stato quello dall’Italia al Canada (buffo, rievocare nomi che ormai non significano più nulla…). Ricordo che allora speravo di poter tornare indietro il più presto possibile, anche se poi non è mai successo. Stavolta, so che non c’è alcuna possibilità di ritorno: è un passo definitivo. Non posso dire come sarà la mia nuova vita, orbitando


intorno a Tau Ceti invece di Sol. E sono spaventato a morte, al pensiero di quello che mi aspetta. Ma in fondo l’ultima emigrazione è andata bene: non c’è motivo per cui anche stavolta le cose non debbano risolversi per il meglio. Andarmene da casa, la vecchia casa dove sono nato e cresciuto, mi ha permesso di trovarmi nel posto giusto al momento giusto, ed essere adesso qui a scrivere su questo giornale di bordo. Il che mi ricorda che probabilmente quanto ho riportato non è esattamente quello che dovrebbe stare in un documento ufficiale come questo. Ma d’altra parte non è il mio lavoro, scrivere rapporti. So perfettamente come interfacciarmi con le IA della Blender, ma per questa mansione collaterale non rispondo della mia professionalità. Voglio proprio vedere cosa mi inventerò i prossimi giorni… Se non altro, mi terrò occupato per il tempo del viaggio. Una volta arrivati, avremo poche occasioni di distrazione. Ci sarà da lavorare, parecchio. Forse ci sarà da soffrire, per un po’. Ma alla fine costruiremo laggiù un’altra casa per tutti noi. E sarà nostra, nostra davvero. * Non potevo andarmene senza lasciarvi un messaggio. In buona parte, ho già cercato di spiegarvi quello che leggerete qui, ma sento comunque la necessità di parlarvi, di fare in modo che capiate fino in fondo

cosa mi ha spinto a prendere questa decisione. Non so più quanti anni ho. Non mi sento vecchio, ma non sono giovane, e nemmeno solo adulto. Le misure di tempo con cui sono cresciuto non hanno più senso, qui su Cetia. Contare in anni cetici falserebbe la mia prospettiva, per questo non ci provo nemmeno. Se avessi continuato a vivere sulla Terra, forse ne avrei centosessanta, o forse duecentoventi. Ma probabilmente, se fossi rimasto lì oggi sarei già morto. Comunque sia, non ho bisogno di sapere quanto tempo ci ho passato, per dire che questa è la mia casa. Questo pianeta, questo posto. Queste persone: voi. Se provo a ripercorrere la mia vita, o almeno le parti che ancora ricordo, non riesco a trovare niente che valga quanto il vostro amore. Non c’è risultato che abbia ottenuto, obiettivo che abbia raggiunto, paragonabile a un vostro sorriso. Sapervi felici basta a dare un senso alla mia intera esistenza. Dove e quando sono nato l’avrebbero chiamata “famiglia”, ma noi siamo qualcosa di più, come un uomo è un animale ma non solo un animale. Vi ho già detto tutto questo. Forse le parole che ho usato non sono state così evocative, ma spero che il senso fosse chiaro: non vi sto lasciando perché non tengo a voi. È anzi il pensiero di abbandonarvi quello che mi preoccupa più di ogni altro. Non il viaggio seminfinito su mezzi sconosciuti o l’ignota destinazione; non l’affidare la mia vita a degli es-

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seri alieni o l’imponderabilità delle loro ragioni. Ciò che mi turba, che mi terrorizza, dannazione, è il dover lasciare tutti voi. E non perché tema che possiate avere bisogno di me (potete cavarvela più che egregiamente senza questo vegliardo di mezzo), ma perché so che non vi rivedrò più. Anche solo scrivere questa frase mi fa tremare più del solito. Ma è altrettanto vero che non c’è più posto per me, qui. Rimanendo, non potrei fare altro che spegnermi lentamente. Sì, vi avrei accanto per tutti i giorni che mi rimangono, ma non posso accontentarmi di essere soltanto uno spettatore. Non quando mi è stata offerta la possibilità di viaggiare, di vedere cose che nessun uomo prima di me ha mai immaginato. Un’occasione per sentirmi di nuovo vivo. Non so perché i sensei abbiano scelto me, e pochi altri. Nessuno può arrivare a comprendere per quale logica ci abbiano chiesto di seguirli verso la loro civiltà, attraversando quasi l’intera galassia. Come si possono interpretare le intenzioni di creature tanto chiaramente superiori, così poco umane da apparire quasi divine? Eppure, non si può rifiutare un’offerta del genere. Forse sono stato semplicemente estratto a sorte, e in me non c’è niente che mi renda più degno di chiunque altro, ma questo non mi scoraggia. Io voglio andare con loro. Cerco di ricordare l’ultima volta che sono stato fuori da Cetia, e non ci riesco. A livello


doda formar e lele letere ke compohngono lepaor l e . finche potrevo atti ngere dalla memmo ria bastava riportare qielo che trovavoma pensareskrivve ree ìnsieme e difficcille /qvesto è lultimo sforrzzo ke compier o – poi sarò §emrh. e’ costhume ke og nunno lassi die tro disè qualocosae io deciso di lascia re questoto sscritko. è cos! strano ripehensarei al pasato ri-evocan do questi rikorbi. sembraa tuto il contararrio di com’’e’ or a : la mia memoria adexo è compgleta k$| mi basta cerca re cerca re dentr di me e posso ricorbare onnie piòu pickolo detalgio – solo un * e sùbito ri vedo la facia di Manu e pooi ancora * e sentoh lodo re de lpro f umo della hoste55 bionda kemià porratato lacqqua e se – dì nnuovo * eckco la vibbarazi onedei reactori affu s ione e con * il suogno dell’arisata di mio primo firlio; appenna natou. ankè strano comme io prima confondi evo tutte qeste cosse fee$< come onniwolta dementikavo il passato ma ankhe se ricordo tuto io nollo capisco come inevece allora non ricoradvo ma kapi vo questo sinififa forse cke ora sono non plù umano forse che in ttutto qvst o te mp o sno di ve ntato pù sensei e meno uomo o che for se ahesso sonno solo qualeocsa di pyu di tutii eddu e° - iononpososapelo scriverie è fa+ic oso, ora. no n è fascile ragganellare pickoli- ma stope r farre ilmjo utimo frammenti i di materia in mo- vaggio eò scelo to quello che cognitivo, so di essere nato sulla Terra, ma non sono in grado di associare niente a questo fatto. È un’informazione senza alcuno spessore. Di che colore era il cielo? Quanto era forte la gravità? Come si chiamava la città dove sono nato? Come sono arrivato qui? Io non lo so. Ho dedicato così tanto tempo ed energie a questo posto, che ormai ho dimenticato quello che sono stato prima. Per questo devo andare con i sensei. Devo cambiare, di nuovo, e questa è la mia unica possibilità. Non sto abbandonando voi: sto ritrovando me stesso. Spero che riusciate a capire. Quando leggerete questo messaggio io sarò già partito, ci saremo già salutati. Scusate se ho usato parole che molti di voi non conoscono (famiglia, animali, dannazione, città…), ma mi conoscete bene, e sapete quanto il mio passato terricolo sia radicato in me. Forse qualcuna delle antenonne saprà spiegarvi cosa significano. Vi auguro ogni bene, e sono sicuro che riuscirete a ottenerlo. Vi amo, e questo non cambierà a causa delle migliaia di anni luce che ci separeranno. Non ci rivedremo mai più, ma so che non vi dimenticherò, anche quando avrò un’altra casa tra i sensei e la vita tra i miei simili non sarà altro che una vaga impressione lontana. Addio.

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lasierio aglial ti = hohrriprezo nelamia me m or i a quelo khe avevo scristo nei mom enti di sposta mento ch& èé ognimio granne kambdiamnento [] li ho raccolccolti nsieme tutti quesi mo mnenti percwe si p0ss sa capire la miastoria ew$oi. tuttelevoltte mi sono lasscato dietro qol-cosa chepoi nonòpiù ritrovaho edè pro prio co me ad esxo –- lultimmo viaggio dehi sensei neankee loro sano dovve siva e è quando la mente sme7te difunxionare e se provo a * so che prima lo k iamavo morte \ ricrordo che morte perme era qome la fine dituttoto invece dhopo tutto qusto tempo soche non posso sa perglo perkhe anche se xappiamo tante cose cisono taantre altere che nonn konosamo e pure ionono paura :: non come lealterevo lte, che nn voglevo abandonare il passattosta volta non so niente di qu ello che mia spetta dopo ma non #o paura so hora che riccorddo tuto sokke la mia vita statta fel$e elunka in molti poxti e vissto tanthe kose esso no pro nto per ultimio viaiggo = morte\ come fagno i sensei lascio qalcosa dretio di me cosicke glialri doppo sanno chi sono, io,- ed e’qquesti myey ricordi. e non soccosa ci sar a dopo |ness1 losa/ ma s pero di trovarla, dovvunque io vada – unaltra casa .


S ka n

Gu e s t S t a r

Gi a c c h e t t i

Occasione

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S ka n Gocce di luppolo «E della birra mi godo l'amaro, seduto del ritorno a mezza via, in faccia ai monti annuvolati e al faro». Umberto Saba — Dopo la tristezza — Da Trieste e una donna 1910-12

Va a ciapà i ratt, barbùn [1 ] — Ansovino Fumagalli, barba lunga, birra in mano, fluttuava trasandato nei pressi della pinacoteca di Brera. Il suo incedere barcollante era di ostacolo al passo "laborioso" degli eleganti signori del quartiere — stà-schisc-vadavialcul-ciùciamanuber [2] ! Un untuoso panino alla lonza, infagottato in un foglio stampato, faceva capolino dalla giacca stropicciata. Questo era quanto ancora si leggeva sulla carta tra le patacche d'olio: «Alvaro Cacchioni Editore Faccia di merda! Hai pubblicato con il commendator Zampetti, non negare. Quel libro sulla birra, l'ho visto! Ce l'aveva Gigi[...] Dopo tutto quello che ho fatto per te. C'eravamo quasi e tu che fai? Sei uno stronzo letterario[...] Sai che ti dico? Fotti-

Poscritti di futuro ordinario

Lu i g i Bo n a r o

ti, tu e quel petomane di Winnie». —Burp!— Era stato l'unico commento di Ansovino. Da quando era stato miracolato dalla birra era sempre sbronzo, il suo libro, Gocce di luppolo, era già alla 1 0°ristampa. L'editore, lo spietato Settimio—Winnie The Pooh [3] —Zampetti, lo aveva letto per caso. — Vediamo come va — aveva detto. E, malato com'era, non aveva retto all'emozione del successo. Era finito al San Carlo di Milano in preda a strazianti turbe intestinali. — Lasciatemi, voglio morire qui tra i miei libri.— Si dimenava come una trota tra fragorosi peti mentre gli infermieri, in apnea per l'irresistibile flatulenza, lo costringevano alla lettiga. Cacchioni era stato chiaro — Lo pubblichiamo, non prima di un editing approfondito. — Tra pacche sulle spalle e i vari “mi è molto piaciuto” erano passati 3 anni, tempo in cui Alvaro aveva pubblicato storie di cedevoli veline televisive e di altri esponenti dell’ “intellighenzia” locale, tutti segnalati dagli amici politici. «Vedi Ansovino? Tieni il li-

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bro. Questo è ciò che vuole la gente, storie vere, non la merda che scrivi tu». Gli aveva detto un giorno che era distratto. «Autore: Enza Maria Scarpaccia Titolo: Madri coraggio, prostitute per il regno dei cieli. Collana: Donne al bivio e al semaforo Numero pp.: 250»

Lui non si perdeva d’animo scriveva e spediva. — Ansovin, va scuà l mar cun la furchèta invè di fagh el bus del cuu al cavall a dondolo [4] — sbuffava l'ufficiale postale. E gli editori? Ogni tanto lo corrispondevano, ma non di persona. Le risposte, tutte uguali, provenivano da un’anonima entità aliena, la redazione: «Gentile Fumagalli, Le confermiamo di aver ricevuto il Suo 951 ° manoscritto. La invitiamo, anzi La diffidiamo, cordialmente dall'inviarcene altri. La redazione».

Così succedeva fino a quella notte. Poi, di colpo, era diventato famoso. Gli


editori facevano a gara per pubblicarlo. Di contro, lui era perennemente ubriaco. Era successo tutto così in fretta. Era partito da Forlì, poi l'impiego alla periferia di Milano, alla fabbrica di birra Thot. Aristide — Sciur sfundà [5] — Corbezzoli l'aveva chiamata così per via della divinità a cui venivano attribuiti, in tempi antichi, sacrifici di birra per propiziare la scrittura. Si diceva che Corbezzoli avesse condotto una trattativa con dei tombaroli romani per acquisire un'antica formula egizia. — Dieci milion? Terùn, va a mangià 'l sapùn [6] . — Si diceva pure che, spilorcio com’era, Corbezzoli, quel giorno avesse avuto un malore. Ma bastavano pochissime gocce di quella roba egiziana per trasformare una capra in uno scrittore prodigio. Fu così che nacque la birra dello scrittore. «Birra naturale, tutte stronzate!» aveva commentato Ansovino mentre tracannava la Thotbeer. Ne avrebbe fatto volentieri a meno di bere quella merda ma, dalla notte dell'incidente, era come una droga, non poteva farne a meno. Rimpiangeva il tempo passato, tra l'utilizzo del Piantapertiche e il Polivomero Pasqui, a lavorare con l'amico nella luppolaia di Gaetano, tra il fiume Montone e Rabbi.

Poi, il suo amico era morto. E lui se ne era andato. «Questa birra è chimica» diceva con rammarico. Peccato che c'era finito dentro. Quella maledetta passerella sopra la cisterna aveva ceduto. Era caduto giù, dentro la birra. Il condotto da cui fuoriusciva il preparato egizio era rimasto aperto, era finito tutto in quel pozzo insieme a lui. — Un altro pochin e Ansovin se vestì de legn [7] . — Gli operai lo avevano ripescato dal vascone di Thotbeer. Era stato lì ammollo incosciente per un’ora. —Devo seguire il volere di Thot, Burp! —aveva detto ubriaco al suo risveglio. Dentro la birra, gli era apparso il dio egiziano: «sarai la mia vestale, farò di te il mio scriba prediletto. Andrai a Trieste a trovare un mio amico poeta. Con lui scriverai e farai libagioni, innalzerete inni per compiacermi». __

Note: [1 ] Espressione dialettale

milanese: vai a quel paese, barbone. [2] Forma dialettale milanese composita: stai buono lì-va a quel paese-buono a nulla. [3] Personaggio della Disney inventato da A. A. Milne. – L’autore del personaggio gioca sull’ambiguità linguistica del termine "poo" che è impiegato dai bambini inglesi per indicare le feci. [4] Espressione dialettale milanese: letteralmente sarebbe “Vai a scavare il mare con la forchetta invece di cercare il sedere del caEra pomeriggio inoltrato, in vallo a dondolo. Si dice a quel caffé sul golfo di Trie- persone che fanno cose ste, quando si presentò a inutili. lui un tale. Disse di chia[5] Espressione dialettale marsi Saba. Delle parole milanese: Ricco sfondato. gli spumeggiarono nella [6] Espressione dialettale mente. — E della birra mi milanese. godo l'amaro, seduto del ri- [7] Espressione dialettale torno a mezza via, in faccia milanese: letteralmente è ai monti annuvolati e al fa- vestirsi di legno, finire nella ro. bara.

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S ka n I gabbiani La partenza

«È inutile "fratelli", abbiamo buttato un’intera giornata di pesca. Non si poteva prevedere un temporale come questo.» La luce soffusa del locale rifletteva figure asimmetriche nel liquore ambrato. Damien sollevò il bicchiere cercando di guardarvi i due amici attraverso, poi trangugiò il rum. «Vorrà dire che partiremo domani.» Il meno lucido dei ragazzi al tavolo, l’aria propositiva e un sorriso luminoso, colpì con i pugni i braccioli della propria sedia. «Abbiamo le chiavi del faro e abbiamo anche il motoscafo, che ci frega del capitano? Andiamo stasera, andiamo adesso.» Roberto gli sfiorò la spalla, poi la strinse con il palmo e le dita ben distanziate e si rivolse al terzo ragazzo: «Guarda che Nicolas non ha tutti i torti, il mare non è così grosso come dice il capitano, e in fondo abbiamo pagato da oggi, perché dovremmo cercare un altro posto per dormire? Oltretutto partendo domani ci giochiamo tutta la mattinata di pesca.» Damien si passò entrambe le mani sulla testa, solleticò le dita tra i capelli neri e cortissimi diverse volte, poi si voltò di scatto e chiamò un altro giro di

... e alla fine arriva Polly

Po l l y R u s s e l l

bevute. «La pesca ce la scordiamo comunque, non abbocca niente dopo un temporale come questo. E quando il capitano lo verrà a sapere ci caccerà dal faro a calci nel culo! Così la vacanza ce la giochiamo del tutto.» «E perché scusa? Non è sua responsabilità se non ci porta lui. Il motoscafo è il nostro. Dai, saranno si e no cinquanta minuti di navigazione con questo mare, meno se il temporale diminuisce.» La cameriera sussurrò qualcosa in una lingua che parve capire solo Damien e gli sorrise. Lui le poggiò nelle mani alcune banconote e bevve il liquore, appena servito, tutto d’un fiato. «Tanto a voi che vi frega, non capite una sillaba di croato e la sfuriata del capitano me la beccherò tutta io.» «Esatto! Alla salute!» Mandarono giù i loro “shottini” e batterono con forza i bicchieri rovesciati sul tavolo. La cameriera ammiccò verso di loro, sorrise ancora e si avvicinò con atri tre bicchieri colmi. Damien le disse qualcosa che la fece arrossire, ma che la convinse anche a sedersi con loro. Nicolas li osservò parlare qualche minuto, buttò giù il proprio rum e quello dell’amico poi si frappose tra i due. «Den,

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avevamo detto “una vacanza tra uomini”. Niente figa; solo alcol, pesca e rutto libero. Quindi sfancula la moretta, dalle appuntamento a lunedì e andiamo. Roberto è già uscito e io voglio arrivare al faro prima che la tempesta si faccia seria, mio cugino non è un pilota bravo quanto dice di essere.» Il risveglio di Roberto

Dei primi colpi sentì solo il rumore. Ritmato, ripetuto, come se non fosse stato lui a essere schiaffeggiato. Dell’ultimo, quello che lo costrinse ad aprire gli occhi, percepì anche il dolore. Si accorse di avere le mani legate dietro alla schiena quando cercò di muoverle e una prepotente fitta alle spalle gli comunicò che doveva essere bloccato in quella posizione da parecchio tempo. «Hai visto che belli?» La voce di Coralline arrivò distorta dapprima e pian piano più nitida. Il ragazzo riuscì a mettersi in ginocchio a fatica, le spalle doloranti e la testa annebbiata. Il sole non era ancora sorto ma, la spiaggia aveva già preso una tenue sfumatura rosata e anche se il profumo del mare era coperto da un fetore intenso, era comunque distinguibile. Le increspature della sabbia,


tonde e regolari, riflettevano il rosa perlato del cielo che si andava schiarendo. La ragazza era distante solo qualche passo, si portò i riccioli rossi dietro le orecchie e si avvicinò con due lunghi passi, scavalcando i dossi con attenzione. Roberto impiegò qualche istante a capire che non erano le irregolarità della sabbia quelle che stava osservando, ma migliaia di gabbiani accovacciati. Silenziosi e immobili. Lei piegò la schiena e tese la destra per sfiorarne i dorsi. «Sono cinque anni che li seleziono, almeno otto generazioni di gabbiani e ora, finalmente, sono in grado di difendersi da soli!» Lui scosse la testa continuando a non capire, si alzò e tentò un passo verso di lei ma una corda stretta attorno al collo lo catapultò indietro, facendolo sbattere sul tronco ritorto del fico cui era legato. «Da chi dovrebbero difendersi?» sussurrò, dopo essersi schiarito la voce. «Dagli umani, da chi altri? Per ora ho lavorato sui gabbiani, ma conto di migliorare ogni singola specie in pericolo.» Sfilò dalla tasca posteriore dei jeans aderenti un coltello a serramanico e lo fece scattare. Alcuni frulli scomposti, unica eco al rumore della lama. Non disse altro, non mutò espressione. Allungò la stessa mano con cui aveva accarezzato gli uccelli e gli incise il petto. Roberto non ebbe il tempo di gridare, né di chiedere. La lama era ancora nella sua carne

quando gli animali si alzarono in volo in uno scomposto turbinio di piume, becchi e zampe. Si stupì di quanto rumore potessero fare le ali, di quanto assordante potesse essere un volo. In pochi attimi gli furono addosso, i becchi dai bordi seghettati si insinuarono nel taglio, ne strapparono i lembi. Il dolore era talmente forte da non riuscire a localizzarlo: il torace prima, ma subito dopo il viso, le dita. Ogni appendice fu presa d’assalto da candidi mostri piumati. Gridò e gridò ancora, uno degli animali gli afferrò il labbro inferiore. Riusciva a sentire le zampe poggiate contro il proprio mento e il becco strappare. Uno strattone e la bestia cambiò presa, scosse il capo e strattonò di nuovo. Quando un fiotto caldo gli inondò il collo, l’animale drizzò il proprio per ingoiare il boccone. Per un istante gli parve che tutto si fosse fermato, che gli animali si fossero bloccati a mezz'aria e che l’odore nauseabondo di guano fosse sparito, che anche il dolore fosse cessato. Tutta la sua concentrazione fissata sulla parabola sghemba che un filamento che il proprio massetere aveva formato, dalla sua guancia al becco più vicino. Quando un guizzo vermiglio seguì lo stesso percorso del lembo muscolare il dolore esplose di nuovo. Più forte di prima. L’odore degli escrementi si miscelò a quello del sangue e il frastuono coprì ogni cosa. Coralline dovette urlare perché la propria voce fosse udibile

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sopra ai versi delle creature e alle grida del ragazzo, «scusami ma devo andare, anche i tuoi amici avranno bisogno di me, soprattutto quello con la testa rasata, non ha voluto bere il tè ieri sera e ho dovuto fargli un'iniezione per tramortirlo, ma ormai si sarà svegliato anche lui.» Il risveglio di Damien

Un piccolo stormo di gabbiani si posò sulla sabbia. Zampettarono, le grandi ali estese verso l’alto a cornice e corona del capo bianco. I più coraggiosi si avvicinarono di qualche passo per poi saltare di nuovo indietro, al centro del gruppo. Ancora un paio si staccarono dal branco, ripeterono il balletto diverse volte, tornando sempre al punto di partenza, poi il primo beccò. Il grido esplose nella baia deserta e gli uccelli si librarono in volo. Il rumore delle ali fece da eco all’urlo di dolore. Le bestie rotearono a poche decine di metri dal suolo, poi atterrarono di nuovo. E di nuovo presero a beccare. Il ragazzo si divincolò, gridò e si contorse, col solo risultato di tendere ancora di più i legacci sui polsi già martoriati. Disteso a terra e impossibilitato a muoversi con le gambe e le braccia legate ai pali degli ormeggi. Un esteso taglio sulla coscia aveva ripreso a sanguinare, attaccato dai becchi famelici. E più sangue usciva, più invogliava i volatili a continuare. «Via, andate via! Aiuto!»


Le grida di Damien allontanarono gli animali solo per un momento, che tornarono alla carica subito dopo essersi alzati in volo. Un’onda, più forte delle altre, lo schiaffeggiò e lo sommerse. Nello sciabordio riusciva a sentire i versi striduli dei gabbiani e le loro zampe fredde. Decine e decine di quei piedini palmati camminavano sul suo torace, sul viso, sulle braccia, e più si divincolava, più sembravano aumentare. Ai piedi si aggiunsero becchi e code. Si sentiva schiacciato, oppresso, mentre gli animali e l’acqua gli impedivano di respirare. Poi di nuovo una fitta. Una nuova beccata. Il fianco stavolta. Ancora e ancora, finché furono le sue stesse urla a bruciare più delle ferite e dell’acqua salata che continuava a investirlo. Sentiva i becchi adunchi scavare, insinuarsi tra le sue costole e strappare, rompere, tagliare. Davanti ai suoi occhi solo un nulla bianco, fatto di piume e nuvole. Una nuova onda costrinse gli animali in volo, e lì, sott’acqua e senza respiro, gli parve quasi di provare sollievo. Sentì qualcuno gridare il suo nome, ma un secondo più tardi gli uccelli gli erano di nuovo addosso e ogni rumore venne coperto dalle loro grida assordanti e dallo scalpiccio dei piedi bagnati.

viso impassibile di Coralline, i cui lunghi capelli rossi cadevano in ricci scomposti sulle spalle nude. Impiegò qualche secondo a capire di essere nudo anche lui e legato a una sedia di metallo. Ogni movimento impedito da cinture di cuoio. «Hai sete?» cinguettò lei. «Cosa? No! Voglio sapere dove sono Damien e mio cugino.» La gola era secca per la verità, e le labbra spaccate, ma non erano certo la sua priorità. Coralline fece un paio di passi indietro, ancheggiando. Il corpo nudo e flessuoso rischiarato dall’alba imminente. Si accarezzò un fianco, seguì con due dita il contorno del seno, fino alle proprie labbra. Sorrise. «Stanno ammirando gli animali, da vicino.» Scivolò alle spalle del ragazzo e gli prese i lunghi capelli scuri tra le mani. Li pettinò con le dita, poi iniziò a massaggiargli il collo teso. «Non è possibile, Damien riusciva appena a camminare. Ascolta, slaccia queste cinte e andiamo a cercarli insieme, vuoi?» Cercò il tono più accondiscendente che conosceva, sforzandosi di sorriderle, «avevi detto che avremmo preso la tua barca, che ci avresti accompagnato a terra.» Non gli rispose ma gli accarezzò le tempie, con un gesto secco trasse a sé la testa, sprofondandola tra i propri seni. La botola sulla parete inclinata, Poco prima da dove erano entrati, era «Dove sono gli altri, brutta aperta e il sole aveva ormai puttana!» Nicolas aveva appena illuminato tutto il rifugio. aperto gli occhi e tutto il suo I vestiti di Damien e Roberto campo visivo era occupato dal formavano un mucchietto

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scomposto accanto ai suoi. Le tazze da cui avevano bevuto erano rovesciate a terra. Sul telo due grosse macchie di sangue che era sicuro di non aver visto la sera prima e delle scie sulla sabbia indicavano senza ombra di dubbio che qualcuno era stato trascinato fuori. Un grido squarciò il silenzio, seguito dal garrire dei gabbiani. Nella cacofonia che aveva saturato l’aria, la voce di Damien chiedeva aiuto. Cercò di ricordare come e quando si fosse addormentato, ma non riusciva a focalizzare nulla dopo il loro arrivo nel rifugio. La testa gli faceva un male d’inferno e la bocca era impastata. «Cosa c’era in quel tè, Coralline?» Di nuovo la ragazza gli si parò davanti e si accovacciò, sedendosi sui talloni. Con le mani gli sfiorò l'addome scolpito, si morse le labbra sottili mentre insinuava dita sapienti, tra i peli del pube. Aprì la bocca e sollevandosi appena gli accarezzò il pene con la lingua. «Non può esserci solo il lavoro, non ti pare?» Un nuovo grido, più disperato del primo, lo scosse e lo fece tremare. Ne seguì un altro e un altro ancora, poi sentì la voce del suo amico farsi più roca, quasi un lamento. «Lasciami andare, puttana! Sei pazza! Una fottuta baldracca pazza!» «Sono qui da sola da mesi, gioca un po’ con me, poi ti prometto che raggiungerai il tuo amico.»


