Norberto Bobbio su La Stampa 8 1 14

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STAMPA .LA MERCOLEDÌ 8 GENNAIO 2014

In edicola con La Stampa

CULTURA SPETTACOLI

Per ricordare Norberto Bobbio, che fu dal 1976 suo illustre collaboratore, La Stampa ripropone uno degli ultimi libri pubblicati dal filosofo torinese, il De senectute, uscito nel 1996 da Einaudi con altri scritti autobiografici. Il volume si può acquistare nelle edicole di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta a € 8,70 più il prezzo del quotidiano, oppure online su www.lastampa.it/shop

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NO R B E RT O B O B B I O

Caro lettore... Il grande filosofo moriva il 9 gennaio 2004. Lo ricordiamo attraverso le sue risposte ai lettori della Stampa MAURIZIO ASSALTO

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orberto Bobbio se n’è andato all’imbrunire di un brutto giorno torinese il 9 gennaio 2004. Aveva compiuto a ottobre 94 anni. Da un paio di mesi aveva perso l’amico di una vita, Alessandro Galante Garrone, da tre anni la moglie Valeria. Nel decimo anniversario lo vogliamo ricordare proponendo un aspetto ignoto ai più, ma non secondario, della sua prodigiosa attività, testimoniata dall’Archivio depositato presso il Centro studi Piero Gobetti di Torino: quasi 500 faldoni che contengono 4560 fascicoli. Tra questi, ben 72 faldoni sono riservati all’epistolario, per un totale di circa tremila fascicoli corrispondenti a altrettanti interlocutori in ordine alfabetico: dalla A di (Nicola) Abbagnano a Z di (Danilo) Zolo, passando attraverso personaggi come Aldo Capitini, Augusto Del Noce, Ludovico Geymonat, Carl Schmitt e tutti i maggiori intellettuali non solo italiani del ’900. Ma molti fascicoli sono intestati anche a nomi del tutto sconosciuti, di persone che per qualche ragione, magari in forma episodica, erano entrate in rapporto epistolare con lui. Una corrispondenza

C Norberto Bobbio con la moglie Valeria in una foto giovanile in riva al mare

vastissima e impegnativa, tanto più se si considera che altre lettere, non meno di settemila, sono confluite nei faldoni tematici, intitolati a argomenti come pace, democrazia, diritti dell’uomo, politica nazionale, Torino ecc. (ma, tra gli altri, ci sono anche un raccoglitore con la dicitura «sciocchezzaio» e un altro dedicato alle «crazie», ossia alle svariate e più sorprendenti ricorrenze del suffisso, da cleptocrazia a fallocrazia a paradossocrazia). Bobbio passava molte ore a scrivere e rispondere alle lettere, segnatamente dedicandovi la domenica mattina. E archiviava tutto, con l’aiuto della moglie e poi del collaboratore Pietro Polito, oggi direttore del Gobetti: articoli di giornale, corrispondenza, anche semplici biglietti d’auguri, oltre naturalmente alle copie delle proprie risposte. Una miniera che aspetta di essere esplorata. Tra le tante, pubblichiamo due lettere relative al dibattito suscitato dalla pubblicazione del De senectute (Einaudi 1996), indirizzate l’una a un lettore, Giuseppe Palmisani, che gli domanda se, potendo, ripeterebbe la sua esperienza di vita, e l’altra a un amico, Arrigo Levi, il direttore con cui aveva cominciato nel ’76 la collaborazione alla Stampa.

aro lettore, anche se rispondo con ritardo, non ho affatto dimenticato la sua lettera. Il ritardo dipende prima di tutto dal fatto che sono molte le lettere che ricevo, anche se non rispondo a tutte, in secondo luogo perché avrà capito dalla lettura del mio libro che vivo, proprio in quanto vecchio invecchiato, «al rallentatore». Si dice che ogni giorno ha la sua pena: la mia pena è quella di arrivare alla fine della giornata, non solo stanco, ma scontento per tutte le cose che avrei dovuto fare e ho dovuto rinviare al giorno dopo. Alla domanda, che Lei mi pone, risponde Lei medesimo. Per quel che riguarda me, posso dirle che non me la sono mai posta. Prima della Sua lettera, non ci avevo mai realmente pensato. La vita è una sola. Non c’è un prima e non c’è un dopo. Né c’è una possibile ripetizione. Non posso neppure lontanamente pormi un problema, che per me è inesistente. Questo non vuol dire che la mia vita mi appaia tale da esserne appagato. Tutt’altro! Ma l’accetto così come è stata, con tutte le sue gioie e i suoi dolori, con tutte le cose buone che posso aver fatto e tutti gli errori, irrimediabili. Gli esami di ripetizione purtroppo

