Intervento Giovanna Martelli, Consigliera Pari opportunità

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Vorrei iniziare questo intervento ponendo l’attenzione su un fatto cruciale anche per il tema di cui ci accingiamo a discutere. In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso la disuguaglianza sociale, sia nelle relazioni sociali interne ai singoli Stati sia nei rapporti tra il cosiddetto Nord e Sud del mondo, continua ad essere la nodo centrale di tutte le ingiustizie. Anzi dovremmo ricordare come secondo la fonte Ocse uno dei fenomeni più preoccupanti della contemporaneità è la scarsa redistribuzione della ricchezza per cui, ad esempio, nel mondo, solo 83 persone accumulano e gestiscono i 2/3 della ricchezza globale! Non si tratta solo di condannare l’iniquità sociale ma di chiederci verso quale forma di globalizzazione vogliamo andare? Quella che il sociologo Zygmunt Bauman chiama della produzione di “vite di scarto” che sono le esistenze degli espulsi e degli esclusi dall’accesso ai benefici del progresso economico e sociale, oppure vogliamo tornare a considerare l’unificazione del mondo non solo come un’opportunità economica ma anche e soprattutto come costruzione di “ponti e reti” di scambio di culture, di diritti, di fattori di crescita? Questo mi sembra il punto fondamentale su cui interrogarci oggi anche per provare ad affrontare l’annosa questione della lotta a tutte le forme di sfruttamento, dalla ricerca di nuovi ed efficaci strumenti di governance del fenomeno dell’immigrazione, al contrasto al fenomeno della tratta degli esseri umani e allo sfruttamento sessuale delle donne e dei minori. Oggi non possiamo più esimerci dal dare risposte concrete all’esigenza di “governo”, concertato e globale dei flussi migratori. Purtroppo in ambito nazionale la propaganda populista di chi pensa di cavalcare il disagio sociale tramite la ricerca del capro espiatorio di turno, spesso impedisce ed ostacola una riflessione seria e approfondita su questi temi. Pensiamo davvero che una politica restrittiva fondata su sistematici respingimenti di flussi sia la soluzione al problema? Innanzitutto occorre ribadire che – come la triste cronaca di questi tempi ci ricorda- sulle coste italiane approdano non tanto emigranti in cerca di riscatto e lavoro, quanto piuttosto migliaia di persone in fuga da guerre e devastazioni a cui l’Italia aderendo a trattati e convenzioni internazionali ha il dovere di rispondere e accogliere. In secondo luogo voglio sottolineare il fatto che, per quanto riguarda la cosiddetta “immigrazione da lavoro”, il nostro paese, come rileva l’Eurostat, è maggiormente “terra di passaggio” per viaggi che hanno altre mete come destinazione, ad esempio Nord Europa e Inghilterra, dove nonostante problemi di integrazione legati anche alla storia coloniale di quei paesi, i migranti si dirigono, ribadiamolo, perché rispondono alla domanda di lavoro! È un concetto questo che va sottolineato con forza: il Nord del mondo ha bisogno ancora di manodopera da utilizzare/sfruttare così come il


Sud del mondo è divenuto da molto tempo il luogo privilegiato in cui le grandi multinazionali “migrano” per sfruttare la forza lavoro locale. Se non si tiene presente questo dato di realtà si rischia di fare retorica da accatto e non ci si concentra sulla complessità del fenomeno. Non è un caso che le leggi migliori sono quelle che puntano alla costruzione di accordi “bilaterali” con paesi di origine dei migranti per stabile “quote di ingresso stabili” nei paesi d’accoglienza. In questo verso si mosse la Legge Turco-Napolitano del 1998 poi soppiantata dalla Bossi-Fini del 2002 che ha appunto messo in discussione questo principio “regolamentista” e ha spostato l’attenzione del discorso su politiche di “respingimento” degli ingressi introducendo l’odioso resto di “clandestinità”, poi abolito nel 2013. Si è trattato di un regresso culturale ma anche politico, un vulnus imperdonabile per un Paese come il nostro, troppo spesso dalla memoria corta, che è stato terra di emigranti, nell’800 e nel primo ‘900verso la terra promessa degli Stati Uniti d’America(stupendo l’affresco del regista Crialese in “Nuovo Mondo”), poi verso i paesi del Nord d’Europa, per non parlare della vicenda anche dolorosa, dell’emigrazione interna del secondo dopoguerra quando i contadini del Sud emigravano verso le fabbriche del Nord trovandovi in un primo momento disprezzo e esclusione. La storia recente del Nostro Paese ha dimostrato come affrontare secondo una logica meramente securitaria e repressiva il fenomeno migratorio è per giunta controproducente: l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale, Frontex, ha fornito dati allarmanti in merito all’aumento dell’immigrazione clandestina (certo l’acuirsi nell’ultimo anno delle crisi politiche nei paesi del Nord Africa e in particolare in Libia ha acuito il fenomeno), e non solo, considerato l’aumento del traffico degli esseri umani organizzato dalle reti internazionali del crimine. E vengo dunque ad affrontare l’altro aspetto connesso alla gestione dell’immigrazione clandestina che è direttamente intrecciato al fenomeno della tratta. È intenzione precisa del Governo licenziare in breve tempo il Piano Nazionale di contrasto al fenomeno della tratta. Si tratta di un passaggio fondamentale senza il quale non possiamo pensare di affrontare la forma peggiore di sfruttamento umano quella che vede corpi di donne e uomini venduti e comprati come puri strumenti “produzione di valore” da impiegare nel mercato, come mano d’opera a basso costo, come corpi da smembrare per l’espianto di organi, come corpi da offrire come oggetti di piacere. Io credo non si possa non esprimere la necessità di affrontare e ricomprendere il discorso sul contrasto alla tratta in relazione anche al contrasto della prostituzione. Voglio sottolineare questo nesso onde evitare subito fraintendimenti. Per la maggior parte il fenomeno della prostituzione riguarda “donne e ragazze” che provengono da luoghi e paesi di povertà e disagio, spesso vittime doppiamente sia dello sfruttamento economico proveniente dai traffici dei mercanti di esseri umani sia dello sfruttamento sessuale che deriva dalla loro condizione di genere. Sappiamo ormai da più