«Va bene, ascolta; tu sei una gran bella ragazza, ma io così non ci riesco, sono abituato a condurre il gioco.» Nicolas si sforzò di sorridere, cercò di essere seducente, quando l’unica cosa che avrebbe voluto fare era spaccare quella testolina rossa con le sue mani, «avvicinati, siediti su di me.» Coraline allentò la cinta sulla vita e quelle sulle gambe, le fece scorrere di un buco per permettere al ragazzo un minimo di movimento. Infilò le cosce tornite sotto i braccioli e si sedette su di lui. «Dolcezza, cosa vuoi che faccia così? Slegami una mano, almeno…» Sette ore prima…

Nicolas riuscì ad afferrare tra le dita qualcosa di più solido dell’acqua ma ugualmente fuggevole. Sprofondò entrambe le mani nella sabbia: fine e scivolosa. Con uno sforzo si erse sulle braccia, mentre i polmoni sembravano voler scoppiare. Nel buio la superficie poteva essere a un paio di bracciate, o lontana decine di metri. La salvezza arrivò con la forma nodosa della mano di Damien. Sentì solo uno strattone, i tendini e i muscoli del collo tesi dalla presa salda nei suoi lunghi capelli scuri. Poi, finalmente un respiro. La prima boccata d’aria gli bruciò la gola, tossì e vomitò subito dopo. «Nicolas tutto bene? Nicolas!» La voce di Roberto era ovattata, coperta dal fragore della tempesta e dalle onde. Ni-

colas sollevò la destra sopra la testa, segno inequivocabile che aveva sentito, poi la sprofondò di nuovo sulla sabbia, a pochi metri dal mare. Lo trascinarono ancora per un po’, sentì le braccia degli amici sotto le sue e attorno al torace, sentì la sabbia grattargli le gambe e la pioggia cercare di affogarlo, più di quanto il mare non avesse già fatto. Quando si fermarono si accorse di essere all’asciutto. «Dove siamo?» Damien cercò di scrollarsi l’acqua di dosso con pochi risultati, quindi si tolse la maglietta e si sedette accanto all’amico, le spalle poggiate contro la roccia. «E che ne so! In una cazzo di caverna, credo.» «Questo lo avevo capito. Dove siamo, qui? Che isola è?» La luna si era appena affacciata tra le nubi, rischiarando l’interno della grotta, che si era rivelata poco più che un’insenatura. Anche Roberto era a torso nudo e stava strizzando la propria maglietta, «se ho letto bene le carte, dovremmo essere…» Nicolas lo interruppe, «Se avessi letto bene le carte non ci saremmo schiantati contro gli scogli!» Sfilò anch’egli la maglietta e imitò gli altri. «Comunque, dovremmo essere a Plocica, o un’isoletta lì vicino, magari Korcula.» «Plocica ha un faro ed è deserta, piatta. Questa a occhio e croce è una collina.» «Infatti ho detto “dovremmo”, ma tu ci godi a darmi torto!» Damien conosceva i due cugini

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da una vita e sapeva bene dove si sarebbe andati a parare, «va bene, va bene! Non me ne frega un cazzo, siamo sempre nell’Adriatico e a pochi chilometri dalla costa. Aspettiamo che faccia giorno e poi pensiamo a come farci venire a prendere.» Prese la propria maglietta e ne strappò un lembo, poi lo arrotolò sopra al ginocchio. «Sei ferito?» «Non credo sia niente di grave, ma brucia da morire.» Nella penombra era distinguibile solo il baluginio del sangue, ma che tipo di ferita fosse, era impossibile da stabilire. Nicolas aiutò l’amico a fermare il bendaggio improvvisato, poi lo incoraggiò a sedersi. «Sembra bruttina, come diavolo hai fatto a trascinarmi fin qui?» L’altro si limitò a sorridere; le fossette sulle guance, ben visibili, gli ingentilivano il volto. Si sedettero vicini, tutti e tre. Spalla a spalla. Il rumore di rami spezzati fece destare Roberto. Spalancò gli occhi azzurri e d’istinto sobbalzò, svegliando gli altri due. «Don’t worry, guys! My name’s Coraline and I can help you.» «Cosa?» La ragazza abbassò la torcia elettrica che aveva puntato loro contro e la diresse sul proprio viso, permettendogli di guardarla, sorrise sarcastica, subito dopo. Un accento poco definito le donava un’aria esotica, «italiani! Solo degli italia-


ni potevano schiantarsi sulla barriera frangionde. Ho visto le luci d’emergenza di quello che rimane del motoscafo.» Spostò la torcia con aria infastidita e si fermò sulla fasciatura improvvisata di Damien. Il sangue aveva imbrattato il bendaggio ma, come quello sul ginocchio e sul polpaccio, sembrava secco. «Hai perso parecchio sangue. Il mio rifugio è proprio qui dietro. Se i tuoi amici ti portano in braccio possiamo andarci. Ma non dovrete aprire bocca finché non ve lo dirò io, chiaro? Avete disturbato la fauna fin troppo per stasera.» La luna era alta nel cielo, e di quella tempesta che sembrava non voler finire mai, non v’era più traccia. Il tragitto fu davvero breve, come la ragazza dai ricci di fuoco aveva annunciato. Camminarono attraverso delle sterpaglie basse, aggirando la collinetta che li aveva protetti, e solo quando furono sul lato opposto notarono che non era naturale. La ragazza passò indietro la torcia e sollevò un telo mimetico color sabbia, scoprendo una botola inclinata a quarantacinque gradi. In silenzio la aprì e fece cenno di far entrare prima il ferito. Quando furono tutti all’interno richiuse la botola, tirò un cavo che arrivava all’esterno e che probabilmente avrebbe riposizionato il telo, poi finalmente, parlò. «Per questa notte dovrete tenere duro, qui funziona tutto con i pannelli solari. Domani contatteremo qualcuno.» Nicolas aiutò l’amico a sedersi

su una sdraio da campeggio. L’unica lampada accesa non gettava luce sufficiente nemmeno per guardarsi in faccia. Quindi sfilò la torcia dalle mani del cugino e la puntò contro la gamba di Damien. Appena tolto il bendaggio si rese conto di come la ferita fosse più grave di quello che avevano pensato, o di quanto il ragazzo avesse dato a vedere. «Coraline, hai del disinfettante?» La ragazza si infilò in una sorta di cunicolo, unico altro sbocco della piccola stanza circolare, e ne emerse pochi istanti dopo con una cassetta del pronto soccorso. «È peggio di quello che pensavo, ci vorrebbero dei punti. Stringi i denti!» Nicolas si spostò per prendere la tazza di tè dalle mani di Coraline. Sporgendosi il meno possibile per non svegliare l’amico ferito, addormentato sulla propria spalla. «Mi dispiace ma non c’è modo di chiedere aiuto, non ho alcun tipo di trasmittente, le onde radio disturbano la migratoria. E arrivare a quello che rimane del vostro scafo è impossibile finché il mare non si calma del tutto. Ma all’alba potremo andare a terra con la mia barca.» «E tu che ci fai qui, tutta sola?» «Studio gli uccelli che nidificano in quest’isola. C’è una particolare specie di gabbiani che…» Si interruppe e parve pensare a quello che stava per dire, «sono cose di una noia mortale se non sei un etologo!» Prese altre due coperte e le pas-

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sò a Roberto. «Tenete, purtroppo non ho vestiti da darvi, dovrete arrangiarvi. Io vado a dormire, bevete il tè, vi scalderà. Se ci fossero problemi chiamatemi. Altrimenti ci vediamo all’alba.» Epilogo

«Se ti slegassi cercheresti di scappare. Non sono una sprovveduta.» La frase la sussurrò soltanto, avvicinando le labbra all’orecchio di lui. Si mosse in avanti nel farlo, strofinando e spingendo il proprio bacino dove avrebbe sperato trovare un’erezione. Le richieste di aiuto di Damien parevano cessate, o comunque coperte dal garrire impetuoso dei gabbiani, «tesoro capisci che così non funziona? Devo poterti toccare.» Con un moto di disgusto ben mascherato, Nicolas le leccò le labbra, le morse anche cercando di ansimare, cadenzando il respiro per simulare eccitazione. La mano di lei scivolò dal collo alla spalla, continuò a baciarlo accarezzandogli i muscoli ben modellati del braccio e quando arrivò al polso slacciò la cintura. Il ragazzo lasciò che la cinta cadesse a terra; assecondò, per quanto poteva, i movimenti di lei e caricò il colpo. Un pugno. Forte, disperato, dritto alla testa. Dato con tale e tanta potenza da fargli provare dolore, pensò quasi di essersi rotto le dita nell’impatto con la tempia di lei. Coraline venne sbattuta da un lato, le cosce intrappolate dai braccioli le impedirono di


cadere, e allora la colpì di nuovo. «Grandissima puttana!» Il terzo pugno lo sferrò contro un corpo inerme, la spinse indietro quindi, lasciandola rovinare sul pavimento. Si liberò in fretta delle altre cinte continuando a inveirle contro. Dopo essersi liberato le gambe la sentì mugolare, ma non la vide muoversi. Si guardò in torno trafelato, girò su se stesso due o tre volte in preda al panico. Afferrò una mazza da campeggio appoggiata vicino alla porta e la soppesò tra le mani. Tornò verso di lei ma la voce del suo amico, ridotta ormai a un rantolo animalesco lo costrinse a uscire. «Damien! Den!» La minuscola baia era deserta, fatta eccezione per un nugolo di gabbiani accanto all’approdo naturale. Molti in volo ma i più, concentrati su un punto, accanto a dei pali che fungevano da ormeggio. Impiegò pochi istanti a comprendere da cosa fossero tanto attratti e ancor meno a correre verso di loro. Urlò sperando di spaventarli mentre roteava la mazza sopra la testa. Percorse le poche decine di metri gridando e si lanciò nel marasma bianco. In un frullo cacofonico gli uccelli si librarono. L’onda rosso scura si ritirò trascinandosi dietro anche Damien. Le corde che gli legavano i piedi erano strappate e il suo corpo maciullato scivolava sul bagnasciuga, trattenuto ancora per i polsi. Nicolas si lanciò contro i legacci, cercando di scioglierli. Aveva gli occhi gonfi di lacrime e la testa che sembrava fluttuare nel vuoto,

tanto che le grida degli uccelli gli sembravano lontane. Gli volavano intorno, ne percepiva la presenza, il tocco leggero delle ali, l’aria spostata dai loro movimenti, il puzzo, ma non riusciva a sentirli garrire. Come quando si trovava sott’acqua la sera precedente, come se i suoni venissero da lontano, quasi che le sue orecchie non potessero udire altro che i flebili lamenti provenire dal volto ormai privo di labbra del suo amico. Una nuova onda avvicinò il corpo ai suoi piedi e gli permise di slacciare il nodo. Lo trascinò fuori dall’acqua e gli si inginocchiò accanto, «Den… parlami, Den?» Il ragazzo roteò l’occhio destro, mentre dall’orbita vuota del sinistro un guizzo di sangue accompagnava la contrazione dei muscoli. La mandibola dai denti esposti tremò un istante, poi scattò e smise di muoversi. Un gabbiano atterrò su una costola quasi del tutto scarnificata e strappò l’ennesimo brandello, ingollò e zampettò in avanti, verso Nicolas. Questi si ridestò dal torpore innaturale nel quale era finito e gridò contro l’uccello. La creatura poco o nulla intimorita spalancò le ali e non fece più di tre passi indietro, poi partì alla carica. Il collo arcuato e la testa protesa in avanti. Il becco spalancato e un verso del tutto simile a un sibilo. Dei pizzichi alle spalle e al capo lo costrinsero a voltarsi, poi a cercare di proteggere la testa con le braccia. I colpi divennero in breve più forti, complice la velocità delle bestie in picchiata. Scattò in piedi e cercò con lo

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sguardo la mazza che aveva lasciato cadere. Quando la trovò, pochi secondi più tardi, atterrò due o tre uccelli ancora in volo. Il rumore del legno sulle ali e sui petti morbidi delle creature gli ricordò gli spari esplosi col silenziatore di qualche film d’azione. Il boato che sentì un secondo più tardi non lo riconobbe, ma cadde in ginocchio e gli uccelli si dileguarono in pochi istanti. Subito dopo l’unico rumore udibile era la risacca. Il dolore tra le spalle, quello che aveva scambiato per l’ennesima beccata, aumentò. Si acuì fino a raggiungere la base del collo e le braccia. Divenne calore quasi subito, poi gli parve di bruciare, poi più nulla. Quando i gabbiani lo raggiunsero di nuovo era riverso a terra, il viso sprofondato nella sabbia bagnata e la schiena coperta di sangue. Coralline poggiò il fucile contro la parete esterna del rifugio. Si appoggiò alla porta chiusa e sospirò. L’occhio sinistro era chiuso e gonfio e la tempia continuava a sanguinare, ci passò sopra il dorso della mano e si schiarì la voce. «Piccolini, venite da me, piccoli!» La metà degli uccelli voltò il capo all’unisono, i becchi e i petti coperti di sangue. Al primo garrito la nube bianca e vermiglia si levò in volo e la raggiunse. Lei allargò le braccia e protese le mani, ma il sorriso le morì sul volto alla prima beccata.


S ka n Fegato alla veneziana «Maestro, perché non ci racconta di come fu sconfitto da Jean Luc Van Damme?» Quella domanda era stata formulata da una voce alle mie spalle. L'aveva posta una ragazza al primo anno d'apprendistato. All'udirla gli altri allievi ammutolirono e nella sala calò il silenzio. Posai con delicatezza la mannaia che stavo impugnando. Mi voltai e fissai la giovane negli occhi. Il suo sguardo di sfida mi sorprese. L'avevo appena strapazzata per uno sbaglio che aveva commesso, ed ero stato duro, troppo forse, ma duro come lo ero sempre, con tutti. Risposi: «Jean Luc Van Damme... sì, sono passati tanti anni, ma ricordo bene quel giorno. Persi, è vero, però non fui davvero sconfitto». «In ogni caso non ce ne ha mai parlato. Lei evidenzia sempre i nostri errori. Dice che dobbiamo imparare da essi, anche da quelli degli altri, che è necessario studiarli per non ripeterli e per migliorarsi. Ci racconti ciò che ha sbagliato in quell'occasione, ci dica qual è stato il suo errore». Il silenzio che aleggiava si fece di ghiaccio. Gli allievi si sarebbero scambiati occhiate di terrore se non fossero stati troppo spaventati per farlo: te-

Cronache dal Multiverso

Le o n a r d o Bo s e l l i

nevano lo sguardo fisso a terra, e se avessero potuto, avrebbero scavato una buca per ficcarci dentro la testa. Avrebbero voluto essere ovunque, anche all'Inferno, tranne che in quella sala e in quel momento. Mi pulii le mani insanguinate con lo straccio che portavo alla cintola, impugnai nuovamente la mannaia e mi avvicinai alla ragazza continuando a fissarla. Lei sostenne il mio sguardo finché non le fui a un passo. Non aveva alcun timore di me anche se io ero il maestro e lei l'allieva, non la spaventavano i miei decenni d'esperienza. Lessi nei suoi occhi che era lì per

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imparare e lo avrebbe fatto anche calpestando il mio orgoglio. D'altra parte aveva scelto il mio corso perché ero il migliore e non si era lasciata intimorire dal fatto che i migliori fossero uomini: anche se lei era una donna, sarebbe riuscita nel suo intento, o almeno ci avrebbe provato con tutte le sue forze. Tutto questo le lessi negli occhi. Ma quando le fui di fronte abbassò lo sguardo. Dopotutto era soltanto un'allieva e, con quel gesto, sembrò riconoscerlo. Spezzai la crosta del silenzio che riempiva la sala dicendo:


«Lei, signorina, ha parlato di errore, ma dal punto di vista tecnico non lo fu». A quell'accenno di disponibilità, gli allievi estrassero la testa dalle loro buche figurate e tirarono un sospiro di sollievo. Qualcuno, con entusiasmo, osò pure bisbigliare al vicino: «Adesso racconta». Con pacatezza dissi: «Fate silenzio». Subito i presenti tacquero e tornarono a fissare il pavimento. Posai la mannaia e presi un disossatore. Mi sembrava un attrezzo più consono alla situazione. Quindi girai intorno alla ragazza, ignorandola. «Vedete, voi tutti siete qui per imparare. Avete dimostrato di voler eccellere proprio per aver scelto questa scuola. Non sareste venuti a Firenze da ogni parte d'Italia, o addirittura dall'estero», infatti notai tra gli allievi un giovane cinese, «se non foste stati spinti dalla volontà d'imparare. E per farlo vi siete iscritti alla scuola di cucina di Gabriele Vizzini, il più grande chef d'Europa e, di certo, uno dei migliori al mondo». Avevo pronunciato quella frase come se stessi parlando di qualcun altro e non di me stesso. Non mi stavo vantando: tutti sapevano che era vero. La ragazza che avevo strapazzato tentò di obbiettare: «Eppure...», ma lasciò la frase in sospeso, dopo aver posato lo sguardo sul disossatore con cui giocherellavo. «Come dicevo, siete qui per

imparare, e si apprende dagli errori. Ma giunti a livelli eccelsi, gli errori sono indistinguibili dai colpi di genio». Quella frase suscitò un sommesso mormorio nell'uditorio. Mi aggiustai il cappello da cuoco sulla testa e ripresi: «Avete mai osservato con attenzione un dipinto di Piero della Francesca? La prospettiva dell'architettura è perfetta, o meglio lo sembra. Appare in quel modo perché sono stati introdotti piccoli errori: se fosse stata davvero perfetta, gli occhi sarebbero stati ingannati mostrando deformazioni inesistenti. Allo stesso modo, avete mai notato le proporzioni dei templi greci? Le colonne si susseguono lungo allineamenti perfetti, ma non è davvero così: è stato inserito ad arte un errore, calcolato con estrema precisione, che suscita quel senso di bellezza che altrimenti sarebbe mancato». Gli allievi più temerari cominciavano a sollevare lo sguardo da terra, poco persuasi da ciò che stavo dicendo. «Ma», aggiunsi, «quegli errori non sono gli sbagli che commettete voi!» Quindi passai, annusando e assaggiando, a una a una le pentole e le padelle sui fornelli lungo il banco da lavoro. Gli allievi, nelle loro livree bianche, sembravano sull'attenti nell'attesa di un'ispezione militare.

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«Nel sugo c'è poco peperoncino... il brodo è salato... l'arrosto è crudo... la peperonata è insipida». A ogni mia sentenza, l'allievo chiamato in causa si muniva di cucchiaio o forchetta, assaggiava a sua volta e sbiancava: perlopiù erano solo sfumature, ma rovinavano il delicato equilibrio d'aromi e sapori. In fondo alla fila, mi fermai di fronte ai fornelli sui quali cucinava il giovane cinese e assaggiai il suo arrosto d'anatra in salsa tartara e curry. «Qui c'è un pizzico di zucchero!» L'allievo diede un'occhiata preoccupata al disossatore. Continuai: «Quelli che ho elencato finora erano sbagli, ma questo si potrebbe quasi considerare un colpo di genio: è solo un pizzico, ma esalta l'aroma della salsa. Complimenti! Come ti chiami ragazzo?» «Io essele Wang Dong», rispose. «Bravo, continua così». Poi, rivolto agli altri, chiosai: «Mi stupisco che, tra tanti allievi, l'unico che riesca a interpretare al meglio la cucina italiana provenga dalla Cina». A quel punto, la ragazza tornò alla carica e disse sarcastica: «Quindi lei ha perso per un colpo di genio?» La fila di cuochi apprendisti ebbe un lieve sbandamento. Sembrava che si preparassero a schivare un disossatore che sarebbe stato presto lanciato


attraverso la sala per colpire l'autrice d'una frase così irriverente. Ma io ignorai quelle parole e ripresi a raccontare. «Quando incontrai Jean Luc Van Damme, ero sulla cresta dell'onda, al punto in cui basta un passo falso per precipitare ed essere travolti, ma dalla quale si può anche spiccare un piccolo salto per prendere il volo ed assurgere all'Olimpo degli chef. Avevo già aperto il mio terzo locale, quello in Trastevere, e cominciavo a consolidare la mia fama. Alcune comparsate in televisione avevano aiutato a farmi un nome e i libri che scrivevo avevano successo. Ricevevo molta posta dalle mie ammiratrici e non potevo proprio lamentarmi, ma la mia carriera era a una svolta e l'oblio poteva essere dietro l'angolo. Fu allora che decisi di partecipare al "Grande Chef", che veniva annunciato come il più importante reality culinario delle reti satellitari». «Questo lo sappiamo tutti», mi incalzò la ragazza, «ero una bimba allora, però ricordo quella serie. È proprio grazie ad essa se mi sono appassionata alla gastronomia e ora sono qui a farmi insultare da lei». «Bene», dissi con un certo fastidio, «allora ricorderà l'ultima puntata della prima stagione: la finale. Come disse Jean Luc, che era l'avversario più temibile, ci sarebbero state altre stagioni, ma noi saremmo sempre stati i

concorrenti del primo "Grande Chef". Vedete, c'era voluto tutto il mio impegno, anni di fatica, di duro lavoro, e sacrifici a non finire per conquistare la mia posizione, ma in quella trasmissione tutto stava per essere messo in discussione, la mia reputazione era legata a quell'ultima serata e a quell'ultimo piatto da preparare. Ricordo quel giorno come fosse ora. In finale erano rimasti Gabriele Vizzini, il grande cuoco italiano emergente», dissi la frase come se non parlassi di me, «e Jean Luc Van Damme, un raffinato chef belga, esponente di spicco della nouvelle cuisine». Mi fermai per rendere la presentazione dei contendenti più a effetto. Mentre tutti gli sguardi erano su di me, posai il disossatore sul piano di lavoro e impugnai una frusta, una di quelle per montare a neve la chiara d'uovo. Quindi ripresi: «Anche i giurati erano d'eccezione, ma per la finale l'unico arbitro sarebbe stato Gordon Russell, uno chef britannico, proprietario d'una catena di ristoranti e, soprattutto, il principale protagonista di varie serie culinarie di successo, noto per il suo carattere scorbutico. Ci si sarebbe confrontati su un'unica ricetta, la stessa per entrambi». «Gordon Russell me lo ricordo», disse la ragazza sorridendo. «Aveva un viso

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simpatico, forse perché le rughe sulla fronte e sul mento ricordavano quelle della mia nonna materna. Le sue sfuriate erano mitiche ed esilaranti». «Proprio lui», confermai. «Non aveva rispetto per nessuno. Per lui insultarti era naturale come darti il buongiorno di prima mattina. Le sue arrabbiature potevano essere divertenti per il pubblico, ma per chi le subiva erano più dolorose d'una flagellazione sulla pubblica piazza... Ehi! Wang, spegni il fornello, o l'anatra finirà carbonizzata!» Il cinese, che stava ascoltando a bocca aperta, si affrettò a chiudere il gas e il fuoco si estinse. Sventato l'attentato contro l'incolumità dell'arrosto, ripresi: «Non esiste attività più violenta dello scontro tra due cuochi che vogliono primeggiare uno sull'altro. Era una lotta all'ultimo sangue, contro il tempo, per rispondere, ingrediente dopo ingrediente, alle mosse dell'avversario». «Qual era il piatto?» chiese la ragazza. «Venne estratto un "fegato alla veneziana"». «Nulla di complicato, quindi». Sospirai. «Niente di più sbagliato: sono proprio i piatti semplici quelli più difficili. Con essi si può misurare l'abilità di un cuoco. Tutti sono capaci di rendere speciali ricette complesse, basta sce-


gliere ingredienti di prim'ordine, rispettare i tempi di cottura ed evitare gli errori più grossolani. Un piatto semplice, invece, può essere reso unico solo dall'abilità di chi lo prepara, dai colpi di genio che, stravolgendo la ricetta originale, rendono quella pietanza un'esperienza unica e indimenticabile per chi l'assaggia». Mentre gli allievi riflettevano su quanto fosse complicato preparare un piatto semplice, passai accanto al cinese e gli chiesi a bruciapelo: «Wang, quali sono gli ingredienti del fegato alla veneziana?» Dopo un istante di panico, con lo sguardo fisso nel vuoto, recitò a memoria: «Pel quattlo pelsone: 600 glammi di fegato di vitello, 600 glammi di cipolle bianche, 1 bicchiele di aceto bianco, 1 bicchiele di blodo, olio extlavelgine d’oliva, sale quanto basta e 50 glammi di bullo». Ad ogni pronuncia della parola "glammi", le risatine degli altri allievi crescevano, per poi scoppiare in un boato fragoroso al "bullo". Li zittii prontamente con un cenno della frusta. «Molto bene, Wang. E lei, signorina, cosa ci sa riferire sul fegato alla veneziana?» «C'è poco da dire. Si tratta di un tipico piatto veneto, con proprietà nutritive. La ricetta classica associa il fegato di vitello, alimento

dietetico, con le cipolle, un ingrediente immancabile. Qual è stato quindi il suo errore? Oh, mi scusi, maestro...», si corresse sorridendo, «qual è stato il colpo di genio a cui deve la sconfitta?» Incassai la facile ironia e ignorai la provocazione ancora una volta. Quella era un'occasione da non perdere: gli allievi avrebbero compreso che cosa davvero rende un piatto speciale, un'esperienza indimenticabile per chi lo gusta. Iniziai a raccontare: «Il conduttore ci diede un limite di tempo e fece partire il cronometro. Io e Jean Luc avevamo a disposizione una cucina completa e ogni tipo d'ingrediente era pronto nella dispensa. In tutta fretta cominciai a preparare le cipolle: le lavai e le tagliai a fettine. Presi poi una padella antiaderente e misi a scaldare il burro con un po' d'olio, quindi versai le cipolle, che avevo ben scolate, dopodiché aggiunsi il bicchiere d'aceto bianco e un pizzico di sale. Mescolai bene, versai anche il bicchiere di brodo e coprii la padella con un coperchio lasciando cuocere le cipolle a fuoco lento. Dovevo stare attento a non farle friggere, perché devono rimanere morbide. Restava mezz'ora di tempo ed era giunto il turno del fegato. Lo presi e lo tagliai in cubetti di circa

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tre centimetri. Di tanto in tanto, mentre la trasmissione continuava tra i commenti della giuria e l'esibizione canora di qualche ospite, lanciavo rapide occhiate a Jean Luc: era al mio stesso punto. Procedevamo di pari passo, sembrava quasi di vedersi allo specchio. Quando le cipolle furono cotte, versai il fegato nella padella, mescolai e coprii. Attesi una decina di minuti girando di tanto in tanto. Quasi allo scadere del tempo, versai il fegato in un piatto, guarnii con cipolle e servii la portata ben calda di fronte a Gordon Russell». Presi fiato. Gli allievi pendevano dalle mie labbra. Si stavano chiedendo che cosa avessi sbagliato. Tutto era stato eseguito a regola d'arte, come insegnano i manuali di cucina. Continuai: «Dopo aver servito la portata, con la coda dell'occhio, feci in tempo a vedere Jean Luc che, nei pochi secondi che rimanevano, versava un'ultima goccia d'aceto sul fegato. Il giudice assaggiò con scrupolo entrambi i piatti. Li assaporò con calma, ma sembrava indeciso. Il pubblico in sala era in attesa del responso, pregustando gli insulti che ci sarebbero stati riservati. Alla fine fui chiamato e,


con un forte accento inglese, Gordon disse: "Gabriele, il tuo fegato alla veneziana è perfetto. Lo hai cotto al punto giusto, senza rischiare che potesse diventare duro e amaro. Well done! Anche le cipolle sono delicatissime. Hai seguito la ricetta alla perfezione". Poi si rivolse al mio avversario: "Jean Luc, tu non sei stato fedele alla ricetta quanto Gabriele. Hai usato dell'aceto balsamico?" Il belga, con la voce resa tremante dall'emozione e dalle erre alla francese, ammise: "Oltre al bicchiere d'aceto bianco ho aggiunto due cucchiai d'aceto balsamico durante la cottura, con un'ultima goccia prima di servire". Gordon concluse: "La tua variante mi ha emozionato. Quei due cucchiai hanno reso il tuo piatto meno perfetto, ma più coinvolgente, e l'ultima goccia non ha fatto traboccare il vaso. Il vincitore sei tu". Quella proclamazione fece esplodere il pubblico che assisteva in studio in un boato d'acclamazione. La regia fece suonare le trombe e, nel tripudio generale, furono sparati coriandoli e stelle filanti. Il "Grande Chef" aveva il suo vincitore, ma non riuscivo a capacitarmi: non ero io. Mi feci largo tra la folla degli ospiti festanti e, mentre

Jean Luc lanciava in alto il suo cappello da chef, m'avvicinai a Gordon. Era l'unico che ancora mi prestasse attenzione. Fissò su di me il suo sguardo incorniciato da rughe: aveva l'aspetto d'un vecchio sapiente che teneva ancora in serbo una preziosa perla di saggezza. Nella confusione generale gli chiesi spiegazioni, pronto a controbattere alle sue critiche, e dissi: "Ma il mio fegato non era perfetto?" Lo sguardo di Gordon s'illuminò e con le sue parole mi mostrò un nuovo mondo, un intero universo di possibilità, che fino ad allora avevo ignorato. Si accostò con le labbra al mio orecchio per farsi udire nella confusione e disse: "Dici bene. La tua debolezza non è nella tecnica. Ma pensi che siano solo aromi di cucina quelli che respiri ora? No, non solo. Sono fasci di sensazioni che s'intrecciano e si richiamano l'un l'altra. La vista, l'olfatto, il gusto congiurano insieme e ingannano il cervello per fargli credere che ciò che mangiamo non sia solo un informe impasto di molecole, ma sembri una sinfonia di sapori, profumi e colori. Ogni piatto deve avere un'anima. Il tuo, per quanto perfetto, non ce l'ha. Il tuo fegato cammina, ma non possiede un'anima: è uno

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zombi"». Interruppi la narrazione a quel punto, dopo aver sottolineato con il tono della voce la parola "zombi". Quindi mi rivolsi alla ragazza: «Lei, signorina, mi ha chiesto quale fu il mio errore. Allora ero giovane. Già affermato, certo, ma non ancora il migliore. Quella sera, di fronte al fegato morto-vivente, mi crollò il mondo addosso. Ci volle del tempo per riprendermi, ma alla fine capii che dovevo imparare ancora molto, come voi. Il mio errore fu quello d'aver cucinato un perfetto fegato alla veneziana, ma ciò che fa diventare un piatto sublime è quel colpo di genio che lo rende imperfetto e sorprendente». Gli allievi, che avevano ascoltato a bocca aperta il mio racconto, erano rimasti inebetiti. Posai la frusta e ripresi la mannaia, quindi gridai: «E ora, pessime controfigure d'un lavapiatti, gettate nella pattumiera quello zombi volatile che avete cucinato e ricominciate. Uscirete da qui solo quando la vostra anatra in salsa tartara e curry volerà!» FINE


S ka n

OLTRE LO skannatoiO Space Rats

NASF

Le TRE LUNE 7

chmf_2002@yahoo.it

Il luogo è piccolo, spoglio; assomiglia più ad una tana che a un'abitazione vera e propria. Quattro pareti di acciaio lisce, color grigio antracite, attraversate in un angolo da pesanti tubi di metallo. Il soffitto è basso, meno di un metro e mezzo, e per starci dentro occorre abbassare un po' la testa. Solo una lontana luce del corridoio ne rischiara l'interno, ma a dire la verità non è che ci sia molto da vedere: un giaciglio su cui dormire, quattro stracci di indumenti e poco altro. A volte ho l'impressione di aver trascorso qui tutta la mia esistenza. E invece ricordo ancora sprazzi della mia vita passata, quando ero una persona normale con una casa, un'auto e un lavoro sicuro. Il lavoro, già... Avevo studiato ingegneria mineraria all’università di Seattle, e la ditta presso cui lavoravo era una delle più solide del settore. Poi venne la crisi del '57, do-

vuta al crollo dei prezzi della daxamite dopo la scoperta dei giacimenti di Ceta Zephi, e improvvisamente mi ritrovai sulla strada, assieme a tanti altri che come me avevano perso tutto: il lavoro, i soldi e con la casa pignorata dalle banche. In principio il governo ci passava un sussidio per tirare avanti, ma eravamo in troppi e quando realizzò che continuando ad aiutarci rischiava la bancarotta, cambiò politica nei nostri confronti. Noi eravamo un problema, e dal momento che questo problema non era in grado di risolverlo, decise di eliminarlo. Iniziarono allora i rastrellamenti: squadre di poliziotti pattugliavano le città alla ricerca di vagabondi e senzatetto. Chi veniva preso spariva dalla circolazione. Nessuno sapeva che fine facessero, ma di sicuro nelle carceri non c’era abbastanza posto per tutti, e le voci che circolavano non erano tranquillizzanti. In principio la mia era una

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zona tranquilla, ma col tempo i rastrellamenti si fecero sempre più vicini e così, per non fare la fine di tanti altri, decisi di abbandonare le strade. Ma per andare dove? Con tutte le uscite sorvegliate, l'intera città era diventata una grande trappola. Nemmeno le fogne erano un luogo sicuro. Non mi restava che un'unica via di fuga: verso l'alto... il cielo... le stelle! Raggiungere lo spazioporto non fu facile, e tanto meno entrare di nascosto in un'astronave. Ma ce la feci. E lì scoprii di non essere stato l'unico ad avere avuto quell'idea. Nella stiva dove mi rifugiai c'erano almeno altre cinquanta persone, tra uomini e donne. Gente che, come me, la società aveva rinnegato. Quell'astronave divenne la mia nuova patria, quella gente la mia nuova famiglia. Da allora vivo nell'astronave.


*** Una volta che impari a conoscerla, un'astronave è un posto sicuro. È enorme, e probabilmente ogni membro dell'equipaggio non la visiterà mai tutta nemmeno se vi stesse cent'anni. Il personale di bordo vive e svolge la propria attività lavorativa in spazi ben definiti, che non sempre si intersecano con quelle degli altri. Noi viviamo in queste zone d'ombra. Viviamo in quegli hangar che sappiamo nessuno visiterà per mesi, nelle intercapedini tra un corridoio e l’altro dell’astronave, negli anfratti più profondi della sala macchine. Sono entrato dagli sfoghi delle ventole ausiliarie. All'inizio è stata dura; quando ancora non conosci bene l'astronave c'è il rischio di nascondersi in luoghi dove poi si verrà scoperti. O, peggio ancora, in zone che durante il viaggio potrebbero diventare inabitabili. Un mio amico, Zake lo zoppo, aveva trovato rifugio in una camera abbandonata in prossimità dei motori al plasma. In principio tutti quanti lo invidiavamo: la stanza, seppure rumorosa, era isolata dal resto dell’astronave e dal momento che i membri dell'equipaggio sembravano evitarla correva meno rischi di noi di essere scoperto. Quando l'astronave ha fatto il balzo nell'iperspazio la camera dove lui si trovava è stata inondata di radiazioni. Il suo corpo è diventato

gonfio, si è ricoperto di pus e poi è esploso. È stato uno spettacolo orribile a vedersi, anche se Jack il pazzo, che una volta faceva il medico -o almeno così affermadice che il povero Zake non ha sentito niente, tanto veloce ed intensa è stata l’esposizione alle radiazioni. Fu un episodio che colpì profondamente tutti quanti noi abitatori delle stive e che ci rese più guardinghi, più attenti. Ma per quanto uno possa essere accorto, l'imprevisto è sempre dietro l'angolo. Come nel caso di Henry. Il povero Henry si era piazzato in un hangar contenente merci destinate a Lobros 9, un pianeta all'altra estremità della galassia. Normalmente un viaggio simile dura almeno cinque mesi, e lui era convinto che per quel periodo di tempo avrebbe potuto stare tranquillo. Senza contare che accanto a sé aveva cibo a volontà, fuoriuscito da un container che si era danneggiato durante l’imbarco. Purtroppo a metà viaggio la nostra astronave incrociò la rotta della “Acroyear”, anche lei diretta a Lobros 9. Il capitano, per ottimizzare i tempi di viaggio, decise di trasbordare la merce nella stiva dell'altro vascello e di tornare verso Garlion per una nuova commessa. Il trasbordo fu fatto nello spazio aperto, da motrici semoventi completamente automatizzate. Il povero Henry non aveva nessuna tuta spaziale e quando l'hangar si aprì lui finì risucchiato nello spazio.

