Intervento Stefano Ciccone, Maschile Plurale

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La discussione sulla prostituzione a Roma sembra già essere stata sostituita da altre “emergenze”. Il modo in cui abbiamo “consumato” questa vicenda rischia di essere poco utile e di far tornare indietro una riflessione sviluppata in questi anni tra associazioni di volontariato, femminismi, esperienze maschili di riflessione critica sulla sessualità. La prima responsabilità è stata nella semplificazione proposta dai media: i giornali hanno parlato di “quartieri a luci rosse” corredando gli articoli con ammiccanti immagini di donne discinte in vetrine illuminate a dimostrazione dell’ambigua contiguità che c’è tra condanna moralista e pruriginoso vojerismo. Questa definizione ha fatto credere che in discussione fosse l’istituzione di qualcosa di simile al quartiere di Amsterdam. La seconda responsabilità è dell’amministrazione locale che ha pensato questo come “provvedimento amministrativo” senza essere consapevole della necessità di anteporre a queste scelte un percorso partecipativo, di confronto tra tutti i soggetti coinvolti. Innanzitutto provando a dare voce e cittadinanza alle donne che si prostituiscono. Nella sua lettera alla cittadinanza il Presidente del Municipio descrive infatti così “la proposta: … vietare la prostituzione nei centri residenziali - dove ci sono abitazioni, scuole, parchi dove giocano i vostri figli introducendo le sanzioni per i clienti (aumentando, al contempo, gli aiuti alle donne vittime dei reati connessi alla prostituzione).” Lo “zoning” cambia di segno se adottato come mero provvedimento repressivo- amministrativo che “vieta” alcune strade rimuovendo il fenomeno alla vista o se è parte di un lavoro di relazione con le persone che si prostituiscono: può dunque aumentarne la condizione di clandestinità o essere parte di un processo di emersione delle forme di sfruttamento. Come ricordano quanti hanno costruito l’esperienza di “zoning” a Mestre: «Individuare la zona dove far spostare trans o prostitute è davvero l’ultima cosa. Prima, ci vuole un lavoro paziente e meticoloso che coinvolge operatori sociali, mediatori culturali, forze dell’ordine, prefettura, azienda ospedaliera e, soprattutto, i cittadini». Non si risolve con polizia e vigili «servono mediatori culturali e educatori. Il nostro obiettivo era di creare un osservatorio permanente, stabilire un contatto e un rapporto di fiducia con chi si prostituiva, accompagnare queste persone ai servizi sanitari per fare prevenzione e tutela della salute, gestire le loro richieste di aiuto: spesso chi fa quel mestiere è costretto dal racket, per loro è molto difficile spezzarne le catene. In parallelo, la nostra attività era rivolta ai cittadini». Ci vuole poi il tempo e la capacità di gestire i conflitti. Il caso dell’EUR non è il primo. Sempre a Roma, tempo fa, un comitato di cittadini della Prenestina ha tentato di evitare la solita “cacciata delle prostitute e trans” e ha provato a fare un percorso più complesso di confronto, negoziazione, relazione. In quella zona abbiamo partecipato ad assemblee, incontri nelle scuole. Ma è mancata la connessione con le soluzioni anche amministrative. La scelta di affrontare problemi complessi con soluzioni, o giudizi, semplici è sempre rischioso e indice di una volontà di non mettersi in discussione. Spostare chi si prostituisce da una strada ad un’altra, può dunque rappresentare una scelta ipocrita di chi non vuol “vedere”. Allo stesso modo la scelta di non voler prendere nessuna scelta di “governo” della situazione appare un’altrettanto ipocrita scelta di rimozione. Lo esprime molto chiaramente la dichiarazione del Prefetto Pecoraro: “Non si possono fare, perché significherebbe ammettere la prostituzione, cioè dire che la prostituzione è lecita”. Ora, premesso che il Prefetto dovrebbe sapere che la Legge considera lecita la prostituzione e ne reprime lo sfruttamento, è evidente l’ipocrisia di chi sceglie di non intervenire per non riconoscere una realtà che evidente a tutti.

