Il Verbo di Mao

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| IL FATTO QUOTIDIANO | Lunedì 16 Maggio 2016

La lunga marcia “tricolore” Il discorso Mao durante una manifestazione dell’ottobre del 1963 Ansa

ÉLITE ROSSA

QUEI MONACI SENZA CANNE E SENZA SESSO LIBERO

NELLO STIVALE Esisteva il Partito comunista marxista leninista che si rifaceva direttamente alla Rivoluzione cinese: l’informazione era legata a “Servire il popolo”. Riti e tradizione: una comunità

L’ Le date

Nel 1966 Mao lancia in Cina la Grande rivoluzione culturale proletaria

1966

16 maggio

È il giorno ufficiale tramite una circolare del Comitato centrale che denuncia i “rappresentanti della borghesia che si sono intrufolati nel nostro partito”

1976

9 settembre Muore Mao all’età di 82 anni. Dal 1943 era stato il portavoce del Partito comunista cinese

SEGUE DALLA PRIMA » FABRIZIO D’ESPOSITO

S

» MASSIMO FINI

intero Sessantotto visse molto di più sui giornali borghesi che nella realtà. Almeno fino a quando, col rapimento del giudice Sossi e il conseguente assassinio, due anni dopo del Procuratore generale di Genova Francesco Coco, le Brigate Rosse non passarono all’azione. Ma le Brigate Rosse non si ispiravano alla Rivoluzione cinese, bensì al mito della Resistenza italiana che con la Rivoluzione cinese, con tutta evidenza, non aveva nulla a che vedere. Fra gli innumerevoli gruppuscoli che nacquero nel Sessantotto, Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Manifesto, Potere Operaio, Lotta comunista, Quarta internazionale, situazionisti, commontisti, Gruppo Gramsci, Partito comunista italiano (m.l.), che detto per esteso significa Partito Comunista italiano marxista leninista, solo quest’ultimo, che all’inizio si chiamava Unione, si ispirava direttamente alla Rivoluzione cinese del 1966. Gli altri gruppi tendevano piuttosto a guardare a quella sovietica e sotto le mura della Statale di Milano, occupata dagli studenti, si poteva sentir risuonare il rabbrividente slogan “viva Stalin, viva Beria, viva la Ghepeu” ed era la prima volta che un movimento che si diceva rivoluzionario inneggiava alla polizia e, più precisamente, alla polizia politica di cui il sanguinario Lavrentiy Beria era stato il capo.

Cinquant’anni fa il Verbo di Mao ispirava anche l’Italia e infantile l’Unione era nota più che altro per aver toccato, e abbondantemente superato, i limiti del grottesco con i suoi matrimoni marxisti-leninisti. Io assistetti a Firenze a una di queste cerimonie: era una triste parodia, senza un lampo di fantasia o di originalità o di intelligenza, dei matrimoni dei comuni e odiatissimi borghesi. L’UNICO intellettuale di gri-

IL PARTITO COMUNISTA ita-

liano (m.l) nacque a Milano nel ’68 dalla fusione dei gruppi Falce e martello e Bandiera Rossa. L’Unione dei marxisti e leninisti ebbe brevi momenti di splendore, seguiti da un rapidissimo declino. Fu l’unico dei gruppi a ricevere quattrini dalla Cina e il suo capo fu ospitato dal Presidente Mao (cosa che rendeva verdi di rabbia i leader degli altri gruppuscoli). Gli emmeelle vivevano nel culto di Mao. Il ma-

AUTOFINANZIAMENTO

Una compagna che aveva ricevuto una eredità di 50 milioni fu espulsa per averne devoluti solo 15 al gruppo

oismo vi era inteso come dogma e ripetizione talmudica. La stessa struttura dell’Unione non era che la riproduzione esatta e pedante del partito comunista cinese. All’interno dell’Unione c’era, come in Cina, una lega delle donne, una lega dei giovani pionieri, una lega degli anziani. Il lavoro dei marxisti-leninisti era esclusivamente di propaganda. Il concetto era infatti che il Partito era la Verità e la Verità non ha bisogno d’altro che di essere diffusa. Cosa che a ben guardare non si discosta molto dalla cosmologia cui si ispirano Al Baghdadi e i suoi uomini, con la differenza che costoro si battono mentre i marxisti-leninisti erano violentis-

