La tana del calabrone verde

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MAX SGHEDONI

“La tana del calabrone Verde”

“ Piantiam farfalle! “ 1


A Donna Alessandra, così, com’è giusto che sia! Max & Lella Sghedoni

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Capitolo 1° “Valdobbiadene”

Se un giorno Dio fosse improvvisamente impazzito e avesse deciso di distruggere il mondo intero lasciando emergere dall’orlo di un immenso buco nero quale unico superstite il paesino di Valdobbiadene, Massimo, nella sua innocenza di fanciullo non si sarebbe minimamente scomposto… Anzi, se fosse dipeso da lui, il buon Dio avrebbe potuto polverizzare anche l’intera ”Marca Gioiosa” a condizione di non voler rigettare nel caos cosmico ciò che egli amava di più: il grande giardino sul quale sorgevano la sua casa e la vecchia torretta abitata e impreziosita, quest’ultima, da una miriade di animaletti e di fiori che l’avevano eletta a loro perenne dimora. Perché per Massimo, tutto il suo “mondo” era unicamente quello: una vecchia villa con ampie sale dai soffitti irraggiungibili allo sguardo, una grande torretta medievale infestata di pipistrelli eretta secoli addietro come torre di avvistamento ed un giardino immenso che si inerpicava su di una collina, in alto fino alla chiesetta di San Floriano e che appariva nella 3


fantasia di un bambino, simile ad una enorme e prosperosa tetta materna. E Massimo Lo trovavi sempre lì, nelle calde giornate primaverili: armato di binocolo di plastica e di fucile di legno, intento a dialogare con i propri subalterni, ad impartire ordini ai propri ufficiali: fantasmi di un gioco di bambino al quale la vita e la natura avevano donato la possibilità di dominare dall’alto di un avamposto l’intera valle, giù oltre il fiume, lontano, fino al mare. Massimo giocava alla guerra, impegnato difendere il piccolo paesino da quelle armate straniere che risalendo lungo il corso del Piave avrebbero potuto avvicinarsi a quei cascinali che immersi nel verde dei suoi vigneti rappresentavano per lui il fronte simbolico della sua battaglia privata. Era una guerra cruenta la sua, come quella consumata tra i sassi del Piave nel lontano 15-18 e che vide migliaia di giovani eroi lottare per non cadere tra le braccia della follia umana, della presunzione e della retorica ottocentesca. Uomini dagli elmetti opachi, dal coraggio immenso spinti da un ideale, sorretti da una passione di libertà e premiati poi con grandi medaglie luccicanti come stelle cadenti che Massimo mimava nell’atto di appuntare al petto dei suoi soldati: impalato nel suo gesto solenne e cavalleresco. In quegli anni, per Massimo, “l’Inverno”, “la Primavera”, “l’Autunno” “l’Estate” non erano periodi che scandivano lo scorrere della vita; per lui l’Autunno era visto nella sua mente come il tempo dell’uva e della festa della pigiatura; l’Inverno la stagione della 4


neve bianca e delle scivolate sul laghetto di ghiaccio. La Primavera era la stagione che iniziava con la ricerca delle uova colorate di Pasqua tra l’erba verde e … l’estate … “l’Estate” era per lui sinonimo di caccia, di ricerca, di stupore, di allegria; quella stessa emozione che egli provava nel rincorrere le farfalle o nel cercare le uova di uccello nei nidi nascosti nel canneto orientale. Bruchi, vermi…Quelli erano i suoi veri compagni di gioco: personaggi delle sue fiabe immaginarie, delle sue avventure nelle quali le lucertole diventavano mostri enormi dalle lingue biforcute e taglienti come sciabole argentate, mentre le mosche ed i calabroni, colorati ed impreziositi dalle loro corazze verdi e lucenti si trasformavano sempre in invincibili stormi di caccia nemici che, apparsi improvvisamente all’orizzonte, atterravano poi, dolcemente, sui petali delle rose divenute simili a profumate portaerei … Ma il tempio delle sue ricerche per Massimo era rappresentato dal muretto di pietre: quello che dal cancello d’ingresso della villa, costeggiando irregolare il viottolo di ghiaia, conduceva diretto alla scalinata di casa. Ogni suo anfratto, ogni irregolarità nata dall’incastro di quelle pietre spugnose poteva infatti nascondere “una meraviglia”: uno scorpione…una biscia…o forse solo una lumachina lenta ed indolente. E così, armato di un sottile filo d’erba brandito come uno stiletto acuminato ma delicato nel tocco come quello di un maestro d’orchestra che fa vibrare la propria bacchetta, Massimo ogni giorno ne perlustrava ogni angolo nella speranza di compiere incredibili scoperte, sempre con il cuore che gli batteva forte nel 5


