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SECONDO TEMPO

VENERDÌ 15 MAGGIO 2015

il Fatto Quotidiano

NORDISTI

ASPIRAZIONI

Il Partito Unico della Nazione di Maurizio

I

Viroli

l partito della nazione, ci assicura Renzi, “non è un minestrone in cui entra di tutto. Il Pd è la casa del centrosinistra. È un partito di sinistra con una visione riformista del Paese che si può allargare anche ai più moderati. È una continuazione del partito a vocazione maggioritaria di cui parlava Veltroni. Mi sembra del tutto evidente che gli elettori del Pd non moriranno democristiani”. Il proposito, se interpreto bene, è di trasformare il Pd in un partito nuovo che aspira a rappresentare un ampio arco d’interessi, bisogni e culture e a raccogliere di conseguenza un consenso elettorale talmente ampio da consolidare ancora di più il proprio ruolo di forza di maggioranza relativa, se non assoluta. Progetto del tutto legittimo, ma perché chiamare un partito con queste caratteristiche “partito della nazione”? Se le parole hanno ancora un senso nel dibattito politico italiano, del che è lecito dubitare, “partito della nazione” vuol dire molto di più di un partito che aspira a raccogliere ampi consensi. Deve essere un partito che si propone di rappresentare tutta la nazione, di esserne la più vera espressione, la sua guida sicura. Ma in questo caso gli altri partiti diventerebbero degli inutili intralci. A considerarla con un minimo di attenzione, l’idea del partito della nazione nasce dalla malcelata ambizione a essere partito unico. Questa vocazione a fare da soli si è già manifestata nella sconsiderata determinazione di Renzi ad attuare la riforma della Costituzione a maggioranza e a far passare la nuova legge elettorale a colpi di voti di fiducia senza cercare l’accordo con le minoranze esterne ed interne. È emersa pure nella disponibilità ad accogliere tutti nelle proprie file: condannati, inquisiti, corrotti, corruttori, neofascisti, collusi con la mafia. Anche loro sono parte, e non piccola né irrilevante, della nazione. A che titolo escluderli, se sei il ‘partito della nazione’? In regime repubblicano e democratico i partiti devono rimanere parti. Parti che rappresentano interessi diversi, con diverse visioni della società, con diversi progetti per il futuro e diverse memorie rispetto al passato. Parti che cercano accordi e compromessi per il bene comune e si sforzano di convincere il maggior numero possibile di cittadini della bontà delle loro proposte. Parti che si sentono sinceramente leali alla Costituzione repubblicana e operano per mandare in Parlamento cittadini che sanno e vogliono rappresentare la nazione. Ma sempre parti rimangono e non aspirano a diven-

Un’assemblea del Pd LaPresse

PRIMA REPUBBLICA Dc e Pci, consapevoli del carattere autoritario di ogni formazione che pretenda di essere il tutto, non hanno mai pensato di essere universali tare il tutto. Nella storia dell’Italia repubblicana, il partito che meglio degli altri ha saputo rappresentare interessi e culture diverse è stato la Democrazia cristiana, maestra nell’arte della mediazione e del compromesso. In questo senso è stato un partito nazionale. In modo diverso anche il Pci ha cercato fin dal ritorno di Togliatti di essere partito di classe e nazionale, vale a dire capace di raccogliere attorno al

nucleo fondamentale della classe operaia, contadini, intellettuali, ceti medi produttivi e le forze più sane dell’imprenditoria. Ma né l’una né l’altro hanno mai accarezzato l’idea di proclamarsi ‘partito della nazione’. Non l’hanno fatto perché erano orgogliosi della propria identità ed erano consapevoli del carattere inevitabilmente autoritario di qualsiasi partito che vuol essere il tutto. Il partito che diventa il tutto, d’altra parte, lo conoscevano bene: era il partito nazionale fascista. Ha ragione Ferruccio de Bortoli quando sostiene, su questo giornale, che “il partito della Nazione è il trionfo del trasformismo”. Aggiungo che con l’Italicum e una sola camera elettiva avrebbe di fatto il monopolio del potere politico: ricetta infallibile per avere una classe politica ancora più corrotta e incompetente di quella attuale.