D A L L’ E P I S T O L A R I O

Valeria e io abbiamo sempre passeggiato insieme non ci sono. E poi chi sarebbe mai l’esaminatore, che potrebbe correggermi e ripropormi una strada diversa? Potrei racchiudere il mio pensiero in una breve vecchissima espressione: «Amor fati». Molto belli i brani di scrittori classici che Lei mi cita. Continuo a raccogliere pensieri e riflessioni sulla vita e sulla vecchiaia, per potermene servire alla prossima occasione. Ma se questa occasione ci sarà, e quando, non sono in grado di dire. Importante è continuare a vivere, come se... Non escludo, anzi sono certo, che per altri la vita appare completamente diversa, come Lei mi suggerisce. Ma le mie convinzioni sulla vita e sulla morte sono ormai troppo radicate, per lasciarmi influenzare da coloro che la pensano in modo com-

pletamente diverso. La ringrazio ancora della Sua lettera e la saluto cordialmente. Norberto Bobbio Torino, 1° maggio 1997 L’età delle avventure è finita

Caro Arrigo [Levi], grazie, affettuosamente grazie. Ho passato ore deliziose nel leggere il tuo libro [La vecchiaia può attendere, ovvero l’arte di restare giovani, Mondadori, 1998], che è in realtà una sorta di preparazione al mio De senectute, preparazione che io, più insicuro, più ansioso, più pessimista di te, non ricordo di avere mai fatta, avendo sempre considerato la morte come una compagna di viaggio, un’ombra

che mi ha quasi sempre preceduto, più raramente seguito. Intanto c’è una notevole differenza di anni, tra te e me, quasi una ventina. Tu scrivi quando cominci a sentirti vecchio. Io scrivo da vecchio, irrimediabilmente, irreversibilmente, inesorabilmente, vecchio. Tu sei ancora nell’età in cui ci si prepara a diventare vecchi. Io sono nell’età in cui il viaggio è alla fine, e bisogna, se mai, avere al proprio fianco una valigia sempre pronta per affrontarlo. Quando è avvenuto il nostro incontro (storico) a La Stampa, nella tua stanza di direttore, nel settembre 1976, avevo 67 anni, più o meno quelli che tu hai adesso. Ero ancora nell’età in cui tu dici giustamente che non bisogna smettere di affrontare nuove avventure. L’inizio della mia collaborazione a un giornale molto diffuso, dura-


LA STAMPA MERCOLEDÌ 8 GENNAIO 2014

Il Centro Gobetti vara l’anno bobbiano

Un bando per studiosi under 35

Nel decennale della scomparsa di Bobbio, il Centro Gobetti vara a Torino un fitto programma che si protrarrà per tutto il 2014. Primo appuntamento il 21 gennaio nella Sala Rossa del Comune (ore 17), con interventi tra gli altri del sindaco Piero Fassino e del rettore dell’Università Gianmaria Ajani. Tra gli altri eventi già definiti, in aprile presso il Consiglio Regionale del Piemonte un seminario con Giuliano Pontara e Massimo L. Salvadori e una mostra fotografica, in ottobre, in concomitanza con l’anniversario della nascita, una serie di «Giornate Bobbio» con un seminario sul suo pensiero giuridico presso il Campus Luigi Einaudi.

Anche il Circolo dei lettori di Torino rende omaggio al filosofo. Da venerdì sarà lanciato su www.circololettori.it un bando rivolto a studiosi under 35 per rileggere il pensiero di Bobbio in chiave contemporanea (gli interessati dovranno inviare, entro il 31 maggio, il sommario di una lezione sui temi dell’attualità del pensiero di Bobbio; i quattro candidati selezionati potranno sviluppare il lavoro e presentarlo in una lezione pubblica). Dal 15 gennaio, inoltre, tutti i mercoledì dalle 18 alle 19, al Circolo prende l’avvio il gruppo di lettura «Capire la Polis», condotto da Jacopo Rosatelli, per interrogarsi, attraversando gli scritti di Bobbio, sul significato attuale di politica.

