Chiara Volpato Deumanizzazione. Come si legittima la violenza pag 94-104

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La distinzione naturai'cultura: l'ontologizzazione delle minoranze «inassimilabili» Più o meno negli stessi anni in cui è nata la teoria dell'infra-umanizzazione, Moscovici e Perez hanno proposto la teoria dell'ontologizzazione, basata sull'idea che natura e cultura costituiscano le dimensioni fondamentali nella rappresentazione dei gruppi umani. Nel discorso occidentale, il termine «cultura» si riferisce allo sviluppo intellettuale, spirituale, estetico, ed è usato come sinonimo di civiltà, vita sociale ordinata, sviluppo. Civiltà, che deriva dal latino civis, abitante della città, indica l'organizzazione di coloro che si sono stabilmente insediati, in contrasto con la vita nomade, ritenuta selvaggia e primitiva. Il processo di civilizzazione implica il controllo degli istinti, l'espressione di emozioni culturalmente accettate, l'accettazione di sanzioni sociali per comportamenti impropri. La concezione di umanità è legata al passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura, dal gruppo nomade alla civiltà urbana. Partendo da queste considerazioni, i teorici dell'ontologizzazione sostengono che, quando una minoranza etnica resiste per lungo tempo ai tentativi di assimilazione, le viene attribuito uno statuto ontologico che la separa dalla specie umana e la ancora al mondo animale. Questo processo, definito ontologizzazione, indica l'operazione categoriale che esclude il gruppo minoritario dalla mappa dell'identità umana, definendolo in termini di caratteristiche naturali (comuni all'uomo e agli animali) e non culturali (unicamente umane; Moscovici e Perez 1997; Perez, Moscovici e Chulvi 2007). Il paradigma dell'ontologizzazione introduce una modifica nei gradi di categorizzazione sociale postulati dalla teoria della categorizzazione di sé, la quale prevede l'esi94

stenza di tre livelli categoriali: il livello sovraordinato del sé come essere umano, fondato sulle caratteristiche condivise con i membri della specie umana in contrasto con altre forme di vita; il livello intermedio delle categorizzazioni ingroup/outgroup, basato sulle somiglianze e differenze sociali che definiscono l'appartenenza e la non appartenenza ai gruppi sociali; il livello subordinato delle categorizzazioni personali, basate sulle differenziazioni tra sé e gli altri membri del proprio gruppo (Turner et al. 1987). Secondo la teoria dell'ontologizzazione, il livello sovraordinato è più complesso di quanto sostenuto dalla teoria della categorizzazione di sé. La biologizzazione delle differenze e la credenza nell'esistenza di razze all'interno della specie umana portano infatti a tre gli elementi che compongono tale livello: gruppi/cultura (esseri umani civilizzati), gruppi/natura (selvaggi), animali. Il processo di ontologizzazione avrebbe quindi il potere di sradicare alcuni gruppi dalla specie umana, ancorando la loro essenza a elementi naturali e consentendo così ai gruppi sedicenti civilizzati di identificare se stessi con l'umanità. A differenza dei teorici dell'infra-umanizzazione, i ricercatori dell'ontologizzazione sono restii a generalizzare il processo proposto ai diversi gruppi sociali; sono invece attenti ad analizzare situazioni specifiche all'interno di determinati contesti storici. L'ipotesi di base, come detto, è che siano i gruppi che hanno rifiutato di assimilarsi a essere accusati di avere un'essenza ontologica diversa, una sorta di alterità radicale, che serve alla maggioranza per spiegare la loro resistenza agli imperativi assimilazionisti. In questi anni sono stati condotti una serie di lavori empirici che hanno mostrato come a sinti e rom siano attribuiti più tratti animali che umani e meno 95