In stampa Due pagine di “Servire il popolo”, giornale di riferimento

simi a parole ma pressoché innocui quando si trattava di passare all’azione. Vivevano su un altro pianeta. Il pianeta di Mao. Per diffondere il loro Verbo utilizzavano un giornale quotidiano murale e il settimanale Servire il popolo che aveva una discreta diffusione. Il Partito si finanziava attraverso una autotassazione dura ed esigente. Una compagna che aveva ricevuto una eredità di 50 milioni fu espulsa per averne devoluti solo 15 al Partito. A Milano i militanti erano circa 2.500 e il capo nazionale si chiamava Luca Meldolesi, un operaio che aveva scritto un libro su Forza lavoro e mercato. Dominata da un moralismo forsennato

do che si fece attrarre da questo maoismo di risulta fu il sempre molto generoso ma anche molto ingenuo Dario Fo. Mi ricordo che una volta alla Palazzina Liberty esaltò il fatto che i cinesi su un fiume (non ne rammento ora il nome) avevano organizzato, per deviarlo, una diga umana. Il buon Dario non si rendeva conto che stava facendo l’esaltazione della schiavitù. In realtà il maoismo penetrò in Italia non direttamente dalla Cina ma attraverso la guerra del Vietnam dove i vietcong stavano dando filo da torcere agli americani e nel 1975 li cacciarono. Mi ricordo un editoriale del Corriere della Sera firmato da Giuliano Zincone, che seguiva estasiato le manifestazioni pro-vietcong, che prendeva il titolo da una frase del testo che diceva: “Il Vietnam vince perché spara”. Conclusa la guerra del Vietnam e passati alcuni fur o r i i l n o m e d i M a o Tse-tung divenne, più correttamente, Mao Zedong. E fu la fine dell’influenza del comunismo cinese in Italia. La Cina non era più vicina. O forse era diventata troppo vicina e simile a noi. © RIPRODUZIONE RISERVATA

e Diabolik rinnegò la sua natura di ladro, in Italia almeno 10mila militanti co muni sti stracciarono la loro matrice borghese, di ogni taglia (piccola, media, alta), sventolando il leggendario libretto rosso di Mao Tse-tung poi Mao Zedong. Un rivolo movimentista nel fiume tumultuoso del Sessantotto. Gli italici “cinesi”, identificati tout court da un noto slogan maoista, “Servire il popolo”, sono stati una minoranza meno studiata dei loro cugini di Lotta continua o Potere operaio o dei compagni che “sbagliando” optarono per il terrore delle armi. Eppure in quell’élite maoista si formò un po’ di classe dirigente e intellettuale dei decenni successivi: Michele Santoro, Barbara Pollastrini e Linda Lanzillotta, i fratelli Pennacchi, Renato Mannheimer, Enzo Lo Giudice (avvocato di Craxi), l’economista Luca Meldolesi, Fulvio Abbate, i giornalisti Antonio Polito e Giovanni Fasanella, il regista Marco Bellocchio, l’attore Lou Castel, l’ex dalemiano Nicola Latorre. Il maoismo italiano si può affrontare da vari versanti: ideologico anche in senso stalinista, contro il revisionismo sovietico di Kruscev e il realismo similriformista del Pci; di pura e semplice contestazione al conformismo borghese; soprattutto di diversità politica rispetto al “carrierismo”e alle convenienze opportunistiche del sistema dei partiti. Meglio, diversità Politica, con la maiuscola. Perché “Servire il popolo” con il Grande Timoniere Aldo Brandirali, poi ciellino e berlusconiano, fu una sorta di setta che declinò in modo rigido e chiuso lo slancio proletario e contadino della “vicina” Cina, dal matrimonio con rito comunista alle discussioni collettive sui beni personali da donare alla causa. Niente canne, niente sesso libero. Lanzillotta, per esempio, fu espulsa perché frequentava un uomo sposato. La lotta all’edonismo borghese prevedeva anche le luci spente durante l’amplesso, per non godere troppo. Ogni epoca ha i suoi giovani monaci della diversità. I maoisti italiani ne furono l’incarnazione più ortodossa, dal 1968 al 1975. Appena sette anni. Il sogno svanì miseramente nelle urne: solo 86.038 voti alle elezioni del 1972, pari allo 0,26 per cento. © RIPRODUZIONE RISERVATA


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