10 ANNI DOPO Norberto Bobbio nel suo studio. Il filosofo del diritto e della politica era nato il 18 ottobre 1909 a Torino, dove morì il 9 gennaio 2004

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VISTO DA VICINO

Il dovere della verità Anche se scomoda

[FOTO DI MARIO MONGE]

MARCELLO SORGI SEGUE DALLA PRIMA PAGINA

Una forma quotidiana di dialogo privato PIETRO POLITO n una conversazione pubblicata su Nuova Antologia nell’ottobre 1999 in occasione dei novant’anni, Norberto Bobbio elenca le diverse forme di dialogo da lui praticate. In particolare richiama il dialogo con gli intellettuali comunisti all’indomani della seconda guerra mondiale condotto sotto l’insegna della Società Europea di Cultura, che è alla base di Politica e cultura (1955). Qui, inoltre, fa l’elogio del dialogo con le persone che lo andavano a trovare a casa (Bobbio riceveva molte persone, «anche noti seccatori»), in particolare amava conversare con i giovani, attratto non solo dai loro studi ma anche dalle loro esperienze di vita. Un’altra forma di dialogo privato molto cara al professore è stata la corrispondenza. Per Bobbio la corrispondenza era un dialogo a distanza a cui ricorreva quasi quotidianamente, a volte per necessità a volte per dovere, talora per preparare un articolo o per correggerne uno già fatto, spesso, e sono le lettere scritte più volentieri, per rispondere agli amici, ai discepoli, anche a persone ignote che lo interrogavano su argomenti riguardanti il suo mestiere di professore e di studioso. Accanto a quelle ricordate da Bobbio, c’è un’altra forma di dialogo da lui praticata per almeno vent’anni su cui richiamare l’attenzione e di cui porre in rilievo l’alto valore civile: il dialogo coi lettori del suo giornale La Stampa. Un dialogo tra il pubblico e il privato che si svolge sulle pagine del quotidiano, ma per lo più rimane nella sfera dei rapporti personali. Tra le migliaia di lettere scritte da Bobbio nella sua vita, centinaia sono quelle scambiate con i suoi lettori. Non c’è argomento di cui si sia occupato (la democrazia, la pace, i diritti dell’uomo, la vita politica nazionale) che non abbia destato accanto al dibattito pubblico la reazione dei lettori. Ne è un esempio significativo l’eco suscitata dalla pubblicazione del De senectute, come testimoniato dalle due lettere pubblicate in questa pagina, scelte tra quelle mandate in risposta alle decine di lettere di studiosi, colleghi, amici, cittadini comuni, sollecitati dall’analisi rigorosa, assolutamente priva di retorica, che Bobbio propone della vecchiaia e dei grandi temi della vita e della morte.

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Direttore del Centro studi Piero Gobetti

ta con una certa continuità venti anni, anche se non sempre con grande convinzione, è stata una vera e propria avventura, che ha preceduto di qualche anno una seconda avventura non entusiasmante ma, per lo meno nei primi quattro o cinque anni, vivificante, della nomina a senatore a vita. Oggi, l’età delle avventure è finita. È l’età in cui ci si ripiega su se stessi. Non si fanno progetti, ma si vive alla giornata, in una giornata in cui l’unica cosa di cui si ha bisogno sono non i progetti ma gli affetti, che a me, sposato felicemente da 55 anni, con tre figli e cinque nipoti, fortunatamente non sono mai venuti meno. Ti dicevo che non mi sono preparato a diventare vecchio, anche perché vecchio sono diventato improvvisamente, in una volta sola quando non ci pensavo ancora. nell’estate del 1988, a 79 anni, attraverso due lunghe e gravi malattie di cui non è il caso di parlare. Da allora, in seguito ad altri incidenti, di cui uno molto grave, ho cominciato a meditare sulla vecchiaia quale realmente è, e non sulla vecchiaia cui tu ti prepari, e che ti auguro sia come tu la immagini. Non ho praticato molto i gerontologi, avendo un figlio medico, ma condivido la tua opinione espressa in pagine gustosissime. Giusta la tua os-