tratti umani rispetto ai membri del gruppo dominante. Tale ontologizzazione dipenderebbe dal fatto che, nei paesi europei, gli 'zingari' continuano a essere assimilati ai selvaggi, considerati elementi intermedi tra uomo e animali. In particolare, Perez, Chulvi e Alonso (2001) hanno analizzato la percezione della minoranza gitana in Spagna, trovando che le vengono attribuite caratteristiche di tipo naturale, funzionali a spiegarne le resistenze all'integrazione e a giustificarne la persistente marginalizzazione sociale. Tre studi sperimentali hanno poi confermato l'attribuzione specifica di tratti naturali al gruppo gitano, in particolare quando l'immagine del gruppo è preceduta da rappresentazioni evocanti lo stato selvaggio (Perez, Moscovici e Chulvi 2007). Considerata la vicinanza dei costrutti di ontologizzazione e infra-umanizzazione, entrambi basati sulla contrapposizione natura/cultura, Marcu e Chryssochoou (2005) hanno comparato la percezione sociale dei gitani in Gran Bretagna e Romania, due paesi in cui il gruppo ha una presenza diversa: in Gran Bretagna è un'esigua minoranza, in Romania costituisce il 10% della popolazione. Nonostante ciò, la previsione delle autrici era che in entrambi i paesi i gitani sarebbero stati ontologizzati e infra-umanizzati. I partecipanti, studenti inglesi e rumeni, hanno risposto a un questionario nel quale si chiedeva di attribuire tratti ed emozioni al rispettivo gruppo di appartenenza e a quello gitano. Per quanto riguarda l'ontologizzazione non sono emerse differenze tra i due campioni: sia gli inglesi sia i rumeni hanno ontologizzato i gitani attribuendo loro più caratteristiche naturali e meno caratteristiche culturali rispetto all'ingroup. Per quanto riguarda l'infra-umanizzazione, invece, gli inglesi hanno esibito il pattern consueto, attribuendo

più emozioni secondarie all'ingroup che all'outgroup; i rumeni non hanno invece infra-umanizzato i gitani, ai quali hanno addirittura assegnato più emozioni secondarie che all'ingroup. Il risultato è inaspettato e interessante, sia perché in letteratura sono riportati pochi casi in cui l'outgroup non viene infra-umanizzato, sia perché solleva interrogativi sul rapporto tra le due forme di deumanizzazione. Le ricerche sull'ontologizzazione sono state estese ad altri gruppi. In un lavoro sul pregiudizio, Deschamps e collaboratori (2005) hanno analizzato l'attribuzione di tratti naturali e culturali all'ingroup (svizzeri) e a vari outgroup, di status simile (tedeschi) o diverso (neri africani, musulmani, europei dell'Est). Per rilevare gli aspetti culturali gli autori hanno impiegato i tratti: civile, competente, intelligente, onesto; per gli aspetti naturali i tratti: intuitivo, libero, semplice, spontaneo. I risultati hanno indicato che all'ingroup svizzero, ai tedeschi e, in misura minore, ai musulmani sono stati attribuiti più tratti culturali che naturali, mentre non sono emerse differenze per gli europei dell'Est. I soli ontologizzati sono stati i neri africani, ai quali sono stati attribuiti più tratti naturali che culturali. Partendo dall'idea dell'esistenza di un tabù che proibisce la mescolanza tra gruppi ontologicamente diversi, Roncarati e colleghi (2009) hanno formulato l'ipotesi che la relazione sessuale tra persone appartenenti a etnie differenti produca un più alto livello di ontologizzazione, che affiora nelle spiegazioni del pensiero comune. Gli autori hanno fatto leggere ai loro partecipanti (studenti delle Università di Ferrara e Valencia) la storia di una donna - Maria, appartenente all'ingroup spagnolo o italiano, o Macumba, appartenente all'outgroup senegalese - che tradiva il suo compagno, il quale, a sua