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Forse in quell'occasione qualcuno lo vide; fatto sta che nei giorni seguenti delle pattuglie formate dai membri dell'equipaggio rastrellarono gli hangar. Ma per loro questi spazi erano luoghi pressoché sconosciuti, noi invece li conoscevamo a menadito e sapevamo dove nasconderci, dove rintanarci per eludere i fasci di luce delle torce elettriche. Nessuno di noi fu trovato, e nel giro di una settimana tutto tornò alla normalità. È vero, se avessero usato dei visori agli infrarossi o dei sensori termici avrebbero potuto scoprirci facilmente. Ma non lo hanno fatto. Il vecchio Rufus, che un tempo deve essere stato ingegnere spaziale o qualcosa di simile, dice che non si è trattato di imperizia o di una dimenticanza. Secondo lui non hanno usato questi mezzi perché altrimenti, oltre a noi, avrebbero scoperto qualcos'altro che non doveva esserci, nell'astronave. Magari merce di contrabbando, droghe, o l’amichetta di qualche ufficiale imbarcata di soppiatto. Forse ha ragione, forse no. Potrei scoprirlo, probabilmente, se volessi. Del resto il tempo non mi manca. Ma ho imparato, stando quaggiù, che se vuoi vivere tranquillo è meglio non immischiarsi in affari che non ti riguardano. In fondo, questa esistenza non è disprezzabile. La zona in prossimità del vano motori ha un calore costante che ci permette di colti-


vare piccole piante commestibili. Ricaviamo l'acqua dalla condensa che si forma nelle tubazioni dei condotti di raffreddamento. Non è molta, ma ci permette di vivere. I più fortunati riescono anche ad averne quel tanto che basta in più per coltivare delle piantine. Per il cibo ci si arrangia. Non è vero che le astronavi sono perfettamente sterilizzate e asettiche. Se ve l'hanno detto non credeteci; sono tutte balle. Anche all'interno delle astronavi vivono e prosperano piccoli instetti e parassiti. Alcuni addirittura hanno sviluppato un sistema circolatorio anaerobico che gli permette di sopravvivere anche nelle condizioni più estreme, come il vuoto dello spazio. Non sono male da mangiare, l'importante è farci l'abitudine. E vi assicuro che quando la fame vi stringe le budella e vi fa venire i crampi allo stomaco l'abitudine ce la si fa. Eccome. L'essere schizzinosi è l'ultimo dei vostri pensieri. Inoltre sono molto nutrienti. Non saziano, ma vi fanno avere quel tanto che basta di energia per tirare avanti. L'unica cosa che manca al nostro piccolo gruppo sono dei bambini. Pur con tutte le difficoltà del caso, potrebbero essercene, se volessimo. La nostra comunità è composta sia da uomini che da donne, e con il tempo si è anche formata qualche coppia. Il problema è che qui, nell'immensità dello

spazio, la forza di gravità è alquanto ridotta. Una condizione che potrebbe essere deleteria per eventuali bambini. Crescerebbero deboli, senza tono muscolare e con ossa estremamente fragili, inadatti a vivere su un pianeta a gravità normale. Sarebbero condannati per sempre ad un'esistenza da esuli dello spazio. Invece tutti quanti noi contiamo un giorno di poter tornare su un pianeta da poter chiamare casa. Circola una leggenda, fra di noi esuli dello spazio. Non si sa come sia nata; si mormora che sia stata trovata incisa in una barra di uranio esausto fuoriuscita da un motore in avaria. Dice che un giorno l'astrona-

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ve su cui viviamo raggiungerà un pianeta nuovo ed inesplorato, immacolato come doveva essere stata la nostra Terra milioni di anni fa. E lì l'astronave si fermerà, in panne, e non sarà più in grado di ripartire. E nessuno, tra i meccanici, gli ingegneri e gli scienziati che saranno a bordo sarà in grado di aggiustarla, né di lanciare un segnale di emergenza attraverso le spirali del cosmo. Allora noi potremo tornare alla luce, abbandonando i nostri nascondigli e riconquistare un posto in cui vivere. Ed un nuovo mondo si aprirà a noi, e una nuova razza di uomini potrà trovare il suo posto fra le stelle.


S ka n

Nella pancia del Drago

http://www.sulromanzo.it/redazione/andrea-atzori

Contenuto invisibile alla comunità non magica Blank page. Immaginate? Così doveva essere in principio questa puntata di Nella pancia del drago , in un dadaismo web 2.0 doveva presentare una pagina bianca. Contenuto invisibile alla comunità non magica. Farlo, però, avrebbe significato scaraventare impunemente voi fedeli lettori tra la calca della comunità non magica e, probabilmente, vedermi licenziato da Sul Romanzo . Però sarebbe stato figo, no? Vi sto mesmerizzando? Yes, benvenuti, perché in una rubrica (gastrica) di approfondimento fantasy non poteva mancare una puntata dedicata alla magia. Nelle precedenti puntate, abbiamo avuto modo di parlare di magia in relazione all’incanto letterario che in sé, partendo dal linguaggio e dal world building, sta alla base del fantasy come genere letterario, e l’abbiamo fatto in questi termini:

[…] La forza delle istanze del mito, la potenza archetipale dell’epica e dell’“hero journey”, era la stessa dell’ intrattenimento a bocca aperta attorno ai fuochi primordiali e non poteva a lungo essere costretta nelle anguste finestrelle di evasione all’interno delle novelle realiste. Aveva bisogno di uno spazio proprio, di un mondo, un pianeta, una dimensione a parte dove potersi esprimere; spazi in cui esplorare il noto sino ai suoi limiti e oltre, senza costrizioni, dove il nostro stesso sentirci umani avrebbe potuto essere messo alla prova senza ritegno perché posto di fronte al mostruoso, all’essenza della paura, all’idea della perfezione, alle infinite materializzazioni di come possiamo immaginare noi stessi, il modo in cui viviamo e sentiamo di vivere, reale nell’essenza proprio perché non più limitato nel vestito. Mimesi: magia. […] Se la narrazione fantastica, per i suoi artifizi stilistici e il modo in cui si rapporta al lettore, si potrebbe definire magia in sé e per sé, a maggior ragione lo è quando la magia si presenta anche come nucleo tematico della storia che si racconta. Il fantasy parla di magia, lo ha sempre fatto, sempre lo farà, perché è difficile poter anche solo concepire la fantasia, l’immaginazione, senza associare a esse l’incanto, il magico. Sono la stessa cosa. A questo punto un buon redattore di una rubrica di approfondimento critico sul fantasy vi dovrebbe parlare della differenza fondamentale che intercorre tra il sottogenere high-fantasy e quello low-fantasy. Non lo farò, sicuro che una breve escursione su Wikipedia possa soddisfare la vostra sete di conoscenza con illuminanti massime come la seguente:

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[…] caratteristico di questi generi [high fantasy] è il fatto che la vittoria finale non si ottiene con le armi, esse sono un aiuto ma non si può sconfiggere il Male con esse, altrimenti, se un personaggio uccide con un colpo di spada (o di un'altra arma) il principale cattivo questo diventa Heroic Fantasy, invece nell'High Fantasy si sconfigge il nemico con la magia. Ndr: estratto da “Seminario magico sui sottogeneri della letteratura fantastica, a cura di Gigio il Topo, compendium del saggio “come far sparire le virgole nel nulla”, raccolto posteriormente in “come uccidere un nemico con uno sputo: lo spit-fantasy. ”

Fantasy e magia, maghi e stregoni, eroi guerrieri con artefatti o armi magiche, antichi incantesimi destinati a sconfiggere il “male”, profezie che investono un prescelto tra le schiere del “bene” e via discorrendo. C’è un paradosso che, quando si tratta di magia, sembra accomunare la letteratura fantastica dalla novità fresca di stampa sino ai classici illustri, e per un amante del genere il rendersene conto non è facile. La magia appare niente più che come utensile. Ci avete mai fatto caso? Il protagonista, nelle varie fasi del suo viaggio, per riuscire a portare a compimento la propria “quest” – che sia questa sconfiggere un drago o affrontare i demoni del proprio passato – quasi sempre si serve di espedienti magici; essi però raramente sono il fulcro della storia. Paradossalmente, che il protagonista salvi il mondo con l’incantesimo supremo del bene assoluto o con un punteruolo arrugginito, da un punto di vista prettamente strutturale della narrazione, il risultato è il medesimo. Personaggio A ha bisogno di componente B per risolvere la situazione C. È un po’ triste rileggere la gran parte dei nostri romanzi preferiti sotto quest’ottica, ma essa di rado è incrinata. Cosa rimane di magico alla magia in questo modo? Poco, e la differenza, come sempre, la fa la sensibilità dello scrittore. Arrivo al punto. Ciò che mi ha portato ad

affrontare questo argomento è la lettura appena conclusa di un libro che porto alla vostra attenzione, il primo testo “contemporaneo” che si affaccia a questa rubrica che ha sempre trattato di teoria e classici del genere. No, non conosco di persona l’autore e no, l’editore non mi ha pagato. Si tratta soltanto di aver letto un libro, e di esserne stato travolto. Si tratta de L’età sottile, di Francesco Dimitri, edito da Salani (2013). Ora, l’Italia forse ancora non lo sa, e forse mai lo saprà, ma L’età sottile è uno dei romanzi più belli che abbia avuto la fortuna di ospitare nella sua lingua. Chi sono io per dire questo? Mr. Nessuno, e tanto basta. In questo libro, Francesco Dimitri, classe 1981, ha portato a compimento qualcosa che la letteratura italiana non ha mai visto e che raramente si è visto nella letteratura in sé: la magia come protagonista in un romanzo realista. Un paradosso? Sì, e come tutti i paradossi sussiste nonostante la contraddizione interna, e abbaglia, e atterrisce, ed esalta. In un delicato romanzo di formazione, un romanzo di adolescenza e di crescita tra le vacanze estive e una Roma invernale e cruda, la realtà si sfalda in brecce e ci lascia terrificati in attesa della prossima pagina. Niente draghi, niente Hogwarts – magico e non-magico separati in due mondi che si toccano appena –, ma soltanto persone, maghi come soltanto le persone possono diventare, and in this very reality. Dimitri attinge dalla millenaria tradizione magica, misterico-esoterica europea e la riversa sulle vite del suo protagonista sedicenne Gregorio e dei suoi amici, che ne verranno travolti come lo sono stati e lo saranno tutti coloro che affrontano il cammino di questa “arte”, ancor più se in un’”età sottile” come l’adolescenza. Nessuna fantasia nell’accezione “irreale” del termine, ma reali conoscenze tramandate, esperienze. Infrangendo tabù di presunta segretezza occulta e il fraintendimento della “comunità non-magica”, Dimitri prende la realtà in una mano, nell’altra la magia, e le schianta l’una

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contro l’altra. E diamine se trema la terra sotto i piedi e i peli sulle braccia si rizzano. La nostra visione del mondo è turbata nel profondo e non vi è più l’appello alla “fantasia” come evasione salvifica, no, vi è solo terrore e tremore e meraviglia di fronte all’ignoto, che pur non-conoscibile è assolutamente reale nei suoi abissi. Non mi credete? Leggetelo. Ne L’età sottile, al pari di “realtà” e “magia” anche due modi di concepire la letteratura, il realismo e il fantastico, si scontrano come placche tettoniche, e l’universo per un momento trattiene il respiro. E Dimitri è assolutamente consapevole di ciò che ha realizzato. Nessuno scrive un libro di questa portata per caso. Egli non potrebbe, però, che essere modesto e prudente, ed è perciò questo redattore entusiasta che fa il passo successivo. Nelle parole di Dimitri, nella sua opera miliare, voglio leggere un monito e una consapevolezza che questa rubrica ha cercato di portare alla luce più volte: il potere della letteratura fantastica, come della magia, è quello di salvare la realtà da se stessa. “Lo vedi, cosa succede nel mondo? Intere specie si estinguono; l’Occidente sprofonda, l’Oriente lo segue; i boschi scompaiono, le città perdono bellezza. È l’inizio di un’era terribile.” Levi fece una pausa. “Tu non hai idea di che cosa sia in arrivo. Serve qualcuno che porti avanti la torcia, quando io non ci sarò più.” “Eroi.” “No” rispose Levi, nettamente. “Noi non siamo mai gli eroi. […] Noi siamo quelli che consigliano gli eroi, che fanno il loro lavoro sporco. Noi siamo la voce dietro al trono: sempre Merlino, mai Artù.” Francesco Dimitri, L’età sottile Nella prossima puntata: L’invasione dei vampiri. La storia di quando i trend di mercato scompigliano i generi letterari e riformano il gusto del lettore. Ebbene sì, sono pallidi, tecnicamente morti, temono la luce del sole, le decapitazioni e i paletti nel cuore: e sono ovunque.

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Il libro sullo scaffale

A rn i s a n

Il Longobardo di Ugo Moriano Un romanzo di fantasia epica racchiuso all’interno di una cornice storica.

Attraverso le vicende della famiglia dei Duchi di Asti e dei loro antagonisti, vengono rivissuti gli ultimi mesi del Regno Longobardo e l’arrivo in Italia di Carlo Magno, Re dei Franchi; le battaglie che sostennero gli uomini di Asti; la fondazione di una nuova città in riva al mediterraneo. Travolti dagli eventi che cancellarono il popolo longobardo dalla geografia geopolitica del tempo, vittime di una serie di uccisioni che li falcidiarono uno ad uno, separati e dispersi dall’arrivo delle armate franche, i personaggi di questo racconto lottano per sopravvivere e ricongiungersi mentre il loro mondo sembra sgretolarsi e ogni loro certezza svanire. I loro avversari li impegneranno in una lotta senza quartiere, li braccheranno costringendoli a continui scontri, finendo però a loro volta travolti dalle vicende a cui partecipano. Questo libro racconta la fine di un’era, vista dagli occhi di coloro che ne usciranno sconfitti e annientati, ma è anche il racconto di una nuova nascita che coinciderà con la fondazione della città di Unheila che, molti secoli dopo, sarà conosciuta come Oneglia.

L'autore

Ugo Moriano è nato a Imperia nel 1959 e dal 1984 vive con la propria famiglia a Diano Marina in provincia di Imperia. Dopo aver lavorato per 12 anni nelle Ferrovie dello Stato, dal 1993 è un impiegato amministrativo del Comando dei Vigili del Fuoco di Imperia. L’amore per la lettura e l’interesse per la storia lo accompagnano fin dalla più giovane età. Dopo essersi cimentato per hobby, negli scorsi anni, in racconti pubblicati su comunità virtuali sul Web, nel 2008 esordisce nel mondo della carta stampata con il romanzo giallo: “Il ricordo ti può uccidere” a cui fanno seguito “L’Alpino disperso” (2009), “A Sanremo si gioca sporco” (2010), “Sospetti dal passato” (2011) e “L’arte del delitto” (2012) tutti editi dalla Fratelli Frilli Editori. Nel 2011 è stato pubblicato “Arnisan il longobardo” Nel 2012 “L’ultimo sogno longobardo” vincitore del 61° premio Selezione Bancarella 2013. Nel 2013 è stato pubblicato il romanzo fantasy “Il diamante di Kindanost” Nel dicembre del 2009 vede la luce anche il suo racconto gotico “Il Ritorno” e nella primavera del 2010, sul sito della biblioteca di Diano Marina, viene pubblicato il link ad un suo racconto umoristico intitolato La vera storia della scoperta del fuoco. Il suo sito: www.ugomoriano.it

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I Libri da rileggere Il Risveglio Di Erode di Greg Bear

Il paleontologo Mitch Rafelson è in Austria, dove viene portato in una grotta sulle Alpi in cui sono state trovate alcune mummie davvero particolari. Si tratta infatti di una coppia di neanderthal ma assieme a loro c’è una neonata che mostra caratteristiche degli esseri umani moderni. Kaye Lang è una genetista specializzata in endovirus che viene chiamata per studiare dei cadaveri ritrovati in una fossa comune nella Repubblica di Georgia. Inizialmente sembrava trattarsi di vittime risalenti all’epoca di Stalin ma risultano essere molto più recenti. Tra di esse ci sono neonati che mostrano caratteristiche anomale. Quando Lang cerca di approfondire lo studio, il governo locale manda via tutti gli stranieri sul luogo. Un’improvvisa impennata nella quantità di aborti spontanei porta il governo americano a creare un gruppo che indaghi sulle cause. Kaye Lang viene chiamata a farne parte e si rende Il risveglio di Erode conto che un endovirus potrebbe esserne la caudi Greg Bear sa. Il problema diventa più complesso quando lei e pochissimi altri pensano che non si tratti di una malattia ma di un meccanismo biologico più complesso legato all’evoluzione. In parecchi suoi romanzi, Greg Bear ha raccontato storie di eventi che hanno una proIl romanzo “Il risveglio di Erode” (“Darwin’s Radio”) di Greg Bear è stato pubblicato per la fonda influenza sulla storia del mondo, anche in prima volta nel 1999. Ha vinto il premio Nebula senso distruttivo. “Il risveglio di Erode” può sembrare inizialmente un altro romanzo di quecome miglior romanzo dell’anno. In Italia è stato pubblicato da anucci nel n. 1 di “Collezio- sto genere con la genetica come tema di base al ne Immaginario. Solaria” e nel n. 20 di “Tasca- posto della nanotecnologia. In realtà, ci sono differenze importanti. bili Immaginario”.

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Nei suoi precedenti romanzi più o meno catastrofici, c’era una minaccia esterna che poteva essere di natura aliena o un’invenzione con conseguenze inaspettate. “Il risveglio di Erode” propone invece quella che può essere considerata una minaccia per l’umanità che però viene dall’interno. Si tratta infatti di un endovirus, cioè di un virus o di un retrovirus che in un passato forse molto remoto è stato assorbito nel DNA di qualche antenato degli esseri umani. A causa dell’argomento, “Il risveglio di Erode” è un romanzo di fantascienza “hard” in cui il lato scientifico è basilare. Greg Bear scrive abitualmente quel tipo di fantascienza e in questo caso la scienza domina la storia in maniera forte anche per gli standard di quest’autore. In altri romanzi, Greg Bear inseriva elementi scientifici e tecnologici inventati, ne “Il risveglio di Erode” le informazioni sulle ricerche genetiche sono molto vicine alla realtà con basi reali. Ovviamente, c’è una notevole speculazione, uno dei punti forti di quest’autore, ma molti elementi sono scientifici, non fantascientifici. Greg Bear ha basato questo romanzo sull’effettiva esistenza degli endovirus ma anche su reali ricerche su sistemi biologici, cioè network che si applicano a organismi in cui più individui possono in qualche modo lavorare assieme. Un esempio tipico sono gli alveari ma ci sono altre ricerche che studiano ad esempio le dinamiche che nascono tra gli alberi di un bosco. Organismi diversi possono scambiarsi segnali biochimici anche complessi che possono portare a modifiche nel sistema. In questo romanzo l’idea è che un endovirus che per millenni rimane inattivo può riattivarsi e dare inizio a modifiche nel DNA degli esseri umani. In un tempo davvero breve, ciò può portare ad un salto evolutivo con una nuova specie che emerge in una sola generazione. “Il risveglio di Erode” ha forti basi scientifiche ma Greg Bear guarda sempre anche il lato umano delle

sue storie. In questo caso, le reazioni agli effetti dell’endovirus sono per lo più negative. L’umanità è disastrosamente impreparata a ciò che sta accadendo e in molti casi la conseguenza è che le madri e i figli mutanti vengono addirittura uccisi. Il governo americano cerca una cura a quella che viene considerata una malattia e le donne vengono progressivamente isolate in una quarantena sempre più allargata. Kaye Lang e pochissimi altri capiscono che in realtà l’endovirus ha effetti a lungo termine che non sono mortali, anzi portano alla nascita di una nuova specie vivente. Molti non credono a Kaye Lang, altri non vogliono crederle per vari motivi, molti altri non capiscono cosa stia succedendo perciò sono sempre più agitati. I governanti tendono a fornire solo le informazioni che ritengono utili, per il bene del popolo, s’intende. Le rassicurazioni ufficiali hanno però un effetto limitato. “Il risveglio di Erode” ha molti personaggi e onestamente solo quelli principali sono realmente sviluppati. Perfino alcuni personaggi importanti risentono dell’uso di qualche cliché: gli interessi personali, le paure e le paranoie di singoli personaggi dovrebbero rappresentare anche le reazioni di parti della popolazione ad un fenomeno globale davvero unico ma non sempre questo funziona. Un altro problema del romanzo è che il ritmo tende a essere lento. Questo è inevitabile in una storia in cui il lato scientifico è così approfondito ma capisco che per qualcuno una tale lettura possa diventare pesante. “Il risveglio di Erode” è lungo e, pur avendo un finale, lascia la vicenda di fondo aperta ad un seguito. Secondo me, “Il risveglio di Erode” contiene eccellente speculazioni scientifiche mentre è meno buono sotto gli altri punti di vista. I suoi pregi mi sembrano comunque maggiori dei difetti perciò se vi piacciono le storie di fantascienza “hard” ve ne consiglio la lettura.

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I Libri da Rileggere La Macchina della Realtà di W. Gibson e B. Sterling

La macchina della realtà di W. Gibson e B. Sterling

Il romanzo “La macchina della realtà” (“The Difference Engine”) di William Gibson e Bruce Sterling è stato pubblicato per la prima volta nel 1990. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nella collana “Altri Mondi”, nel n. 581 di “Bestellers Oscar”, nel n. 208 di “Piccola Biblioteca Oscar”, nel n. 287 dei “Classici Urania” e

nel n. 131 di “Urania Collezione”. Edward Mallory è un paleontologo che in una pausa tra i vari suoi viaggi è a Londra. In seguito ad un casuale incontro con Lady Ada Byron, la figlia del Primo Ministro britannico, viene coinvolto in un intrigo internazionale che ruota attorno al Modus, un programma su schede perforate che, utilizzato con una delle macchine sviluppate sui progetti di Charles Babbage, permette di vincere alle scommesse. Quando Edward Mallory viene in possesso del Modus, decide di proteggerlo dai tentativi di agenti ostili, sia aspiranti ribelli interni che stranieri, di rubarlo. Con l’aiuto di Laurence Oliphant, affronta gli attacchi diretti e indiretti del misterioso Capitano Swing, che vuole distruggere l’impero britannico. William Gibson e Bruce Sterling sono conosciuti soprattutto come maestri del cyberpunk ma tra i prodotti della loro collaborazione c’è questa storia alternativa degli sviluppi tecnologici nell’età vittoriana. Il sottogenere steampunk esisteva già da alcuni anni e spesso era una sorta di storia segreta che avveniva nella nostra linea temporale. “La macchina della realtà” è invece un’ucronia perché il prematuro sviluppo dell’informatica descritto nel romanzo ha notevoli conseguenze sulla storia del mondo. Il romanzo si basa su personaggi ed eventi reali perché Charles Babbage passò la vita

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cercando di sviluppare calcolatori sempre più sofisticati. Un grosso problema per lui era costituito dalla tecnologia dell’epoca, ancora non sufficientemente avanzata per poter costruire macchine così complicate e sofisticate. Cosa sarebbe successo se Babbage fosse riuscito a realizzare i suoi progetti? “La macchina della realtà” è ambientato principalmente nel 1855, circa trent’anni dopo che Charles Babbage è riuscito a costruire la macchina differenziale del titolo originale e anche la macchina analitica, ancora più sofisticata. La rivoluzione informatica che ne consegue ha profonde conseguenze non solo all’interno dell’impero britannico ma anche nel resto del mondo. In pochissimi decenni, l’impatto della rivoluzione informatica vittoriana è dal punto di vista sociale e politico molto maggiore di quella effettivamente avvenuta alla fine del XX secolo. Nel corso de “La macchina della realtà” vengono forniti moltissimi dettagli che pian piano ci offrono un quadro della situazione in quel mondo alternativo. Spesso le storie steampunk si concentrano sulle invenzioni tecnologiche, invece William Gibson e Bruce Sterling sviluppano “La macchina della realtà” in maniera più simile alle loro storie cyberpunk. La tecnologia alternativa è certamente importante ma non ci sono molti dettagli sui computer meccanici esistenti in quella storia alternativa. Al contrario, gli elementi sociali e politici sono descritti con molta attenzione. Anche i personaggi sono in parte sacrificati con uno sviluppo che è limitato, anche perché vengono visti in maniera distaccata, da un narratore almeno inizialmente misterioso. Il romanzo è

frammentato in varie parti e non in tutte i protagonisti sono gli stessi. Edward Mallory è il protagonista della vicenda principale ma, come la maggior parte degli altri personaggi, è succube di eventi che almeno inizialmente non comprende. Spesso, nel corso del romanzo, i personaggi con le loro azioni e le loro conversazioni sembrano messi lì solo per permettere agli autori di fornire altri dettagli su quel mondo alternativo. La conseguenza è una storia fortemente frammentata di cui si fatica a capire il senso e dal ritmo spesso lento. Alla fine, “La macchina della realtà” mi sembra un romanzo adatto soprattutto ai fan di fantascienza che sono anche appassionati dell’era vittoriana, che possono divertirsi a riconoscere le differenze rispetto alla storia reale. Ciò riguarda gli avvenimenti ma anche le vite dei personaggi storici inclusi nella storia, anche solo tramite citazioni. Personalmente, trovo “La macchina della realtà” sopravvalutata. Ha una reputazione controversa e non è adatto a tutti i gusti. Secondo me può piacere ai fan dello steampunk, di William Gibson e Bruce Sterling.

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I libri da rileggere Pianeta Stregato di D. Gerrold e L. Niven

Pianeta stregato

di D. Gerrold e L. Niven

Il romanzo “Pianeta stregato” (“The Flying Sorcerers”) di David Gerrold e Larry Niven è stato pubblicato per la prima volta nel 1970 con il titolo “The Misspelled Magishun” a puntate nella rivista “If” e come libro nel 1971. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nei nn. 1339 e 1601 di “Urania” nella traduzione di Maura Arduini.

La vita nel villaggio di Lant è andata avanti normalmente quando un giorno arriva un mago dallo strano aspetto su un uovo volante. Shoogar, il mago del villaggio, lo sfida a duello ma il nuovo arrivato non sembra molto interessato a lui ma solo a compiere strani riti qua e là. La sua lingua è sconosciuta ma grazie ad un sortilegio mai visto prima riesce più o meno a comunicare con i nativi e il suo nome sembra essere qualcosa di simile a Porpora. Shoogar, offesissimo dall’atteggiamento di Porpora, cerca vendetta e con l’aiuto di Lant riesce a distruggere il veicolo del mago avversario. L’esplosione che ne consegue causa una morte e distruzione nel villaggio, costringendo i superstiti a emigrare. Shoogar pensa di aver dimostrato la sua superiorità come mago ma Porpora non è morto. In questa collaborazione, David Gerrold e Larry Niven affrontano in maniera umoristica il tema dell’incontro tra una civiltà primitiva ed uno scienziato proveniente da una civiltà tecnologicamente avanzata. Il romanzo è raccontato in prima persona dal punto di vista di Lant, un abitante del villaggio la cui vita viene sconvolta dall’arrivo di un alieno. I nativi del pianeta hanno un livello tecnologico pre-industriale, credono in una serie di dei e la loro vita è basata su pratiche magiche, compiute dal mago del villaggio.

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Quando un alieno scende sul pianeta con una navicella a forma di uovo, è inevitabile che venga preso per un mago. Shoogar, il mago del villaggio di Lant, vuole dimostrare di essere migliore di Porpora, come l’alieno viene chiamato, e riesce a sabotare la sua navicella ma questo provoca enormi conseguenze per i nativi. Infatti, per raggiungere l’astronave interstellare in orbita, Porpora ha bisogno dell’aiuto dei nativi, che devono costruire macchine molto più avanzate di quelle anche solo concepite fino a quel momento. “Pianeta stregato” è basato sulle tante incomprensioni che nascono tra i nativi, che ragionano in termini di magia, e Porpora, che ragiona in termini scientifici. In particolare Shoogar è oltraggiato dal fatto che Porpora non crede negli dei e nelle pratiche magiche. Il mago pensa che Porpora lo stia imbrogliando perché per lui le tecnologie avanzatissime mostrate dal suo avversario sono forme di magia il cui funzionamento viene più volte mostrato. Porpora cerca a volte di spiegare ai nativi il funzionamento di alcuni principi scientifici ma nella maggior parte dei casi si rende conto che non hanno le basi. Quando deve ricorrere al loro aiuto, ogni nuovo lavoro da compiere richiede laboriose spiegazioni e spesso litigi con Shoogar, che non riesce a capirne il senso dal punto di vista magico. Il fatto che la storia sia raccontata dal punto di vista di Lant, che cerca di capire le azioni di Porpora dal punto di vista della magia, seppure aliena, è uno degli elementi che la rende divertente. La vita del suo villaggio cambia notevolmente a causa dell’alieno, anche dal punto di vista sociale. Ad esempio, tra i nativi le donne sono

di fatto schiave ma la necessità di una forza lavoro allargata le porterà ad acquisire alcuni diritti e ad avere perfino un nome, un fatto sconvolgente rispetto alle tradizioni locali. Le situazioni che si creano con le incomprensioni e i contrasti tra Porpora e i nativi, in particolare Shoogar, sono piuttosto divertenti anche se i personaggi tendono a essere caricature. A volte però gli eventi sono forzati e in certi casi sono invece piuttosto drammatici. Anche nelle commedie ci sono spesso momenti seri ma in “Pianeta stregato” non sempre c’è un buon equilibrio tra i vari elementi. Un altro fattore scherzoso di “Pianeta stregato” è nei nomi. La maggior parte sono riferimenti al mondo della fantascienza, dai soli del pianeta Virn e Ouells ai vari dei. Il vero nome di Porpora è un riferimento ad Isaac Asimov (as a mauve) che purtroppo viene perso nella traduzione italiana. La macchina volante costruita nel corso della storia contiene invece riferimenti storici. Il nome Cathawk è un riferimento a Kitty Hawk, dove i fratelli Wright fecero il loro primo volo. Essa viene assemblata dai due figli di Lant, Wilville e Orbur, i cui nomi rimischiano le sillabe di Orville e Wilbur, appunto i fratelli Wright. Complessivamente, secondo me “Pianeta stregato” è un romanzo abbastanza divertente ma nulla di eccezionale, anche come commedia. Se vi piace la fantascienza umoristica potete leggerlo ma non aspettatevi troppo.