servazione alla quale non avevo mai seriamente pensato: noi siamo la prima generazione di anziani di massa. Naturale quindi il continuo confronto con gli altri anziani, come noi o addirittura più di noi, e le amare conclusioni, che nonostante i progressi dell’arte medica si è costretti continuamente a fare: i non malandati sono un’eccezione. Del resto, a p. 123 tu enumeri le caratteristiche dei vecchi «generalmente riscontrate», ed io, ti assicuro, le ho tutte dalla prima all’ultima. (La battuta del «ginocchio della lavandaia» è una delle mie preferite). Vi sono nel tuo libro alcune cose che mi hanno incantato: fra queste, l’elogio degli alberi. Abbiamo da qualche tempo una casetta sulla collina torinese immersa in un grande giardino. Dalla finestra del mio studio vedo soltanto alberi. Sono uno svago, e insieme con Valeria, più osservatrice di me. ne commentiamo il variare del colore e della forma col variare delle stagioni. E poi l’elogio del passeggiare. Con questa differenza, però, che io non ho mai passeggiato da solo. Valeria ed io abbiamo sempre passeggiato insieme. Per anni, ogni domenica andavamo in macchina all’inizio di una delle valli da cui Torino è cir-

condata, e ne percorrevamo le vecchie mulattiere che un tempo servivano a passare da una valle all’altra. Le vacanze sempre a Cervinia: ogni giorno una camminata. Avevo tracciato una trentina di percorsi: uno a giorno. Tra i quadri che fanno bella mostra di sé nel nostro salotto c’è una bella stampa di Luca di Leyda, intitolata La passeggiata. Ce la siamo comprata qualche anno fa, come una perpetua testimonianza di un’abitudine che ci è stata cara. Ora purtroppo non cammino quasi più: la bella stampa ci aiuta a rivivere soltanto alcuni bei momenti della nostra vita. Concludo ma potrei continuare a lungo. Tra le «affinità», oltre l’amore degli alberi e delle passeggiate, ce ne è una, cui tengo di più. Mi riferisco a una delle ultime pagine in cui esprimi la tua indignazione verso chi non vuole riconoscere i valori del diverso. Alcuni anni fa ho terminato un libro in cui raccoglievo testimonianze di maestri e di amici, scrivendo: «Odio i fanatici con tutta l’anima». (Quanto all’amore comune per la corrispondenza, giudica tu). Affettuosamente, Norberto Torino, 1° febbraio 1998

a morte si è dimenticata di me!», esordiva, sollevando il capo nella penombra. Ma era un vezzo. Subito dopo, la stanchezza, il peso della vecchiaia, la sensazione di sentirsi fuori posto, in un mondo che non gli apparteneva più, lasciavano spazio alla curiosità, al gusto della conversazione, ai lampi di intelligenza e a un sorriso avaro, concesso con parsimonia da uno consapevole di non aver più ragioni per gioire. Era uscito da questa sofferenza uno dei suoi ultimi libri, il De senectute che gli era valso la strana amicizia tardiva con Gianni Agnelli. Anche l’Avvocato, di tanto in tanto, andava a trovarlo: cosa potesse unire due uomini così diversi, a cui era toccata in sorte la nomina a senatori a vita, nessuno lo ha mai saputo. Forse, appunto, era la torinesità e il sentirsi parte di un’epoca che stava scomparendo. Quanto a me, prima di frequentarlo a Torino, da editorialista e nume tutelare di questo giornale, lo avevo conosciuto a Roma nel ’92, nei giorni in cui, a dispetto di se stesso, era diventato il candidato alla Presidenza della Repubblica dell’«altra» Italia. Lui ovviamente non voleva crederci, resisteva, anche quando, camminando a piccoli passi con me che lo accompagnavo dal suo albergo al Pantheon verso Montecitorio, la gente lo fermava per stringergli la mano, o tifava per lui - Forza professore! -, manifestandogli così, alla romana, una simpatia spontanea. Alla vigilia della caduta della Prima Repubblica, mentre i partiti morenti non riuscivano a trovare un nome per il Quirinale, Bobbio, a sorpresa, si era trasformato nel candidato della società civile, che solo un anno prima, con il referendum elettorale, aveva dato una forte spallata al sistema. La sinistra spingeva a suo favore, cresceva a sorpresa, per lui, il consenso, anche tra i deputati e i senatori chiusi nel Palazzo e costretti a due votazioni al giorno, in odio ad altri candidati di peso da trombare, come Andreotti e Forlani, o nel vano tentativo di ricostruire credibilità di fronte all’elettorato preso, già allora, da un’ondata di antipolitica. Dopo nove giorni (le Camere erano riunite in permanenza dal 13 maggio), una mattina Bobbio, prendendo una camicia da un cassetto nella sua stanza d’albergo, sbattè la testa su un soffitto spiovente e si ferì. Fine della corsa e sollievo del candidato riluttante, che poteva tornarsene a casa e ai suoi studi. Di quest’avventura in cui si era trovato quasi senza rendersene conto, il professore aveva conservato un ricordo indelebile: nel settembre del ’98, appena arrivato a Torino come direttore della Stampa, ricevetti una sua lettera nella quale, anche a distanza di tempo, ripercorreva quelle giornate trascorse insieme e tratteggiava tutte le sensazioni contrastanti che aveva provato, insieme con gli interrogativi che l’esperienza gli aveva lasciato, ai quali invano aveva cercato di dare risposta. Di lì in poi i nostri appuntamenti divennero settimanali: si andava in delegazione, con Alberto Papuzzi, che aveva da poco ultimato la sua biografia, e con Cesare Martinetti, che dirigeva le pagine culturali della Stampa. Qualche volta sì, qualche altra no, non