petto e la consapevolezza di essere solo e indifeso a combattere il fascino ammaliante del mistero. Nelle sue piccole mani, la decisione del gesto aveva affidato alla punta del sottile filo d’erba il ruolo di esploratore, di esecutore di un disegno non di perversione ma di vera curiosità per cercare di stanare degli animaletti che, tolti dal mondo dell’ignoto potessero divenire poi, nella realtà della luce, un vero confronto con altre forme di vita ancora sconosciute, dai movimenti inusuali e dagli improbabili colori. Poi, come ogni pomeriggio, la Fortunata: ovvero la sua Tata l’avrebbe chiamato per il rito della colazione composta dal solito piatto di tondini di pane con il burro e zucchero ed un bicchierone d’aranciata da ingurgitare tutto d’un fiato, lasciando così, che qualche goccia dolciastra gli scendesse poi, maleducatamente, dagli angoli della bocca. Una veloce leccatina alle dita per togliere gli ultimi granelli di zucchero e Massimo sarebbe corso via di nuovo saltando gli scalini dell’atrio per raggiungere il cortiletto, là dove aveva lasciato lo stelo d’ebra acuminato, al pari di una lenza appoggiata sulla riva del ruscello in attesa che qualche sprovveduto pesce affamato cadesse nel tranello tutto umano, dell’illusione di un facile boccone. Quel pomeriggio Massimo aveva scoperto un nuovo anfratto. “Strano! - continuava a chiedersi… - sì che questo muro lo conosco come le biglie di vetro che tengo in tasca! Così come ricordo a memoria i loro colori e tutte le loro impercettibili sfumature. Eppure, questa strana fessura mi sembra di scorgerla oggi, per 6


la prima volta …” Così bofonchiando, egli avvicinò il viso alla spaccatura della roccia, vi infilò con destrezza il lungo punzone ed iniziò ad armeggiare come se dovesse riuscire a scassinare con una delle sue mosse fortunate, una cassaforte o la serratura di qualche antico forziere. Ad un certo punto, nel suo gesticolare confuso, gli sembrò addirittura di aver sentito un rumore strano provenire dal foro della roccia: un ronzio, un sibilo diverso nella frequenza da quelle da lui sinora percepite … “Forse ho scoperto un nido di calabroni…” Fu il primo pensiero che lo pervase, bloccandone l’armeggiare, impaurito all’idea di vedersi improvvisamente attaccato da uno sciame di insetti spaventati ed agguerriti. Ma la curiosità, l’incoscienza, la sete di avventura era troppo forte e radicata in lui, tanto che Massimo, tralasciato ogni canone di logicità e sicurezza continuò a far vibrare nella carie della roccia la punta di quello stelo come un irriverente stuzzicadenti, fino a quando egli non capì chiaramente che “qualcosa” era rimasto agganciato all’apice della sua fragile lenza… “Che abbia catturato un mostro preistorico?” Pensò tra sé, assumendo contemporaneamente un’espressione dalla quale, genuina, traspariva tutta la sua emozione e la sua incredulità. Iniziò così una privatissima gara di “tiro alla fune” combattuta contro un misterioso “Essere delle Caverne”, con le primule, le margherite ed un paio di scorbutiche lucertole arbitri e spettatrici di quel nuovo gioco innocente. 7


Massimo stava usando entrambe le mani e per tirare a sé lentamente e delicatamente il lungo filo d’erba. Lo stelo, man mano che usciva dall’anfratto roccioso, centimetro dopo centimetro, si assottigliava sempre di più, facendo presagire, imminente, l’apparire all’apice della sua punta, della forma di una zampa, di una bocca o forse del corpo intero di un essere misterioso che, lentamente e inesorabilmente, violentato e trascinato, stava abbandonando la profondità della sua tana buia. Lo stupore di Massimo fu grande, quando tra le sue dita, con il cuore che gli batteva a mille, non ritrovò impigliato il corpo molle di un orribile animale dai perfidi aculei e dai colori sgargianti o quello di uno scarabeo dorato con due grosse zampe all’apparenza minacciose o la testa di una serpe chilometrica e sibilante. Alla fine di quella sua personale “caccia al tesoro”, Massimo strinse nel proprio pugno il capo di un filo argentato e luccicante, impreziosito da piccole perle di rugiada, teso e forte come un manufatto d’acciaio. All’apparire sembrava un filo di seta di una tela di ragno che, srotolato come matassa di stelle si perdesse dritto verso il profondo del muricciolo. Certamente quella trama sottile aveva qualcosa di magico. Lo si percepiva dalla sua incredibile robustezza pari alla delicatezza stessa del tessuto, dal suo colore indefinito ma allo stesso tempo penetrante e abbagliante. E Massimo, per nulla intimorito, continuò a tirarlo a sé finché, attaccato al suo apice comparve la maglia più consistente e lavorata di una catenina d’oro bianco, assai meno misteriosa di un mostro preistorico ma altrettanto ricca di fascino e di mistero. 8