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A leggere i tanti articoli comparsi sul tema salta agli occhi una grande rimozione e una conseguente percezione distorta del “fenomeno”: la prostituzione è rappresentata come un fenomeno estraneo che giunge a “deturpare” i nostri quartieri. Ma la prostituzione parla innanzitutto dei milioni di uomini italiani che ricorrono al sesso a pagamento. La prostituzione, quindi, chiama in causa una cultura e un immaginario diffusi tra noi, uomini di questo Paese. Si parla delle prostitute nelle nostre strade e della comprensibile e legittima ansia di padri e madri di famiglia per lo “spettacolo” di fronte ai propri figli. Ma quasi nessuno ricorda che sono proprio i padri di famiglia delle nostre città ad alimentare il mercato della prostituzione. Se togliessimo questo velo di ipocrisia potremmo discutere con più consapevolezza. Ma anche le prostitute nelle nostre strade parlano della nostra «normalità», perché gli uomini che vanno con loro vivono la nostra quotidianità: colleghi, amici, parenti. Siamo noi. Perché condividiamo un immaginario, una cultura, una rappresentazione della sessualità. A noi si riferiscono le pubblicità che fanno leva sul nostro desiderio promettendoci il consumo di oggetti, corpi e merci tra loro confusi. Ma quel desiderio maschile che si esprime attraverso lo scambio tra sesso, denaro e potere resta in ombra. Non riguarda solo la prostituzione ma regola le relazioni e presuppone un’asimmetria di desiderio tra i sessi, uno scambio non di simile con simile ma ineguale. Chiama in causa la nostra «normalità». Gli uomini devono avere qualcosa da far valere, le donne devono mettere in gioco la seduzione e la disponibilità per ottenere dividendi del potere economico o istituzionale maschile. Questa complessità richiede anche che un partito radicato come il partito democratico affronti la prostituzione recuperando il senso del proprio ruolo non limitato alla produzione normativa o alla gestione amministrativa dei territori ma anche come capacità di offrire luoghi di confronto, di elaborazione collettiva e di trasformazione dei conflitti per evitarne un’involuzione. I partiti devono provare ad essere anche occasione di partecipazione e protagonismo delle persone, di processi di consapevolezza e di trasformazione della cultura diffusa e delle relazioni quotidiane non limitandosi al governo come attività separata o meramente amministrativa. La discussione in rete si è sviluppata soprattutto su come debba essere considerata l’attività di chi si prostituisce: una scelta libera da regolamentare, una forma di schiavitù, un grave sfruttamento da proibire? La polarizzazione e la semplificazione non aiutano a capire e soprattutto paralizzano. Questa divisione produce una discussione sterile per vari motivi: innanzitutto perché presuppone che il riconoscimento di una realtà neghi l’altra: esiste una grande parte di persone che si prostituiscono in condizione di mancanza di libertà, moltissime altre che lo fanno in una condizione di sfruttamento o di grave bisogno e una parte minore che vive la prostituzione come un’attività temporanea, discontinua e gestita in autonomia. È evidente che riconoscere la realtà di donne che scelgono di prostituirsi non nega la realtà, ben più vasta di donne sottoposte a tratta, o costrette dal bisogno e viceversa. In realtà non esistono due realtà definite e rigidamente separate ma esiste un gradiente continuo e complesso che dobbiamo riconoscere per riconoscere la soggettività delle donne coinvolte: dal progetto migratorio che accetta anche lo sfruttamento più brutale, alla scelta temporanea in una fase di difficoltà, alle continue negoziazioni quotidiane di chi, anche schiava, mantiene una propria progettualità di vita di emancipazione da sostenere, alla escort. Una riflessione che parte da Roberta Tatafiore come ha ricordato Letizia Paolozzi. Il problema emerge quando trasformiamo questa discussione in confronto sul “giudizio” su chi si prostituisce o sulle soluzioni. La soluzione è la regolamentazione o la repressione? Prima delle soluzioni normative il fenomeno della prostituzione chiede innanzitutto una capacità di mediazione sociale di relazioni e conflitti in situazioni urbane il cui tessuto sociale è lacerato a seguito di processi ben più complessi e tra loro intrecciati: dalla crisi economica, ai fenomeni migratori, alla crisi del 2