fonti, provenienti da organizzazioni internazionali, Ong impegnate da anni nel soccorso alle donne vittime di violenza nel mondo, come all’interno dell’odissea emigratoria affrontata da milioni di individui per raggiungere le terre promesse del lavoro e del riscatto sociale, un numero imprecisato di donne e bambine spariscono nel nulla, o meglio, vengono “reclutate” nelle reti criminali dei mercanti del sesso: tristemente nota la vicenda delle giovani nigeriane che affollano i marciapiedi delle nostre città. Il racconto delle loro storie ci consegna un quadro di schiavitù e violenza. Reclutate nel loro paese d’origine con la promessa di un riscatto tramite il lavoro sono poi costrette alla prostituzione per ripagare il loro debito di “viaggio” contratto con i trafficanti. Ho fatto questi richiami perché una cosa voglio sottolinearla la Legge Merlin è stata un grande atto di civiltà che ha segnato un passaggio culturale dal quale non possiamo prescindere: il corpo delle donne non è uno strumento di produzione di valore come qualsiasi altro oggetto di mercato, e lo Stato non può pensare di ricavare utili da questo. Detto questo però non possiamo pensare oggi, a fronte di una forte divaricazione del fenomeno in cui la prostituzione di strada rappresenta l’ “outlet del sesso” accessibile a tutti mentre il fenomeno delle escort e in generale la “prostituzione indoor” soddisfa le esigenze dei più facoltosi, di non affrontare il problema di un “governo del fenomeno” che sappia magari anche arricchire la legge Merlin traghettandola nel nuovo tempo e rafforzando le azioni a contrasto della riduzione in schiavitù. Credo che quello che occorrere fare è provare ad uscire dalla logica binaria regolamentismo vs proibizionismo. L'impostazione di stampo illuminista e liberista considera la prostituzione un atto di libera disponibilità del corpo e accetta la validità di questo contratto, mentre una posizione femminista la nega perché rifiuta la mercificazione del sesso delle donne, falsamente mascherata da libera contrattazione in una situazione, in realtà, di oppressione femminile e di costrizione economica. La prostituzione, ricordiamolo, non è un reato. Sono crimini invece lo sfruttamento e la tratta. Ma non è con le multe o le schedature dei clienti che ne usciremo ma concentrandoci sull’analisi sociologica e antropologica del fenomeno nel suo complesso. Se infatti parliamo di regole del mercato sappiamo che è la domanda a determinare l’offerta, chiediamoci allora perché il fenomeno è costantemente in crescita? Possibile che il dibattito pubblico non si focalizzi mai dalla parte degli uomini che comprano sesso? Che tipo di educazione “sentimentale e sessuale” hanno ricevuto? Perché sentono l’esigenza irrefrenabile di comprare una relazione sessuale? Sono queste le domande che ad esempio Riccardo Diacona si pone nel suo ultimo libro inchiesta, “utilizzatori finali”, per tentare di aprire una riflessione collettiva su questo


tema, sul maschio occidentale in crisi di virilità a fronte dei processi irreversibili legati all’emancipazione femminile. Nelle epoche passate il fenomeno della prostituzione era la massima espressione di una società patriarcale che considerava le donne mogli angelicate o eteree. Basti ricordare che nell’ Europa “vittoriana” della difesa della morale borghese della nuova famiglia coniugale (in Inghilterra e Francia tra la fine del ‘700 e i primi dell’800, in Italia verso la metà dell’800) nasce l’esigenza di regolamentare per legge il fenomeno con una legislazione che prevedesse la “doppia iscrizione” delle donne al registro per il controllo medico-sanitario e per la tassazione del loro contributo pecuniario allo Stato. Oggi, in un passaggio storico che esprime una totale liberazione del sesso e dei corpi, e che spesso rappresenta l’altra faccia di una mercificazione e riduzione a profitto di ogni spazio di relazione umana, che domande ci pongono quegli uomini bisognosi di sesso vorace e predatorio? Quali risposte la politica può dare per la costruzione di azioni capaci di confrontarsi con la complessità del fenomeno? Io credo che la risposta è quella di elaborare politiche pubbliche che colpiscano al cuore lo sfruttamento, attraverso un Piano nazionale di contrasto a tutte le forme di schiavitù che programmi azioni efficaci su quattro assi di intervento:

- relazioni internazionali per il contrasto alle reti criminali e per la promozione di progetti di cooperazione internazionale per l'empowerment femminile - sistemi di protezione per l'emancipazione dalla schiavitù che tengano conto delle narrazioni individuali delle donne come nodi centrale delle azioni di recupero - sostegno ai progetti di mediazione sociale nelle realtà urbane - percorsi culturali ed educativi per le intelligenze affettive degli uomini

Giovanna Martelli


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