Con la rapidità con la quale la mente di un bambino riesce a cambiare i soggetti, gli intrecci e i colori delle proprie fantasie e delle proprie incedibili avventure, Massimo fu così proiettato in un mondo non più popolato da animali mitologi, ma in quello ricco di galee e di pirati: nel mondo di Capitan Uncino e di Peter Pan. In quello dell’Isola del Tesoro e della Taverna dell’Impiccato e dei famigerati Trenta Uomini che, scappati dalle galere veneziane si erano rifugiati sulle colline del trevigiano per nascondere tra gli anfratti della “Villa con la torretta”, prima di essere catturati e poi giustiziati nella piazza del paese, un vero e proprio tesoro, frutto dei loro arrembaggi e di innumerevoli razzie. E così, mentre rincorreva nella mente le immagini di quella sua nova storia di spade e d’avventura, Massimo non si accorse che la lunga catenina d’oro bianco, prolungamento di quel filo argentato e che egli continuava a tirare verso di sé con un moto ora spasmodico era giunta alla fine. Alla luce di quel pomeriggio d’estate, Improvviso e inaspettato, apparve allora, quasi spinto e non più trattenuto dalle zampe pelose di un ragno che si era rifugiato velocemente nello stretto pertugio, uno splendido pendaglio d’oro bianco: essenziale nella realizzazione ma luminoso come una stella, accecante nei suoi bagliori di metallo prezioso, adagiato ora sul palmo della sua mano aperta come a sorreggere il peso inesistente di una farfalla, in un’ostensione spontanea e con un gesto naturale che aveva assunto in quel momento i toni sacri dell’ atto della preghiera. Impossibile descrivere ciò che egli stava 9


provando in quel momento. L’emozione, la gioia, l’incredulità erano reali e palpabili. Forse avrebbe voluto urlare, saltellare dalla gioia e dallo stupore. Aveva trovato un tesoro. Un tesoro vero e di primo acchito l’istinto e l’impeto fu quello di correre a casa saltando a piè pari tutti gli scalini dell’ingresso per presentarsi trafelato dai piedi della propria madre: le braccia protese in avanti per offrirle la “sua” scoperta, con la felicità e la consapevolezza dipinte sul volto, conscio di essere portatore di ricchezza, di gioia, di verità, di novità; nella convinzione ora, reso dogma, che i sogni e le fantasia non sono solo false chimere, ma possono, a volte, trasformarsi in realtà tangibili e concrete anche per un piccolo bambino di nome Massimo. Il monile era bello, rotondo e, a prescindere dal suo valore intrinseco, esso sprigionava un fascino particolare dovuto al suo rilievo particolare che lo rendeva, nella forma, simile ad un simbolo astrale. Forse un monogramma della lingua azteca o araba o etrusca, così carico di misticismo e di trascendenza? A Massimo, che continuava ad osservarla estasiato, quella reliquia non comunicava sensazioni legate al passato, ad un particolare avvenimento o all’immagine di accadimento occorso anni o secoli addietro…anzi con il suo potere medianico quel manufatto continuava a trasmettergli immagini di un futuro non ben definito, di luoghi particolari ma sempre ed in ogni caso legati a catene di montagne invalicabili, a boschi fitti ed impenetrabili, ad anfratti misteriosi, a fuochi accesi a rischiarare le tenebre della notte. 10


Tra lo sciabolare delle luci riflesse, Massimo continuava a scorgere i lineamenti di un volto femminile sempre sorridente. Era quello di una donna adulta. Forse di una Dea o quasi sicuramente quello di una principessa della foresta: elegante nel suo abito verde come i cespugli del bosco; sinuosa nell’incedere, raffinata nelle linee del corpo e nei gesti delle mani. Massimo ora la vedeva chiaramente e ne rimase affascinato come lo può essere un bambino che cominci a capire i canoni della femminilità e della bellezza; anche se in quella stessa immagine di donna si percepivano i tratti sottili di una tristezza radicata in un cuore grande dove l’amore era sempre stato sinonimo di maternità e dolcezza, benché offeso dalle ferite naturali che lo avevano martoriato nel corso logico della sua vita. E fu allora che Massimo capì e decise. Capì che un tesoro proprio perché tale deve rimanere celato nell’ombra per mantenere intatto tutto il suo mistero, riservando solo a colui al quale fosse stato concesso il privilegio di riportarlo alla luce, in un futuro non ben definito, il diritto di possederlo e di goderne la magia. E, così, egli decise. Ripose tra le rocce quel monile restituendolo all’oscurità, riconsegnandolo alle zampe di quel ragno che, suo custode, con tanta delicatezza l’aveva da poco tempo spinto alla luce, fuori dall’antro. Massimo infatti aveva capito che la ricchezza di un tesoro non è dato dal suo valore intrinseco o dal valore dei diamanti o dei manufatti d’oro offerti successivamente allo squallore di un commercio amorale, ma dal fascino della consapevolezza della sua 11