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volta, veniva descritto come membro dell'ingroup spagnolo o italiano, o dell'outgroup rumeno o senegalese. I partecipanti dovevano poi elencare i pensieri suscitati dalla lettura e valutare la protagonista mediante vari item, tra cui una scala di ontologizzazione. I risultati hanno indicato che i partecipanti uomini, non le donne, hanno ontologizzato la donna infedele soprattutto quando intratteneva una relazione con una persona di diversa etnia. Altro dato interessante è stata la correlazione positiva tra indice di ontologizzazione, pensieri e atteggiamenti negativi: quando veniva ontologizzata, l'infedele era giudicata alla stregua di un animale selvaggio. Deumanizzare i gruppi estranei, umanizzare il proprio: immagini passate e presenti La deumanizzazione sottile è stata studiata anche da un altro punto di vista, quello relativo alla persistenza di immagini deumanizzanti del passato, che continuano ad agire nelle nostre menti influenzando percezioni e atti quotidiani. Goff e colleghi (2008) hanno scoperto che l'associazione tra neri e scimmie antropomorfe, diffusa nella società statunitense del XIX e della prima parte del XX secolo - la cosiddetta1 «metafora del negro/ scimmia» - influenza ancora le cognizioni quotidiane, senza che gli attori sociali ne abbiano consapevolezza. In alcuni originali esperimenti, gli autori hanno mostrato l'esistenza di un'associazione bidirezionale tra neri e scimmie; in particolare, si è visto che il riconoscimento di immagini di scimmie era più rapido se i partecipanti (bianchi e non bianchi) avevano ricevuto un prime con volti di neri; che il volto di un nero attirava maggiormente l'attenzione dei partecipanti bianchi quando questi ave98

vano ricevuto un prime con l'immagine di una scimmia; che tale risultato era specifico dei neri, dato che non si ripeteva se lo stimolo era costituito da un volto asiatico. Gli autori hanno proseguito le indagini, esplorando le possibili conseguenze dell'associazione neri/scimmie. In un nuovo esperimento hanno somministrato ai partecipanti un prime subliminale con parole associate a scimmie o a grandi felini (ad esempio, puma), invitandoli poi a guardare un video, nel quale si vedevano dei poliziotti picchiare un sospettato nero o un sospettato bianco. Come ipotizzato, i partecipanti che avevano ricevuto A prime scimmia giustificavano maggiormente la condotta violenta della polizia nei confronti del nero, a dimostrazione che l'attivazione dell'associazione neri/scimmie è collegata all'approvazione della violenza contro i neri. Nel sesto e ultimo studio, i ricercatori hanno cercato di capire quale meccanismo sia responsabile del mantenimento del collegamento deumanizzante, dato che la metafora neri/scimmie è da tempo esplicitamente bandita dai media. Traendo ispirazione dal lavoro di Santa Ana (2002), che ha mostrato come i media paragonino implicitamente gli immigrati messicani a insetti riferendo loro termini normalmente usati per gli invertebrati (sostantivi come «sciame», verbi come «brulicare», «strisciare», «pullulare»), gli autori hanno individuato nella stampa americana il persistente impiego di parole che richiamano alla mente l'associazione neri/scimmie. Hanno analizzato, con una metodologia d'archivio, 788 articoli concernenti processi a imputati, bianchi e neri, accusati di crimini per i quali la legislazione statunitense prevede la pena di morte, alla ricerca di espressioni relative a qualità subumane o bestiali. Hanno trovato che le espressioni che evocano l'universo delle scimmie sono quattro volte più frequen99


ti quando si parla di un imputato nero che quando si parla di un imputato bianco; l'uso di tali espressioni è risultato inoltre associato a una più alta probabilità che sia pronunciata una sentenza capitale. Un recente lavoro di Rattan e Eberhardt (2010) prosegue nella direzione indicata da Goff e colleghi, mostrando come evocare i neri riduca la «cecità inattenzionale», un fenomeno ben conosciuto dagli studiosi della percezione, che fa sì che persone concentrate su un compito possano non vedere qualcosa di macroscopico che passa loro davanti agli occhi. In un classico studio di Simons e Chabris (1999), i partecipanti guardavano il video di un incontro sportivo, con il compito di contare i passi dei giocatori di una delle due squadre. A un certo punto, il campo era attraversato da un individuo travestito da gorilla che restava sulla scena per 9 dei 30 secondi del video. Solo il 42% dei partecipanti impegnati a contare i passi lo vedeva. Rattan e Eberhardt hanno modificato il paradigma, chiedendo ai partecipanti di leggere, prima di vedere il video, una lista di 8 nomi, tipici, in una condizione, della comunità afro-americana, nell'altra, di quella europeo-americana. A conferma della persistenza dell'associazione neri/ scimmie, la cecità inattenzionale dei partecipanti che avevano letto i nomi afro-americani diminuiva del 25% rispetto a quella dei partecipanti che avevano letto i nomi di origine europea. Questi ultimi lavori sono particolarmente originali e stimolanti; leggendoli, ci si può però interrogare sull'effettiva scomparsa delle espressioni manifeste di razzismo dai media americani. Dall'inizio della campagna elettorale per le presidenziali del 2008, fino ad oggi (ottobre 2010), se si cerca un'immagine di Michelle Obama su Google, si trova un fotomontaggio, creato con