Il bene confiscato non s’ha da usare di Gianni Barbacetto

STRANI LADRI, quelli che entrano in un edificio, distruggono, strappano i fili elettrici, ma poi se ne vanno senza portar via i computer. Succede alla “Masseria”, un ex ristorante di Cisliano, nei pressi di Milano. È stato confiscato nell’ottobre 2014 al clan Valle, potente famiglia di ’ndrangheta installata al Nord. Dal momento della confisca, sono iniziate le incursioni, i danneggiamenti, i vandalismi. Da parte di qualcuno, evidentemente, più interessato a mandare segnali che non a rubare ciò che di valore è restato nell’edificio; a renderlo inutilizzabile, a non farlo rinascere come bene strappato alla mafia. Una storia comune a molte proprietà tolte alle famiglie mafiose. “La Masseria” era, fino agli arresti del luglio 2010, il quartier generale del clan Valle nell’hinterland milanese. Ristorante con salone per banchetti, giardino con piscina, chiosco bar, palme e parcheggio, con attorno le villette dove abitavano sei degli esponenti del clan. Era un piccolo paradiso protetto come un bunker, con sofisticate apparecchiature di sicurezza, telecamere, sensori, impianti di allarme. Alla “Masseria” venivano convocati gli imprenditori e i negozianti a cui i boss avevano prestati soldi a usura, tasso d’interesse al 20 per cento: uno dei loro business preferiti, insieme a quello delle macchinette mangiasoldi (avevano in progetto di aprire un piccolo casinò a Pero, in vista dell’Expo). Se i convocati non pagavano, venivano minacciati e picchiati davanti ad altri debitori: “Colpirne uno per n

educarne cento”, spiegò Ilda Boccassini dopo l’operazione che portò in cella 15 persone e sequestrò 138 immobili, più conti correnti e quote di società per un valore di 8 milioni di euro. Anche in questo caso, nella civilissima Lombardia dove l’omertà non dovrebbe avere cittadinanza, nessuno dei tanti imprenditori vittime di usura ha mai sporto denuncia. Dal 2010, quando sono scattati gli arresti, “la Masseria” è chiusa. Dall’ottobre scorso è definitivamente tolta al clan. Ma non ancora assegnata a qualcuno che possa farla rivivere per dimostrare che le proprietà dei mafiosi possono essere trasformate in luoghi di legalità disponibili ai cittadini.

L’IMMOBILE La “Masseria”, un ex ristorante di Cisliano (Mi) tolto al clan ’ndranghetista dei Valle. Da allora incursioni e danneggiamenti Summit di ’ndrangheta Ansa

INVOLUZIONI

Scotto di Luzio

L

a grande disputa sulla figura del preside rischia di essere fuorviante. In gioco, nel disegno di legge del governo Renzi sulla scuola, non è la leadership educativa del nuovo dirigente scolastico, i cui margini di iniziativa a ben vedere sono mediocri, confusi e non esercitabili in concreto, quanto piuttosto il profilo degli insegnanti. È qui che si gioca la partita decisiva. Su questo bisognerebbe chiarirsi una volta per tutte. L’autonomia scolastica non esiste. È solo il nome che, a partire

dagli anni Novanta, è stato dato alle nuove tecniche di gestione di quell’apparato burocratico di massa che era ormai diventa l’istruzione, in Italia e in Occidente, al termine del grande ciclo della scolarizzazione della seconda metà del Novecento. Tutta la disputa sul preside è, da questo punto di vista, una disputa sui poteri di cui deve disporre il rappresentante locale di questo nuovo modello gestionale a bassa intensità ideologica (lo Stato non ha più un interesse specifico a fissare i contenuti dell’educazione) ma ad alto controllo burocratico. LA POSTA in gioco qui è il