esistenza, della sua storicità e del suo potere medianico; della sua capacità evocativa ed emotiva, certo che un giorno, per volontà divina, portato prima in processione da uno stuolo di elfi, di ragni aggrappati a fili argentati, da calabroni dalle ali brunite e da mille farfalle colorate, quello stesso oggetto gli sarebbe stato in qualche modo moralmente restituito o l’avrebbe scorto casualmente e poi ammirato, splendido e lucente al collo di una principessa: di quella stessa dea che egli stava vedendo nei contorni e nei dettagli, confusa tra ciuffi di capelli color oro come il grano maturo e dalle labbra rosse come le rose del giardino. Ed allora Massimo, con la mano ancora tremolante, combattuto nel suo piccolo cuore da mille dubbi ma da un’unica certezza, appoggiò la piccola scultura in bilico su di una ruvida pietra. Lentamente, ma inesorabilmente, come se una misteriosa forza lo stesse trascinando nella roccia ferita, legato prima alla sua catenina d’oro bianco, poi al sottile filo di seta argentato, lo splendido monile scomparve nuovamente, ingoiato dal nulla, celato così, per sempre, alla luce ed alla storia. Quando Massimo rientrò in casa, fuori era ormai buio. Nei saloni illuminati ritrovò il vociare della vecchia tata e della madre, splendida nel suo abito dalla gomma lunga ed arricciata. “Che faccia! “Esclamò Mamma Tity rivolgendosi al figlio che recava sulle vesti, evidenti, i segni della sua personale lotta con la natura… “Corri a lavarti, che fra poco arriva tuo padre!” Continuò lei, accompagnando la sua richiesta con un 12


gesto affettuoso della mano. “Sembra che tu abbia scavato una galleria!” Concluse, divertita e soddisfatta di vedere il proprio figlio ancora tutto integro nel corpo … “Sì, mamma” rispose Massimo con un cenno del capo. “Sai, ho giocato molto, oggi! Ho addirittura trovato un tesoro e incontrato una fata dai capelli biondi!…Ma poi li ho lasciati andare…Sai, com’è…“Terminò Massimo con un gesto di stizza per minimizzare l’accaduto, anche se il cuore non aveva ancora smesso di battergli forte in petto come quello di un pulcino impaurito. “Hai fatto bene!“ Rispose Mamma Tity. “I tesori – continuò lei - devono rimanere nascosti agli occhi, ma sempre presenti nella nostra mente e nel nostro cuore, perché è dal loro scrigno che ne escono i colori, le fantasie e tutte quelle storie che noi poi, ogni giorno trasformiamo in realtà; e le fate – aggiunse lei – devono essere libere di correre nei boschi, perché sono proprio loro che devono custodire questi valori, aiutate dagli elfi e dai gnomi. Sai, Massimo - proseguì Mamma Tity - si dice che ognuna di loro porti un monile prezioso al collo, uno scudo d’argento che luccichi nella notte per farle riconoscere da lontano, sì da non poter essere attaccate dagli spiriti del male.” E così dicendo, preso per mano il piccolo Massimo, i due si avviarono uniti verso i saloni interni della casa. E le luci delle stanze che man mano si accendevano al loro incedere facevano risplendere con mille bagliori quel sottile filo argentato che li avrebbe tenuti uniti, non solo fisicamente, fino alla morte.

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Capitolo 2° “Faltugnano”

Ora, dopo anni e anni, Il mondo di Massimo lo trovi proprio qui in Toscana, tra case antiche dai muri di pietra viva. Egli l’ha raggiunto seguendo il filo argentato della sua passione e seguendo i sentieri di una professione che gli ha permesso di visitare gran parte del mondo, di soggiornare nelle grandi metropoli e di attraversare continenti e deserti ascoltando idiomi sconosciuti. Egli ha vissuto ogni suo lungo viaggio professionale come fosse un’incredibile avventura popolata ancora da calabroni dalle ali dorate e farfalle dalle ali screziate. L’amore, il destino, l’imprevedibilità degli eventi, la loro apparente illogicità l’avevano condotto, poi, al termine della sua carriera, ad inerpicarsi fino a raggiungere le case color ocra di due piccoli borghi che si affacciano sulla valle di un fiume laborioso e ne custodiscono e ne proteggono l’accesso come fedeli sentinelle. Proprio come allora, come avveniva un tempo a Valdobbiadene alle pendici quelle colline dai filari d’uva bianca che, qui in Toscana, oggi, si sono 14