una tecnica di morphing, in cui la first lady è trasformata in ape. Di fronte a tale evidenza, viene spontaneo chiedersi se gli psicologi sociali non abbiano, negli ultimi decenni, sottovalutato l'incidenza dei fenomeni espliciti di pregiudizio, per concentrare l'attenzione sulle forme di atteggiamento sottili e implicite. Nella realtà che ci circonda, le forme di aperta e spesso violenta intolleranza sono purtroppo in aumento, spesso accompagnate da forme di deumanizzazione esplicita. Come si è visto, le immagini dei gruppi sociali conservano tracce dei contenuti passati, che, riattualizzate in modi più o meno aperti, possono comportare severe conseguenze. Fenomeni simili sono in atto anche nel nostro paese. Gli italiani hanno avuto una storia coloniale relativamente breve nello spazio (Corno d'Africa e Libia) e nel tempo (una settantina d'anni). Le vicende, le immagini, le rappresentazioni di quelle esperienze sono oggi sepolte dall'oblio, anche se il numero delle persone coinvolte nell'avventura coloniale è stato elevato: almeno due milioni di italiani hanno operato in Africa per un breve o lungo periodo (Del Boca 2003 ). Con tutta probabilità gli stereotipi culturali che componevano l'immaginario coloniale all'epoca della conquista, imperniati sulla figura dell'«indigeno», sono oggi riattivati dall'arrivo degli immigrati e costituiscono un pericoloso filtro interpretativo della realtà presente. Sarebbe interessante, a questo proposito, fare un confronto tra il linguaggio impiegato dai media durante l'avventura coloniale e quello usato oggi per parlare degli immigrati alla ricerca della persistenza, implicita ed esplicita, di espressioni e metafore deumanizzanti. Altre ricerche hanno suggerito che l'associazione tra outgroup e animali costituisce un fenomeno generale e che processi di umanizzazione dell'ingroup coesistono

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con processi di deumanizzazione dell'outgroup. Viki e collaboratori (2006) hanno esplorato in quattro studi i modi in cui parole legate al mondo umano (persona, umanità, donna, uomo) o al mondo animale (pet, creatura, vita selvaggia, ferale) sono associate con l'ingroup e l'outgroup. Hanno trovato che i partecipanti associano le parole umane più velocemente e più spesso all'ingroup (inglesi) che all'outgroup (tedeschi) e scelgono tali parole come più caratteristiche dell'ingroup che dell'outgroup, indipendentemente dalla valenza. Hanno anche trovato che le parole animali sono associate e considerate più caratteristiche dell'outgroup che dell'ingroup, sempre indipendentemente dalla valenza. Il legame tra il concetto di umanità e l'ingroup è stato al centro di un lavoro dal titolo evocativo, The missing link, effettuato da Boccato e colleghi (2008). Gli autori hanno impiegato immagini di umani e di scimmie antropomorfe per rappresentare i concetti di umanità e animalità. Nel primo studio si chiedeva ai partecipanti, studenti del Nord Italia, di classificare come umani o animali dei visi di uomini o scimmie, presentati sullo schermo del computer. Le immagini erano precedute da un prime sovraliminale composto da nomi tipici del Settentrione (ingroup) o del Meridione (outgroup). Si è trovato che i visi umani erano classificati più velocemente come tali, quando erano preceduti da nomi tipici dell'ingroup piuttosto che da nomi tipici dell'outgroup. Non sono invece emerse differenze nella classificazione delle scimmie come animali. Nel secondo studio i partecipanti dovevano decidere se una stringa di lettere rappresentasse un nome di persona; i nomi impiegati erano tipici dell'ingroup (Nord Italia) o dell'outgroup (Sud Italia) e preceduti dalla presentazione subliminale del volto di un umano o di una scimmia. I partecipanti