VITA DA PRECARI Si mira a sradicare l’identità del professore dalla sua base culturale per ricollocarla su un terreno vago di pratiche didattiche e saperi pedagogici

disciplinamento dell’insegnante, la sua disponibilità a lasciarsi trattare in funzione delle esigenze stringenti dell’organizzazione del lavoro. La qualità culturale dell’insegnamento impartito è un fattore del tutto secondario nel nuovo contesto. Per conseguire questo obiettivo lo strumento indispensabile è la demolizione di quello

che resta della preparazione culturale del docente italiano, già piuttosto precaria a dir la verità. Sulla via della riorganizzazione del sistema scolastico, il vincolo che pure ancora lega l’insegnante alla sua disciplina è un ostacolo da abbattere. Nell’ultimo decennio questo legame è stato oggetto di tentativi ripetuti di sabotaggio. Il disegno di legge della “Buona scuola” si muove sulla falsariga delle linee di politica scolastica a suo tempo fissate da Gelmini e Tremonti, con un elemento in più di impudicizia. Non solo questo disegno di legge spacca il corpo insegnante tra docenti con la cattedra e docenti al servizio delle esigenze dell’offerta formativa, costituendo così un vero e proprio precariato interno al sistema locale di istruzione, ma trasforma in criteri effettivi di reclutamento disposizioni che i provvedimenti del governo Berlusconi erano stati attenti a mantenere dentro limiti precisi. Tra i principi, infatti, che i dirigenti scolastici devono

IL SINDACO di Cisliano, Luca Durè, ci ha provato più volte, negli ultimi mesi, a chiedere all’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati di assegnare l’immobile, almeno in via provvisoria, al Comune, così da poterlo proteggere e difendere dai vandalismi. Il 21 aprile ha presieduto un Consiglio comunale aperto al quale hanno preso parte più di duecento cittadini e molte associazioni. In quella seduta, i consiglieri all’unanimità hanno votato una mozione che impegna il sindaco a proteggere il bene confiscato e a compiere ogni sforzo per avere risposte da parte dell’Agenzia. Ci aveva provato anche il presidente del Tribunale di Milano, Livia Pomodoro, che aveva scritto al procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati, trasmettendogli la documentazione fotografica delle incursioni vandaliche messa insieme dal referente regionale di Libera, Davide Salluzzo. Finora l’Agenzia dei beni confiscati non ha mosso un muscolo: non ha dato risposte, mentre i danni alle strutture sono ormai stimabili attorno ai 500 mila euro. Ora i cittadini vigilano, ma l’Agenzia non li faccia aspettare troppo. @gbarbacetto n

Il premier Renzi alla lavagna per illustrare la “Buona scuola”

La “buona scuola” non promuove i presidi, boccia gli insegnanti di Adolfo

Due giorni fa è iniziato a Cisliano un presidio permanente, organizzato dal Consiglio comunale della città in collaborazione con Libera, la Caritas e la cooperativa Ies: per difendere da ulteriori vandalismi e danneggiamenti quello che è a tutti gli effetti diventato un bene comune, in attesa che “la Masseria” sia assegnata a qualche associazione che lo renda disponibile ai cittadini.

Ansa

so si sabotano gli elementi fondamentali della qualità dell’insegnamento. A QUESTO meccanismo cor-

rispettare per attribuire gli incarichi c’è la possibilità esplicita di utilizzare il personale docente di ruolo per ricoprire insegnamenti per i quali l’aspirante professore non possiede l’abilitazione (fatto salvo il titolo di studio). Ora vale la pena ricordare che questa possibilità era contemplata dai provvedimenti Gelmini-Tremonti per i professori in esubero. Così molti insegnanti di educazione artistica nella scuola media inferiore sono diventati professori di Storia dell’arte alle superiori, tanto per fare un esempio. Con Renzi questo andazzo diventa un criterio generale. Lo scambio tra salario e precarizzazione del ruolo è esplicito e appunto impudico. Si compra letteralmente l’ansia dei giovani, ma al tempo stes-

risponde un modello di formazione degli insegnanti di cui solo a stento in commissione parlamentare si sono evitati gli aspetti più deformanti. Da vent’anni, ormai, si combatte un’assurda battaglia che mira a sradicare l’identità del professore dalla sua base culturale per ricollocarla su un terreno vago di pratiche didattiche e saperi pedagogici ormai persi in una nebbia di divagazioni metodologiche. Quello che a stento si è evitato in commissione, tuttavia, non è detto che non ritorni nel dibattito d’aula. L’intero percorso della formazione e del reclutamento del professore italiano è lo specchio del tipo di scuola che abbiamo in mente. La preparazione disciplinare del docente, non i generici appelli alla qualità: è questo il reale banco di prova di chi persegue sul serio il disegno di una buona scuola.


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