tramutate nell’abbraccio armonioso dei suoi verdi uliveti. Anche in questi luoghi si erge una villa con la grande torretta! Massimo non lo sapeva, non poteva saperlo. Lo scoprì per caso, non guidato per mano dalle creature della sua fantasia, ma dall’intreccio incredibile dell’amore che, come acqua che scende a valle sa trovare la strada esatta per il proprio corso. Anche la collina lì, attorno, è un luogo magico, popolato da fantasmi d’ogni epoca e d’età. Etruschi, Romani, Cavalieri Medievali, sono vissuti nei suoi boschi e ne alimentano le leggende. La villa con la torretta che sorge lungo la via principale, dicono che sia protetta da due falchi dalle grandi ali e dai bramiti dei cervi e che, nelle sere d’estate, quando il vento, le cicale e i grilli si zittiscono, affacciandoti ad una delle sue grandi feritoie, tu possa sentire il rumore dei passi cadenzati di coloro che si sono immolati lungo le sponde del fiume a valle per difendere, come un tempo sulle rive del vecchio Piave, la nostra libertà. “Dai, sbrigati che ci aspettano! Siamo stati invitati alla festa in villa, così ne conosciamo i proprietari. Dicono siano persone squisite!.” La voce della Lella, di colei che per l’illogicità dell’Amore era riuscita a strappare Massimo alle sue radici venete per trapiantarlo come suo sposo qui in Toscana lo riportarono alla realtà di un pomeriggio assolato e indolente. “Andiamo a piedi – continuò lei già in procinto di chiudere dietro di sé l’uscio di casa. ci farà bene fare una passeggiata!” E così, mentre lui iniziava a seguirne i passi, la Lella si avviò verso il cancello di quel giardino che, in Via di Faltugnano, al 15


numero 53, cingeva e custodiva il loro mondo alle pendici di uno splendido bosco di castagni. La villa con la torretta distava più di un chilometro dalla loro casa. La strada da percorrere si srotolava come serpe tra cespugli di rovo dalle bacche rosse e ginestre fiorite che ostentavano la loro bellezza come pavoni in amore. Era uno dei tanti “sentieri di guerra” utilizzati per la difesa della Linea Gotica; ma quei metri di polvere e acciottolato facevano parte anche dell’antica “Via Francigena” che conduceva a Roma e solcata un tempo, da carri dalle ruote di legno carichi di merci e di pellegrini assonnati. Percorrendola ora, passo dopo passo, sembrava di attraversare un presepe, di destreggiarsi tra il muschio e le piccole fattorie illuminate dove, libere: galline, oche e gatti poco avvezzi ai salotti padronali vivevano la loro consapevole libertà, discorrendo nella loro incomprensibile lingua e per nulla spaventati dall’incedere dei due intrusi dalle fattezze umane. Man mano che Massimo e Lella la procedevano, la strada andava via via restringendosi, protetta da un lato da un lungo muro di pietra dal quale egli non era capace di distrarre lo sguardo, attratto dai suoi mille pertugi, dalle sporgenze, dai piccoli anfratti che mentalmente lo stavano riconducendo indietro nel tempo e nella memoria. Fu così istintivo per lui strappare da terra un lungo filo d’erba, condurlo alla bocca e iniziare a giocherellarci mimando inconsciamente gli stessi gesti compiuti più di sessant’anni fa. Certi ricordi, certe immagini, infatti, non si cancellano. Non si possono dimenticare i periodi più belli della nostra vista, 16


offuscarli o dissolverli perché ormai lontani dalla realtà quotidiana, dalle sue vicissitudini o dalle sue angosce. “Maturità” non è negazione del ricordo! E’ capacità di saperlo rivivere e di poter attingere dai colori del passato la sua unicità, la sua freschezza e riscoprire le nostre radici fisiche e mentali. Per Massimo, in quel momento, emotivamente non vi era alcuna differenza d’afflato e devozione tra lo stringere la mano della Lella che lo stava accompagnando tra le stanze della sua vecchiaia o quelle di mamma Tity che, in quel pomeriggio a Valdobbiadene l’avevano accompagnato attraverso i saloni della sua vecchia casa! Egli stava rivivendo esattamente le stesse emozioni di un tempo, ribadendo a sé stesso che la fantasia, la sensibilità, il desiderio di scoprire, di rivivere, di condividere i propri sentimenti non hanno confini spazio temporali; che la storia e l’uomo non posso vivere lontani l’uno dall’altro e che la natura è parte di noi stessi e noi tutti ne condividiamo le vibrazioni, il potere e la medianicità. Prima di arrivare a destinazione Massimo e Lella dovettero costeggiare un piccolo cimitero dalle mura quasi diroccate, attraversare un ponticello impreziosito da un capitello ornato da un mazzolino di fiori di campo e infilarsi in uno stretto corridoio di siepi che, alte e ben curate, inchinandosi alla fine, diedero il loro benvenuto in villa ai suoi nuovi ospiti. “Che piacere conoscervi. Io sono Alessandra: la padrona di casa. Benarrivati, amici miei! Ho sentito i vostri passi e vi sono corsa incontro.” Fu la frase di benvenuto della proprietaria della 17