hanno risposto più velocemente quando i nomi settentrionali erano preceduti dal prime umano. Non sono invece emerse differenze per il prime di animali. Inoltre, i partecipanti erano più veloci nel riconoscere i nomi meridionali quando questi erano preceduti dal prime animale, anziché da quello umano. Capozza e collaboratori (2009) hanno proseguito nella stessa direzione con due esperimenti, nei quali hanno creato un nuovo paradigma, ispirato agli studi sull'effetto di sovra-esclusione dall'ingroup (Leyens e Yzerbyt 1992). Tale effetto si riferisce alla tendenza a classificare più facilmente individui sconosciuti come membri dell'outgroup piuttosto che dell'ingroup, tendenza motivata dal desiderio di evitare che nell'ingroup siano inclusi degli estranei che possano snaturarlo. I ricercatori hanno usato una procedura di morphing, tecnica che ha un antecedente illustre nella fisiognomica, disciplina che cercava di stabilire un legame tra aspetti spirituali e fisici, proponendo confronti e transizioni tra volti umani e musi animali. Un esempio è il trattato di Johann Caspar Lavater, Physiognomische Fragmente (1775-1778), illustrato da preziose incisioni che mostrano come si possa passare, per gradi insensibili, dall'animale all'umano. In modo simile, nel lavoro che stiamo presentando, gli autori sono partiti da un volto umano e da uno di scimpanzé per costruire un continuum di 20 facce. Queste venivano poi presentate, una alla volta, in ordine casuale, ai partecipanti, che dovevano dire se si trattasse di un volto umano o animale. Vi erano due condizioni sperimentali: nella prima i partecipanti erano informati che avrebbero giudicato volti di persone del Nord (ingroup), nella seconda del Sud Italia (outgroup). In accordo con le ipotesi, i partecipanti sono risultati più inclini a classificare come animale uno

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stimolo ambiguo nella condizione ingroup che nella condizione outgroup. Questo significa che le persone sono portate a proteggere l'umanità del gruppo di appartenenza - ma non quella dei gruppi estranei - evitando possibili contaminazioni con l'universo animale. Gli studi sulla deumanizzazione sottile hanno aperto una prospettiva nuova e originale alla ricerca sulla negazione dell'umano. Le forme sottili di deumanizzazione che si verificano nella vita di ogni giorno, senza che le persone ne abbiano piena consapevolezza, sono forme di sottrazione più che di colpevolizzazione, anche se non mancano evidenze che mostrano l'associazione tra gruppi estranei e forme di vita inferiori. Il settore, come si è visto, è di recente implementazione; è logico quindi che i suoi risultati non siano ancora consolidati e che altre ricerche siano necessarie per arrivare a conclusioni corroborate e sicure. Siamo di fronte a un cantiere in movimento, che conoscerà sicuramente sviluppi interessanti nei prossimi anni. Leggendo i contributi più recenti degli studiosi dell'infra-umanizzazione e del gruppo di Haslam, si ha l'impressione di una progressiva integrazione dei due paradigmi. Leyens e colleghi (2007) hanno infatti sostenuto la complementarietà tra deumanizzazione meccanicistica e infra-umanizzazione, incorporando così sostanzialmente la deumanizzazione animalistica sottile nella cornice teorica dell'infra-umanizzazione. Inoltre, sempre nell'ambito della teoria dell'infra-umanizzazione, sono recentemente apparsi alcuni lavori che analizzano i processi di infra-umanizzazione non più nelle emozioni, ma nei tratti. Come si ricorderà, il punto di partenza del modello di Leyens e colleghi (2000) era costituito dalla considerazione che tre fattori - intelligenza, linguaggio, sentimenti - definiscono l'appartenenza 104

alla specie umana; la scelta di focalizzare l'attenzione sulle emozioni era dovuta a considerazioni empiriche e metodologiche, non al fatto che l'infra-umanizzazione fosse considerata esclusiva di tale ambito. Partendo da questi presupposti, Paladino e Vaes (2009) hanno mostrato che ogni caratteristica è giudicata più unicamente umana quando è ascritta all'ingroup piuttosto che all'outgroup, un risultato indipendente dalla valenza dei tratti considerati.


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