«Quella specie di lingua letteraria provincialesca»

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Antonio Vinciguerra

«Quella specie di lingua letteraria provincialesca» Sui manualetti postunitari per la correzione dei regionalismi studi 46



studi 46



Antonio Vinciguerra

«Quella specie di lingua letteraria provincialesca» Sui manualetti postunitari per la correzione dei regionalismi

Società

Editrice Fiorentina


Il volume è frutto di una ricerca svolta anche presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze e beneficia per la pubblicazione di un contributo a carico dei fondi amministrati dallo stesso Dipartimento

© 2021 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-626-3 ebook isbn: 978-88-6032-627-0 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


Indice

7 Prefazione di Massimo Fanfani 17 Premessa i. Repertori di provincialismi nell’Italia postunitaria: storia, caratteri, contenuti 19 1. Tra lingua e dialetto dopo l’Unità 24 2. I «dialoghetti» di Luigi Mancini e altri repertori di area pugliese 44 3. Intorno alle raccolte di Fedele Romani

44 3.1. Abruzzesismi 48 3.2. Sardismi 51 3.3. Calabresismi 55 3.4. Toscanismi

61 4. I «Venetismi» di Giuseppe Mussini 64 5. Piemontesismi e lombardismi nei manualetti di Giulia Forti Castelli 73 6. Repertori di sicilianismi 76 7. Raccolte di area emiliano-romagnola 79 8. L’italiano di Napoli e della Campania nelle opere di Giuseppe Romanelli ed Emanuele Nuzzo ii. Lingua d’uso popolare in una grammatica pistoiese di fine Ottocento 85 1. «Dentro una larga cornice di spropositi» 91 2. Analisi linguistica

91 2.1. Ortografia 92 2.2. Fonetica 92 2.2.1. Vocalismo tonico Diversa distribuzione di e e o aperte e chiuse, p. 92; Dittonghi uo e ie, p. 93; Altre anomalie nel vocalismo tonico, p. 93


94

2.2.2. Vocalismo atono u per o pretonica, p. 94; i per e pretonica, e viceversa, p. 94; Altre anomalie nel vocalismo atono, p. 95 96 2.2.3. Consonantismo La gorgia, p. 96; Dileguo di v, p. 97; Sviluppo dei nessi -mb- e -nd-, p. 97; Passaggio di l a r, e viceversa, p. 98; Scambi tra velare e dentale davanti a i semiconsonante, p. 99; Passaggio di /s/ postconsonantica a /ts/, e viceversa, p. 99; Mutamenti di /ʎ/, p. 100; Geminazione e degeminazione, p. 100; Altre anomalie nel consonantismo, p. 102 103 2.2.4. Fenomeni generali Spostamento dell’accento, p. 103; Metatesi, p. 104; Assimilazione e dissimilazione, p. 105; Prostesi, p. 106; Epentesi, p. 106; Paragoge, p. 107; Aferesi, p. 107; Concrezione e discrezione dell’articolo, p. 108; Apocope, troncamento, elisione, p. 108 109 2.3. Morfologia e sintassi 109 2.3.1. Articolo determinativo 110 2.3.2. Nomi e aggettivi Nomi e aggettivi femminili plurali in -e invece di -i, p. 110; Nomi maschili singolari in -ieri, p. 111; Nomi e aggettivi maschili plurali in -chi invece di -ci, p. 111; Altre anomalie nella flessione nominale e mutamenti nel genere dei nomi, p. 111; Nomi femminili in -tora o privi del suffisso -essa, p. 112; Estensione del suffisso -ese e altre anomalie nella suffissazione degli etnici, p. 112; Aggiunta del suffisso atono -olo, p. 113; L’aggettivo in luogo dell’avverbio, p. 113 113 2.3.3. Pronomi Pronomi personali, p. 113; Il tipo pronominale ’l che, p. 114; Il tipo qualo, p. 114 114 2.3.4. Possessivi 115 2.3.5. Il numerale dua 115 2.3.6. Preposizioni Il tipo ’ndun, ’ndel, p. 115; Particolarità nell’uso delle preposizioni, p. 115 116 2.3.7. Verbi Indicativo presente, p. 116; Indicativo imperfetto, p. 117; Passato remoto, p. 118; Futuro, p. 120; Congiuntivo presente, p. 120; Congiuntivo imperfetto, p. 120; Condizionale, p. 121; Imperativo, p. 121; Participio passato, p. 121; Infinito, p. 122; Il tipo va’ a vedi, p. 122 122 2.3.8. Usi avverbiali 123 2.3.9. Altri fenomeni 124 2.4. Lessico

133 Appendice Pratica della grammatica per le scuole elementari del circondario di Pistoia proposta da un pistoiese 185 Bibliografia