tenuta e che, a braccia aperte, si presentò per accoglierli nella nuova struttura. Lei era alta, slanciata, elegante in un abito verde dalle mille sfumature. Aveva la voce armoniosa ed un sorriso accattivante. Massimo ne rimase immediatamente affascinato, ritrovando in lei, nella sua raffinatezza e nella sinuosità dei movimenti l’immagine di una principessa intravvista anni e anni addietro. Così, lo stupore, l’incredulità e la consapevolezza di essere in procinto di rivivere o forse di concludere un’avventura iniziata decenni prima lo resero incapace di proferire anche una sola frase: troppe le coincidenze, le analogie con quanto vissuto nella sua infanzia a Valdobbiadene più di mezzo secolo fa! Allora è vero che non vi sono limiti per la realizzazione dei propri sogni o che le premonizioni abbiano, indiscusse, una loro verità e una loro storia. Frastornato da mille pensieri, ma felice di trovare una logica alle proprie fantasie, Massimo si limitò, allora, ad esibirsi unicamente in un perfetto baciamano, riscoprendo gesti e sensazioni non solo antiche, ma anche perfettamente in sintonia con l’emotività di quel momento. “Venite!” Esclamò Alessandra, facendo strada ai suoi due nuovi ospiti “Vi faccio visitare il resto della villa e vi presento agli altri amici. Per prima cosa saliamo assieme sulla torre. E’ antica – continuò addirittura romanica. E’ una postazione di avvistamento. Dall’alto si può dominare l’intera pianura e il fiume che scorre a valle.” E così dicendo, Alessandra iniziò ad inerpicarsi lungo gli stretti scalini che si aprivano, di piano in 18


piano su delle splendide stanze dalle grandi finestre, per poi salire sempre più in alto, verso la luce. Massimo pur avendolo già percepito da un po’ di tempo, ma non avendo voluto darvi subito una grande importanza, percorrendo il viale del giardino e salendo i gradini della torre aveva notato un brulicare intorno a sé di insetti e di animaletti. “E’ normale pensò - siamo in campagna!” Ma ciò che in realtà lo stupiva era dovuto al fatto che essi non fossero minimamente spaventati dalla presenza umana. Infatti, lucertole, farfalle, api, sembrava vivessero in perfetta armonia con la Alessandra, con loro e gli ospiti della villa e che, addirittura, li accompagnassero nei loro spostamenti e ne anticipassero i passi. “Fate attenzione!” Esclamò ad un certo punto la padrona di casa “Qui c’è un nido di scarabei verdi. Non abbiate paura, sono amici.” Quella parola, detta con senso quasi ironico non fece sorridere Massimo, anzi, lo convinse di essere entrato in una dimensione unica e che la Alessandra non fosse solo una squisita ospite, ma la vera custode dei tesori della fantasia e delle leggende. L’antica torretta li accolse così, tutti e tre, offrendo loro una vista mozzafiato sulla pianura sottostante, sul fiume laborioso e su di una valle protetta ai lati da verdi colline che non aveva molta importanza se fossero ricche di uliveti o di grappoli d’oro d’uva pregiata, ma che erano la perfetta raffigurazione di ciò che Dio ci ha voluto regalare e che noi da secoli stiamo invece cercando inesorabilmente di distruggere. “Sa, Signora Alessandra, anch’io da piccolo ho 19


vissuto in una villa con la torretta…” Esordì timidamente Massimo, oltretutto visibilmente confuso e commosso dall’accumularsi delle emozioni e dei ricordi. “Vi giocavo alla guerra continuò – volevo difenderla perché per me quella casa era il bene più prezioso …” “Lo so! – lo interruppe Lei – abitavate a Valdobbiadene. Bellissimo paesino, anch’esso ricco di fascino e di favole – concluse Alessandra con una risata – mi sono informata su di voi molto prima che veniste a trovarmi.” Affacciato alla balaustra di quella splendida costruzione, le mani appoggiate su mattoni dal colore del sangue, Massimo rimase incantato dalla vista di tanto splendore. Lo sguardo si perdeva nell’inseguire i contorni delle colline, l’ondeggiare degli alberi, lo scorrere delle acque del fiume sottostante, là dove tutto era quiete, dove tutto era armonia. La città la intravvedevi lontana, racchiusa in un fazzoletto grigio dove rumore e colore erano inghiottiti dallo spazio, dove sapevi che l’uomo si muoveva frenetico seguendo e rincorrendo ritmi improponibili al lento sbocciare dei fiori o all’armonioso volo di un airone. “Dov’è la mia vecchia spada di legno? Dov’è il mio binocolo di plastica?” Sembra urlasse Massimo, impalato, come allora, impettito come un tempo nelle vesti di generale senza stellette. “Amici miei, fantasmi del mio passato, - fu il messaggio che egli lanciò inconsciamente in quegli istanti - non abbandonatemi mai! Siete stati gli artefici della mia vita, quella che voi mi avete dato per 20