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IL libro da tradurre The Android's Dream di John Scalzi

molto più potenti degli umani e, nonostante l’esistenza di trattati interstellari che coinvolgono molte specie, la situazione potrebbe degenerare in un conflitto armato. Una speranza per l’umanità è costituita da una cerimonia estremamente importante che presto segnerà la salita al potere di un nuovo leader Nidu. Fornire una pecora per la cerimonia verrebbe visto come un forte segno di amicizia ma si tratta di un animale di una razza molto speciale chiamata Android’s Dream. Una fazione Nidu avversa al nuovo leader è però riuscita a sterminare le pecore di quella razza e Harry Creek, un dipendente del Dipartimento di Stato davvero particolare, deve proteggere un “esemplare” davvero unico che contiene ancora il DNA di quella razza di pecore. John Scalzi è famoso in particolare per la The Android's Dream serie “Old Man’s War”, “The Android’s di John Scalzi Dream” è ambientato in un altro universo narrativo. Anche in questo caso gli esseri umani hanno a che fare con parecchie specie aliene ma i rapporti tra di esse sono regolati da trattati interstellari che li mantengono pacifici. Almeno in genere. Il romanzo “The Android’s Dream” di John Scalzi è stato pubblicato per la prima “The Android’s Dream” è concentrato sui rapporti tra umani e Nidu, due specie che volta nel 2006. È al momento inedito in ufficialmente sono alleate. I Nidu comuniItalia. cano anche tramite odori e un diplomatico I rapporti tra gli umani e i Nidu subiscono umano sfrutta tale caratteristica per provoun forte peggioramento quando un diplo- care in un collega Nidu una reazione matico umano provoca la morte di un talmente violenta da portarlo alla morte. Il collega Nidu. Gli alieni sono militarmente

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fatto che l’umano colpevole abbia utilizzato un apparecchio per emettere odori installato dove non batte il sole fa capire fin dall’inizio che questo romanzo contiene ampie dosi di umorismo. Un inizio del genere può far pensare che l’umorismo in “The Android’s Dream” sia rozzo, invece nel corso del romanzo si rivela decisamente sofisticato. La storia contiene diversi elementi satirici in cui momenti della politica terrestre del futuro sono ispirati da quella del recente passato. Anche la fantascienza stessa è inclusa, con riferimenti più o meno umoristici. Ad esempio, la razza di pecore chiamata Android’s Dream è un riferimento al romanzo di Philip K. Dick. Una religione futura che ha un ruolo importante nella storia è stata creata da uno scrittore riconosciuto come un truffatore. Nel romanzo appaiono ibridi umani-animali che sembrano arrivati da “L’isola del dottor Moreau” di H.G. Wells. Al centro della storia c’è però Harry Creek, un impiegato del Dipartimento di Stato il cui lavoro è in genere piuttosto tranquillo che invece finisce coinvolto in un intrigo interstellare. La sua avventura contiene parecchi elementi molto seri perché è un veterano di una terribile battaglia in cui è morto il suo migliore amico. La storia di Harry Creek alterna momenti di intensa azione in stile James Bond ad altri di introspezione. In entrambi i casi, viene assistito da una versione software del suo migliore amico, la cui mente era stata registrata prima di morire per attivarla successivamente in un sistema informatico.

John Scalzi mette assieme tutti questi elementi in una storia che è molto più di una semplice commedia fantascientifica. In “The Android’s Dream” ci sono tanti personaggi e non tutti hanno una gran profondità ma almeno i protagonisti sono ben sviluppati, con un passato che viene pian piano rivelato per comprendere meglio il loro presente. Inizialmente, il ritmo della storia è lento, con parecchie informazioni su personaggi e situazioni che aiutano il lettore a capire le basi del romanzo e del suo universo narrativo. Pian piano, il romanzo decolla e il ritmo diventa generalmente molto più rapido con parecchi momenti di azione davvero intensa. Alla fine, “The Android’s Dream” è un romanzo che offre più di quanto mi aspettassi. È davvero divertente, anche se a volte strappa qualche ghigno amaro, e spesso dà da pensare. Complessivamente è eccellente e ne consiglio la lettura.

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IL venditore dI pensieri usati La Fine dell'Eternita' di Isaac Asimov

Cari lettori, inizio col dire che per chi conosce Asimov questo titolo è già di per sé uno spoiler mostruoso. Per chi non lo conosce, invece, è un depistaggio non da poco. Il perché lo si capisce leggendo la prima pagina, quando si legge che il protagonista, col suo mezzo di trasporto, “stava sfrecciando in avanti lungo il corso dell’Eternità”. Eternità, con l’iniziale maiuscola. Capite? No? Beh, se non lo capite forse è meglio per voi. E’ un libro complesso, si apre con un linguaggio già farcito di termini specialistici appartenenti a una tecnologia a noi ancora ignota ma che impareremo ben presto a conoscere, una tecnologia con la quale ci si può spostare agevolmente nel tempo e nello spazio per modificare il corso degli eventi attraverso un “pozzo”, come viene chiamato, che per molti versi ricorda un wormhole. La storia ricorda un po’ “1984”, quando le alte cariche dei maxi continenti distruggevano i libri di storia e li facevano riscrivere dall’inizio secondo la necessità del momento, con la differenza che la cosa, ne “La fine dell’eternità”, non si limita alla carta stampata. Il racconto è incentrato attorno alla figura di Andrew Harlan, un “Tecnico”, che si innamora di una “Temporale”. Definiamo: un Tecnico è un tizio che fa parte della casta degli Eterni, vive nello spazio atemporale chiamato “Eternità”, è incaricato di modificare il tempo, di solito è una

persona fredda, evitata da tutti a causa del ruolo, e che non si lascia condizionare dall’emotività. Un Temporale è un individuo che vive nel mondo reale. Pian piano scopriamo cos’è il pozzo dell’eternità, a che cosa serve, come si usa e perché; parimenti conosciamo la storia passata del protagonista e l’avvenimento che dà il via agli eventi che si susseguiranno nel corso del romanzo. In due parole, come già dicevo più sopra, Harlan si innamora di questa tipa e, dato che ogni modifica al tempo cambia anche la coscienza delle persone, la porta via dal suo secolo prima che avvenga il cambiamento, cosa che per l’Eternità

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(la società degli Eterni) è considerata un “delitto”. La porta in uno dei secoli “proibiti”, in modo da non venire scoperto, ma qualcuno lo sta “Osservando” (termine tecnico) e riporta il tutto al Consiglio degli Anziani. Scopriremo più tardi che tutta la vicenda è pilotata da altri per uno scopo ben preciso, ma lascio a voi capire come, da chi e perché, altrimenti vi racconto anche l’ultimo terzo del libro e non vi resta nulla da leggere che io non vi abbia già rivelato. La penultima cosa che voglio dirvi è che, in questa parte, ci sarà un colpo di scena nel colpo di scena: quando vi troverete a dire ok, dall’impostazione del discorso è lampante dove andrà a parare, ebbene, vi dico che andrà a parare da tutt’altra parte. Eppure sembrava proprio, ero convinto che… Come al solito, Asimov affascina con le sue teorie, coi suoi mondi plausibili, in un universo, nel caso presente, slegato dalla realtà dei più noti cicli dei Robot, dell’Impero e delle Fondazioni. Letteralmente, e dato che l’Impero (qui inesistente) verrà menzionato, posso senza ombra di dubbio sostenere che si tratta di una realtà parallela. Possiamo definirlo un libro distopico anche se i mutamenti che avvengono servono a scongiurare catastrofi, appunto perché, anche se i singoli individui non se ne accorgono, le loro vite cambiano radicalmente: in una realtà una persona può essere sposata con figli, nell’altra potrebbe essere rimasta single, o essere già morta, o altro. E’ il concetto per cui il bene della collettività è più importante del bene del singolo individuo. Finale da brivido di cui non vi svelo nulla, tranne che parla della realtà in cui stiamo vivendo adesso. E’ impressionante come

Asimov riesca a fondere in modo appena percettibile realtà e finzione, rendendo possibile la realtà futura della storia appena letta. Bene, cari lettori. Allo stato attuale delle cose vorrei aver letto questo libro prima di aver cominciato il Ciclo delle Fondazioni, ma pazienza, tanto sono convinto che prima o poi leggerò tutto (o quasi) l’Universo futuro di Asimov, sapendo già che quando avrò finito mi resterà un senso di vuoto interiore, dato che non mi porterà più con sé nei suoi viaggi. Per fortuna, quel momento è ancora lontano. Spero di avervi incuriositi, come al solito, e vi auguro una buona lettura.

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Narrativa Interattiva

D a r ki s s 2

Finalmente on line l'atteso seguito del videogame horror di Marco Vallarino

1.081 giorni. È quanto hanno dovuto aspettare i fan di Darkiss per l'uscita della seconda parte del videogame horror firmato dallo “specialista” dell'interactive fiction Marco Vallarino. Una attesa lunghissima, iniziata il 5 gennaio 2011, con la pubblicazione sull'hosting di Volftp del primo capitolo “Il risveglio”, e terminata lo scorso 21 dicembre 2013, con l'arrivo di “Darkiss 2 – Viaggio all'inferno”, presentato in anteprima alla metà del mese da Horror Magazine e poi finalmente messo on line dal portale Programmigratis.org. Nel mezzo, oltre a innumerevoli recensioni di siti e giornali, presentazioni, studi dedicati al primo Darkiss, ci sono stati quasi 20.000 download che, insieme ai commenti entusiastici che hanno riempito i social network, hanno sancito che quello testuale, benché all'apparenza anacronistico, sia un genere tutt'altro che morto nel variegato mondo dei videogame. Si tratta in effetti di un tipo di intrattenimento molto coinvolgente, che non risente della sua “età”, soprattutto in un momento in cui i videogame “moderni” sono vittima, nei loro schemi e negli approcci agli utenti, di una fisiologica monotonia dettata dalla necessità di essere accessibili a un Se vi state appassionando alla scrittura delle avventure testuali e alla narrativa interattiva, non perdete il videocorso di Inform7 per principianti (in italiano) disponibile su YouTube Il canale si può raggiungere dal sito www.youtube.com/user/1001avventura

s i e t e p r on t i p e r u n viaggio all'inferno? di Martin Voigt

pubblico da un lato sempre più vasto, ma dall'altro disponibile a interessarsi al fenomeno solo in maniera superficiale. Così la piccola ma agguerrita comunità di autori italiani di interactive fiction va avanti per la sua strada, continuando a sfornare giochi nuovi – sia pure sporadicamente – e prendendosi addirittura il lusso di proporre, grazie alla ammirevole iniziativa di Leonardo Boselli, un videocorso su YouTube per imparare a programmare avventure testuali. Dopo l'incursione nel mondo della street art compiuta la scorsa estate con il gioco mainstream “Nel mondo di Ayon”, e il simpatico omaggio fatto agli amici della associazione Ludo Ergo Sum con la mini avventura dimostrativa “Salvate lo Stregatto!”, Vallarino è tornato in sella al suo “cavallo di battaglia” per proporre con Darkiss 2 un ambizioso mix di tradizione e innovazione, che il prossimo 24 gennaio sarà al centro di uno degli incontri in programma ai Videogame Design Days organizzati dal professor Piermarco Rosa alla Università di Genova, presso la facoltà di ingegneria elettronica in via dell'Opera Pia nella zona di Albaro. A differenza della precedente storia, ambientata in un claustrofobico sotterraneo disseminato di trappole micidiali, Darkiss 2 propone uno scenario di gioco più vasto e in buona parte all'aperto. Dopo aver ritrovato l'amata Lilith allo Yoshiwara Club, Martin Voigt riceverà dalla vampira madre l'incarico di recarsi nella dimensione infernale di Ovranilla, per incontrare le sacerdotesse del dio Valmar e ottenere il loro supporto nella attuazione del piano di conquista destinato a sottomettere l'intero genere umano alle forze delle tenebre. La missione di Martin si svolgerà quindi in uno scenario da incubo, tra intricate foreste, putride pa-

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ludi, oscure caverne, impervie montagne, desolate pianure e luoghi ancora più spaventosi, in cui sarà fondamentale imparare a padroneggiare le tecniche di trasformazione che permetteranno al vampiro di assumere la forma di pipistrello, lupo o nebbia per superare i tanti ostacoli che incontrerà sul suo cammino. In giro per Ovranilla, oltre a mostri ancora più potenti e malvagi di lui, Martin Voigt incontrerà anche qualche vecchia conoscenza. Non tutti però saranno disponibili ad aiutarlo a raggiungere i suoi sinistri scopi, e ci sarà pure qualcuno ansioso di regolare un conto in sospeso. Per trovare qualche prezioso alleato, il vampiro potrà comunque contare sulla capacità di ipnotizzare chiunque incroci il suo sguardo, un potere che gli permetterà di piegare alla sua volontà i bizzarri abitanti di Ovranilla per sfruttarne le particolari abilità. Chi riuscirà a terminare con successo l'avventura, tornando sano e salvo da Lilith, potrà visitare la sezione segreta del gioco e scrivere il proprio nome sulla pagina dello Yoshiwara Club. Chi invece dovesse rimanere bloccato potrà chiedere aiuto all'indirizzo dell'autore oppure sulla pagina Facebook del programma. Come per i precedenti giochi di Vallarino, la

pubblicazione di “Darkiss 2” ha proposto una gara di velocità con in palio cinque dvd per i primi che fossero riusciti a terminare con successo l'avventura chiedendo al massimo un aiuto. A riuscire in questa fantastica impresa, nel giro di circa 24 ore, sono stati in rigoroso ordine cronologico: Bryan Pierobon, Rosario Micalizzi, Luca Grauso, Chiara Presentini, Bartolo Guggino. Al momento la pagina dello Yoshiwara Club conta solo venticinque nomi, a fronte di circa 500 download, segno che il gioco si sta rivelando più difficile del previsto, nonostante gli aiuti che l'autore assicura di aver disseminato a piene mani nelle dettagliate descrizioni dei luoghi e degli oggetti dell'avventura. Tuttavia, a certificare la popolarità della serie di Darkiss e l'importanza che sta assumendo nella scena “indie” italiana, è giunto l'inserimento dei due giochi nello Zodiac Store, la vetrina elettronica allestita dallo staff del portale Adventure's Planet per promuovere i migliori videogame di stile vintage e “avventuroso” della scena internazionale. Per permettervi di entrare meglio nel terrificante spirito del gioco, eccovi un breve estratto di Darkiss 2, insieme all'indirizzo del nuovo sito ufficiale: http://darkiss.marcovallarino.it Ben ritrovato, Martin Voigt, principe della notte e re del terrore! Dopo aver terminato con successo la tua precedente avventura, hai raggiunto lo Yoshiwara Club, dove hai finalmente riabbracciato Lilith, la seducente vampira madre che più di mille anni fa ti aveva trasformato nel malefico mostro succhia sangue che ha seminato ovunque morte e distruzione. È stata lei, coi suoi straordinari poteri, a riportarti in vita, dopo che l'equipe di scienziati dell'occulto guidata dal professor Anderson era riuscita a penetrare nel tuo covo segreto, per ficcarti un paletto

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nel cuore. Una volta ripresa conoscenza, il tuo primo pensiero è stato di vendicare questo orribile e sconsiderato delitto. Lilith però ti ha rivelato di averti richiamato a sé per uno scopo più importante. La diabolica vampira sta radunando uno sterminato esercito di non morti in grado di dichiarare guerra all'intero genere umano, per instaurare sulla terra un regno di tenebre destinato a durare in eterno. Per avere la certezza della vittoria occorrerà trovare il modo di agire anche alla luce del sole, per evitare che gli umani, dopo aver fugato ogni dubbio sulla vostra effettiva esistenza, approfittino di questa vostra conclamata debolezza per distruggervi durante il giorno, mentre siete costretti al riposo. Interi millenni sono trascorsi senza che nessun vampiro sia riuscito a risolvere il problema, che condanna la vostra specie, a dispetto della sua enorme forza, a vivere nell'ombra. Ora però Lilith assicura di conoscere la soluzione, e tu sarai colui che passerà alla storia per aver spezzato questa terribile maledizione.

Per farlo, secondo le istruzioni della vampira madre, dovrai recarti nella dimensione infernale di Ovranilla, una terra d'incubo che ospita luoghi spaventosi ed è popolata da mostri ancora più malvagi di te. Sarà proprio un sortilegio di Lilith a permetterti di raggiungere questa landa maledetta, dove dimorano anche le sacerdotesse di Valmar: Carmilla, Millarca e Mircalla, deputate a custodire il pozzo profondissimo in cui si staglia il sole rosso che con i suoi otto raggi illumina le buie notti di tutti i vampiri. Tre temibili creature la cui crudeltà è superata solo dai loro immensi poteri, in grado di permettere anche a voi, figli prediletti dell'oscurità, di affrontare senza timore la luce del sole. Tuttavia, convincerle ad aiutarvi non sarà facile. Le tre arci vampire sono perfide e capricciose, a loro non interessa ciò che succede sulla terra, e solo portando con te dei doni appropriati riuscirai a ottenere il loro supporto. La stessa ricerca del tempio, che pare si trovi sul fondo di un burrone infestato da terribili spettri, sarà un'impresa. Inoltre, anche se i tuoi poteri di vampiro ti permetteranno di ipnotizzare chiunque incroci il tuo sguardo e trasformarti in pipistrello, lupo e nebbia a seconda delle necessità, a Ovranilla non sarai più immortale e, in caso di brutti incontri, potrai essere sia ferito che ucciso. Se alla fine riuscirai a compiere la tua missione, ricevendo dalle sacerdotesse il dono della resistenza ai raggi del sole, potrai tornare indietro tramite la parola magica "Ayon". Ora, mentre Lilith inizia a pronunciare arcane formule, chiudi gli occhi, Martin Voigt. Quando li riaprirai, non sarai più in sua compagnia, nel lussuoso scenario dello Yoshiwara Club, ma

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da solo, da qualche parte nella infernale dimensione di Ovranilla, pronto a iniziare la tua nuova, sanguinaria avventura.

Valle di lacrime Il pianto a dirotto dei dannati, diretti ai loro eterni tormenti, ha dato vita all'immondo pantano che ti circonda. Uno scenario raccapricciante, che una volta di più ti fa capire quanto sei stato fortunato a sfuggire alla morte grazie alla tua condizione di principe delle tenebre. A sud, l'acquitrino sconfina in una vera e propria palude, di cui già ora avverti il mefitico tanfo. A ovest puoi addentrarti in una tenebrosa foresta, a est un lungo sentiero conduce verso una desolata pianura, mentre a nord si erge un'alta montagna che, almeno per una buona parte, appare scalabile. >sud Palude dell'afflizione Anche se non hai più bisogno di respirare per vivere, i miasmi emanati da questa putrida distesa

di acqua e fango e dalla orripilante vegetazione che ci cresce sopra, ti giungono ugualmente al naso, dandoti il voltastomaco e arrivando quasi a dissipare la tua proverbiale brama di sangue. A sud, al di là di un banco di sabbie mobili, ti pare di scorgere un terreno più solido. Per uscire dalla palude invece puoi andare a nord, a est e a ovest. >sud Dubito che in questa forma riuscirai ad attraversare le sabbie mobili che ci sono a sud. >diventa nebbia Ti sei trasformato in una fitta nebbia grigiastra. >sud Isola dell'abbandono (come nebbia) Nel mezzo della palude dell'afflizione, hai raggiunto un solido isolotto di terra, che si staglia tra le sabbia mobili come un'oasi nel deserto. La putrescente vegetazione dell'acquitrino ti circonda da ogni parte, ma a nord vedi ancora la pista che, attraverso le sabbie mobili, ti ha condotto fino a qui. Nel cielo sopra di te, si staglia quello che a prima vista sembra un gigantesco uccello, e che invece è una arpia, ovvero una creatura infernale con le ali, le zampe e il corpo di un volatile e il volto di una donna. Volto spesso orripilante, ma che in questo caso è di rara bellezza, essendo quello della tua amante Sabrina Carter. Dopo essere stata sepolta viva dal professor Anderson nella sua stessa bara, e aver visto la sua salma bruciare tra le

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informazioni sulle sacerdotesse di Valmar. Il mostro che un tempo era stato una leggiadra fanciulla, da cui tutti i giorni bevevi sangue a fiumi, ti dice di non sapere nulla di Carmilla, Millarca e Mircalla. È da pochissimo tempo che si trova in questo scenario d'incubo, dove è stata scaraventata dopo che Osservandola bene, noti che porta in testa una ma- la sua salma ha preso fuoco nella bara. Non avendo più un corpo umano, si è reincarnata in questa orricabra corona fatta di piccole ossa. da arpia, che si aggira senza meta per i desolati scenari di Ovranilla. La sua unica consolazione >diventa vampiro pare sia la corona di ossa che ha trafugato a una delle streghe nere per auto incoronarsi "regina Hai riassunto le tue originali sembianze umane. dell'inferno". >chiama arpia >chiedi corona a Sabrina Non appena si sente chiamare per nome, l'arpia Chiedi a Sabrina di consegnarti la corona di ossa, guarda in basso e, vedendoti, riconosce subito il sostenendo che ti servirà per portare a termine la suo antico signore e padrone. missione. Lei però ti risponde che non si separerà mai da un cimelio di così grande valore, a meno «Martin!» esclama il mostro in un misto di gioia e che tu non le offra qualcosa di altrettanto prezioso. inquietudine. «Cosa ci fai qui? Non dirmi che ti >inventario hanno ucciso un'altra volta!» Non stai portando niente. Aspetti che Sabrina scenda verso di te e le racconti >diventa pipistrello della tua missione a Ovranilla, chiedendole Ti sei trasformato in un orrido pipistrello. >nord Non appena lasci l'isolotto, l'arpia Sabrina torna a volare nel cielo del palude. Palude dell'afflizione (come pipistrello) Anche se non hai più bisogno di respirare per vivere, i miasmi emanati da questa putrida distesa di acqua e fango e dalla orripilante vegetazione che ci cresce sopra, ti giungono fiamme dell'inferno, quando tu hai evocato il suo spirito nella tua precedente avventura, la ragazza deve essersi reincarnata in questo essere mostruoso, in vista di chissà quale altro supplizio.

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ugualmente al naso, dandoti il voltastomaco e arrivando quasi a dissipare la tua proverbiale brama di sangue. A sud, al di là di un banco di sabbie mobili, ti pare di scorgere un terreno più solido. Per uscire dalla palude invece puoi andare a nord, a est e a ovest.

capitato è così fitto che fatichi ad avanzare. Ora che ci sei dentro fino al collo, non ti sorprende che anche il sommo poeta Dante Alighieri si fosse smarrito in un posto del genere, ai tempi in cui scrisse la celebre Commedia, quando tu peraltro avevi già trecento anni suonati! Come un gigantesco serpente, il sottobosco sembra volerti avvolgere tra le sue spire verdastre, mentre i tronchi nodosi >ovest degli alberi somigliano ai volti di orribili mostri pronti a divorarti con acuminate fauci di legno. Per Brughiera dell'incubo (come pipistrello) uscire dalla foresta puoi andare a est, ovest, sud. A nord invece il cammino è bloccato dall'incombere La selva oscura, a nord, e la palude dell'afflizione, delle montagne del dolore. a est, confinano con una deprimente distesa di terreno incolto, che si estende a perdita d'occhio >esamina gli alberi senza mostrare alcunché di rilevante. L'assenza di ogni traccia di vita (e di morte) non impedisce co- Da quaggiù è veramente difficile orientarsi in munque a questo luogo di avere un aspetto oppri- mezzo alla vegetazione, per capire dove conducamente, come se nell'aria si celasse una presenza no i sentieri che si aprono nella boscaglia a sud, a malefica, che al momento opportuno uscirà allo est e a ovest. La luce della luna nera, che illumina scoperto per distruggerti. a suo modo il terrificante scenario di Ovranilla, filtra a malapena tra le chiome degli alti alberi >nord della selva, i cui tronchi nodosi somigliano ai volti di orribili mostri pronti a divorarti con acuminate Selva oscura (come pipistrello) fauci di legno. L'abominevole intrico di vegetazione in cui sei >ovest Cerchi di dirigerti verso ovest, ma la vegetazione della selva oscura è così intricata che finisci per perdere la strada, ritrovandoti in un luogo in cui forse non volevi andare... Valle di lacrime (come pipistrello) Il pianto a dirotto dei dannati, diretti ai loro eterni tormenti, ha dato vita all'immondo pantano che ti circonda. Uno scenario raccapricciante, che una volta di più ti fa capire quanto sei stato fortunato a sfuggire alla morte grazie alla tua condizione

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di principe delle tenebre. A sud, l'acquitrino sconfina in una vera e propria palude, di cui già ora avverti il mefitico tanfo. A ovest puoi addentrarti in una tenebrosa foresta, a est un lungo sentiero conduce verso una desolata pianura, mentre a nord si erge un'alta montagna che, almeno per una buona parte, appare scalabile. >vola a nord Montagne del dolore (come pipistrello) La sofferenza di chi è stato confinato quaggiù è tale da essere diventata una catena montuosa, che si estende a perdita d'occhio da est a ovest. La roccia trasuda dell'agonia di tutti quelli finiti a bruciare tra le fiamme dell'inferno, ma presto i vivi staranno peggio dei morti, dopo che tu e Lilith avrete trasformato il mondo nel vostro regno di terrore. Il costone su cui ti trovi dista poco dalla vetta, mentre in basso c'è l'impervio sentiero che scende verso la valle di lacrime.

nella stretta fenditura per addentrarti nelle viscere della montagna. Antro della paura (come nebbia) L'interno della montagna è, se possibile, ancora più terrificante dell'esterno. Un'atmosfera carica di sinistri presagi aleggia nell'ampia caverna in cui sei penetrato, mentre le ruvide pareti di roccia ti si stringono addosso come una camicia di forza. Qualcosa di terribile sta per succedere qui, e forse è meglio che ti prepari al peggio. Sai bene che a Ovranilla dimorano creature molto più potenti e malvagie di te, e uno di questi incontri potrebbe esserti fatale, se non saprai reagire con prontezza. A sud c'è la stretta fenditura che dà sul costone, che per il momento rappresenta l'unica via di uscita da questo luogo d'incubo.

Abbandonato qui c'è un cuore di tenebra! >prendi cuore Nella parete che hai davanti, puoi scorgere una stretta fenditura che si addentra a nord, nelle visce- Sai bene che in forma di nebbia puoi solo spostarti re delle montagna. in orizzontale a nord, sud, est, ovest. >esamina fenditura >diventa vampiro La fenditura dà su una grande caverna, nella quale Hai riassunto le tue originali sembianze umane. grazie alla tua super vista di vampiro, riesci a intravedere un misterioso oggetto. >prendi cuore Fai appena in tempo a toccare il cuore per >nord prenderlo, quando la caverna inizia a tremare. Grosse pietre si staccano dalle pareti e dal soffitto, La fenditura è troppo stretta perché tu possa mentre una densa nebbia grigiastra si alza da terra. entrarci in questa forma. “Lascia stare il mio tesoro!” sibila una voce nelle tenebre, prima che davanti a te si materializzi un >diventa nebbia orripilante demone dell'oscurità, col corpo ricoperto da disgustose squame antracite, artigli affilati Ti sei trasformato in una fitta nebbia grigiastra. come lame, grandi e malevoli occhi gialli, ed enormi fauci pronte a divorarti. >nord >continua su darkiss.marcovallarino.it/darkiss-2 In forma di nebbia non hai problemi a insinuarti

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S ka n Chi è Marianna Balducci?

VALE PIU' di mille parole A s i m ov R e la x i n g

Sono un’illustratrice, lavoro nella comunicazione e cerco di integrare questi due linguaggi in modo originale. Realizzo anche video di animazione in stopmotion, mi piace sperimentare combinazioni di grafica e fotografia. Sono un’artigiana: nonostante l’uso degli strumenti digitali, la manualità del disegno e la costruzione del racconto rimangono le fondamenta essenziali del mio lavoro. Sono laureata in moda (che mi appassiona perché rappresenta uno dei linguaggi più innovativi dei nostri tempi) e in questo ambito porto avanti il progetto ReeDo (cooperativa che sperimenta nel settore dell'autoproduzione e del riuso, nata dai corsi universitari di moda di Rimini). Amo la mia città, Rimini (e molti dei miei progetti disegnati partono proprio da lei), leggo Rodari come medicina per il cuore e i pensieri, raccolgo molti dei miei lavori (commissionati e personali) nel blog: www.marymarycomics.wordpress.com

@MariannaBal #chidisegna

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S ka n Neve di sangue

Il Lato Oscuro

Sol Weintraub

I kami del vento suonavano tristi bemolli tra i bambù del lago. Il profumo delle peonie rintuzza­ va l'odore della pioggia in arrivo: muschio, terra bagnata, stempe­ rati dalla nota sottile del miele di fiori. Seduta su un semplice zafu, nella pace del roji, Shurayuki si godeva quel momento di quiete perfetta. L'ikebana davanti a lei era composta di sette elementi, se­ condo lo stile rikka scimputai do­ ve i classici shin, shoe e hikae si armonizzavano alla perfezione con i principi universali: laddove ogni elemento trova la sua giu­ sta collocazione la pienezza non colma il vuoto, ma si armonizza con esso; è solo nel vuoto che i contorni delle cose si delineano con chiarezza, mostrando ogni cosa non come appare ma come realmente è alla sua origine. Eppure quel giorno la pace tardava ad arrivare. Anche i fiori sembravano muti, statue inani­ mate, perfette nelle forme ma privi di vita: diamanti nella neve. Gocce fredde le sfiorarono il vi­ so, illusione di lacrime.

più alta di Okinawa, al di fuori della cupola di contenimento, in omaggio al suo status sociale e come ringraziamento per il giu­ ramento di servizio; eppure, nel profondo, Yuki sapeva di dover ringraziare l'intercessione di Yo­ shinori per quel raro privilegio e questo era qualcosa che non poteva tollerare: non solo feriva il suo onore, ma le negava l'emancipazione dal samudaya, il dolore derivato dal possesso. Tuttavia, e di questo non manca­ Era stato l'Imperatore in persona va di colpevolizzarsi ogni giorno, ad onorarla di quello zendo, co­ sentiva la necessità di quel luo­ struito rispettando alla perfezio­ go al di fuori del tempo, dove ne regole architettoniche prece­ passato e futuro parevano sfio­ denti il Cataclisma, posto al rarsi senza potersi toccare. novantottesimo piano della torre Un luogo di silenzio e

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contemplazione, di attimo e di fatalità: un luogo simile a lei. Scalza, lo yukata bianco abbas­ sato sulla vita a lasciare nuda la parte superiore del corpo, percepiva le gocce di pioggia scivolarle lungo i capelli, sulla pelle bianca della schiena, giù per il collo e tra i seni; era in quei momenti di percezione sensoria­ le così estrema, nella meditazio­ ne così come nel kaulajnana, il sesso rituale, che avvertiva il senso di mancanza nella parte sinistra del corpo, dove la carne si insinuava nel metallo nero del braccio. Quell'arto artificiale, reattivo e letale, era al contempo insensi­


bile nella sua perfezione, così si­ mile ai fiori del kadō che aveva composto. Dov'era la pace? Un petalo si staccò dal calice gravido di pioggia: presagio di cambiamento violento. Capelli neri, pelle bianca. Odore di mandorle. Chiuse gli occhi.

gio nella perfezione della saggezza, sono privi di barriere mentali.

Pelle su pelle. Acciaio su pelle.

La voce di Shi­Tzu gli sgombrò la mente. Eppure ricordava. Riviveva ogni “La prima conquista dell'arte della spada è l'unità tra uomo e istante della fine attraverso gli spada. Quando la spada è occhi di sua madre. nell'uomo e l'uomo è nella spada Nata sangue impuro. Generata anche un filo d'erba è un'arma nell'odio. Forgiata nella affilata”. vendetta. L'essenza dell'Hoda­Korosu, la Memento e monito del tradi­ tecnica del nudo uccidere. La neve cadeva. mento. Un passo. Date Masamune, daimyo di Shurayuki. Neve di sangue. Con uno scatto fulmineo afferrò Oboro, maestro di guerra dell'imperatore, giaceva a terra Il suo senso di prossimità la mi­ la sottile peonia tra le dita, rila­ sciando al contempo il suo ki scomposto, in abiti da notte. Il se in allarme ancora prima che purificato dalla meditazione: corpo temprato dalla guerra e sbucassero dai bambù. Anche dalla disciplina profanato dal nel caos dei ricordi il suo occhio l'uomo non aveva neanche ini­ ziato a vibrare il colpo quando lo disonore di spade pagate con interiore ne percepiva, distinta, stelo gli trapassò il bulbo oculare l'oro di quello stesso signore l'essenza vitale. che, con una sola parola, Erano in cinque, spettri silenzio­ penetrando fino al cervello. Un sibilo nel vento. avrebbe avuto in dono la sua vi­ si, spietati come il passato che ta. ritorna; la pioggia battente scro­ Reagendo ad un ordine mentale il suo braccio meccanico si alzò sciava tra le foglie, inutile: non di scatto, proteggendola dai Rupan na prithak sunyata, su­ emettevano alcun rumore. dardi provenienti nyataya na prithag rupan. Soradanomi riposava nel toko­ da sinistra. La forma non è distinta dal vuo­ noma, poco oltre il portico. to, il vuoto non è distinto dalla Troppo distante, almeno per ora. ­ In linea di massima, a proposi­ forma. Yuki tenne gli occhi chiusi, senza to della battaglia, l'attacco diretto mira al coinvolgimento; quello di smettere di recitare il sutra. sorpresa alla vittoria. Visioni di un passato che non Meno di venti metri, sgombri, in poteva conoscere, non poteva Na duhkha samudaya niroda linea retta, la separavano dal to­ ricordare. marga. konoma e dalla sua spada: Yuki Colui che avrebbe dovuto es­ Non vi è sofferenza, né causa, si voltò verso destra ed iniziò a serle padre, ucciso prima ancora né liberazione, né via che vi correre in fronte al nemico. di concepirla. conduca. I due uomini erano ben equi­ paggiati: combat suit tattiche a Perle bianche imprigionate tra Quattro, due per lato, tra i rifrazione, resistenti e flessibili; sopracciglia folte, inarcate su giunchi. Uno alle sue spalle, il respiratori, cristalli anti­radiazio­ occhi immobili, spalancati. Occhi primo da eliminare. ni, katane monofilari sinto­vi­ fissi anche di fronte alla morte. Un tuono lontano scosse l'aria. Gli avevano strappato la vita, Rullante tamburo tra i flauti delle branti: Shikimoribito, spettri della morte, sicari imperiali. senza poterne scalfire l'onore. canne nel vento. La voce del lama­drago di Hisu­ Dieci passi. ka­Oru le urlava dal fragore del Gate gate, paragate, para­ Acqua su acqua. Acqua sulla cielo: “La seconda conquista è sangate boghi savha. pelle. che la spada è assente nella sua I Bodhisattvha, prendendo rifu­ Cinque passi.

