Wojtyla e Hitler

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Wojtyla: «Il Signore Dio ha concesso al nazismo dodici anni di esistenza e dopo dodici anni quel sistema è crollato. Si vede che quello era il limite imposto dalla Divina Provvidenza a una simile follia... la Divina Provvidenza concesse solo quei dodici anni allo scatenarsi di quel furore bestiale». Da questa affermazione il credente dovrebbe evincere che Auschwitz e l'annientamento degli ebrei d'Europa rientrino, comunque, in un disegno della Provvidenza di cui Hitler sarebbe stato semplicemente l'esecutore predeterminato entro quei dodici anni concessi, più che bastevoli tuttavia per completare l'opera assegnatagli. Mario Pirani, nell’articolo che segue Repubblica 17.10.04 Le idee Il Dio di Wojtyla tra nazismo e comunismo Hitler, Stalin e la Provvidenza Alcune riflessioni dopo l'anticipazione del libro di Giovanni Paolo II Anche il bene assoluto produce un male assoluto. E non necessario È impossibile per i laici leggere la storia come un disegno di Dio di Mario Pirani Le brevi anticipazioni del libro del Papa, Memoria e identità, credo abbiano suscitato, particolarmente in tutti coloro che gli sono più o meno coetanei, un sentimento di coinvolgimento diretto ed un´attesa per il testo integrale. Giovanni Paolo parla, infatti, in prima persona e, proprio nella veste di testimone superstite, fornisce la sua deposizione sul secolo terribile che abbiamo attraversato. L´incipit del brano pubblicato recita: «Mi è stato dato di fare esperienza personale della realtà delle ideologie del male. E´ qualcosa che resta incancellabile nella mia memoria. Prima ci fu il nazismo. Quello che in quegli anni si poté vedere era già cosa terribile...». Un inizio folgorante, da grande romanzo autobiografico. Poi il discorso s´intreccia alle sofferte e dubbiose riflessioni sulle due grandi tragedie attraversate soprattutto dai popoli europei, il nazismo e il comunismo. Ma, mentre il primo sembra condannato in assoluto, per il secondo Wojtyla si chiede se «quel male fosse in qualche modo necessario al mondo e all'uomo». Egli tocca qui un tema - la sperequazione di giudizio tra le due dittature, in questi anni lamentata da molti, storici e no - che ha diviso le opinioni pubbliche, riverberandosi su un ampio arco di questioni: dal difficile riconoscimento reciproco tra destra e sinistra fino alla legittimità dello Stato di Israele, per chi lo percepisce come esito riparatore del Genocidio. Certo, ha ragione Barbara Spinelli (La Stampa del 10 ottobre), nel ricordarci che questa «è una distinzione che concedono a se stessi i sopravvissuti... gli uccisi e i martoriati non hanno parola in questo nostro opinare e catalogare... i morti dei Lager e dei Gulag non parlerebbero del proprio dolore e della propria morte come di un male necessario e tanto meno utile». Eppur tuttavia la distinzione operata dal Papa va valutata secondo un metro che a noi portatori di un pensiero laico non appartiene, il metro di una concezione cattolica che legge la Storia come disegno della Divina Provvidenza. Solo un «credo quia absurdum» può, infatti, tradurre in articolo di fede quel che per noi suona insopportabile e incomprensibile: «Il Signore Dio ha concesso al nazismo dodici anni di esistenza e dopo dodici anni quel sistema è crollato. Si vede che quello era il limite imposto dalla Divina Provvidenza a una simile follia... la Divina Provvidenza concesse solo quei dodici anni allo scatenarsi di quel furore bestiale». Da questa affermazione il credente dovrebbe evincere che Auschwitz e l'annientamento degli ebrei d'Europa rientrino, comunque, in un disegno della Provvidenza di cui Hitler sarebbe stato semplicemente l'esecutore predeterminato entro quei dodici anni concessi, più che bastevoli tuttavia per completare l'opera assegnatagli. In questo quadro persino il libero arbitrio di fare o non fare il male si riduce ad un fittizio simulacro. Una concezione in qualche modo apparentata a quella di alcuni rabbini dell'ortodossia giudaica secondo cui la Shoah ha rappresentato la punizione per il popolo di Dio sempre più tentato dal processo di assimilazione ai gentili. Una via terribile per far recuperare ai sopravvissuti una identità in pericolo di estinzione. Peraltro assai più confortante per quei credenti che non si accontentano di un Dio punitivo o «incomprensibile» è l'elaborazione teologica di quei mistici e filosofi ebrei che hanno affrontato con ben altro spirito «il concetto di Dio dopo Auschwitz» (vedi il libro di Hans Jonas, ed. il Melangolo). Una straordinaria meditazione imperniata sul concetto secondo cui «concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza... dopo Auschwitz una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile... ma se Dio può essere compreso... allora la sua bontà, cui non possiamo rinunciare, non deve escludere l'esistenza del male; e il male c´è in