permettermi di vivere mille emozioni e fantasie. Non importa se per farlo abbiate difeso il Piave o il Bisenzio, la pianura padana o la linea gotica. Non importa se siate stati soldati o semplici viandanti, sacerdoti di qualche Dio, o musici o poeti! Sappiate che voi, con il vostro sacrificio, la vostra storia, mi avete permesso di essere bambino, di scoprire l’innocenza, di poter poi crescere e di poter amare e di sapere cosa significhi riconoscenza. Di vivere la libertà, il profumo dei boschi, Il canto di un usignolo, la bellezza di questi borghi.” “Andiamo giù, ragazzi!” Fu l’esclamazione che, spezzando la magia quel momento, ricondusse tutti ad una più logica realtà. ” E’ pronta la cena. Vi ho riservato un tavolo speciale – continuò l’ospite – vedrete, sono sicura che passere una splendida serata con i vostri nuovi amici!” E così dicendo, Alessandra iniziò a scendere le scale, giù verso quel giardino che con una cura maniacale lei aveva allestito per accogliere i suoi invitati. I tavoli erano composti da un insieme di balle di paglia sistemate in circolo, con una più grande posta al centro per accogliere, ben ordinati, piatti e stoviglie. L’aria era fresca e il chiacchiericcio dei commensali si confondeva con il frinire delle cicale. “Posso sedermi qui con voi?” Giunse improvvisa la domanda, quasi a squarciare il buio di quella sera. “Permettete che mi presenti: sono il Capitano Richard Thompson dell’esercito Inglese. Dovrebbe 21


raggiungerci anche l’amico Charles. Lui, invece, è americano – proseguì il giovane soldato, apparendo dal nulla, porgendo la mano in segno di saluto e accomodandosi, repentino, su una delle improvvisate sedie di paglia. - eravamo entrambi qui a difendere questa postazione nel settembre del 1948 … - continuò il giovanotto con un velo di tristezza e per nulla a disagio per la sua inattesa apparizione … ci hanno sepolto qui vicino, nel piccolo cimitero fuori dal borgo”. Massimo non ebbe nemmeno il tempo di reagire, assalito non da un vuoto di paura, ma da una felice e sottile incredulità; quasi da un senso di gratitudine e di piacevole stupore. “Ma, allora mi hanno sentito!” Fu l’esclamazione che egli dovette soffocare portandosi istintivamente una mano alla bocca. Massimo avrebbe voluto rispondere a quel saluto, dire qualcosa, assumere un ruolo di circostanza, ma non ne ebbe né il tempo né la reazione. Rimase ammutolito, in piedi, anch’egli con il braccio teso nella ricerca di una comunione da sempre percepita e, quella sera, finalmente realizzata. “Ci sono anch’io, ragazzi, non penserete mica che vi lasci cenare da soli! – e così dicendo, dopo essersi esibito in un perfetto saluto militare e senza aspettare alcun consenso, un ragazzone biondo e allampanato si unì alla strana comitiva. - piacere, Io sono il caporale Hans Dietmayer. Sono sepolto qui nel bosco vicino…anzi, veramente non mi hanno ancora ritrovato – precisò con ironia il nuovo ospite - io difendevo l’accesso al “Rivo degli Schizzi…non è che a spararmi sei stato proprio tu, Thom? – Concluse 22


Hans con una fragorosa risata. Massimo, allora, capì. Iniziò a comprendere il vero significato di quella serata e iniziò a sorridere compiaciuto: felice di poter dare una conferma alla sua filosofia di vita e di vedere finalmente concretizzati i suoi sogni. La sua, adesso, era solo bramosia di conoscere, di sapere, di scoprire la verità nella logica di quell’ incontro, nella semplicità di una cena surreale. “Io, invece, sono Cornelius e Lei è Claudia.” Si presentarono così, a loro volta, avvicinandosi timidamente al tavolo, due figure eteree, sfoggiando l’eleganza dei loro abiti di uno stile inconfondibile. ”Siamo vissuti assieme nel borgo di Parminio … molti secoli fa! – aggiunsero sorridenti. - abbiamo sentito della “festa” ed è un piacere potervi rincontrare tutti. Abbiamo portato alcuni frutti del nostro giardino e del nostro orto. Sappiamo che a voi e alla Sandra essi piacciono moltissimo.” E così dicendo, anche i due coniugi romani si sedettero allo stesso tavolo, deponendo su di esso due cestini ricolmi di messi colorate e chiudendo con la loro presenza quel cerchio che simboleggiava, nella sua magia, la perfetta fusione tra presente e passato. Fu un’incredibile sensazione per Max e la Lella, quella di vivere un’esperienza priva di ogni dimensione. Di percepire di non avere un’età reale, ma di far parte integrante del “tempo”, così privo di logiche legate alla materia, alla religione e al pragmatismo filosofico. Capì che quella sera tutti gli invitati e i commensali non erano semplici ospiti, legati tra loro 23