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mano,ma è presente nel suo cuore: anche a mani nude egli può abbattere il proprio nemi­ co”. Il primo assassino, colto alla sprovvista da quell'attacco improvviso tentò un rapido affondo, perfetto e, per questo, banale. Sfruttando lo slancio sull'erba fangosa della riva Yu­ ki si lasciò scivolare in basso, appena un centimetro sotto l'arco della lama, portando al contempo un colpo a mano aperta nella zona del perineo: ancora una volta il ki della gio­ vane ronin eruppe all'esterno, disgregando il muladhara cha­ kra dell'avversario. La risposta del secondo arrivò fulminea, dal basso verso l'alto. Nella frazione di un attimo svuotò la mente da ogni pensiero. Un vento caldo agitava i rami dei ciliegi nella festa di Hana­ mi, saturando l'aria di petali: neve rossa, neve di sangue. Nell'eternità dell'attimo il tempo si ritrasse per poi espandersi nell'infinito. Con un lamento di voce spezzata la spada incontrò la pioggia. Yuki era già lontana.

due imperatori aveva visto ra­ ramente una tecnica simile, unita al contempo alla grazia ultraterrena dei movimenti: Shurayuki, la ronin di Minamo, prima discepola del leggenda­ rio monaco­drago Shi­Tzu Ochinori, il maestro delle lanterne. La foschia si era infittita, inghiottendo anche la terra ai suoi piedi. Lontano, oltre il mare di nubi, cadeva la pioggia. Una voce di donna ruppe il si­ lenzio. Parole sussurrate senza direzione. “La conquista finale dell'arte della spada è l'assenza dell'arma nella mente e nel cuore. La mente aperta contiene tutto. Il maestro dello iaijutsu non uccide, e porta pace all'umanità”. L'ultimo pensiero dell'assassi­ no fu il recidersi di un fiore. L'ikebana giaceva scomposto ai piedi dello zafu, gli steli spezzati nella pioggia battente. Yuki chiuse gli occhi e sorrise. In quel disordine trovava la pace.

erbacce; dentro, un indescrivi­ bile disordine. Nulla, insomma, di quell’armonia che è l’espressione esterna di un perfetto equilibrio interiore. Vedendo, accucciato in un angolo, un uomo intento a scrivere, il monaco gli do­ mandò: “Sei tu che scrivi poesie Zen?”, sperando gli ri­ spondesse di no. “Si, perché?”, gli rispose invece l’uomo. “Perché è impossibile. Io, che pratico da tanti anni lo Zen, so quanta fatica, e rigore, e disci­ plina mi richieda. E a quanta armonia tutto ciò conduca”. “Il fatto che tu viva lo Zen può forse impedirmi che io lo canti?”, gli rispose l’uomo. Il monaco ritornò sui suoi passi. Lontano gli sorrideva il Fujiyama, dicendogli che una vetta si può raggiungere per infinite vie.

Nota dell'autore: Più che un racconto, una rivisitazione in chiave cyberpunk. Omaggio al piccolo capolavoro del 1972 di Kazuo Koike e Kazuo Kami­ mura, Lady Snowblood (Shu­ Un monaco Zen, alla costante rayukihime nell'originale). ricerca della perfezione, ebbe Da questo manga, vera e pro­ un giorno fra le mani alcune La nebbia giunse improvvisa pria perla per gli amanti del come un presagio taciuto e nel poesie in perfetto stile Zen. pulp, il regista Fujita Toshiya “Chi le scrive dev’essere roji non rimasero che ombre. ha tratto, nel 1974, il film molto più avanti di me sulla via omonimo, principale ispiratore Yokimushi Toshika, kagemu­ sha degli shikimoribito, attivò i della sapienza”, si disse. E del più recente Kill Bill di volle sapere chi ne fosse l’au­ Quentin Tarantino. sinto­sensi della sua tuta da tore. incursione sussurrando al Gli fu dato un indirizzo. Vi tro­ contempo ordini in codice nel vò una casupola malconcia, vox. In trentasei anni al servizio di con un giardino pieno di

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AMAZING MAGAZINE

S k a n n a t o i o e d i z i o n e XXV D i m e n ti c a r e i l fu tu r o

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La XXV edizione ha visto il ritorno, per breve tempo, di Jackie alla conduzione. Dopo l'inizio della gara master_runta, il nuovo moderatore, ha preso in mano la situazione e lo Skannatoio ha ripreso vigore, con la sola battuta d'arresto di uno speciale con pochi partecipanti. Si è anche deciso di concludere il Campionato autunno-inverno del 2013 con questa edizione per ripartire a gennaio con il nuovo regolamento. Le Specifiche dell'edizione regolare Lunghezza. Minima: 2.500 caratteri. Massima: 25.000 caratteri (spazi inclusi, escluso il titolo). Genere: horror, giallo, fantastico e relativi sottogeneri. Particolarità: a) Il/la protagonista, a un certo punto del racconto, deve avere una chiara visione del futuro, in particolare di un evento per lui/lei, o per la comunità a cui appartiene, fortemente negativo. Come riesca ad averla (se attraverso una sfera di cristallo, oppure per mezzo di una "telecamera del tempo", un sogno premonitore, l'assunzione di peyote, o qualt'altro) è lasciato alla vostra immaginazione. b) Nel racconto dovrà essere descritta una scena in cui il/la protagonista si troverà appesa a una o più funi. Fune va inteso in senso lato, infatti sono accettabili

S k a n n a t o i o s p e c i a l e XXV V e n t i qu a t t r ' o r e s e n za te s ta

le funi di un paracadute, la corda di una forca, ma anche lenzuola annodate e così via. Come potrete leggere nelle prossime pagine, in questa edizione si è tenuto il Giorno del Giudizio. Il critico invitato a sottoporre i racconti ai propri insindacabili giudizi è stato il TETRA. Invece, come di consueto, per lo speciale di ventiquattr'ore sono stati selezionati più temi a scelta. Dato che si è deciso di non tenere più con regolarità gli speciali dello Skannatoio a metà del mese, a meno di occasioni particolari, questa è stata l'ultima edizione. Purtroppo il basso numero di partecipanti non ha consentito che venisse considerata ai fini della classifica del Campionato. Le Specifiche dell'edizione speciale 1) Gli autori dovranno scrivere un racconto tra i 1.000 e i 5.000 caratteri (spazi inclusi, estremi inclusi). Nessuna restrizione di genere per questa edizione (sempre prosa, però). 2) Il tema di questo mese è: e se invece... (realtà alternative, cosa sarebbe successo se quella volta le cose fossero andate diversamente?) si caldeggia la massima libertà interpretativa da parte degli autori. 3) Nel racconto dovrà comparire un personaggio senza testa (può essere un personaggio reale o immaginario, apparire in carne e ossa - o ectoplasma - o essere anche solo il soggetto di un'opera d'arte, eccetera). Anche qui, massima libertà interpretativa da parte degli autori.

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S ka n

mentre apriva il rubinetto del lavello, «non ne potrà più delle tue dita che gli martellano lo schermo. Dai, molla lì e dammi una mano». Alice si alzò da tavola, prese lo «Okay, okay. Arrivo». smartphone e sedette sul diva- «Pausa caffè!» cinguettò Sereno a gambe incrociate, le dita na alzandosi dalla scrivania. che tamburellavano veloci sul «Alice, vieni anche tu?» touch-screen. voglio finire questi pre«Un giorno o l'altro te lo butto «No, ventivi» rispose, indicando una nell'immondizia quell'affare» pila di fogli alla sua destra. disse sua madre. «Alza il sede- «Non li sopporto più, voglio tore da lì e aiutami a sparecchia- gliermeli dalle scatole al più re, su». presto. Però ho fame, mi prendi Alice sbuffò. una merendina alla macchi«Oh, mamma. Sai che ti aiuto netta? Quella al cocco e cioccosempre, fammi solo controllare lato, se c'è». la posta». «Alla faccia della dieta» rise «La prossima volta che mi chiedi di ospitarti per la pausa Serena. fece spallucce. «Già che pranzo, prima ti faccio firmare Alice non ho il moroso, mi consolo un contratto con cui ti obbligo con le endorfine cacao». a tenere spenta quella trappo- Aprì la borsetta edel prese dal la». portafogli una moneta da un Un suono di campanelli Euro per Serena. L'occhio le interruppe la conversazione. cadde sul display illuminato del «Cos'hai, pure le renne di telefonino. Lo prese e notò che Babbo Natale lì dentro?» cinque messaggi non «Spiritosa, mamma. Mi è solo aveva letti, l'ultimo arrivato pochi searrivato un messaggio...» condi prima. Alice passò il dito sull'icona a Come era avvenuto già a casa forma di busta e vide un di sua mamma, anche in questi rettangolo scuro. mittente era invisibile. «Oh, è un MMS» disse. «Una il«No, non dirmi che ti sei foto, credo. Ma non si vede un impazzito davvero» disse al suo tubo...» Samsung. «Non ho voglia di «Chi lo ha mandato?» all'assistenza». «Boh? La riga dove dovrebbe portarti Aprì il primo messaggio. Di comparire il numero è in nuovo, in allegato c'era una fobianco. Mi sa che il telefono è to completamente nera. Lo eliandato un po' in tilt». minò e aprì il secondo, anch'es«Ti credo» disse la mamma, so accompagnato da un

Futuro prossimo

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rettangolo scuro. Ma qui c'era qualcosa di diverso. Ora nella foto si distingueva una forma, delle linee appena visibili; era come osservare una lastra radiografica senza metterla in controluce. Cancellò anche quel messaggio e passò al terzo. Qui le linee nella foto erano più distinte. Scorse una forma vagamente umana che sembrava seduta. Non ne vide le braccia, ma racchiusi in un ovale chiaro c'erano due fori scuri che potevano essere solo occhi. «Ma che diavolo...» «Cosa succede?» chiese Serena, posandole accanto una barretta avvolta in carta bianca e azzurra. «Non so, mi arrivano strani messaggi. Guarda». Alice le mostrò le foto successive. «Cos'è, una persona, quella lì?» disse Serena indicando la figura al centro. «Credo di sì. E dietro sembra... mah, un furgoncino o un trattore... non capisco». «Ma chi te li manda?» «Non ne ho idea» disse Alice. Bloccò lo schermo del telefono e rimise l'apparecchio nella borsa. «Non c'è nessun numero di telefono. Forse è qualcuno che mi vuole fare uno scherzo». «Sì, ma che scherzo cretino...» Alice scartò la barretta e ne addentò un morso. «Non so» disse con la bocca impastata dal cioccolato. «Se continuano


ad arrivare, domani porto il telefono in assistenza. Magari si è incasinato il software...» «La tecnologia» commentò Serena. «Guarda» aggiunse, tirando fuori dalla borsetta un vecchio Nokia blu scuro «con il mio di sicuro non mi ritrovo strane foto. In compenso posso creare le mie suonerie! In tuo onore potrei comporre la colonna sonora di Psycho». Alice sorrise. «Ne faccio a meno, ma grazie per il pensiero». La via era buia, illuminata da un unico lampione. Quegli ultimi trecento metri della strada tra l'ufficio e casa sua la mettevano sempre in ansia. Non durante la stagione estiva, con il sole che illuminava ogni cosa intorno a lei; ma l'estate era ora solo un bel ricordo e l'oscurità silenziosa che la circondava, rotta solo dal ticchettio ritmico dei suoi passi sull'asfalto, la spingeva a camminare spedita, con l'orecchio teso ad ogni rumore sospetto. A un tratto, attutito ma perfettamente udibile, si sparse nell'aria fredda un tintinnio continuo e insistente. Alice aprì la borsetta e prese il cellulare. Dieci messaggi non letti. Undici. Dodici. Il trillo non smetteva, i messaggi arrivavano uno dietro l'altro. La cosa iniziava a stancarla e, a questo punto, anche a intimorirla.

Per un attimo fu tentata di cestinare tutto e spegnere il telefono. Poi però uno strano senso di superstizione le fece cambiare idea. Si fermò a pochi passi dal solitario lampione e aprì i messaggi, uno per uno. Una dopo l'altra, le foto acquistavano nitidezza. Il veicolo sullo sfondo era davvero un furgoncino. La vernice verde era scrostata in più punti e il parabrezza era percorso da una crepa simile a un fulmine; era parcheggiato al centro di quello che pareva un capannone, o forse una stalla. Sopra il furgone si notava un soppalco cui era possibile accedere mediante una scala a pioli sulla sinistra. A destra del mezzo, sotto il soppalco, c'era un piccolo banco da lavoro con alcuni sacchi di iuta, misteriosi flaconcini e una piccola falce. Ma la protagonista della composizione era indubbiamente la persona al centro, poggiata con la schiena contro il parafanghi del veicolo. Con sgomento crescente Alice aveva iniziato a capire che si trattava di una ragazza. Una ragazza con una felpa rosa e jeans grigi. Come in un sogno, aveva ripensato a quella mattina. Mentre chiudeva la lampo dei jeans, era rimasta con la testa reclinata di fronte all'armadio, indecisa se indossare il maglione blu scuro o la felpa color confetto che aveva comprato a New York l'anno prima.

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Beh, è venerdì, aveva pensato,

e aveva optato quindi per un abbigliamento più sportivo. La mano con cui teneva il cellulare, quando arrivò alla decima foto – o forse era l'undicesima, ormai aveva perso il conto – iniziò a tremare. I lineamenti della giovane erano ora ben visibili. Lineamenti che lei conosceva bene: li vedeva ogni giorno. Sul collo della ragazza, subito sotto la linea del mento, c'era una cicatrice. Alice alzò le dita a sfiorarsi la gola; dove fino a quindici giorni prima aveva avuto una piccola cisti, ora c'era un cerchio irregolare di pelle nuova. «Che razza di stronzata è mai questa...» «Buonasera, principessa». La voce, che giungeva da dietro le sue spalle, le strappò un grido. «Non ti spaventare. Dimmi, dove vai di bello?» Alice non rispose. Aumentò il passo, cercando con lo sguardo i fari di qualche auto in avvicinamento. Ovviamente, non ne vide. «Ehi, ti ho fatto una domanda». Una mano brusca l'afferrò per il braccio e la obbligò a voltarsi. Il proprietario della voce, un ragazzo corpulento che poteva avere pressapoco la sua stessa età, la stava fissando. Un angolo della bocca era leggermente sollevato in un ghigno, gli occhi nascosti dietro lenti piuttosto spesse.


«Ho appena mandato un messaggio al mio ragazzo» mentì Alice, e infilò il cellulare nella tasca della giacca. «Sarà qui a momenti. Lasciami andare». «Davvero? Beh, penso che non ti troverà». Alice ebbe il tempo di vedere un movimento rapido alla sua sinistra. Poi un forte dolore scoppiò su quel lato del volto e il mondo si fermò. C'era uno strano odore. Come di muffa, di cose vecchie. Le ricordava quello che aleggiava nella cantina del nonno. Aprì gli occhi. La luce era scarsa ma le ferì le retine come un flash. La testa pulsava, un dolore che partiva dalla tempia sinistra e scendeva giù fino alle mandibole. Cercò di coprirsi gli occhi con le mani ma non le riuscì di muovere le braccia. Qualcosa le bloccava dietro la schiena. Si trovava in un capannone. Tentò di alzare la testa. Dal soffitto pendevano diverse lampade al neon, una luce fredda e fastidiosa. Alice era seduta su un sudicio pavimento di cemento, coperto di macchie d'olio e segatura. La schiena poggiava contro qualcosa di duro e scomodo. Riuscì a piegare il collo all'indietro, ignorando la dolorosa sensazione di avere piombo fuso al posto del cervello, e vide con orrore che si trattava di un furgoncino verde. Un furgoncino vecchio e arrugginito con il parabrezza incrinato

da una crepa simile a un fulmine. «Ti sei svegliata, principessa?» Alice sussultò. Il ragazzo che l'aveva portata lì era appena uscito da una porta all'altro capo del capannone. Si incamminò verso di lei piano, zoppicando in maniera vistosa. «Ne sono felice. Finalmente ora posso portarti nel mio castello». «Lasciami andare, per favore» lo supplicò lei. Lui continuò a camminare, fino ad arrivare di fronte a lei. Crespi capelli biondi uscivano da un malandato berretto blu; un graffio piuttosto recente gli deturpava la guancia destra rendendolo simile a un malandato pirata. Si chinò a fatica e le prese il mento tra le dita. «Oh, no. Non ho fatto tutta questa fatica per niente. La principessa precedente è stata costretta ad andarsene, quindi ora devi prendere il suo posto. Oh, a proposito» aggiunse, «il mio nome è Gaston. Cioè, non è sul serio il mio nome, ma mi piace molto più di quello vero. E tu come ti chiami?» Alice restò in silenzio. «Non importa. Me lo dirai prima o poi». 'Gaston' si rialzò in piedi, poi aiutò Alice a fare altrettanto. «Ora ti libero le mani» le disse. «Purtroppo l'altra principessa è stata cattiva; mi ha fatto cadere dal castello e ora come puoi vedere ho qualche difficoltà a muovermi. Non riuscirei a portarti fin lassù. Perlomeno» aggiunse con una strizzata d'occhio, «non tutta intera. Quindi devi salire la scala

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da sola» disse, indicando con la testa lo spazio alle spalle di Alice. Lei ripensò alle foto e ricordò il soppalco al di sopra del furgone. Si sentì mancare. Le viscere erano un groviglio urlante, la testa le pareva imbottita di cotone. Le foto erano state una premonizione. Uno sguardo al suo prossimo futuro. Se solo lei fosse stata in grado di decifrarne il senso... Il falcetto! Pensò ad un tratto. Giusto. Su un lato del furgoncino c'era un tavolino con sopra una piccola roncola. Se fosse riuscita a prenderla... «Cosa c'è, principessa?» disse Gaston. «Ti si sono illuminati gli occhi. Cos'è, ti è venuta una bella idea? Vuoi far felice il tuo Gaston, eh?» Alice tentò di reprimere un'ondata di disgusto. Facendo fondo a tutta la propria forza di volontà, si costrinse a sorridergli. «Beh, s-sì...» disse, nel contempo sforzandosi di ricordare dove fosse il tavolino, se a destra o a sinistra del furgone. Destra... sinistra... destra... sinistra.... era una cosa elementare, ma lo stesso si sentiva confusa. Gaston intanto aveva portato le mani dietro la schiena in un ripugnante abbraccio e stava sciogliendo i nodi che le tenevano bloccati i polsi. Destra.... sinistra... destra... sinistra... Destra! Era a destra!

Nell'istante in cui le sue braccia furono libere, afferrò le spalle di Gaston e lo colpì in mezzo alle gambe con il ginocchio, con tutta


la forza che aveva. Gaston si piegò in due e cadde all'indietro urlando. Alice con uno scatto si girò verso destra e corse verso il tavolino... ma trovò invece la scala per il soppalco. Idiota! Il panico, e forse la botta alla testa, le avevano giocato uno scherzo crudele. Crudele e probabilmente mortale. Il tavolo era a destra del furgone, guardando la foto. Ciò significava che lei sarebbe dovuta correre verso sinistra. Non riusciva a credere di aver commesso un errore così assurdo. Si fermò per un istante a vagliare le sue opzioni. Scappare verso l'altro lato del capannone era impensabile. Sarebbe dovuta passare accanto a Gaston e lui l'avrebbe afferrata senza difficoltà. Anche se si stava contorcendo a terra, avrebbe potuto allungare una mano e riuscire a bloccarla lo stesso. A dividerla dall'unica arma a sua disposizione c'era il furgone. La sua sola speranza era provare a salire sul soppalco. Forse avrebbe trovato un'apertura da cui fuggire. Si arrampicò in fretta e furia sulla scala. Il soppalco era pieno di funi arrotolate e grandi casse di legno. Alice fece girare lo sguardo intorno e quando gli occhi si posarono sull'angolo in fondo a destra le scappò un grido. Una serie di lumini elettrici, quelli di solito usati nei campo-

santi, circondava un materasso gonfiabile ricoperto da un plaid scozzese sgualcito. Sopra la coperta, Alice vide una gonna di lana e un maglioncino, entrambi imbrattati da una sostanza scura. Di fianco al materasso c'erano diversi sacchi della spazzatura accatastati l'un l'altro. Da uno strappo in quello in cima fuoriusciva una lunga ciocca di capelli rossi. Alice ricordò di aver letto un articolo sul giornale locale riguardante una ragazza scomparsa di casa alcuni giorni prima. Gli inquirenti pensavano fosse scappata di casa in seguito a una lite con i genitori. Ma forse la sfortunata aveva subito un destino ben peggiore. «Hai trovato la mia prima principessa, eh?» gemette Gaston. «Come ti ho detto» proseguì, la voce roca e strascicata, «è stata piuttosto cattiva. Speravo che tu non dovessi fare la sua stessa fine, ma temo sarà proprio quello che ti succederà». Alice alzò lo sguardo velato dalle lacrime verso la parete dietro al materasso. E la vide. Una finestra. Piccola e chiusa da un vetro sporco e pieno di ragnatele, ma ai suoi occhi un cancello verso la salvezza. Si mise a correre, pensando che avrebbe potuto usare una delle corde lì intorno per calarsi fino a... All'improvviso, un piede rimase incastrato in uno dei rotoli di funi e Alice perse l'equilibrio. Cadde

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in avanti, andando a sbattere contro uno scatolone. L'urto la fece indietreggiare. Il tacco della scarpa finì oltre il bordo del soppalco e lei precipitò. Cadde nel vuoto aspettandosi uno schianto che non avvenne. Sentì invece un dolore improvviso e lancinante alla gamba sinistra. Il piede le era rimasto incastrato nelle funi. Il peso del suo corpo, nella caduta, doveva aver spezzato la caviglia; ma la corda le aveva impedito di sfracellarsi al suolo. Appesa a testa in giù, Alice vide Gaston avvicinarsi. La sua zoppia si era di molto accentuata; il volto era rosso e gli occhi sporgenti, mentre una mano era premuta con forza fra le gambe; ma la sua andatura, seppur lenta, era costante. Alice doveva riuscire a tornare sul soppalco. L'unica via di fuga era quella piccola finestra. Tentò di fare forza sui muscoli addominali per alzare il busto e afferrare la corda con cui arrampicarsi verso una possibile salvezza; ma lo scarso allenamento e il dolore alla gamba le impedivano di riuscire nell'impresa. Fu allora che si ricordò il tavolino. Si voltò e vide che si trovava a vicinissimo a lei. Allungò il braccio destro, ma le sue dita ne sfiorarono appena il bordo. Alla sua sinistra c'era il furgoncino. Vi si appoggiò con la mano e si diede una spinta verso destra; il suo corpo iniziò a ondeggiare come un pendolo. Ma non era ancora


abbastanza. «Cosa vuoi fare?» disse Gaston, ormai a pochi passi da lei. Alice si diede un'altra spinta e questa volta riuscì ad afferrare il bordo del tavolo. Il falcetto era a pochi centimetri. Fece forza sulle dita e con un gemito di dolore riuscì a spostarsi verso il tavolo e ad afferrarne il bordo con entrambe le mani. «Cosa diavolo stai facendo?» gridò Gaston, e accelerò il passo. Alice afferrò il falcetto nell'istante in cui l'ombra di Gaston si proiettava sul ripiano di legno. Ruotò su se stessa alla cieca, allungando il braccio destro e urlando a squarciagola. Il movimento le liberò il piede dall'intrico della corda e Alice piombò sul sudicio pavimento. Davanti agli occhi scoppiarono bolle scure e tutto fu buio.

cante di vermiglio, giaceva a pochi centimetri da lui. Alice si mise carponi. Le faceva male la schiena e la testa faticava a tenersi salda sul collo. Ma voleva raggiungere quei campanelli. Ne seguì il suono gattonando come una bimbetta. A terra, Accanto alla porta da cui Gaston aveva fatto la sua entrata, trovò la sua giacca. Frugò nella tasca destra e prese lo smartphone. Non stavano arrivando altri messaggi. Era una chiamata. Non c'era numero di telefono, ma Alice pensava di sapere lo stesso di chi si trattava. Rispose, ma dall'altro capo non si udirono voci. Sentiva solo un respiro, sincronizzato alla perfezione con il suo. Alice piegò le labbra in un sorriso ed ebbe la certezza, assurda Suono insistente di campanelli. ma incontrovertibile, che anche il Alice aprì gli occhi. suo muto interlocutore avesse Si trovava nel capannone. Tutto appena fatto la stessa cosa. era silenzioso, tranne quello In quell'istante, il collegamento si scampanellio continuo. interruppe. Di qualunque natura Cercò di alzarsi, ma la caviglia fosse la forza misteriosa entrata implose in un dolore accecante e in gioco quel giorno, aveva ormai Alice ricadde a terra. portato a termine con successo la Si portò le mani al volto e vide propria missione. con sgomento che erano ricoperte di sangue. Allora spostò lo sguardo davanti a sé. E lo vide. Gaston era a terra, il ventre squarciato da un taglio in diagonale. Il sangue usciva ancora a piccoli fiotti dalla devastante ferita. La lama della roncola, lucci-

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Il Giudizio del TETRA

Eccomi qui. Jackie mi ha precettato per il Giorno del Giudizio, ex-Giorno del Panda, ex-Giorno della Victoria (che d'altra parte non si è mai tenuto). Da chi iniziare? Cosa c'è di meglio se non un racconto dal titolo "Futuro prossimo", visto che si parla di "dimenticare il futuro"? Quando ho pensato alle specifiche... (aperta parentesi) ricordo come fosse ora la Jackie disperata che mi diceva che la Vic l'aveva mollata su due piedi e che aveva bisogno di solide specifiche per non far fuggire i pochi aficionados e che da lì a poco sarebbe iniziata l'edizione regolare e che di certo avevo in mente qualcosa (chiusa parentesi e tiro fiato)... ho subito immaginato che spesso occorre lasciarsi alle spalle il passato per andare avanti, perciò sarebbe stato interessante parlare di qualcuno che invece avrebbe voluto dimenticare il futuro. Nelle specifiche ho evitato di essere troppo... specifico, benché sperassi che qualcuno mi leggesse nel pensiero, ispirato dal titolo. Rispondenza alle specifiche. Nel caso di willow78 questo non è avvenuto. La visione del futuro non è stata qualcosa che la protagonista avrebbe voluto dimenticare. Per giunta la visione è rimasta oscura fino a quando gli eventi sono precipitati. Anche nel seguito del rocambolesco tentati-


vo di fuga, gli elementi desunti dalle foto giunte per MMS sono stati in gran parte inutili ed è poco verosimile che la protagonista abbia notato tutti quei particolari da una foto sullo schermo di un cellulare, anche se fosse stato il Galaxy Mega. In conclusione, i misteriosi MMS, che costituiscono la visione richiesta, sembrano solo un pretesto (necessario perché le specifiche lo richiedevano) per raccontare una storia tipica dei vari "Criminal Minds" e affini, ma non sfociano in una vera fonte d'ispirazione per qualcosa di originale. Comunque può darsi che sia solo rimasto deluso per un finale che non spiega in alcun modo l'origine degli MMS. Non sono contro i finali aperti, ma la trovata degli MMS dal futuro avrebbe forse meritato un finale più avvincente di una comunicazione che si interrompe. Per quanto riguarda la richiesta di una protagonista appesa a una fune, il compito è stato svolto con cura, facendo della scena appesa a un filo uno dei momenti più convincenti del racconto.

stempera la tensione nel cliché: il "già visto" rovina la sorpresa di qualcosa che si preannunciava, in qualche modo, originale.

sulta un testo in cui le azioni si svolgono come al rallentatore, con pause eccessive, mentre la scena avrebbe richiesto velocità. Comunque, tanto per Il flusso dei pensieri. Ho trovato contraddirmi, ho trovato efficace un'altra debolezza del racconto la scena a testa in giù. Le oscillanell'elaborata narrazione di ciò zioni, l'annaspare verso l'arma, il che passava nella testa confusa colpo alla cieca, forse proprio della protagonista durante la perché non spiegati per filo e per concitata fuga. Si insiste sul fatto segno, mi sono sembrati ben resi. che fosse provata dal colpo subito (per trovare una giustificazione Originalità. L'ho già detto: non nell'errore della scelta del lato del si esce dai cliché se non per la furgone), ma allo stesso tempo si trovata degli MMS dal futuro racconta tutta una serie di ragio- (anche se mi ricordano qualcosa namenti che rallentano l'azione. che, in questo momento, non so Trovo che molte cose potevano ben definire). Peccato che ciò che essere lasciate all'immaginazione rappresenta un possibile tocco di del lettore, senza essere spiegate originalità rimanga inespresso, in modo esplicito, lasciate intuire come se non si sapesse dove attraverso lo svolgersi degli andare a parare. eventi. Per spiegarmi meglio Chi era il misterioso interlocutore faccio un esempio: all'altro capo dell'etereo filo? Il tavolo era a destra del furgone, Perché ha deciso di intervenire in guardando la foto. Ciò significa- questo caso e non per altre vittiva che lei sarebbe dovuta correre me, per esempio quelle delle verso sinistra. puntate di "Criminal Minds"? C'è Non riusciva a credere di aver qualche legame con la figura, commesso un errore così assurdo. alquanto imbranata, di Gaston? E Si fermò per un istante a vagliare perché Gaston cercava la sua le sue opzioni. "principessa"? Quale dramma S'era capito benissimo che cosa (infantile?) si nasconde dietro al La suspense. Per quanto si sia aveva sbagliato e perché. Nel pa- suo "modus operandi"? tentato di creare attesa e nico non fai errori per poi cercare Insomma, tante domande che poapprensione con l'arrivo degli una spiegazione di cosa ti ha trebbero ispirare possibili sviMMS in contesti ordinari, quali tratto in inganno, ma soprattutto luppi di una storia che meritel'ambiente familiare e di lavoro, non ti fermi a vagliare le opzioni! rebbe più respiro e un finale con la tensione non sale se non M'è sembrato di sentir pensare un colpo di scena come si deve. quando si scopre che nelle foto è Sheldon Cooper! ritratta la stessa protagonista. In conclusione, il ritmo della Voto: 6+. Peccato che immediatamente ci narrazione risente della volontà sia l'incontro col serial killer che di voler descrivere tutto. Ne ri-

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La piastrella rotta

Sta rientrando a casa, in questo momento. Spero che non calpesterà proprio me, accidenti. Non ho passato trent’anni da queste parti per farmi spaccare in due proprio ora. Nessun essere vivente sta pensando, sul fondo della tromba delle scale, quindi non è il caso di spaventarsi. Del resto, cosa c’è di vivo, in una piastrella esagonale uscita da una fabbrica che non esiste neppure più? A parte il sangue del suicida che ho assorbito per restare integra. Mi è caduto sopra di testa, dopo aver bruciato le corde che i compaesani hanno usato per sottoporlo alla Prova della Verità. Certo, che essere sospesi sulla tromba delle scale del palazzo in cui si vive solo per essere sospettati di aver rubato un po’ d’acqua è qualcosa di assurdo….a meno di non essere finiti nella Stagione Secca. E non è un’estate normale, di quelle torride che poi vengono annegate dai temporali agostani. Magari. So che si tratta di una vera e propria stagione. Lo dice anche il titolo sul libretto di appunti della persona che viveva sullo stesso

pianerottolo del suicida: Stagione Secca. Per parecchi motivi, l’inquilina era evitata dalle altre due famiglie del palazzo. Sembrava portasse male. C’era qualcosa, nel suo atteggiamento, che faceva presagire il disastro che avrebbe colpito Pian di Nespola di lì a poco. Fu questo che disse prima di morire il dirimpettaio della donna, prima che gli altri si convincessero che non aveva rubato lui la tanica dei De Regibus:” Forse ha trovato il modo per sottrarsi alla minaccia di vedersi portare via la casa. Io la capisco bene. Andarsene da un posto dopo trent’anni solo perché non risulti nell’elenco degli utenti della fornitura d’acqua del palazzo, è troppo”. Lo è anche per me come piastrella. Mi piaceva il tocco della cara signorina Tollini. Portava calzature un po’ fuori moda, ma c’era qualcosa di gentile nel suo tocco. Quando toccava a lei pulire le scale, faceva molta attenzione a non rovinarmi. Sono a forma di esagono e con un decoro di nastri da marinaio neri su fondo sabbia. Non per vantarmi, ma sono sempre piaciuta agli inquilini dell’epoca chic. Ora sembra così lontana, ma la colpa non è di nessuno. Ho sentito alcuni inquilini lamentarsi con i visitatori della signorina.