quanto Dio non è onnipotente». È anche questa la conclusione indicibile del Papa polacco? Possiamo per ora solo dedurlo non tanto dalle parole scritte quanto da atti altamente simbolici come la sua preghiera al Muro del Pianto e l'invocazione del perdono rivolta agli ebrei, atti che riflettono una revisione radicale, anche sul piano teologico, dell'accusa di deicidio che ha giustificato duemila anni di antigiudaismo. Una revisione che coglie il motivo essenziale della unicità della Shoah, non riducibile a una delle tante crudeltà della Storia ma individuabile nell'eterno riproporsi di una persecuzione, risalente alla comparsa del monoteismo nell'epoca pagana e perpetuatasi da quando il cristianesimo messianico delle origini si trasforma in religione dell'impero e trova attraverso i secoli nei testi della predicazione cattolica e nelle maledizioni luterane l'impianto accusatorio di una condanna perenne. Chi spezza il vincolo perverso che costringe la patristica a rispecchiarsi nei lager è stato Giovanni Paolo, sul cammino aperto da Giovanni XXIII. Il rovesciamento del vincolo porta al riconoscimento della unicità della Shoah, da cui consegue la definizione del nazismo come Male assoluto, «furore bestiale» come esclama nel suo ultimo scritto il Pontefice. Questa «bestialità», più volte ribadita, non segna, però, solo l'orrore per il Genocidio ma anche la conclusione di un percorso teologico che ha portato la Chiesa a concepire «la singolarità della Shoah in rapporto con la singolarità del Sinai», il luogo sacro dove, secondo la Bibbia, Dio si rivela e dà al popolo testimone le Tavole della Legge. Come ha scritto in un suo saggio in proposito il cardinale Lustiger, arcivescovo di Parigi: «La rivelazione del Sinai illumina il tesoro etico, comune a tutta l'umanità. Ecco perché lo sterminio del testimone dell'Unico è, anche sotto questo aspetto, un crimine contro l'umanità... La Shoah è la nera luce che rende possibile dare un nome agli orrori commessi in Bosnia o in Ruanda, ai crimini di Pol Pot, al genocidio armeno e agli infiniti altri massacri che si dissimulano sotto la veste menzognera delle giustificazioni politiche... per questo il significato orribile della Shoah non banalizza affatto le altre ferite del secolo». Sul comunismo il giudizio è qualitativamente altro e più problematico. Si sovrappongono in esso, a render complessa la comprensione del pensiero papale, piani diversi che vanno individuati per capire quando è la politica che spiega la condanna (come, ad esempio, nella denuncia giustificatissima delle pretese sovietiche sulla Polonia e sull'Europa) e quando, invece, il discorso spazia fra teoria della storia e teologia ed investe il comunismo come ideale. Anche la stessa nozione di tempo muta: una cosa è prevedere - come scrive Karol Wojtyla - che dopo la vittoria della seconda guerra mondiale e dopo Yalta il potere sovietico «sarebbe durato per un periodo molto più lungo di quello nazista», altra cosa è immaginare che la durata del comunismo si sarebbe prolungata «per un tempo difficile da prevedere» in quanto «male necessario al mondo e all'uomo». E per spiegare il paradosso il Papa cita il Faust, laddove Goethe qualifica il diavolo come «quella forza che vuole sempre il male e produce sempre il bene». Sembra legittimo dedurre che in questo caso non si tratti solo di comunismo come regime statale e neppure come ideologia ordinatrice delle dittature ma altresì come idealità animatrice, ancorché fallace, di milioni di persone nell'universo mondo. Così come è legittimo chiedersi se quella idealità, in mutate spoglie contestatrici, non seguiti anche oggi in qualche modo ad alimentare movimentismi di vario segno. Ciò detto si resta pur sempre ad una constatazione del paradosso papale, non ad una spiegazione. La più facile - ma non per questo erronea - è quella di chi