esclusivamente da una comune conoscenza o da un’amicizia occasionale dovuta al fatto di essere gli abitanti delle ville vicine, ma che in realtà essi erano i protagonisti di ciò che era avvenuto in quei luoghi e che, con lo scorrere del tempo e la casualità nel susseguirsi degli avvenimenti, ne avevano forgiato la “storia”. Alessandra apparve anch’essa all’improvviso: sorridente, elegante nel suo abito dalle mille sfumature di verde. Con un gesto che esprimeva tutta la sua serenità appoggiò le due braccia sulle spalle di Hans e di Richard a testimonianza della sua provata amicizia e di una complicità medianica. “Tutto bene, ragazzi?” Fu la sua semplice domanda. “Ero sicura che vi sareste trovati tutti a vostro agio questa sera! Come voi ben sapete – continuò Lei con voce suadente e rivolgendosi alle quattro figure eteree sedute l’una accanto all’altra - anche Max ha vissuto in una casa con la torretta… a Voldobbiadene e, da lassù, anch’egli dominava la valle, proprio come qui da noi a Fabio. Inoltre, anche lui ha avuto molti amici che sono stati vostri colleghi… credo, quindi concluse Alessandra - che questa sera voi e Max abbiate molti argomenti di discussione!” E così, nel porgere questo invito, Alessandra, chinandosi leggermente in avanti lasciò che lo sguardo di Max si posasse sullo scollo del suo abito dal quale, maliziosa uscì la trama di un monile d’oro bianco. Max ebbe un sussulto. La vista di quel filo prezioso lo riportò inesorabilmente indietro nel tempo: a quel pomeriggio assolato, al ricordo di quella meravigliosa 24


avventura vissuta più di mezzo secolo prima… e, mentre la sua mente ripercorreva, confusi nelle immagini e nei ricordi i sentieri della sua vita, egli intravvide, appeso al gancio di quella catenina, lo stesso monile carico di misticismo e trascendenza che, protetto e difeso dalle zampe pelose di uno scarabeo verde era apparso tra gli anfratti rocciosi del suo vecchio giardino. Alessandra se ne accorse e, con gesto istintivo si portò la mano al collo, quasi per proteggere quel suo prezioso monile, o forse, per enfatizzarne con quell’atto spontaneo il suo segreto e la sua unicità. I loro sguardi si incrociarono. Non vi fu bisogno di parlare, di giustificare. Entrambi “sapevano” e il loro silenzio ne fu la testimone. “Allora è vero che le fate esistono - pensò Max, emozionato e sbalordito dal susseguirsi degli accadimenti - sono le principesse dei nostri sogni e delle nostre fiabe – andava ripetendosi - splendide creature dai capelli color oro come il grano maturo e dalle labbra rosse come le rose del giardino, libere di correre nei boschi aiutate dagli elfi e protette dagli gnomi! - E, come raccontava Mamma Tity – “ognuna di loro porta al collo un monile prezioso: uno scudo d’argento che luccichi nella notte e che le protegga dal Male.” Fu splendida la serata: unica e irripetibile. Lontani, nella notte, i fuochi accesi dai contadini illuminavano il cielo. Erano bagliori rossi, non di guerra che si alternavano ai lampi color diamante della pace delle stelle. Nel giardino della villa, i fantasmi del passato e i desideri del futuro intrecciarono per ore le 25


loro storie come in una danza pagana allietata dal frinire delle cicale e dal canto dei grilli. Lunga la notte. Lunga la storia raccontata, sospesa tra due torrette come un filo argentato, teso attraverso le valli. Poi le figure di Richard, di Charles e di tutti i loro amici, così com’erano apparse, svanirono inghiottite dai raggi dell’alba. Rimase solo Alessandra nel suo splendido abito verde ad accomiatarsi da Max e dalla Lella che si accingevano a tornare verso casa. Si salutarono in silenzio, con un unico cenno del capo: consapevoli del proprio ruolo e tesorieri dei propri segreti. E, mentre sopra la torretta due grandi falchi volavano in cerchio come angeli custodi di un mondo incantato, Max e Lella ripresero il loro cammino lungo un sentiero acciottolato, mano nella mano, uniti dal filo intrecciato delle loro storie: quello che li avrebbe tenuti ancora uniti assieme, entrambi, fino alla “morte”.

FINE

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Faltugnano 19 gennaio 202 27


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