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I suoi appunti hanno attirato il povero Gianni al suo destino di morte, ma non è vero. Quella della Tollini è stata una premonizione: se si è rifugiata nella storia della Stagione Secca è stato perché ha sentito prima degli altri che l’acqua sarebbe scarseggiata e non sapeva come rimediare al disastro incombente. Poteva solo testimoniare la paura che incombeva a ogni giro della manopola dei rubinetti. Per me cominciò con il suo ultimo turno nel lavare le scale. Usò meno acqua, perché aveva cominciato a non essercene più come prima: da un estremo all’altro. Prima le scale erano troppo umide e io avevo parecchio da bere, i miei colori restavano vividi come quando mi collocarono qui il primo giorno. Certo i vicini si lamentavano, perché di acqua ce n’era troppa e le scale rimanevano scivolose. Venne il giorno in cui non trovarono più nulla da ridire, ma si diradarono anche i bucati e nella tromba delle scale si sentiva. Me ne accorsi anch’io, da come mi calpestavano: portavano sempre più polvere da fuori e i sandali e gli infradito mi davano fastidio. C’era sentore di siccità. E io sapevo che la situazione non sarebbe migliorata. La Tollini non mi dava fastidio, anche se non era messa


meglio degli altri, quanto a igiene. Sentivo il dispiacere che provava, quando saliva le scale. Il suo passo era diventato leggero come la polvere che portava con sé, anzi, mi sembrava fatta di polvere lei stessa, ormai. Viveva in un mondo tutto suo: per sfuggire alla siccità che aveva appena cominciato a divorare la cittadina, si era immersa nella sua storia. Io non ho certo potuto seguirla nei suoi spostamenti, mi ricordo soltanto l’ultimo giorno in cui mi calpestò. Mi sussurrò qualcosa tipo:” Serba la memoria di quello che hai visto per quelli che verranno a vivere nel mio alloggio. Colpa di quello che ha visto sul quaderno. Non so da dove mi sia venuto quel disegno, né le parole che lo seguono, non so cosa voglia dire che l’acqua verrà con il sangue di un innocente…e lui mi ha fatto da portavoce, con il risultato che sappiamo. Penzola ancora sospeso nella tromba delle scale…non posso restare a fissarlo, mentre oscilla e sanguina. Ho ancora la testa confusa per le poche note che sono seguite, parlano di acqua e Guarda Fiume, non so bene in che ordine”. A quel punto si chinò e accarezzò il punto in cui il sangue si era coagulato, sgorgando dai legacci troppo stretti. La paura e la sete, messe insieme, lo avevano stroncato. Solo i suoi giudici erano

ancora vivi, pur se rinsecchiti come pergamene di antichi codici legali e i loro piedi non stavano meglio. Quanto alla tanica, non fu lui a rubarla, lo giuro, per quel che può valere la testimonianza di una piastrella. La prese la Tollini, ma lo fece a fin di bene. Fu lei a metterla sul pianerottolo del terzo piano, dopo aver spalancato la finestra che dava sulle scale. A suo parere, avrebbe attirato la salvezza su di noi e io la sto ancora aspettando. Nessuno ha chiuso la finestra e la tanica è ancora lì. Vuota. Lo so perché stamattina uno dei bambini del terzo piano l’ha urtata e il rimbombo della plastica vuota è echeggiato per tutta la tromba delle scale. Un’accusa? No, una speranza. Come lo so? Dalla testimonianza di Gianni. Quarantotto ore prima. Gianni, il dirimpettaio della Tollini, bussò alla porta:- Signorina? È ancora lì? Si sbrighi, se non vuole perdere la sua parte di acqua. La donna socchiuse l’uscio e diede un’occhiata distratta alla tanica che il giovane si trascinava dietro. Era piena per più di metà. La donna non si spostò. Aveva un accappatoio verde

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scuro che mise immediatamente sete a Gianni. Gli faceva pensare alla menta fredda dei ghiaccioli. Si dominò:- Come le dicevo… - La mia parte, certo. L’ultimo giro è riservato ai De Regibus. Non la voglio e neppure loro dovrebbero prenderla. Ho sentito dell’acqua scorrere, da loro. - Come vuole. Io scendo di sotto da loro e… La Tollini lo fermò. - A me non dia nulla. - Come? - Mi ha sentito bene. Non la voglio. In compenso, dopo aver posato la tanica al loro piano, venga a trovarmi. Gianni eseguì quello che era un ordine perentorio della matura signorina. Posò la tanica al quinto piano. Pensò che per i De Regibus non ci sarebbero stati problemi a trovarla. Gli altri inquilini li aveva approvvigionati tutti lui, che abitava al piano vicino al rifornimento dell’acqua. Non si trattava solo di buon vicinato. Al sesto piano pendevano le corde della Prova della Verità. Chi sarebbe stato anche solo sospettato di furto avrebbe oscillato nel vuoto, costretto a confessare. Un metodo molto persuasivo. Era funzionato con il vicino del quarto piano, colpevole di aver rovesciato una mezza bottiglia d’acqua: malestro


che aveva tentato di riparare rubandone l’equivalente dal bidone di rifornimento generale. Gianni era stato costretto a dirlo a tutti. E il povero colpevole aveva deciso di mandare i familiari, di lì in avanti, a prendere l’acqua. La mezz’ora passata a oscillare nel vuoto aveva fatto sulla sua memoria lo stesso effetto di un bel ghiacciolo nella gola. Di situazioni come quella, la cittadina abbondava, ma era il loro palazzo quello dove le cose andavano peggio. Il giovane, dopo aver posato la tanica, si sentì apostrofare dalla Tollini per l’ennesima volta:- Ha finito? Venga subito. Obbedì all’istante. Quella donna aveva un modo di fare autorevole. Pensò che doveva essere stata un’insegnante o una studiosa. Nessuno degli inquilini la conosceva, perché era arrivata da poco nella a Piana delle Nespole. Si era portata dietro parecchi libri, alcuni con illustrazioni degli uccelli chiamati Guarda Fiume e aveva un’aria scontrosa. Fino a quando c’era stata l’acqua, tuttavia, i vicini non avevano avuto alcun motivo di lagnarsi di lei. Rispettava il turno di pulizia delle scale senza protestare e non faceva rumore. Qualcuno aveva ridacchiato per quel motivo.

Cosa faceva a parte le faccende di casa e le commissioni una volta alla settimana? Leggeva tutto il tempo? Visite non ne riceveva mai. Poi era cominciata la Stagione Secca e allora aveva cominciato ad accodarsi anche lei con gli altri per ricevere la sua parte di acqua. Anche in quei frangenti, tuttavia, non aveva mai perso la calma. Da come si comportava, sembrava che la siccità fosse un contrattempo che si sarebbe risolto presto. Gli altri erano disperati. Soprattutto Gianni. Testimonianza di Gianni, il dirimpettaio della signorina Tollini:” Mi permetto di aggiungere poche note al disegno della mia vicina. Ho capito che cosa ha rappresentato. È il capo stormo che ci porterà fuori dalla Stagione Secca. A me, che, ho sempre letto molto, è sembrata la frase di apertura di un romanzo dell’orrore. Sì, la tipica invenzione fantastica dove all’orrore dell’acqua che scarseggia si può reagire blandendo creature in grado di trovarla. Prima ne ho riso e ora, no, non posso più farlo. Ho sempre temuto le catastrofi. Dalle nostre parti, ci sono state alluvioni. In questo caso, dobbiamo guardarci dall’opposto. Altro che temere muri di acqua limacciosa che travolgono tutto. Il fiume ha cominciato a prosciugarsi,

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lasciando esposti prima gli isolotti e poi i pietroni e lo stesso ha cominciato a succedere all’acquedotto. Poco per volta. La Stagione Secca non ha fretta di imporsi. Come le altre quattro, si è manifestata per gradi. Prima con la calura interminabile. Poi con le nubi scure che non scaricano la pioggia ma fanno rumore e sprizzano qualche saetta qua e là. Infine, è venuta la polvere, che si insinua nei giardini e avvizzisce i prati prima del tempo. E io ho lasciato la tanica al quinto piano per i De Regibus. Poi sono sceso dalla signorina. Lo giuro ancora adesso, non mi pento di aver gridato quelle parole contro i miei accusatori. Domani è la Prova della Verità e io spero che le corde reggano, dopo che hanno sopportato il peso di Lauri, messo a dondolare lì come cavia, per farlo pentire del primo furto: si è salvato, perché non è il tipo dell’innocente da sacrificare. Nel mio caso…devo restare appeso per tutta la durata della prova…povero me, sennò. Mi toglieranno dall’alloggio accanto al rifornimento dell’acqua e dovrò tornare da mia cugina….questo lo dico a mia discolpa. So come si può rimediare alla


Stagione Secca. Leggendo le ultime righe degli appunti della Tollis, ho trovato la soluzione: riportare indietro i Guarda Fiume. Poverini. Il sindaco li ha scacciati dai loro canneti con la scusa che davano fastidio ai turisti con le loro voci stridule e i loro nidi. Ma l’acqua la dobbiamo a loro. La chiamano e in loro assenza, moriremo tutti di sete. In cambio vogliono solo un po’ di pace e di tranquillità. Una volta mio zio ne salvò uno piccolo. Lo aveva trovato, andando a pescare. Aveva un’ala rotta ed era orfano, ma lui lo fece guarire e lo tenne in solaio, lasciandogli aperto il finestrino sul muro. Così, quando fosse guarito, sarebbe potuto tornare dai suoi simili. Non lo fece mai del tutto. Neppure quando morì lo zio. Tornò qualche volta nel solaio. Io sapevo di quest’amico pennuto dello zio, ma vivo lui, non andai mai lassù a vederlo. Era un uccello selvatico, malgrado fosse grato allo zio e abbastanza intelligente da non fare rumore. Non avevo idea di come avrebbe reagito vedendomi: non sono certo pettirossi, quelli. Sono alti un metro e hanno un piumaggio multicolore. Da lontano sembrano buffi, con i pennacchi e le lunghe code, ma hanno becchi lunghi e sanno acchiappare pesci molto grossi. Li ho riconosciuti, dalle descrizioni della Tollis: lei ha chiamati

Telikah, dal verso che fanno per chiamarsi fra loro all’alba. Non c’è niente di soprannaturale nella sua storia, anche se a prima vista non si direbbe. Infatti lei non vuole farne un libro, ma solo un avvertimento per i condomini, la cittadina e chissà dove altro. Il nostro sindaco non è stato l’unico a scacciarli e il fiume lambisce molte città. Ho capito come fare leggendo l’ultima riga. La Tollis immagina che gli uccelli si siano estinti senza lasciare resti. A parte quelli del capo stormo. Ossa e piume. Sono stato in solaio. C’erano. Chi avrebbe detto che il vecchio amico pennuto dello zio sarebbe venuto a morire qui? Eppure lo ha fatto, senza lasciare odore, a parte quello dell’acqua. L’ho detto alla Tollis, che mi ha congedato, dicendo che serve acqua per il rituale che richiamerà in vita il capo stormo dei suoi appunti. Non sa cosa voglia dire, è venuta qui con l’urgenza di scriverli e nient’altro. Attende una risposta. Io so cosa fare. Non busserò alla porta dei De Regibus…e penserò all’uccello del disegno, è il ritratto dell’amico di mio zio”. Un paio di giorni dopo piovve, il temporale partì dal punto del fiume dove l’addetto alla stazione meteorologica controllò l’ultima volta la colonnina con la carta e il pennino che avrebbero dovuto registrare le precipitazioni.

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Vide passare la donna poco lontano. Si era infilata fra i canneti. Poi, sentì grida rauche e vide salire verso il cielo due Guarda Fiume. Qualche minuto dopo, si accorse delle prime gocce che cadevano.

Il Giudizio del TETRA

Avevo sentito dire che Alexandra è la penna più veloce dello Skannatoio, ed è vero. Peccato che la velocità non paghi: lo Skannatoio non è una gara a chi posta per primo. Perché non sfruttare i giorni a disposizione per costruire meglio la storia, colmare le lacune ed eliminare i refusi? Le antipatiche specifiche! Lo ribadisco, è antipatico. Diciamo sempre che le specifiche sono spunti d'ispirazione più che vincoli da seguire alla lettera. D'altra parte i "paletti" sono lì, in bella mostra nel post d'apertura, anche per evitare che si ricicli materiale già pronto. L'idea è semplice: offrire la possibilità di scrivere qualcosa di nuovo in una sola settimana, per avere un veloce riscontro da parte degli altri concorrenti e far crescere la propria creatura affinché cammini da


sola, più matura, verso altri concorsi. In ogni caso le specifiche ci sono e andrebbero rispettate per evitare penalizzazioni. Perciò il/la protagonista avrebbe dovuto avere una chiara visione del futuro e il/la protagonista avrebbe dovuto, a un certo punto della storia, rimanere appeso/a a una fune. La simpatia dell'originalità. Chiusa la parentesi antipatica, sottolineo ciò che mi è piaciuto del racconto: l'atmosfera di una minaccia incombente e la descrizione di un mondo ormai condannato a morire di sete accostato a un ambiente "casalingo". Da non trascurare, poi, il messaggio "ecologista", non sbattuto in faccia al lettore, ma tratteggiato con delicatezza. Che dire poi del punto di vista iniziale della piastrella? Si tratta del personaggio meglio riuscito del racconto, con una sua personalità ben definita (attenta psicologa di chi la calpesta, caratterizzata da un'alta opinione di sé) e, soprattutto, capace di presentare i fatti senza descriverli in modo esplicito (tanto per chiarire che l'horror psicologico di Poe non è solo una citazione finale tanto per citare Poe - che, comunque, andrebbe citato in qualsiasi occasione, a proposito ma anche fuori luogo). Detto questo, arriva il "purtroppo". L'antipatia della coerenza. Per quanto il narrato della piastrella promettesse bene, la storia si perde nel seguito con il punto di

vista del vicino di casa, con testi scritti alquanto farraginosi e difficili da seguire, con la sovrapposizione di ricordi d'infanzia e le vicende presenti. Può anche darsi che il sangue che ha imbevuto la piastrella le abbia trasmesso il periodare del Gianni (a un certo punto m'è venuto questo dubbio), però sarebbe stato molto meglio usare uno stile differente per il "flusso di coscienza" della piastrella e per la testimonianza scritta dell'inquilino. Scrivere di getto o gettare la scrittura? Sono il primo ad avere poco tempo da dedicare ai miei hobby, quindi capisco che si scriva quando si può, ma mi chiedo: perché consegnare il lavoro così presto? Perché non rileggerlo per eliminare i refusi ed evitare che siano gli altri a elencarli? Perché avere delle buone idee, originali e personali, per buttarle sulla carta in tutta fretta? Siamo sicuri che non sia rimasta qualche incongruenza nella vicenda narrata... tipo un "suicida" che in realtà è vittima di un "omicidio colposo"? Insomma, l'atmosfera cupa e claustrofobica di una vicenda che si svolge nella tromba delle scale di un condominio, così iniziata bene, avrebbe meritato uno sviluppo meno confuso e, soprattutto, un finale meno "tirato via". Voto: 6 1/2 (alla piastrella, detratto il "liberamente tratto dalle specifiche").

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Diritto di replica Approfitto dell’occasione per ringraziare Tetractys del suo gentile commento nel Giorno del Giudizio. Aveva ragione sui punti deboli nella mia storia. In effetti, mi sono lasciata trascinare troppo dalle immagini che crescevano mentre fissavo le parole nel file. Questione di troppa fretta nella consegna? Dipende dal grado di difficoltà delle specifiche e anche da quello della storia che si ha in mente. Ho sempre cercato di sfuggire dalla Sindrome del Tieni Tutto Com’è, per mostrare quanta fantasia hai, ma stavolta deve essere successo qualcosa di simile. Non per vanità, ma per il Terrore dell’Ovvio. Ti viene quando cominci a rovistare nell’Armadio delle Idee e hai paura del Babau che altri non è che il Valuta Sceneggiatori di Viale del Tramonto: a ogni tuo spunto, una smorfia. Io ho ripensato a cos’ho scritto e ci ho riflettuto su mentre compilavo il solito quadernetto. Scrivere è autodisciplina e le idee sono infinite, per chi sa vederle. Tipo la “Cavallinità” di Platone (allo scettico che gli aveva detto:” Vedo il cavallo, ma non la cavallinità”, aveva risposto:” Perché non hai l’occhio di vederla”) e io rispondo all’amico scettico:” Nel fantastico tutto è stato scritto e detto” io rispondo:” In realtà le varianti sono infinite, ma bisogna avere l’occhio di vederle e anche la precisione di renderle. Questa è la sfida per chi vuole esprimere se stesso artisticamente”.


Promessa da marinaio

Il comandante si volta a sputare un grumo di tabacco da masticare in acqua, poi torna a sorridere verso gli uomini legati davanti a lui. Ad un suo cenno, uno dei marinai apre un sacchetto di cuoio e ne versa parte del contenuto su un barile. -Dieci libbre e mezzo di noce moscata: non ho idea di quali siano i prezzi attuali sul mercato nero, ma credo che sarebbero più che sufficienti per garantire a ognuno voi un bel gruzzolo- dice, muovendo con la mano i semi scuri. –Come avete potuto pensare che non me ne sarei accorto?I suoi occhi passano lentamente in rassegna i quattro contrabbandieri: tre di loro sono veterani dai volti bruciati dal sole e dalla salsedine, vecchi lupi di mare che sopportano a testa alta le sue accuse con l’espressione stolida di chi deve dimostrare di non aver paura di morire. Il quarto, invece, ha il capo chino e il terrore traspare limpido dai suoi occhi grigi. -Il commercio della noce moscata è tassativo monopolio della Compagnia delle Indie e costituisce uno degli introiti principali della nostra Corona: non avete alcun rispetto la nostra nazione?Dice, scendendo dal cassero e passando lentamente davanti ai quattro uomini: scosta con disprezzo i tre veterani, cuori fin troppo duri perché le sue parole

possano far breccia, e si ferma davanti allo sbarbatello. –E lei, signor De Biers? Il suo primo viaggio e già diventa un contrabbandiere? Non prova alcuna vergogna nell’aver ingannato la nostra amata compagnia?De Biers trema, geme, farfuglia qualcosa: sembra troppo spaventato persino per poter articolare una difesa. Il capitano scuote il capo e si volta con disprezzo, sputando in mare un altro grumo scuro. -Non c’è giustificazione possibile per una simile colpa: nessuno di voi sfuggirà alla condanna- si volta e osserva l’uditorio: è la buona occasione per dare un segnale all’equipaggio. –Chi sottrae alla Compagnia i frutti che le spettano, verrà appeso al vento come un frutto troppo acerbo.Il braccio si distende lentamente, la mano che indica con la violenza del Giudizio di Dio, i marinai che trattengono il respiro in attesa del responso. -Impiccateli al pennone.Il silenzio risponde alla sua condanna, il muto timore che traspare dagli occhi dell’equipaggio e che scuote la falsa tranquillità dei veterani condannati. L’urlo che lo squarcia dopo pochi istanti non è che l’apice del trionfo del comandante, che gusta lo spettacolo di De Biers che crolla in ginocchio. -Pietà capitano, pieta! Sono pentito!- Urla. –Per Carità di Dio, ho moglie e figli!L’altro passa la mano sul pizzetto e osserva il biondino dimenarsi come una un animale al macello. Lo sguardo indugia sul volto pao-

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nazzo e sul corpo ancora quasi integro del giovane fiammingo, poi un sorriso obliquo compare sul suo volto. -Come ho già detto, non c’è giustificazione possibile per la vostra colpa. Tuttavia, sarebbe ingiusto attribuire la stessa pena di fronte a responsabilità diversetorna indietro e appoggia le mani sulle spalle del giovane con l’aria benevola del padre del Figliol Prodigo. –In fondo, la tua unica colpa è stata quella di nascondere la noce moscata nei tuoi bagagli, non l’hai acquistata di nascosto dagli indigeni di Run… forse per te c’è ancora la possibilità di redimerti, con la giusta correzione.Le sue mani salgono a coronare quel volto ancora combattuto tra speranza e orrore, poi il comandante si alza e torna a rivolgersi all’equipaggio. -Il marinaio Pieter De Biers non verrà impiccato. Sconterà la sua colpa in modo da dimostrare a tutti noi la forza del suo pentimento.Vociare confuso dalla massa di marinai: forse qualcuno ha intuito cosa vuol dire con le sue parole, ma le ipotesi sono ancora ben lontane dalla realtà. Frustate? Pena del gelo? Ceppi? I suoi uomini hanno decisamente poca fantasia. -Il marinaio Pieter De Biers verrà sottoposto al giro di chiglia: la sua espiazione consisterà nell’essere legato mani e piedi a una corda e trascinato lungo la chiglia della nave da babordo a tribordo, in modo da passare sotto la linea di galleggiamento- proclama, per poi voltarsi nuovamente verso il disgraziato. –Se il tuo pentimento


è sincero, sono sicuro che non avrai difficoltà a trattenere il respiro per tutto il tempo necessario. In caso contrario, puoi sempre morire e porre fine a tutto.Da uomo esperto, il capitano sceglie con accuratezza il punto dove praticare la pena, quello che possa garantire un giro quanto più lungo possibile e in cui i denti di cane sono riusciti a salire più in alto sulle fiancate. -Trattieni il respiro- mormora a De Biers uno dei marinai che lo cala lungo il babordo della nave.–Anche se sentirai i brandelli di carne che ti vengono strappati via, cerca di non aprire la bocca e di non dimenarti. È l’unica possibilità che hai.Il giovane comprende a malapena cosa gli sia stato detto, poi il primo strattone sulle assi di legno gli strappa un grido. Il dolore attraversa il corpo, esplodendo lungo tutta la schiena: dopo lo strappo iniziale, la pena prosegue con un lento trascinamento, in cui la pelle viene raschiata poco alla volta, ma con costanza. Pieter si sforza di respirare regolarmente e si prepara all’immersione, ma quando l’acqua raggiunge le ginocchia i primi mitili gli lacerano le carni con le loro punte affilate, strappandogli un secondo urlo, poi un terzo e un quarto, fino a quando la sua testa non scompare sotto il pelo dell’acqua. Con la forza della disperazione, Pieter sigilla la bocca e chiude gli occhi, cercando di non prestare attenzione ai tagli sempre più profondi che scavano il suo corpo

fino alle ossa. Bastano pochi istanti per spostare il fulcro delle sue percezioni dalla schiena martoriata ai polmoni, in cui le urla di dolore hanno fatto immagazzinare troppa poca aria. La mandibola comincia a tremare: il corpo impazzito vorrebbe spalancarla per obbedire ai suoi impulsi primari, la mente lotta per mantenerla sigillata e sopravvivere. Infine il corpo ha il sopravvento e le fauci si spalancano, riempiendo d’acqua salata gli spazi vuoti nel petto. È l’annegamento, l’istinto di sputar fuori il liquido è inutile e le fitte di soffocamento nel petto segnano il collasso degli istinti naturali. La coscienza si dirada, il dolore sfuma, le ultime percezioni scivolano su una mente vuota. Spalanca gli occhi e inarca la schiena, aspirando disperatamente l’aria con un rumore strozzato. Impiega qualche istante per rendersi conto di poter respirare tranquillamente e poco più per capire di trovarsi nell’intimità della sua casa. Sua moglie e sua figlia dormono profondamente accanto a lui e sembrano non essersi accorte del suo brusco risveglio: lui sfiora leggermente la guancia e sorride, lasciando che il battito del cuore torni poco a poco alla normalità. Deve aver avuto un incubo, ma, per quanto si sforzi, non riesce a ricordare cosa ha effettivamente sognato: in realtà, l’unica cosa che gli è rimasta è la sensazione di soffocamento e di terrore con cui si è svegliato, sensazioni tanto realistiche che gli basta

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pensarci anche solo un istante per sentirgli mancare il fiato. Scuote il capo per allontanare i cattivi pensieri, poi sospira e si alza dal letto: è ancora presto, ma sa che non riuscirà ad addormentarsi di nuovo e ne approfitta per fare le cose con maggiore calma. Rabbrividisce quando comincia a vestirsi e maledice gli spifferi che filtrano da ogni angolo di quella casa disastrata: il pigione che pagano per quel tugurio è basso, ma anche così è difficile elencare qualche beneficio che vada oltre il mero tetto sulla testa. No, non è vita quella che stanno facendo da quando è stato costretto a chiudere la sua bottega e se non fosse stato per quei due angeli addormentati non avrebbe esitato nemmeno un istante ad affidare la sua fine a uno scorsoio. È vestito, è pronto: raccoglie la borsa con le sue cose e si avvicina di nuovo al letto. Con tutta la delicatezza di cui è capace, deposita un bacio sulla fronte delle due donne della sua vita per avere un bel ricordo da portare con sé sull’oceano. Farebbe qualunque cosa per loro, qualunque cosa pur di farle uscire dall’inferno in cui sono precipitati. -Aspettami, amore mio- sussurra. –Quando sarò di nuovo qui, ti prometto che vi regalerò una vita migliore. Costi quello che costi, metterò fine a tutto questo.La accarezza ancora, poi mette in spalla la borsa ed apre la porta di casa. -Pieter!La voce di lei risuona


all’improvviso dalla stanza semibuia. -Pieter, promettimi anche che tornerai.Pieter si volta e vede sua moglie in ginocchio sul loro giaciglio, con una mano appoggiata sulla bambina ancora addormentata. Sorride. -Tornerò da voi- dice.-Questa è una promessa di Pieter De Biers.-

Il Giudizio del TETRA

Non sarà stato l'ultimo minuto per postare, ma evidentemente era l'ultimo minuto che avevi a disposizione, visti quegli articoli sbagliati sparsi a manciate. Sarebbero bastate un paio di riletture in più e il racconto non avrebbe peccato di sciatteria (in ogni caso, lasciare qualche "orrore" qua e là, a poco meno di tre ore dalla consegna, non è paragonabile a lasciarne altrettanti con quasi una settimana a disposizione). A chi non è mai capitato di svegliarsi nella notte urlando? Beh, a me no. O almeno non che io mi ricordi. Anche la Jackie mi conferma che negli ultimi tre anni non mi è mai successo, benché non possa giurare nulla per gli altri miei 43 anni. Comunque qui si parla di un incubo premonitore, che, come tutti i sogni, è facile a

dimenticarsi. Mi è piaciuta l'idea del racconto spezzato in due con l'inversione temporale delle scene. L'incubo è descritto in modo così reale da non sembrare un sogno. Potrebbe essere copia-incollato dopo il finale e nessuno se ne accorgerebbe. Dopo l'operazione, diventerebbe una classica novella di marineria che, senza scomodare le dettagliate ambientazioni di Patrick O'Brian, fa respirare almeno una zaffata di salsedine. Grazie all'inversione, ispirata dalle specifiche della gara, regala al lettore la soddisfazione di scoprire il dramma umano che il tono farsesco del "processo" aveva tenuto in secondo piano. Quindi la premonizione è stata sfruttata a dovere, riuscendo a suscitare un pizzico d'interesse in più sul personaggio del malcapitato contrabbandiere messo in ombra dall'istrionica e strabordante figura del "commander". Can che abbaia non morde! Quando ho sentito parlare del giro di chiglia in un post del Pretorian qualche settimana fa, son subito corso a documentarmi. Il "giro di chiglia" era una delle tante cose di cui avevo sentito parlare in varie occasioni e mi ero fatto anche l'idea che fosse qualcosa di doloroso, ma – cribbio! – sempre meglio di un'impiccagione – pensavo! Wikipedia m'ha fugato ogni dubbio spiegandomi quanto mordessero i denti di cane. La scena del giro ha reso giustizia alla pena: anche se ormai siamo

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abituati a leggere ben altro, in poche righe il Pretorian ha trattato tutto quanto c'era da dire, col minimo di "pulp" indispensabile alla bisogna. Meglio una zaffata di salsedine o una bella secchiata d'acqua di mare? Certo, l'ambientazione è quella che è. C'era spazio per calcare la mano, per rendere le scene sul ponte e nella baracca più vivide e descrittive. Un appassionato di storie di mare le avrebbe apprezzate e chi invece ne è completamente a digiuno si sarebbe un po' istruito. Qualche accenno sparso alla Compagnia e all'equipaggio non è poco? Un consiglio? (Caspita! Due domande retoriche di seguito!) Riprendere il testo e colmare le lacune, senza appesantire. C'è già il canovaccio della storia, perciò non resta che abbellirlo con qualche "occhio di bue" qua e là che metta in risalto i dettagli. Il minimalismo paga fino a un certo punto, soprattutto nelle storie di mare dove, in fondo, tutti hanno un'idea di ciò che dovrebbe esserci (non foss'altro per colpa dello squinternato Jack Sparrow) e si sentirebbero gratificati nel vederselo evocato davanti agli occhi nel leggere la tragedia del buon De Biers. Che dire in conclusione... Il braccio si distende lentamente, la mano che indica con la violenza del Giudizio di Dio, i marinai che trattengono il respiro in attesa del responso. Voto: 7+ e impiccatelo al pennone!


domani carichiamo i N o n c ' è p i ù p o s t o broncio, bambini e andiamo a trovare i in cielo tuoi alla riserva.» Gi sfiorò le I ricci rosso fuoco dondolarono, sollecitati dalle mani delicate. Polly li raccolse sopra la testa e fece una smorfia allo specchio, poi li rilasciò sulle spalle scoperte. «Jonas sei pronto?» La voce arrivò dall'altra parte della casa, attutita dalle pareti, «ci ho ripensato, vai da sola.» Lei appoggiò l'elastico sul lavello e si spostò fin sulla porta, «eddai, abbiamo lasciato i bimbi da papà apposta. Non usciamo mai.» Altri due passi sui tacchi alti, che non sfoggiava da troppo tempo, fino al salotto. Jonas era seduto su una poltrona reclinabile, una birra tra le dita e lo sguardo fisso oltre le immagini sbiadite di un film in bianco e nero. «Me lo avevi promesso.» Si voltò verso di lei, un sorriso appena accennato e lo sguardo supplichevole che ingentiliva i profondi occhi neri, «Polly, ti prego. Sono i tuoi amici del college che senso ha che venga anche io?» Lei strinse i pugni e per un momento tutto il corpo esile sembrò vibrare, subito dopo distese i muscoli e le labbra, e gli cinse le spalle, appoggiandosi su di lui, «devo vantarmi con loro, del mio bellissimo compagno.» Mantenne l'abbraccio qualche istante e riprese a parlare quando vide che non sortiva alcun effetto, «va bene, facciamo così, se mi accompagni e non tieni il

labbra con un bacio, «così potrai fare tutti i "giochetti da sciamano" che ti mancano tanto.» Due boccali di Chilli beer scivolarono sul legno bagnato e finirono tra le mani di Polly, che ne passò uno al proprio compagno, ridendo in modo fin troppo sguaiato a una battuta del ragazzo biondo davanti a lei. Il quarteback che non l'aveva mai notata e che ora sembrava pendere dalle sue labbra. «Mi diceva Polly che tu sei... Una specie di sciamano, giusto?» Alcune gocce di birra e saliva si rincorsero sul mento pronunciato. Jonas sorbì un sorso e gli concesse un'occhiata fuggevole, un sorriso anche, ma non rispose. L'altro, quello che un tempo era stato un bullo e ora era solo un mediocre uomo sulla trentina, afflitto da una calvizie precoce, diede una pacca al quarteback, «oh-oh! Forse hai toccato un nervo scoperto.» Poi si rivolse direttamente a Jonas, «sono cose della vostra tribù vero? Cose che i bianchi non devono sapere, giusto?» Una nota di sarcasmo, nemmeno troppo mascherata. Polly si schiarì la voce e sfiorò la mano di Jonas, «vado al bagno, poi ce ne andiamo. Kelly mi accompagni?» Lasciò scrosciare l'acqua del rubinetto, con entrambe le mani aveva afferrato il lavello, stringendolo, «ma che cacchio gli è preso? Sono battute da fare?» Kelly aveva finito di ritoccare il

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proprio maquillage, «non te la prendere, la loro unica qualità, già non risiedeva nel cervello ai tempi della scuola, e ora hanno perso anche quella.» Polly si lasciò sfuggire un sorriso e ravvivò la chioma color fuoco, «va bene, dai andiamo.» «Certo che te lo sei scelto proprio bello, il mustang!» La guardò incredula dal riflesso nello specchio, mentre ancora si dava una passata di gloss. «Voglio dire, se non avesse problemi con l'alcol sarebbe proprio una bella cavalcata. Con il piccolo com'è?» «Kelly, ma cosa vai blaterando? Jonas non ha alcun problema con l'alcol.» L'altra le diede un buffetto, mentre il sorriso si tramutava in un ghigno su una maschera di cera. «Suvvia cara, vuoi dirmi che ti sei accaparrata l'unico nativo non alcolizzato dell'Arizona? Te lo dico da amica, hai anche una figlia non sua, dovresti stare attenta.» Polly dischiuse la labbra, appena un po', lo sguardo incredulo fisso su quel sorriso falso. Urlò subito dopo, «Jonas è l'unico sobrio al tuo tavolo di merda!» Si voltò di scatto guadagnando la porta, l'ultima frase la sussurrò soltanto, «e aveva ragione lui.» Tornò al tavolo qualche secondo dopo, gli occhi acquosi e l'espressione di chi non sarebbe mai dovuta uscire. «Amore, andiamo via.» Lui si alzò di scatto e la raggiunse, urtò il quarteback, facendogli rovesciare metà del boccale sulla felpa del campus, e la abbracciò. «Che è successo?»