welfare, alla condizione delle periferie delle grandi città metropolitane. I fenomeni migratori, peraltro, hanno trasformato lo scenario della prostituzione che non è per nulla un dato immutabile nel tempo: né nelle forme né nelle dimensioni quantitative. Se allarghiamo lo sguardo dalle donne che si prostituiscono e vediamo anche le relazioni tra loro e gli uomini, se non ci limitiamo a dividerci su che “giudizio” vada dato su chi si prostituisce ma proviamo a leggere il fenomeno come parte della relazione tra i sessi possiamo provare a uscire da una polarizzazione astratta, ideologica e paralizzante. E in questa riflessione ci aiuta il libro di Giorgia Serughetti. La stessa rete di uomini di Maschile Plurale ha provato nell’incontro nazionale di Torino a fissare lo sguardo su quell”oscuro soggetto del desiderio” che sono gli uomini. In questa discussione le contrapposizioni nascono spesso da una malintesa ricerca di radicalità: intransigenza nella denuncia di una relazione mercificata, intransigenza nel rifiuto di una condanna moralistica di chi si prostituisce, affermazione di una libertà affermazione della libertà di risignificare. Ma specie quando è in gioco la sessualità la radicalità è necessariamente andare alla radice delle cose, misurarsi con la complessità e non ricercare la nettezza. Come ha osservato Lea Melandri su il Manifesto “andare alla radice del problema non può essere considerato un modo per rallentare interventi mirati, specifici e tempestivi” Così, riconoscere il dato strutturale e diffuso dello scambio sesso-denaro-potere tra donne e uomini di cui ci parla Paola Tabet comporta forse un’attenuazione della riflessione critica sulla prostituzione o, al contrario, richiede una maggiore radicalità nell’analisi delle forme di relazione quotidiana tra i sessi? Ida Dominijanni ha analizzato le vicende attorno a Berlusconi e a come la sinistra sia stata oscillante tra il giudizio moralistico e la “tutela della privacy” delle persone coinvolte, tra l’indignazione e la rivendicazione della libertà del laissez faire. Anche in questo caso facciamo spesso confusione tra giudizio, stigma sociale e riflessione critica. Perché per evitare un discorso pubblico sulla prostituzione segnato dallo stigma verso chi si prostituisce dovremmo affermare l’insignificanza politica della qualità delle reazioni e le dinamiche di potere, e l’immaginario culturale che si strutturano attorno alla sessualità? Libertà sta nell’insignificanza politica di quello che accade in quella relazione? Perché la risposta all’intromissione moralista dovrebbe essere: “ognuno nel privato fa quel che gli pare”? Certo: ognuno vive la sessualità come crede. Ma non abbiamo scoperto che costruire una riflessione critica sulla famiglia, le relazioni, la sessualità, il desiderio, l’immaginario sessuale hanno rappresentato una grandissima occasione di trasformazione e di libertà? La prostituzione non è dunque “un lavoro come un altro”; ma ridurre la prostituzione alle dinamiche di violenza e sfruttamento che la segnano, a questione criminale, ha paradossalmente la conseguenza di rimuovere dalla nostra riflessione il tema della sessualità e delle sue forme che invece è evidentemente alla radice del fenomeno. Lo stigma, peraltro, non è uguale per tutti: additare una donna come “puttana” è un insulto sanguinoso, essere un “gran puttaniere” può essere per un uomo quasi un vanto. Le prostitute, poi, sono segnate da quel rapporto mentre gli uomini possono entrare e uscire senza difficoltà: sono “clienti” non una condizione ma un’attività come un’altra. C’è cliente di un supermercato, chi di un chi della prostituzione. È di questi giorni la sentenza per un’altra vicenda sempre romana di prostituzione minorile ai parioli in cui gli imputati hanno patteggiato una soluzione pecuniaria Le nostre parole hanno già determinato gli spazi: parliamo di baby prostitute. Non ci limitiamo a descrivere dei comportamenti. Quelle ragazze diventano una categoria, sono «prostitute» e uno stigma ne segna l’identità. I clienti no. Anche quando consumiamo