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c’era una regola, si tornava con l’abbozzo di un articolo, che Bobbio ci avrebbe mandato il giorno dopo, con piccole, preziose, correzioni a mano, di cui si preoccupava al telefono: «Era tutto chiaro? Occorre rileggerlo?». Fu in una di questa circostanze, divenute abbastanza rituali nella vita del giornale, che ci trovammo a gestire un’altra emergenza, assai lontana da quella del Quirinale. Benché dissuaso dal giro più stretto dei suoi amici e della sua accademia, Bobbio, il 12 novembre ’99, aveva accettato di rilasciare un’intervista a Pietrangelo Buttafuoco del Foglio. Era un pezzo esplosivo, in cui per la prima volta parlava di quella parte del suo passato, legata agli inizi della carriera universitaria. Come se volesse liberarsi di un segreto imbarazzante custodito con vergogna troppo a lungo, Bobbio ricostruiva i tempi della «doppiezza», in cui era stato «fascista con i fascisti e antifascista con gli antifascisti». Si rifiutava di accettare la lettura storica del suo intervistatore, secondo il quale tutti o quasi gli intellettuali italiani avevano condiviso un percorso del genere, ma per citare ad esempio il suo maestro, Gioele Solari, o il suo amico Leo Valiani, e per far risaltare il coraggio di chi non si era arreso, finiva col ribadire le proprie responsabilità. Dopo la pubblicazione dell’intervista si scatenò un putiferio. Bobbio essendo il maggiore intellettuale azionista, e uno dei più rispettati maître-à-penser della sinistra, lo sconcerto, nel suo campo, era evidente. Su Repubblica Gad Lerner scrisse che era stato attirato in una «trappola». Nel giro più stretto degli amici torinesi, qualcuno gli suggeriva di smentire il testo di Buttafuoco, che invece aveva riletto e approvato parola per parola. Anche per noi della Stampa il momento era complicato. C’era da capire perché il nostro più importante collaboratore, il custode delle radici culturali del giornale, avesse scelto un altro quotidiano per fare le sue rivelazioni. E soprattutto c’era da trovare la forza di chiamarlo, proprio mentre l’ondata di reazioni mediatiche e politiche rompeva la quiete di via Sacchi. Toccò a me il compito. Gli telefonai per informarlo che avremmo pubblicato un’intervista di Alessandro Galante Garrone, l’altro grande azionista di Torino e come lui editorialista della Stampa, che, contrariamente a chi ne aveva criticato l’imprudenza, gli offriva solidarietà. Inoltre, da storico, rilevava il fatto che la tessera fascista fosse obbligatoria per i professori universitari, e solo quattordici, in tutto il corpo docente nazionale, si fossero rifiutati di prenderla. Gli domandai perché avesse scelto Il Foglio, e non La Stampa, per fare la sua confessione; mi rispose candidamente che noi non gliel’avevamo chiesta. Insistetti, per sapere se intendesse dare un seguito alle polemiche. Ci pensò su, ma replicò soltanto: «Mi lasci riflettere». La mattina dopo, senza preavviso, mandò un articolo limpido, in cui spiegava di non essere stato vittima di alcun tranello e di aver avvertito un autentico desiderio di liberarsi del peso che lo aveva oppresso per tanti anni. Concordammo il titolo: «Io e il fascismo, lasciatemi dire». Dieci anni dopo la sua scomparsa, ci sarebbero tanti altri episodi da narrare, di un uomo straordinario come Bobbio. Ma questi due racchiudono le principali caratteristiche del personaggio: la schiettezza tutta torinese, la sincerità, il distacco tipico di una grande cultura, e soprattutto il gusto della verità: anche quella, scomoda, che volle rivelare di sé.


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