«E che cazzo! Indiano di merda!» Polly lasciò scivolare uno sguardo carico di compassione sul suo ex compagno di liceo e afferrò il braccio di Jonas, «non sarei dovuta venire.» Jonas strinse le palpebre, una fitta acuta alle tempie lo obbligò a serrarle tra le mani. «Polly ti prego, vai da sola, è molto meglio.» Sua moglie gli cingeva ancora le spalle, fasciata nell'abito succinto che aveva indossato per uscire. «Come al solito.» Sibilò, sconfortata e arrabbiata anche. Afferrò la borsetta sul tavolino di cristallo davanti alle gambe di lui, e con un gesto di stizza alzò il volume del televisore, «stordisciti pure davanti alla tele. Non si può mai fare nulla che non sia una psicocazzata Hopi!» Si chiuse la porta alle spalle con forza. «Però, almeno, passerai una bella serata.» Disse tra sé il ragazzo, cercando il telecomando tra le pieghe del copridivano sgargiante. Il suv scivolò sulla strada sterrata, avviluppato da una nube rosso tramonto. Occhi azzurri e neri cercavano di oltrepassare la coltre per scorgere l'ingresso della riserva, due paia di manine appoggiate al finestrino posteriore. «Quanto manca, papà?» «Poco.» Sussurrò al piccolo che si era appena accoccolato tra le braccia della sorella. «Come è andata ieri sera? Non te l'ho più chiesto.» Le sfiorò il ginocchio nel porgerle la domanda, ma ritrasse la mano, quando notò l'espressione di lei. «Come va ogni volta. Ogni volta

che mi lasci da sola. Fosse per te vivremmo ancora qui, e davvero sarei una murata viva.» Rimasero in silenzio per i successivi quindici minuti che impiegarono a raggiungere la riserva. Jonas lasciò l'auto davanti al chiosco di souvenir che era stato il suo e prese in braccio il piccolo che si era addormentato. Sua sorella, dall'alto dei suoi otto anni, sfoggiava un passo veloce e sicuro. Legò i riccioli rossi, identici a quelli di sua madre in una coda e precedette la famiglia lungo la via principale. «Andiamo da nonno Tocho, Jonas?» «Sì, tesoro. Anzi, vai avanti e avvisalo che Ayawamat si è addormentato, così prepara il letto.» La ragazzina iniziò a correre e scomparve dietro la prima svolta. Un cane scheletrico la rincorse qualche istante, tuttavia voglioso di gioco, per poi tornare a ciondolare davanti al chiosco delle bibite. «Ti senti sicuro a mandarla da sola?» Polly indicò con un gesto del capo un paio di ragazzi seduti su delle cassette rovesciate. Una dozzina di lattine di birra vuote tra i piedi e una tra le mani. «Sono pericolosi solo per se stessi.» Camminarono solo poche centinaia di metri. Jonas sorrise vedendo alla sua destra le reti da letto usate per recintare un cortile, spostate quel tanto che bastava a far passare la figlia di Polly, «Eloise ha preso una scorciatoia.» Sogghignò. Le ginocchia gli cedettero di schianto un istante più tardi. Si portò le mani alle tempie mentre la vista si perdeva in un mare

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denso e schiumoso di sangue. La sabbia giallo ocra spruzzò granelli aurei, esplose il vortici, sferzata da un vento inesistente. «Jonas! Jonas, che hai?» Polly gli strinse le spalle, la stoffa ruvida del jeans le fece male alle dita. «Jonas, ti prego...» Non le rispose, gli occhi spalancati sul vuoto. Un vuoto che a lui sembrava pieno di orrore e morte. Lo distesero sul letto di suo padre, non sapeva quanto tempo fisse passato, né in quanti fossero sopraggiunti ad aiutarlo. Ora però era lì, nella casa in cui era cresciuto, con sua moglie, i suoi figli, suo padre e suo fratello. «Tocho...» sussurrò, non appena vide le rughe sul volto di cuoio di suo padre, incresparsi in un sorriso. Scattò a sedere subito dopo, cercò i piccoli con lo sguardo e si sdraiò non appena li capì al sicuro. Polly era in piedi, il sedere poggiato sulla stufa a legna, e un dito tra le labbra. «Sei svenuto, o qualcosa del genere. Per fortuna poco dopo è arrivato tuo fratello, o non sarei mai riuscita a portarti fin qui.» Jonas si era seduto, intanto. I piedi scalzi poggiati sulle assi tarlate del pavimento, con l'alluce sfiorava la nappa di un tappeto. «Non sono svenuto, ho visto.» Si voltò di scatto verso suo fratello, «Grande Orso, devi preparare tutto per la cerimonia, e devi farlo in fretta, ho paura che non ci sia tempo.» L'uomo che aveva il suo viso ma spalle due volte le sue si precipitò verso la porta, chiamò a sé anche una donna rubiconda, dall'aria


gentile che Polly riconobbe come Humita. «Non abbiamo nemmeno fatto in tempo a mettere piede qui, e guardati!» Polly stava gridando, incurante del fatto che Tocho fosse presente o dei due paia di occhioni sgranati verso di lei, che avevano perso ogni interesse per Mr Magoo alla televisione. «Poi ti domandi perchè ce ne siamo andati? Credi che sia divertente vederti masticare pejote come fosse chewingum? Speravo che andando via da qui sarebbe finita...» si passò le dita tra le ciocche ribelli, poi si asciugò gli occhi, «...invece non è finito proprio niente.» Jonas rimase in silenzio, non le disse nulla nemmeno quando la vide raccogliere la borsa di cuoio dal pavimento, né quando infilò le giacche ai piccoli. «Noi andiamo all'albergo al confine, quando avrai finito di parlare con gli spiriti, di fare "l'Alo" facci un fischio.» Tocho accompagnò il rumore della porta con un gesto delle spalle, le strinse, mentre batteva veloce gli occhi. Sorrise appena, poi estrasse una lunga pipa intarsiata dal cassetto del tavolo in formica azzurra. «Non l'ha presa tanto male, Alo.» Passò la pipa e un accendino al figlio, ancora seduto sul bordo del letto, «mah, no. Poteva andare peggio.» I punti cardinali e gli elementi erano stati benedetti, i legni oleosi e profumati: accesi. Humita si era premurata di preparare la sala del consiglio, perché fosse usata per la cerimonia. Jonas Doppio

Sguardo era seduto al centro della stanza vuota, le gambe incrociate e le braccia appoggiate sulle ginocchia. Attorno a lui, i membri del consiglio aspettavano, fumando, che il pejote che aveva ingurgitato facesse effetto. Quando spalancò gli occhi, ammutolirono, anche chi non lo stava guardando, quasi che le palpebre avessero fatto rumore. Dondolò il torso in senso antiorario, il volto proteso verso alto, contro il piccolo fuoco, acceso nel braciere davanti a lui. Non c'era nessuno con lui, adesso. Solo quel deserto che conosceva tanto bene e il vento. Avrebbe corso a perdifiato, gridato anche, ma si distese, perché era la sabbia. Quindi aspettò. Sentì i piedi dei primi che camminarono su quella terra, non il suo sangue, ma la sua gente. Poi piedi più duri, zoccoli e ruote di ferro. Nel tempo che impiegò a voltarsi le ruote divennero di gomma dentata e le calzature più morbide e li vide: tutta la sua gente stava camminando. Suo padre, ingobbito ormai, e stanco, suo fratello. Ogni singolo membro della tribù si stava allontanando e lasciava dietro di sé una scia di sangue e putridume. Distese le dita, rovistò tra i granelli. Pelle su pelle e sentì l'abbraccio di lei. Polly lo stava baciando, e le sue labbra avevano il sapore dell'acqua fresca. Guardò in basso, perché poteva farlo. Sua moglie e suo figlio stavano giocando sulla sabbia, Eloise lanciava un bastone a un cane ne-

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ro, ma lui non stava volando. Non era l'aquila, non era vento. Il corpo di Jonas ebbe un sussulto, socchiuse gli occhi e quando li riaprì, le iridi non erano più visibili. Grande Orso si avvicinò di un passo, lo avrebbe toccato se suo padre non glielo avesse impedito con uno sguardo. «Quello che l'Alo sta facendo è solo per la sua conoscenza. Se stia davvero cambiando il futuro, noi non possiamo saperlo, ma sta agendo per il meglio.» Era invischiato, appeso, senza altra possibilità che guardare, a centinaia di metri da terra. La sua famiglia viveva la propria vita, suo figlio era un uomo ormai, ma non aveva ricevuto il dono, o la maledizione. Era un medico, e aveva deciso di lavorare nell'ospedale della riserva. Ma era la riserva a non essere più la stessa. Si contorse allora, cercando di strappare i legacci collosi che lo imprigionavano al cielo, sopra le nubi. Era il Chochokoi, ma adesso non gli era di alcun aiuto. Si dibatté ancora, poi vide decine di costruzioni sorgere come metastasi, sulla sua terra ormai malata. Accavallarsi a un ritmo folle, e orde di gente entrare e uscire. Dovette guardare lontano per scorgere ciò che era rimasto del suo popolo, molti chilometri più a sud. Lontano dal Pork River, lontano dalla loro casa. Strinse le palpebre, per vedere suo figlio lottare come un leone contro le malattie causate dalle contaminazioni e dall'alcolismo. Decise di recidere le funi che lo


intrappolavano in cielo. Per quanto dolci e morbide, per quanto lo trattenessero dove lui era sempre voluto stare. E si voltò. Le corde erano dita intrecciate ed esili braccia bianche, le funi: i morbidi capelli della sua Polly. Quando precipitò sulla terra, riuscì a udire solo il crepitio del fuoco e il respiro cadenzato degli uomini che lo avevano accompagnato. «Io devo restare qui» Tutto il consiglio attese che si fosse alzato. Non domandarono nulla. Lo seguirono con lo sguardo fino alla porta, barcollante. Solo suo fratello lo raggiunse per porgergli la camicia a quadri e la giacca di jeans. «Cosa hai visto?» «Niente che non sapessi già.» Abbracciò Grande Orso e prese le chiavi del suo pick-up dalla tasca posteriore dei calzoni. «Le tieni ancora lì?» Poi uscì. Guidò per pochi minuti, il tramonto aveva imporporato il deserto, e adesso, i due speroni di roccia brulla che di solito scandivano le ore, sembravano canini insanguinati. Svettavano dalla distesa rossa, come se l'avessero divorata, e ne anelassero ancora qualche brandello. Raggiunse l'hotel ma non ebbe bisogno di aspettare, sua moglie era nella Hall, i bagagli vicino ai piedi e uno sguardo fin troppo eloquente. «Non bisogna essere un Alo per intuire cosa sei venuto a dirmi. Ma io non ce la faccio, non è la mia vita.» «Potrebbe non essere così. Potresti restare.»

Lei gli sfiorò le labbra con un ba- L'ispirazione delle specifiche. cio e infilò le dita tra i lunghi Questo racconto è un esempio di capelli scuri, «no.» come le specifiche possano essere fonti d'ispirazione. Le "funi" alle quali era appeso il protagonista durante la visione fanno parte integrante della seconda visione, non sono un accessorio tirato per lo scalpo, ma una metafora Il Giudizio del TETRA dell'esistenza di Alo fino a quel momento: dolci legami che lo Che dire. Non posso sostenere che non mi sia piaciuto (e uso la tengono lontano dal dovere di usare il suo dono per nobili scopi. doppia negazione per non sbiD'altra parte "da un grande potere lanciarmi troppo). derivano grandi responsabilità" I bivi. La vita è fatta di scelte ed L'America ci ha colonizzati? essere uno sciamano ha i suoi Beh, è inutile ribadirlo: sì! Non vantaggi. Fantastica la scelta della "visione" iniziale. Quello mi riferisco al racconto in sé, in che sembra l'inizio del racconto è quanto Polly non ha mai fatto in realtà la "chiara visione del fu- mistero della sua passione per i turo" ed è una bella sorpresa sco- nativi americani. Mi riferisco, prirlo quando il protagonista de- invece, al fatto che si possa leggere un racconto come questo, cide di lasciar andare la sua compagna da sola dicendole: "E' con numerosi riferimenti a un meglio così". Si sente che deve mondo a noi "alieno", riuscendo a essergli costato deluderla ancora seguire tutto alla perfezione. La una volta, ma la sua scelta, vissu- cultura statunitense ci è familiare, ta in solitudine, come dev'essere anche se magari non spiccichiasolitario chi possiede il "dono", mo una parola d'inglese, grazie a Hollywood e ai film e ai serial era la migliore possibile. che produce. Sfruttando questa E' il preludio alla scelta che lo porterà a tornare nella riserva per "colonizzazione" culturale, il restare di nuovo solo, dopo aver racconto non ha bisogno di spiegare per filo e per segno il perché sciolto i teneri legami che lo tengono sospeso nel cielo, dove e il percome, eppure acquista un una volontà debole lo avrebbe re- senso e ha qualcosa da dire anche legato per il resto della sua vita, a a noi occidentali a est dispetto di qualsiasi visione apo- dell'Atlantico. calittica del futuro. Ma il protagonista sceglie ancora per il me- In conclusione, avrete capito che, quando ho scritto "non posso dire glio, quel "meglio" che suona come un dovere, ma che invece è che non mi sia piaciuto", volevo solo l'onore che lo lega alla sua dire che questa storia mi è piaciuta un sacco! gente e alla sua terra, senza il quale un uomo non sarebbe un Voto: 8 (anche per il pejote ) uomo.

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del Comitato, come noi, sta di una delle sue storie e L a s t a n z a r o s s a parte dunque amici e amici degli non solo per le poche gocce Ascoltami, sembrerà strano ma è andata così, in fondo questa storia è incredibile. Cosa darei per fumarmi una sigaretta! Sarà stato, credo, Settembre, o giù di lì. Quanto tempo sarà passato? Boh! Accadde tutto per via di un gioco, come molte cose. Ero andato a casa di Pilar Sanchez, un villino a due piani al quartiere Palermo. Gente strana i Sanchez, specie quei Sanchez, che più borghesi non si può, ingegnere lui, ingegnere lei. Insieme avevano fondato una società di costruzioni famosa in mezza Argentina. Quella sera i genitori di Pilar erano in Uruguay per ignoti motivi, forse per lavoro. Casa libera, non ci sembrava vero avere un posto così per una delle nostre solite riunioni. Lei, Pilar, mora e sui ventuno anni, gran fica, dovresti vederla, mi accolse con la puzza sotto il naso tipica dei borghesi, specie dei borghesi di sinistra, neanche fossi uno scarafaggio coprofago. Lui, Martin Hoeness, il suo ragazzo, belloccio sì, uno che piaceva alle donne, specie di un certo tipo di donne come Pilar, era un anarchico, ma dotato di un quoziente intellettivo a due cifre, e forse solo per questo mi pareva il meno antipatico tra i due. Eppure entrambi facevano

amici. E poi c’erano altre quattro persone. Li catalogai con molta facilità anche perché di vista li avevo conosciuti un po’ tutti. Erano quelli del gruppo di Cordoba, in trasferta. Hugo Sciss, un tizio patetico ma convinto di avere il diritto di gestire l’intera riserva degli aneddoti per la serata, Claudio De Vitis, un "brutto competitivo", amico intimo e zerbino acido di Manola Rodriguez, nota frequentatrice dei raduni “a imbuco”, specie se nella Baires bene. Gabriela Spotini, una ragazza grassoccia e anonima, l’avevo vista sì, altre volte, ma non avevo capito amica di chi fosse e che ruolo avesse. Aveva sempre un’aria così rancorosa che sembrava le mancasse… Beh, insomma, mi hai capito. Il mio interesse verso di loro e per la politica, più in generale, te lo confesso, amico mio, era praticamente nullo. Anche se mi piaceva farne parte perché mi sembrava essere preso in qualcosa, una specie di grande progetto. E poi c’ero io, certo, anche se non ti ho detto ancora il mio nome. Ma soprattutto c'era Maria Bellotti. Per lei, ero lì. Inutile dire che in fatto di donne sono sempre stato un idiota. Borges sarebbe venuto a nozze con uno come me, inserendomi come protagoni-

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di sangue gringo che scorrono nelle mie vene, quello gringo vero, dico, quello gallese. Maria mi aveva stregato. Era un fatto fisico, soprattutto, ma anche mentale. Il fatto che fosse anche un fatto mentale era una scusa con la quale cercavo di consolare il mio animo di disegnatore di fumetti fallito, con tutta la mia ammirazione per il grande Héctor Germàn. In poche parole, ero lì, non per via della politica e del Comitato, non per cambiare il Paese o il mondo, ma con la speranza neanche poi troppo segreta di scoparmela. Molto triste come le cose si riconducano, a volte, ai minimi termini. Oh, ma tu avresti dovuto vederla com’era bella! Ma andiamo con ordine, torniamo alla mia storia. Dopo le solite discussioni relative alla gestione dei rapporti con la Juventud Guevarista, la questione di un paio di Montaneros infiltrati che non ci era parsa molto limpida, l’inquietudine sulle notizie sui compagni scomparsi, l’idea per sdrammatizzare e scaricare la tensione venne a Martin. Ne fui sorpreso. Avvenne un minuto dopo che Gabriela Spotini si congedasse, per via di un impegno non meglio definito, lasciandoci chiusi nella grossa sala della villa. - Ciao, mi raccomando, di-


vertitevi! – Disse. - Ciao! – Le risposi, non degnandola della minima attenzione. Pensavo, sai, che Martin non fosse in grado di prendere iniziative individuali, neanche se queste fossero ludiche. O non l’avevo valutato bene o la sangria cominciava a farmi effetto. - La facciamo, allora, la seduta spiritica? – Disse il ragazzo con un sorriso da star del pallone. In effetti, notai che aveva una certa somiglianza con Mario Kempes. - Dai! – Intervenne Manola, lo sapete che la chiesa cattolica è contraria a queste stronzate! Ridemmo tutti di gusto. - Allora, se è così, non la facciamo! – Le rispose Hugo. - E poi non ci credo. E ho paura! – Continuò, eccitata, ridendo, senza curarsi della contraddizione palese, peraltro sincera, suscitata dalle sue parole. - Ma sai che questa è, invece, un’idea EC-CE-ZIO-NA-LE! – Le rispose Pilar, battendo le mani e sporgendosi in avanti per far ammirare a tutti, specie ai maschi, la scollatura, senz’altro notevole. Era davvero un po’ troppo civettuola per giocare alla rivoluzione. Ma si sa come vanno queste cose. Claudio attese, cercando d’interpretare la posizione contraddittoria di Manola in materia, e parve restare per un po’ tra le spine. Hugo dis-

se che la seduta spiritica l’aveva fatta poco prima al gabinetto e, proprio per questo, consigliava di non entrarvi. - Scemo! – Gli fece eco Maria. - Però, sarebbe elettrizzante, dai! – E sorrise. Come sapeva tirare su quell’angolo della bocca mentre parlava, amico mio, ecco, non ti puoi immaginare! Solo per quella smorfia, un po’ da puttana un po’ da vergine, me la sarei fatta lì, senza pensarci, su quel tappeto turco pregiato, con tutti che guardavano e magari intonavano l'Internazionale. Per alcune cose, sai, sono sempre stato dissacrante, specie nelle cose cui comunque ho creduto. Potrà sembrarti curioso ma è così. Mi guardarono sì, ma sempre per via della seduta spiritica quasi fossi diventato, stranamente, arbitro della decisione. Alzai le spalle e il mio gesto fu interpretato come un “sì”. A ruota, gli indecisi, Manola e Claudio, cedettero. Martin tirò fuori, allora, la tavola ouija in modo teatrale. - Era di mia nonna, se l’è portata dietro dalla Polonia. Disse. – Lei faceva la cartomante a Boca. La fissammo un po’ interdetti. Era fatta bene con tutti gli arabeschi al posto giusto. Ci disponemmo in circolo attorno al tavolo tondo della sala, Pilar prese un bicchiere vuoto e lo capovolse fissandolo al centro esatto.

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- Spegni le luci, Martin. Ordinò poi la padrona di casa, - e prendi tre candele rosse, che le accendiamo. Sono in quel cassetto lì, quello della credenza. - Tre candele? – Chiesi, senza accorgermene. - Sì, perché? – Mi rispose Pilar in modo acido neanche le avessi chiesto se il suo seno fosse naturale. - Tre candele ci vogliono, no? Boh, pensai. Nel giro di un minuto stavamo già iniziando. Maria era bellissima alla luce soffusa delle candele. Era proprio di fronte a me. Mi chiesi come avrebbe reagito se le avessi sfiorato una coscia con il piede. Ma quella fu l’ultima delle mie osservazioni veniali perché poi avvenne quello che avvenne. Pilar voleva dare di se stessa un’immagine signorile in tutto quello che faceva. La signorilità è qualcosa che trasuda in un borghese, non la si può lavare nemmeno con anni di conversione alla causa dei poveri. Così era lei. Onde per cui, s’immerse nella parte di medium con estrema efficacia e un poco di teatralità, vaneggiandosi con quel suo lungo vestito invernale e scollato. Noi, intanto, tenevamo tutti le dita appoggiate al bicchiere, come avevamo visto fare nei film. - Spirito! Spiritoooo! – Cominciò la ragazza. - E dacci un taglio, Pilar!


Sembri la strega cattiva di Biancaneve. - Le fece Hugo, ridendo, tra il biasimo di tutti e degli “Ssssh!” d’indignazione. Inarcai un sopracciglio. Mi chiesi perché mai mi stessi umiliando in quel modo per stare dietro a una donna. "É il suo sorriso", mi sentii rispondere. "Quella smorfia che conosci bene. Per quello stai qui." Già, mi risposi, fissando la mia musa, e il sopracciglio tornò al suo posto. - Spirito, ci sei? – Ora Pilar sembrava meno teatrale e un po’ più pragmatica. Hugo le diede una botta con la spalla e le disse: - Ma non dovevi dire “batti un colpo”, prima? Pensai che, se fossimo stati dentro un film dell’orrore, Hugo sarebbe stato il primo a crepare, con la gioia di tutti i telespettatori. Invece accadde una cosa strana. Il bicchiere si mosse verso la lettera “S” e poi verso la lettera “I”. Mi guardarono tutti con un po’ di sospetto. La “S” si trovava dalla parte di Maria, ovvero proprio di fronte a me. Dovevo essere stato io quello che di più aveva contribuito alla spinta. Invece, sai, non era vero. Era successo tutto da solo, non so dirti come. Non ci credi? Sorrisi, quella cosa stava diventando davvero curiosa. Mi chiesi dove saremmo andati a finire. - Spirito, hai qualcosa da dirci? - Chiese ancora Pilar,

in tono un po’ meno baldanzoso. Forse, così facendo, ponendo una domanda articolata, pensava che sarebbe stato più difficile per me o per altri fare i furbi. Ma il bicchiere, in tutta risposta, fece una strana traiettoria. Leggemmo le lettere che indicava, una a una. M-O-R-I-E-N-T-E-S-T-O-DO-S-V-E-D-R-E-M-O-S-EN-T-R-E-U-N-A-H-O-R-A - Morirete tutti. Verrete entro un’ora… - Mormorò Pilar. Cosa? E poi accadde. Ebbi una visione. Noi, e forse altri, come dei demoni, coinvolti in una specie di orgia indefinibile, tra sesso e sangue. Una stanza rossa. Corpi nudi, con qualcosa sulla testa, e ferite, sfregi sulla pelle, urla. Le nostre urla. Urlammo tutti insieme. Perché quella visione, amico mio, l’avevamo vissuta tutti. Dopo esserci confrontati, cercammo di razionalizzare. Io prima degli altri. - Sentite, - feci con un bicchiere di sangria in mano. - Non è successo niente, è stata solo suggestione. Questo, in genere, accade quando si fanno queste cose. É un classico. - E come ti spieghi - mi attaccò Claudio, il "brutto competitivo" - che abbiamo avuto tutti, tutti, la stessa visione? Come te lo spieghi? Mai razionalizzare, specie quando la razionalizzazione

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nega l’evidenza e il razionalizzatore diventa il fulcro catartico dove sfogare la tensione di un "brutto competitivo". Mi guardai attorno. Il tavolo ouija ancora rovesciato, le ragazze in preda a una crisi isterica, abbracciate l’una all’altra, Martin che fumava una canna e giocava, nel frattempo, con la maniglia della porta. - Non lo so, non me lo spiego. - Ammisi. Con la coda dell’occhio ero distratto dai movimenti di Martin. - É chiusa. - Diceva. - Cosa non ti spieghi? Incalzò Claudio come se fossi stato io il colpevole di quello che era successo. Trassi spunto, in quel momento, per imparare una lezione morale. “A volte tacere è importante perché se parli, indipendentemente da quello che dici, catalizzi l’odio verso di te.” - É chiusa, cazzo. – Ripeteva intanto Martin. - Non mi spiego niente, dicevo solo che… - Ti ha detto che non se lo spiega! - Intervenne Hugo. Per lui quell’intervento doveva essere un assist per una battuta, che non ebbe però il tempo di pronunciare. Si girò anche lui verso Martin. - No! Devi spiegarmi! Come mai! – Claudio era fomentato dal mio modo mite di affrontare i contraddittori. Tutti, amico mio, scambiano spesso la mia gentilezza per debolezza. - Piantatela, ragazzi! –


Intervennero le ragazze. Manola, in particolare, sembrava la più sconvolta di tutte. - Mi volete stare a sentire? - Urlò Martin - Questa porta, la porta della sala, è chiusa a chiave! Com’è possibile? Non possiamo uscire. Ci fiondammo tutti a vedere. In effetti, era proprio chiusa. Era strano. Pilar sosteneva che quella porta non avesse chiavi. E poi da lì era uscita Gabriela, solo un’ora prima. - Oddio, il Demonio! – Fece Pilar, accasciandosi al suolo. - E questo, adesso, come te lo spieghi, eh? Come te lo spieghi, genio! – M’incalzò di nuovo Claudio. Per tutta risposta, gli diedi una sberla e lo feci volare come uno straccio. Sai, amico mio. Ti ricordi della gentilezza di cui prima? Bene, ha un limite, pure quella. C’era qualcosa di strano, però. La porta, che si apriva verso l’esterno, unica via di fuga dal salotto e di conseguenza dalla casa, era come sigillata. Provammo a buttarla giù a calci e spallate, senza risultato. Non era una di quelle porte massicce ma non era meno così resistente. Era molto strano. Era come se ci fosse dietro qualcosa. Come una leva. Ovviamente, il telefono si trovava nell’altra stanza. E lo udimmo squillare. - Il telefono! - Fece Pilar, irrequieta. - Chi sarà a quest’ora? I miei hanno chiamato nel primo pomeriggio. Il telefono continuava a squillare. - La porta è chiusa per farci resta-

re qui e morire tutti, come nella nostra visione! Avete capito? Questa stanza diventerà rossa con il nostro sangue e poi, e poi ….Detto questo Pilar urlò, in preda all’isteria. Il telefono smise di squillare. Manola e Maria si avvinghiarono attorno a Pilar per cercare di consolarla e di placarla, ma cominciarono anch’esse a piangere. Fissai Maria. Era bella anche quando piangeva, ma vederla piangere sfilava via l’anima. Noi ragazzi contemplammo le ragazze con un certo imbarazzo, convinti della nostra carenza d'iniziativa. Eravamo il sesso forte ma non eravamo ancora venuti a capo della situazione. Certe convinzioni non le può sradicare nemmeno il più profondo materialismo dialettico. Noi maschi, loro femmine. - Ragazze - fece Hugo, quasi leggendomi nel pensiero. - Ma che razza di materialiste siete! Vi fate suggestionare dai fantasmi? Il comunismo è più forte di qualsiasi demonio. Prenderemo il Diavolo e lo deporteremo in Siberia! - Piantala, Hugo. - Disse Pilar, ed era strano vederla così determinata. Prima giocava a fare la signora, ora lo era diventata, una signora. Era anche lei, davvero, una bellissima ragazza. - La visione, l’avete vista tutti? Pensiamoci! Che cos’era? Cosa ci facevamo là? Era l’Inferno, quello? Ci torturavano? Ci… o mio Dio! Tutti tacquero, immersi in se stessi. Compreso me. Cercai di ricordare, ma qualcosa me lo impediva. L’orrore non confortava il ricordo. Presi una decisione

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improvvisa. - Sentite. Il telefono è di là. Davanti alla finestra, abbiamo il giardino. Anche se urlassimo, non ci sentirebbe nessuno. Ma siamo solo al secondo piano. Giù, saranno sì e no dieci metri. Sono magro. Se facciamo dei nodi a qualche tovaglia, mi calerò in giardino, farò il giro, risalirò e troverò il modo di liberarvi tutti. - Ma sei matto? - Mi fece Maria, avvicinandosi, con gli occhi ancora lucidi dal gran piangere e sfiorandomi il braccio. - É pericoloso, non puoi! Stava in pensiero per me? Era proprio così, amico mio. Qualcosa si mosse nel mio basso ventre. Certo, capisci bene perché qualcuno ha detto che le donne sono il motore del mondo? Per lei avrei fatto anche le capriole col triplo salto mortale all’inferno e sarei anche tornato indietro. Mi esaltai. - Compagni! Datemi una mano, per favore. Vediamo di risolvere questo problema in fretta che, oltre tutto, devo anche andare in bagno a pisciare. Così, ti racconto la fine della storia. - L’avete legata bene? Non vorrei si staccasse. – Dissi. Pilar aveva tirato fuori il suo corredo di nozze. Era di lino, molto pregiato. - É legata bene! - Fece Claudio, un po’ invidioso del mio ruolo di eroe e un po’ rancoroso del ceffone che gli avevo dato. Mi voltai. Fuori era notte fonda ormai, il freddo era intenso. Buenos Aires, le luci oltre il


giardino, i ricordi del Mundial appena vinto. Povera mia amata città. Povero mio Paese calpestato, davanti alle onde di un oceano testimone e ruggente. - Vado. Mi sporsi dal davanzale mentre tutti gli altri tenevano l’altro capo delle lenzuola annodate. - Accidenti, al cinema sembra più facile. Ma ero già sceso di qualche metro. - Stai attento, ti prego! - Fece Maria. Alzai gli occhi per guardarla. Com’era bella. Il suo viso sembrava una luna, il suo sorriso scintillava in bianco rifrangendosi di luci pur in una notte senza stelle. Ce l’ho ancora davanti quel viso. Perché fu l’ultima volta che lo vidi. Appena giunto a terra, degli uomini senza uniforme mi afferrarono, coprendomi di colpi e insulti, infilandomi un cappuccio sulla testa e trascinandomi via. Per concludere, amico mio. Ormai sai tutto. Tutto è chiaro davanti ai nostri occhi. Gabriela Spitoni era la spia. Da quello che ho intuito ci seguiva da tempo. Uscendo, aveva messo qualcosa dietro la porta. Forse una sedia o un mobile o qualche gancio di quelli che ha la Polizia. Per non farci uscire, certo. Poi, una telefonata silenziosa e via. Forse l'ha fatto per trattenerci. O per vendetta. O forse la polizia era troppo indaffarata nelle retate, quella notte, e aveva bisogno di un po’ di tempo in più per arriva-

re anche da noi e catturarci tutti insieme. Il tempo di una seduta spiritica. Non lo trovi buffo? Quanto alla visione. Ora è chiara. Ci hanno portati tutti dentro una stanza rossa. Ci hanno denudati, torturati, tutti insieme, poi una alla volta, hanno violentato le ragazze. Ho sentito le loro urla disperate, quelle di Maria, senza poter mai rivedere il suo viso, nemmeno una volta. Ho sentito poi anche le urla degli altri. E le mie. Le mie le hai imparate a riconoscere bene anche tu. Specie quando mi infilato gli elettrodi della batteria sui testicoli e chiudono il circuito. Sì, in un certo senso questo è davvero l’inferno. Qualcuno, uno spirito, voleva avvertirci. Si sa, i morti conoscono il futuro. Chissà dove sono gli altri... Sono ancora vivi? Non lo so. Ora però sono qui, non so da quando, probabilmente in quella stessa stanza rossa. Credo che non mi abbiano mai spostato da lì. ma non ne sono sicuro. Racconto com’è andata a te, vicino di stanza. So che mi ascolti, oltre la parte di cartongesso, anche se non puoi parlare per via del bavaglio che hai alla bocca. Io morirò, me l’ha detto lo spirito. Ma se tu dovessi farcela, lo spero, ti prego, racconta questa storia. Qualcuno deve sapere. Non importa che tu sappia o meno il mio nome, il mio nome non è importante. Voglio che ricordi almeno il suo nome, Maria Bellotti.