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prostituzione non siamo segnati per sempre come «clienti», siamo liberi di entrare e uscire da quella pratica. Guardare al contesto diffuso di scambio ineguale ineguale tra i sessi cui la prostituzione rimanda vuol dire mettere in discussione la rimozione sociale del desiderio femminile e l’aspettativa a maschile della disponibilità femminile. Fuori dal contesto di dominio la rimozione del desiderio femminile diventa disparità che si rivolge contro gli uomini e che produce rancore verso l’opportunismo femminile e l’uso del “potere della seduzione. Qui la riflessione si intreccia con l’impegno contro la violenza maschile verso le donne che ha radici comuni in questo immaginario. La rimozione del desiderio femminile consegna agli uomini un potere ma anche una sessualità impoverita. La fantasia di potere e di miseria nel rapporto maschile con la prostituzione, e veicolato anche in un immaginario pornografico, vanno strettamente di pari passo: l’uomo vecchio, ricco e potente (vi ricorda qualcuno?) che dispone del corpo di una giovane donna. Più questa disparità di età e di bellezza è grande e più è forte la sensazione di potere che si accompagna allo scambio. Come è possibile che quella immagine abbia esercitato tanta attrazione sugli uomini (e su molte donne) di questo paese? Forse perché permetteva di non specchiare la propria miseria in quella ma di dissimularla. Riconoscere soggettività alle persone che si prostituiscono e contrastare un approccio meramente repressivo non può quindi rimuovere la necessità di una riflessione critica e una battaglia politico culturale contro l’immaginario neoliberale di “libertà proprietaria”, di individui neutri e astratti le cui relazioni di potere e disparità sono occultate dall’astrattezza dello “scambio di mercato” . Qui si intrecciano due facce delle politiche neoliberali: da un lato la retorica sulla libertà individuale fondata sull’essere imprenditori e proprietari di se stessi e dall’altra la continua dinamica di esclusione, stigmatizzazione ed esclusione di crescenti parti di “umanità” (dai migranti che muoiono nel Mediterranuo, a chi esce dal contesto produttivo, a chi vive in paesi in cui gli effetti collaterali delle operazioni di polizia internazionale sono meri numeri). Sui processi di disumanizzazione delle alterità si veda “Orrorismo” di Adriana Cavarero. È dunque necessaria una riflessione critica sulla sessualità e anche sulla stessa idea di libertà che mettiamo in gioco. Lo stesso desiderio è espressione libera o colonizzata, indotta? Come uomo so che il mio immaginario sessuale, i miei desideri, le forme della mia sessualità sono la dimensione più intima di me ma al tempo stesso sono profondamente plasmati da modelli stereotipati. Judit Butler, parla di soggetti opachi a se stessi. E Maria Luisa Boccia ha mostrato come la riflessione femminista sul nesso tra sessualità, corpo e soggettività sia un riferimento contro l’illusione neoliberale di soggetti scissi, padroni di sé. Allora sulla scena dello scambio tra donne e uomini, anche tolta la dimensione dello sfruttamento, non ci sono due soggetti liberi che scambiano liberamente in un mercato che sarebbe condizione di autonomia reciproca.La libertà non può essere semplicisticamente ridotta ad essere padroni di se stessi. Padroni del proprio corpo. Sempre Ida Dominijanni ha centrato questo tema nel suo testo ”il corpo è mio e non è mio”. Senza una riflessione sulla sessualità per gli uomini si presentano ruoli forse gratificanti ma ambigui: i fustigatori dell’immoralità altrui, i salvatori o, peggio, i “protettori” delle donne. Gli uomini che hanno costruito l’esperienza delle reti di ex clienti. La riflessione di Claudio Magnabosco la necessità di un di più di riflessione: non basta opporsi alla tratta, è necessario mettere in discussione se stessi. L’ambiguità dell(ex?) cliente che salva la donna prostituita può risolversi non solo nella gratificazione per il proprio di salvatore ma anche nell’aspettativa di una “riconoscenza” e di un rapporto di dipendenza. Non si può fare appello solo alla coscienza dei clienti chiedendo loro di porsi una domanda sulla condizione 4


della donna che incontrano: è necessario sollecitare anche un’interrogazione sulla propria sessualità, sulla qualità delle proprie relazioni, sul proprio “bisogno di prostituzione”. Anche in questo caso si tratta di un lavoro sociale diffuso: di sensibilizzazione, di mediazione, di produzione di consapevolezza. Questa riflessione è qualcosa di astratto, buono per i salotti? Eppure le esperienze che concretamente lavorano nelle strade, sostenendo le ragazze che vogliono uscire dalla tratta, cercando di ridurre il danno promuovendo l’uso del preservativo, hanno cercato occasioni di riflessione proprio su questo piano più profondo, consapevoli che non basta un intervento regolatorio, repressivo o assistenziale. Cito qui solo alcune esperienze: il gruppo Abele (con il convegno organizzato a Torino sui “clienti”, l’Associazione “liberazione e speranza” che nella Provincia di Novara è impegnata nel contrasto alla tratta, Tampep. Stefano Ciccone

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