individua nel forte afflato sociale di questo pontificato, punteggiato da Encicliche come la Laborem Exercens (1981), la Sollecitudo Rei Socialis (1987), la Centesimus annus (1991), il terreno su cui la condanna cristiana del capitalismo ateo, del profitto senza limiti, della legge sovrana del mercato può ibridarsi (e viceversa) con l'ideologia marxista e le sue proiezioni classiste, pur rigettandole in linea di principio. Questo approccio, abbastanza scontato, mi sembra, peraltro, individui solo parzialmente le radici della riflessione sul «male» del comunismo. Vi è un passo, fra quelli pubblicati, che apre invece a una visione meno meccanicistica e più profonda, laddove Giovanni Paolo sostiene: «Se la libertà cessa di essere collegata con la verità e comincia a rendere la verità dipendente da sé, pone le premesse logiche di conseguenze morali dannose, le cui dimensioni sono a volte incalcolabili». Questo principio si attaglia perfettamente al comunismo se per esso intendiamo quella grande corrente di pensiero e di azione che nel XIX e nel XX secolo si è posta come compito di trasformare «il socialismo dalla utopia alla scienza». Con ciò assumendosi quale meta possibile e raggiungibile la costruzione di una società impregnata di assoluta giustizia ed eguaglianza, libera da ogni sfruttamento privato del lavoro, perfetta nella distribuzione dei beni («da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni»), pacificata nei suoi rapporti, spoglia di contraddizioni, pianificata negli sviluppi futuri. La pretesa «scientifica» di realizzare


questo «paradiso in terra», attraverso la liberazione del lavoro salariato dalla schiavitù capitalistica, spogliava il sogno dal carattere utopico che aveva contraddistinto il socialismo evangelico delle origini. Trasferito nell'azione politica e teorica dei partiti comunisti si inverava nel convincimento dei militanti e dei «credenti» di essere depositari di una razionalità storica finalizzata a un Bene comune, il cui raggiungimento giustificava lacrime e sangue, violenza, dittatura, repressione, censura, annullamento dei diritti individuali e collettivi. E quando gli esiti perversi del grande esperimento «scientifico» di costruire la Storia e di riplasmare l'Uomo cominciarono ad emergere con la forza della realtà, si disse che i mezzi usati erano forse sbagliati, non i fini. L´ambizione luciferina di costruire comunque una Gerusalemme terrena, contrapposta alla Gerusalemme celeste della religione trascendentale ha seguitato così ad alimentare sogni, speranze, utopie e azioni politiche. La sua potenzialità utopica appare, infatti, tanto naturalmente radicata negli ambiti del malessere sociale e politico, da sembrare destinata a riprodursi continuamente indebolendo ogni soluzione riformista, la cui specificità risulta pur sempre dimezzata, parziale, provvisoria. Neppure la fine dell'Urss è bastata, infatti, a far comprendere a tutti che non solo i mezzi ma anche le finalità «buone» del comunismo e il suo bisogno di assoluto, così impermeabili alla eterogenesi della Storia, estranei alla natura dell'individuo, ignare delle infinite contraddizioni dell'essere sociale e della natura umana, proprio quelle finalità «buone» sono la causa dei crimini commessi e degli errori politici che l'ispirazione da quelle idealità ha comportato e continua a comportare. In questo contesto si colloca, dunque, la differenza non solo tra nazismo e comunismo ma quella, ancor più netta, fra i nazisti che combattevano ed opprimevano in nome della superiorità razzista dell'ariano germanico e quei comunisti che vi si opponevano difendendo la libertà e illudendosi di realizzare una società più giusta. Se è vero che per le vittime dei due totalitarismi la differenza è nulla, il giudizio storico e morale dei sopravvissuti e dei posteri non può essere lo stesso. Ci soccorre a comprenderlo la parola del Pontefice romano quando dice: «Mediante la libertà l'uomo è chiamato a scegliere e a realizzare la verità sul bene. Scegliendo e attuando un bene vero nella vita personale e familiare, nella realtà economica e politica, nell'ambito nazionale e internazionale, l'uomo realizza la propria libertà nella verità...». Forse si può concludere con un paradosso speculare a quello del Papa: anche il bene assoluto produce un male assoluto. E non necessario.


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