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Il Giudizio del TETRA

Adesso tutto è chiaro. Mi ero chiesto perché alla fine avessi ceduto alle pressioni e mi fossi sottoposto a questo Giorno del Giudizio. Ora lo so. Dovevo leggere questo racconto. Non ho idea di cosa sia stato, di che cosa mi abbia colpito di più. Non so razionalizzare le emozioni, non riesco a scavare dentro di me per dare un ordine ai moti dell'anima. Può essere stata l'ambientazione argentina, così vicina alla nostra sensibilità, ma anche così esotica e lontana; possono essere stati gli echi di Borges o le tavole de L'Eternauta; può essere stata la Storia (quella con la "S" maiuscola) che, per quanto si voglia ricordarla, finisce sempre per essere dimenticata, mentre in chi l'ha vissuta ed è sopravvissuto lascia ferite che non potranno mai rimarginarsi; può essere stata una vicenda che è "fantastica" e vera allo stesso tempo; o possono essere state quelle "onde di un oceano testimone e ruggente". Può essere stato tutto questo e anche molto altro, ma non chiedetemelo di preciso: non lo so. Voto: 10


S ka n Destino

Iceberg dritto a prua!

Le parole della vedetta Fleet tormentavano i pensieri del primo ufficiale Murdoch, chiuso nel proprio alloggio con le mani immerse nell'acqua del lavabo. C'era mancato poco. Dannatamente poco. Il suono della campana aveva portato con sé l'incubo peggiore: la nave puntava dritta contro un iceberg. Il capitano Smith si era ritirato nel suo alloggio mezz'ora prima, quindi toccava a Murdoch prendere in mano la situazione. E doveva farlo in fretta. Stava per ordinare l'indietro tutta, nella speranza di rallentare a sufficienza da poter aggirare l'ostacolo, quando si era reso conto che quasi certamente non ce l'avrebbero fatta. Se l'iceberg avesse colpito la fiancata, il danno sarebbe stato immenso. Aveva allora dato un ordine folle. Rallentare, ma mantenendo la rotta. Un coro di proteste si era levato sul ponte di comando, ma Murdoch era stato irremovibile. Tirò fuori le mani dalla bacinella. L'acqua era ghiacciata e le dita erano diventate insensibili. Se le passò sugli occhi stanchi, provando un immediato sollievo. Aveva salvato la nave. Certo l'impatto era stato forte; la prua aveva subito un duro colpo, ma solo due compartimenti stagni si erano

Ventiquattr'ore...

Senza Testa

danneggiati. "Dovremo procedere piano e con cautela" aveva detto Andrews, gli occhi ancora colmi di panico posati sui piani della sua nave, "ma sono convinto che potremo salutare la Statua della Libertà". In pochi minuti Murdoch era diventato un eroe. Ma non era così che lui si sentiva. Sebbene avesse salvato la vita di centinaia di persone, era spaventato a morte. E non si trattava della normale reazione emotiva a un pericolo scampato per un soffio. Era reale, tangibile terrore. Si sentiva colpevole, come se la propria decisione fosse stata un passo falso, un errore che avrebbe avuto conseguenze devastanti. Si guardò nel minuscolo specchio appeso sopra il lavabo e stentò a riconoscere se stesso. Gli occhi infossati e il colorito pallido lo facevano assomigliare più a un cadavere che a un uomo. Uscì dalla cabina e salì con passo strascicato fino al ponte A. La notte era fredda e limpida, una di quelle notti in cui ci si sente felici di essere al mondo. Ma nel cuore di Murdoch si aggirava solo una tenebra vischiosa. L'acqua sotto di lui, piatta come una lastra di vetro, pareva minacciarlo con la sua fissità innaturale. Il rumore dei

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motori era alle sue orecchie la voce di un dio adirato che dal fondo degli abissi cercasse di fermare la lenta avanzata dell'Inaffondabile. Tu non dovresti essere qui, gli sembrava dicesse lo sciabordio dell'acqua sulla prua ferita. Fu distolto da tali cupi pensieri da uno strano scricchiolio, un rumore come di ramoscelli spezzati. Si guardò intorno e per un istante gli parve di veder vibrare l'intera struttura del transatlantico. Sentì poi un vociare concitato. Gli ospiti, pensò. Dopo lo spavento iniziale, gran parte dei passeggeri era ritornata nelle proprie cabine. Qualcuno doveva aver invece deciso di festeggiare il mancato affondamento facendo schiamazzi sul ponte. Murdoch prese l'orologio dal taschino. Era mezzanotte e quaranta. In quel momento, un urlo squarciò il buio della notte. Murdoch corse nella direzione da cui proveniva la voce e andò quasi a cozzare contro un essere di cui all'inizio non riuscì a decifrare la natura, salvo poi comprendere che si trattava di un uomo cui era stata mozzata la testa. Questi fece ancora due incredibili passi in avanti, poi come se finalmente si fosse reso conto della mancanza di una così importante appendice, si accasciò con uno schianto sul legno del ponte. «Il vetro!» urlava una donna,


forse la stessa che aveva gridato poco prima. «Si è staccato da quella finestra e... Oh mio Dio!» Le urla si moltiplicarono, sovrastate da clangori metallici e rumore di vetri infranti. Murdoch si sporse oltre il parapetto e ciò che vide lo paralizzò. I rivetti si staccavano dalle paratie esterne, uno per uno, come tappi da bottiglie di spumante. Sui ponti, i vetri implodevano, le assi di legno scricchiolavano e si spezzavano con schiocchi secchi. Qualcuno passò correndo e strillò che i ponti inferiori erano allagati. Murdoch pensò con orrore che era come se la nave si stesse suicidando. «Alle scialuppe!» Il grido raggiunse il primo ufficiale, che subito si mise all'opera. Il ponte fu presto colmo di persone terrorizzate che si accalcavano l'una sull'altra nel disperato tentativo di mettersi in salvo; per un'ora e mezza Murdoch e l'equipaggio si occuparono delle operazioni di evacuazione. Per un istante il fragore parve placarsi e Murdoch udì le note di una melodia suonata da violini. Poi la situazione precipitò. Il Titanic iniziò la sua discesa verso gli abissi dell'Atlantico. Allora, il cuore di Murdoch si fece leggero. Quell'anomalo senso di colpa svanì. Gli parve quasi di sentire un clic, come di un meccanismo sfasato che infine si rimette a funzionare correttamente. È così che dev'essere, pensò.

Si guardò intorno e vide che le scialuppe erano esaurite. Indossò il suo salvagente e con un ultimo sguardo al gigante morente, si lanciò verso il nero.

Il Giudizio di master_runta Il tuo brano ha del potenziale, hai usato uno stile che in genere non mi piace ma solo per una questione di gusto, quindi non è un problema. Ciò che ti consiglio vivamente di fare è: 1) di essere meno prolissa, nell'editing avevo cancellato senza scherzare un buon 2025% delle parole che hai usato perché non servivano. Una regola d'oro è: "dove puoi usare 5 parole, non usarne 7; dove puoi usarne 2, non usarne 5" Applicala con dedizione se vuoi che la tua scrittura diventi più scorrevole. Bisogna usare le parole giuste, non bisogna usarne tante. 2) Non usare il tell per raccontare tutti i passaggi della tua storia. Non ti sto dicendo di diventare una fanatica dello show, ci mancherebbe, ma tu hai usato 100% tell. E la cosa si è sentita, molto.

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Il mastro carpentiree doveva sputare in acqua, sollevare un sopracciglio e fare un cenno di assenso col mento, da quello tutti avrebbero capito che la nave sarebbe arrivata quantomeno a new york (secondo lui). E questo era solo un esempio, te ne avevo segnati almeno una dozzina. Quindi ragionaci e vedi se ti convenga cominciare a virare verso una scrittura meno raccontata. Secondo me avresti da guadagnarci molto. 3) Usa meglio gli "a capo" e gli stacchi di paragrafo. Ti aiutano molto a dare delle indicazioni visicve al lettore per permettergli di capire quando cambia tempo, quando cambia scena, quando cambia punto di vista, quando cambia velocità. Sono uno strumento potente. 4) quando crei una storia, devi sempre partire da qualcosa e poi costruirgli attorno tutto il resto, fino a che tutti gli elementi sono al loro posto. Io ti consiglio di partire dai personaggi, perché quellid el tuo racconto non sono caratterizzati molto bene. Agiscono, pensano, girano, ma alla fine di tutto, di loro, non sappiamo nulla. Senza dei personaggi tridimensionali, nessun lettore si appassionerà alla storia. I lettori vogliono fare il tifo, vogliono aspettare il momento in cui i personaggi ce la faranno, o moriranno, o altro. Sono molto importanti, non sottovalutarli e non metterli in


secondo piano rispetto agli avvenimenti. Perché gli avvenimenti, in una storia, sono tanto importanti quanto lo sono i personaggi che li vivono o li provocano. 5) Ogni tanto hai delle uscite molto belle, però le banalizzi/sgonfi sistematicamente con errorini a monte o a valle. Ti faccio l'esempio del suicidio della nave. è una bella figura, che però è messa lì senza che il momento sia preparato e quindi perde del tutto il suo potenziale. Lascia che il lettore rallenti un attimo prima di scaricargli addosso una bomba del genere. Inserisci un paio di righe in cui Murdoch si guarda attorno, nota dei dettagli (magari funzionali poi alla scena del suicidio), descrivigli un quadro d'insieme fatto di particolari che poi, quando gli dirai del suicidio, si metteranno tutti al posto giusto come le tessere di un puzzle e l'immagine ne uscirà rafforzata. Anche prima, mi ricordo, quella del dio che urla, perché dire dal mare o dal cielo? scegline una sola. la rendi più immediata e poi già ci si mettono i lettori a fraintendere, a farsi venire i dubbi, eccetera anche quando tu scrivi tutto chiaro, figurarsi se gli metti delle ambiguità. Questi sono gli aspetti su cui, secondo me, la tua scrittura avrebbe bisogno di focalizzarsi. Ovviamente non devi per forza concordare con me, i miei commenti sono consigli che io do secondo quella che è la mia

esperienza, per quello che è il mio occhio, ma ognuno poi è libero di prenderli e gettarli a mare senza salvagente Detto ciò spero di esserti stato utile e averti fornito qualche interessante spunto di riflessione Ci rivediamo allo skan di gennaio, spero! ovviamente non badare troppo ai toni secchi che ho usato, è solo perché mi sono trovato di punto in bianco da "ooohhh, posso fare tutto con tranquillità" a " ca**o, non ho il tempo di rifare tuttoooo, devo correreeee"... Quindi non te la prendereeeeee...

Diritto di replica Ciao Master! Caspita che nervoso fare tanto lavoro e poi vedersi andare tutto in fumo... Egoisticamente parlando, mi spiace soprattutto di non aver potuto sfruttare il tuo editing. Comunque non ti preoccupare per il tono "secco", che poi così secco non è. Ti ringrazio per il tuo commento, molto preciso. Il punto che mi ha un po' rattristata è il 2. Sono anche io una

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forte sostenitrice del "show, don't tell", quindi sentirsi dire che ho fatto tutto il contrario è una bella mazzata... mi autogiustifico pensando che ho scritto il racconto a velocità supersonica, anche se è una giustificazione un po' tirata per i capelli, tipo "il cane mi ha mangiato i compiti"... Di certo mi impegnerò in futuro per non cadere di nuovo nella trappola. Rileggendo il racconto alla luce delle tue parole, mi trovo assolutamente d'accordo con il punto 5. In effetti il passaggio dalla calma piatta al delirio totale è troppo netto. Nella revisione per Skan Magazine ho inserito un paio di frasi prima della scena con l'uomo decapitato, sperando di introdurre il disastro in maniera più "soft". E' poco, lo so; a ben vedere bisognerebbe riscrivere parte del pezzo daccapo; ma spero possa comunque bastare per migliorarlo almeno un po'. Per quanto riguarda il 20/25% di parole "di troppo", temo tu abbia ragione; nella revisione ho provato ad accorciare qualcosa qua e là, anche se ho faticato un po'. Ho sempre paura di togliere qualcosa che invece dovevo lasciare. Ecco, qui poter vedere il tuo editing sarebbe stato più che illuminante, proprio per capire dove e come effettuare tagli intelligenti. Nel complesso, sicuramente mi hai fornito spunti di riflessione interessanti. Spero solo di riuscire a metterli in pratica nelle prossime prove. Grazie ancora e alla prossima!


Lo svago dell'una Non c’entra nulla con gli edifici che ci sono lì intorno, se ne rende conto, eppure, non riesce a staccarsene, come se solo quella giostra ottocentesca, con i cavallini e le figure dipinte delle sibille alate possa riempirle la vita. Quando non ci passa accanto, la guarda dalla porta finestra della camera da letto, che si trova al primo piano e guarda verso lo spiazzo occupato dalla giostra. È il suo svago preferito soprattutto nella pausa del lavoro, all’una, quando si permette di tornare indietro nel tempo come pare a lei, con il sottofondo della domanda che non cambiava mai: Cosa sarebbe successo, invece, se….? La giostra ne ha fatto la sua musica, quella con la quale fa girare tutti i cavallini nel ricordo. Il settimo le fa pena. Poverino, è senza testa. Lo aveva cavalcato Maddie l’ultimo pomeriggio nel quale la giostra aveva funzionato, diffondendo note caramellose nel quartiere. Questo, fino a quando il pomeriggio estivo non si era scurito come il ventre di una belva famelica in attesa di preda. Lei stessa ne aveva sentito il fascino. Non temeva il temporale estivo, ce n’erano stati altri e la

giostra aveva continuato a funzionare comunque. Il fatto che Maddie volesse farci l’ultimo giro premio per aver acchiappato la bambola portafortuna appesa a testa in giù al cordino le era sembrato giusto. Poco importava se la pupattola dai capelli di paglia aveva perso la testa dopo lo strattone che le aveva dato Maddie. Ricordava ancora la testa dai codini di stoppa. Portava una coroncina nera di pizzo, che completava il costume di feltro blu con la gonna ornata da una riga grigia. Aveva anche un grembiule dello stesso pizzo della coroncina. Solo che aveva una brutta macchia rossa. La ricordava bene, perché era caduta dalla sua parte e lei l’aveva raccolta quando la giostra si era fermata. Maddie, a differenza di lei, non era scesa dal cavallino. Lo aveva abbracciato, anche dopo che gli altri bambini erano scesi, giocando con la criniera vera. Aveva nascosto la testa della bambola nella tasca del grembiulino estivo, perché non voleva rischiare di perdere il suo premio. Il cielo si stava rannuvolando, ma solo verso destra, pensava. Non voleva scendere prima di aver finito il giro. Gli occhi di vetro del cavallino grigio sembravano brillare di felicità. Era stata lei ad avvicinarsi al giostraio tenendogli la bambola

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decapitata. - Mi dispiace- gli aveva detto. L’uomo si era lisciato i baffi grigi, reprimendo una smorfia di nervosismo:- Nulla di irreparabile. La sistemerò stasera. Sempre che la tua amica mi ridia la testa. Aveva fatto segno a Maddie di scendere, poi era andata da lei, mentre il cielo aveva cominciato a brontolare come un cane stanco di moine. - Avanti, riportagli la testa della bambola- le aveva detto –sono sicura che ti farà risalire subito sul cavallino. - No, Ziska. Ci ripensa ancora, dopo tanti anni. Cosa sarebbe successo, se avesse ceduto all’impulso di afferrarla per il vestito con le maniche a triangolo verde salvia e darle il ceffone che meritava per essere così ostinata? Avrebbe dovuto farlo. Invece, aveva esitato. La sua amica era la figlia dell’industriale più in vista della cittadina e magari avrebbe potuto causarle dei guai. Bastava che avesse stravolto la realtà e sarebbe successo qualcosa di brutto a casa. In effetti, non avrebbe neppure dovuto accettare l’invito di Maddie alla giostra. Perché andarci all’una di luglio? Era un capriccio degno di lei. Cosa sarebbe successo, invece, se avesse rifiutato? La musica della giostra le suona nella mente la stessa identica domanda. Invidia i vicini.


D’accordo, sono tutti canuti e mezzi sordi, ma questo è il loro vantaggio su di lei in quel momento. Non sentono quella musica. E non rivivono il Giro Interrotto. - Scendi, Maddie. Sta per piovere. - No. Il giro è valido. Lo voglio finire. Il giostraio non aveva spento il macchinario. Aveva guardato la bambola decapitata con il grembiulino macchiato e aveva lisciato l’abito. Proveniva da un paese molto lontano e la persona che l’aveva confezionata non esisteva più da tanto tempo. Aveva resistito a tante mani di bambini e bambine, eppure, quel pomeriggio la sua fortuna doveva essere finita, lo aveva capito dal sangue sul grembiulino; l’anima della creatrice si era involata fra le saette e ne occorreva un’altra per tenere insieme la giostra. Succedeva con le anime, si sfilacciavano e precipitavano nel nulla. E se era successo a lei, figuriamoci all’unica bambina rimasta sul cavallino. Il giostraio gridò per chiamarla, preso da una fitta di paura improvvisa. Non ce l’aveva più con lei per aver staccato la testa alla bambola. Aveva capito che quella macchia era di sangue….non ancora versato… Il fulmine si abbatté sulla

parte di giostra dov’era Maddie, interrompendo il giro a metà. Nei giorni successivi alla tragedia, il padre di Maddie aveva fatto distruggere la parte di giostra che rimaneva, dopo aver ripagato il giostraio. Inutile. Ogni volta che lo faceva, si ricomponeva da sola, tranne che per il cavallino con la testa mozza e la bambola decapitata che pendeva dal cordino. Allora, convinto di essere sul punto di impazzire, aveva venduto l’attività e si era trasferito altrove con la famiglia. La giostra era rimasta dov’era, a tenere compagnia a Ziska. Se non altro, la consolava trucemente: le sarebbe potuta anche andare peggio. Maddie avrebbe anche potuto volerla accanto a sé sul cavallino dietro al suo. Ecco il suo svago dell’una, pensa anche in quel momento, guardando la giostra dallo specchio della stanza da letto. È il suo preferito, perché è a figura intera. Ogni volta che vi si rimira, pensa di essere un’invitata a una festa prestigiosa. Anche in quel momento si atteggia a dama altera, fingendo di essere ancora all’epoca in cui ha conosciuto Maddie. E la giostra le suona ancora la musica nella mente: Cosa sarebbe succes-

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so, se invece…? Ma si sta facendo tardi. Deve tornare al lavoro. Chiude la porta finestra e ha l’impressione che la giostra stia cominciando a muoversi, con i cavallini che fanno su e giù, ma non è possibile. Non è ancora arrivata l’ora di raggiungere Maddie e a finire il giro insieme a lei: altrimenti le avrebbe fatto trovare una parte della bambola come messaggio di Invito allo Svago Eterno. Il giostraio non c’è e il sole di luglio splende. Cammina veloce. Guai a ritardare, in ufficio. Dà un colpettino a un oggetto. Si direbbe una testa di bambola, ma lei non se ne accorge. Il cielo comincia ad annuvolarsi e un’ombra compare nella cabina dei macchinari. La bambina viziata ha stufato tutti, nell’aldilà. Non ha voluto saperne, di dilazionare ancora il suo giro. Stringe le ginocchia al cavallino e tiene la bambola decapitata con una presa di ferro.


Il Giudizio di master_runta ciao anche a te, Shanda, scusami ma anche per te vale ciò che ho detto poco fa a Willow, non fare caso al fatto che forse il tono sembrerà secco e oltremodo diretto, è solo perché sto facendo le corse, non sono diventato un tiranno nel giro di mezz'ora... I miei consigli per te sono i seguenti: 1) Rileggi. Ad alta voce. In diversi punto la tua punteggiatura è, come dire, creativa. Non aiuta il lettore a seguire il giusto ritmo, anzi, a tratti ostacola nella comprensione dei concetti e della scansione del periodare. Soprattutto le virgole. Sinceramente io fossi in te le rivedrei, quando rileggi, non seguire ciò che tu sai del brano, segui in modo fedele ciò che tu hai scritto e le virgole fuori posto le noti subito, almeno una buona parte. Quelle ambigue costituiscono lavoro di fino, ma sono anche quelle più discrezionali. 2) Anche tu te ne esci con una certa frequenza con delle belle trovate, hai un tipo di scrittura molto evocativo, tende a creare immagini e sensazioni nella mente di chi legge. Il che è una cosa buona, ma in questo brano hai usato questa tua capacità in maniera un

po'sterile secondo me. Nel senso che c'è, si apprezza, ma non è che sia di supporto agli snodi principali della storia o alla struttura della trama, eccetera. Non che non lo sia per nulla, ovviamente, solo che se con questa abilità puoi dare 10, non posso certo ritenermi soddisfatto di vederla utilizzata per 2, hai un 80% di margine non sfruttato che è lì che ti aspetta! 3) Non so che tipo di penna tu sia, ancora ti conosco poco, l'impressione che ho avuto è che tu sia una penna "istintiva", di quelle che si mettono davanti al foglio e si mettono a inseguire un ricordo, uno spunto, una linea di trama, un po'allo stesso modo in cui si rincorrono le farfalle. Nel senso che tu corri dietro all'ispirazione e la metti su carta, lasciando che sia lei a guidarti. (o, almeno, questa è l'impressione che ho avuto io, magari è tutto il contrario e allora ignora questo punto) Potresti, secondo me, provare invece a cercare di imbrigliare questa ispirazione e forzare lei a fare quello che dici tu. Programmando meglio la storia, decidendo gli elementi, la loro funzione e la loro funzionalità, avendo ben chiaro ciascuna cosa a che ti serve esattamente. In questo modo diverrebbe più facile per te bilanciare meglio li sforzi e indirizzare questo tuo talento che hai di essere evocativa

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(quello del punto 2), nelle direzioni in cui ti restituisce il maggior effetto, la maggior efficacia. Prendi questo consiglio con le pinze però, perché, come si dice, "chi lascia la strada vecchia per la nuova..." Oppure non so, cerca tu un modo per cercare di ottimizzare l'impatto dell'evocatività sulle tue storie, alla fin fine ti conosci bene (immagino), forse sai meglio tu come lavorare per andare in questa direzione. 4) fai attenzione alle figure retoriche che usi, ce ne sono state alcune che mi hanno fatto sollevare un sopracciglio. Per esempio: perché il ventre di un predatore affamato si dovrebbe scurire? Non farti prendere la mano dalla lirica e dall'impatto delle parole scritte, ricordati la funzionalità. Se usi una metafora che non rende l'idea che vuoi far passare, non solo non ti fa guadagnare punti ma, anzi, diventa controproducente. 5) ritorno al consiglio del punto 1)... rileggi bene prima di postare, questa volta te lo dico per le ripetizioni. Ne avevo trovate alcune nel brano che con un minimo di attenzione in più si sarebbero potute evitare senza grossi problemi. 6) l'aspetto che mi ha infastidito del brano è che è un


po'caotico. Ci sono pochi e insufficienti riferimenti ai personaggi, ci sono diversi passaggi in cui, secondo me, è poco chiaro chi fa cosa con chi e chi dice cosa a/di chi. A fine lettura molte cose trovano il proprio posto, ma che succeda a fine lettura è un po'tardi. Nel primo paragrafo in corsivo-flashback, non è immediato neppure quanti personaggi ci siano nella scena, figurarsi quali. Questo mi porta a proporti una riflessione più ampia che include anche questo aspetto. Ciò che ti invito a considerare è la differenza tra ciò che sa il narratore da ciò che sa il lettore: il tipico "il lettore non sta nella tua testa". Cose che per te sono chiare e palesi, non è detto che chi legge le colga, banalmente perché tu ordisci il tutto e sai a cosa serve ciascun elemento, il lettore no, glielo devi dire in modo che ce l'abbia chiaro, devi porre l'accento sui dettagli più rilevanti e permettergli di seguire e capire il tutto con una facilità ragionevole. Se vuoi tenere qualcosa nascosto, la tua abilità deve stare nel farlo in modo che il lettore creda di aver capito una cosa, anche se tu, in effetti, gli hai dato tutti gli elementi per capirne un'altra, così alla fine arrivi ad aver preparato in modo appropriato le basi per eventuali ribaltamenti di prospettiva o per qualche bella sorpresa che il lettore non si

aspetta. Però tutto ciò lo devi fare sempre tenendo a mente la chiarezza espositiva, perché un lettore che si perde, magari torna indietro di qualche riga e rilegge, ma se ancora non si trova, poi è facile che abbandoni la lettura a metà. In questo senso non aiuta la scelta che hai optato di usare formattazionii uguali per cose diverse. Per esempio, il corsivo è sia per i flashback che per i pensieri diretti. Questo crea confusione e riduce la chiarezza. 7) Anche a te dico la stessa cosa che ho detto a willow: usa in modo più oculato gli stacchi di paragrafo. Servono al lettore per capire quando cambia scena o qualche presupposto. Nel finale ne mancano almeno almeno un paio. Comunque, il brano se fosse stato più comprensibile non sarebbe stato male, anzi, l'idea alla base è carina, anche se non si capisce bene da cosa derivi e da dove arrivi l'elemento soprannaturale che si respira dalla scena del sangue sulla bambola in poi. Però comunque hai dei numeri, Shanda, se impari a metterli al servizio della storia e non viceversa, per me puoi migliorare tanto. Bene, è tutto per ora, ci rivediamo allo skan di gennaio!

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Diritto di replica

Ringrazio Master runta di cuore per il suo commento, era quello che ci voleva per me, da sempre abituata a scrivere da sola e con un rapporto schizofrenico con la propria arte. Certo, ho letto qualcosa agli amici ai tempi del liceo, ma erano tipi molto lovecraftiani: la usavano come sfogo, ma non la vedevano come un modo di essere e di lavorare. Questo significa molto. È pericoloso vedersi contro: la vita, il mondo, gli editori. Io non sono mai stata così. Ho sempre creduto che il modo di porsi come artisti professionali ci fosse. Occorre molta gavetta e molta umiltà, ma bisogna anche sapere giocare a favore di se stessi e non contro: basta con il vedere rivalità e basta con la Sindrome del Ne Resterà Uno solo o della Scrittura Lavoro Solitario. Tutte invenzioni e lo Skannatoio, nella figura di Master runta, ne è la prova.


S ka n

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autore XXII anark2000 51 shanda06 1 4 willow78 21 Albertine 38 Slash1 588 White Pretorian GDN76 kaipirissima Mark it zero Polly Russell mother95A cristiano r. Callagan NOR Rovignon David G. 7

XXII½ 35 29 36 33 15 17 31 28 -

risultati e classifiche

XXIII XXIII½ XXIV 13 16 24 6 14 12 15 16 21 17 18 23 14 12 6 15 19 -

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XXIV½ XXV 9 8 22 11 11 32 10 42 33 12 8 -

TOT 1 48 1 05 95 74 50 50 48 43 42 33 31 28 21 20 19 7


N o n pe r d e t e i l n u m er o d i F eb b r a i o 2 01 4 N el s eg n o di un a n u o va e r a


S ka n

G e n n a io 2 0 1 4

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Anno 2

N u me r o 1 7

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La stanza rossa di Mark it zero

No n c ' è p iÚ p o s to in cielo d i P o lly R u s s e ll

Promessa da marinaio

di White Pretorian

La piastrella rotta di Alexandra Fischer

F u tu r o p r o s s im o di willow78

Ventiquattr'ore senza testa

Destino

di willow78

Lo svago dell'una di Alexandra Fischer

Close Encounters

elaborazione di Loredana Castorelli


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