197

Indice delle forme e dei fenomeni

215

Indice dei nomi


Prefazione

Non è un caso che l’italiano regionale, la «lingua letteraria provincialesca che ogni provincia ha», come scrive Francesco D’Ovidio nel celebre saggio sulla lingua del Promessi sposi (1878), cominci a destare interesse solo dopo l’unità d’Italia. Non si trattava certo di qualcosa di nuovo: già in passato, che l’italiano nelle diverse aree del paese fosse influenzato dai dialetti locali lo si sapeva, ma non ci se ne preoccupava troppo. Anche perché la parlata regionale la si considerava qualcosa d’approssimativo e d’ibrido e dunque da disprezzare, come fa Giuseppe Baretti nella lettera Della corrotta lingua che si parla ne’ varj Stati d’Italia, dove ne tratta come di una “linguacciaccia” arbitraria, «impura e difforme e bislacca, sì nelle voci, sì nelle frasi, sì nella pronuncia». A Milano, lo testimonia Manzoni, un tempo la si era chiamata “parlar finito”: «voleva dire adoprar tutti i vocaboli italiani che si sapevano […] e al resto supplire come si poteva, e per lo più, s’intende, con vocaboli milanesi, cercando però di schivar quelli che anche ai milanesi sarebbero parsi troppo milanesi, e gli avrebbero fatti ridere; e dare al tutto insieme le desinenze della lingua italiana». Francesco Torti nel Dante rivendicato (1825) la definisce «un abbozzo di lingua, un gergo provinciale». E la stessa specificazione di “provincialesca” usata da D’Ovidio non è di certo positiva. Con l’unificazione del paese, invece, le varietà regionali iniziano ad apparire nella loro piena sostanza agli occhi di tutti e non tutti le giudicano negativamente. I giornali, specie quelli provinciali, e anche non pochi scrittori, le vanno riecheggiando in modo più o meno largo e consapevole. Matilde Serao etichetta la lingua locale come “borghese”, a mezza strada fra quella letteraria e quella dialettale: una lingua «scritta dai giornali che ripulisce il dialetto sperdendone la vivacità e tenta imitare la lingua aulica senza ottenerne la limpidezza»: una lingua che con disinvolta finezza non esita a far sua. E in breve, sostituitasi al dialetto anche fra le mura domestiche, la si comincia a usare sempre più spigliatamente, secondo quanto dice De Amicis nell’Idioma gentile (1905)


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dell’intercalare nella famiglia dei cugini piemontesi, che parlano «tirando via con una speditezza e con un tono, che uno straniero non pratico della nostra lingua, a sentirli, li avrebbe presi per toscani pretti sputati, e di quelli che hanno la parola più pronta e sicura». A dir male delle varietà regionali saranno adesso soprattutto nazionalisti convinti e uomini di scuola e delle istituzioni: Ciro Trabalza, Edmondo De Amicis, Pasquale Villari, Ernesto Monaci, Isidoro Del Lungo. Che nelle città del nuovo regno unitario tale realtà linguistica non passasse inosservata, è ben comprensibile, dato che erano diventate sempre più frequenti e stabili le occasioni di esprimersi e di confrontarsi coi diversi “italiani provinciali” parlati in Italia. Un tempo per rendersene conto occorreva viaggiare o essere in rapporto con Italiani d’altre regioni; adesso cittadini d’ogni dove s’incontrano quotidianamente e vivono a stretto contatto fra loro: dalle caserme ai ministeri, dalle scuole ai tribunali, dagli uffici alle officine, dai luoghi di svago ai mezzi di trasporto. E quotidianamente debbono comunicare ricorrendo ciascuno alla propria lingua provinciale che, se non altro, ha una base strutturale e lessicale comune alle lingue provinciali degli altri. L’intensificarsi degli interscambi linguistici avrebbe portato a un progressivo conguaglio fra le varietà regionali e al formarsi di un’effettiva lingua comune tendente all’uniformità, come subito intuirono diversi linguisti e anche il segretario della Crusca Marco Tabarrini, a leggere il suo rapporto accademico del 1870: «Le mutate sorti d’Italia gioveranno senza fallo ad estendere l’uso della lingua comune; e questo rimescolarsi d’italiani dalle Alpi all’Etna, che si guardano in viso per la prima volta, e si stringono la mano col sentimento d’appartenere ad una sola nazione, condurrà necessariamente a rendere sempre più ristretto l’uso dei dialetti, che sono marche di separazione […]. Ma da questo gran fatto, si voglia o non si voglia, la lingua uscirà notabilmente modificata. Né io mi dorrò di questi mutamenti, perché il trasformarsi è legge universale dei viventi». La formazione di un italiano comune, tuttavia, non comportò la scomparsa delle varietà regionali le quali, anzi, nei decenni a cavallo dei due secoli si stabilizzarono e si consolidarono in quelle forme con cui in seguito si son conosciute e si continuano a usare ancor oggi. La loro tenace e vigorosa persistenza, come su un altro piano quella dei dialetti, dipese e dipende da diversi motivi storici, culturali, strutturali e da mentalità e atteggiamento dei parlanti, non tutti disposti a subire, specie per un bene radicato nell’intimo come la lingua, quel rimescolamento e livellamento cui si era stati all’improvviso costretti dalle impreviste «mutate sorti d’Italia». Motivi che emergono paradossalmente anche dalla presente indagine di Antonio Vinciguerra, che tratta di una significativa operazione scolastica, realizzatasi nel primo cinquantennio postunitario, volta a combattere proprio le varietà regionali attraverso un complesso armamentario di prontuari linguistici i quali, partendo dal riconoscimento dei provincialismi, intendevano condurre gli allievi a farne a meno.


Prefazione   9

La scuola – la nuova scuola pubblica organizzata dallo Stato su tutto il territorio nazionale – costituiva infatti il principale alveo dove i nodi dell’italiano regionale venivano al pettine e dove si credeva di poterli risolvere. Ai diversi livelli della sua articolazione essa era il luogo deputato dove l’italiano regionale non poteva evitare di esser rapportato alla lingua di stampo letterario o di modello toscano che vi veniva impartita. Anche se, per la verità, la situazione appariva tutt’altro che favorevole, come notava Fedele Romani nella premessa alla seconda edizione degli Abruzzesismi (1890): «Si può dire che, nelle scuole d’Italia s’insegni non una, ma tante lingue italiane, anche a volere tener conto della sola pronunzia. E questo, poi, produce il fatto, ben singolare e doloroso, che un congresso d’Italiani possa ancora, per riguardo alla lingua e al modo di pronunziarla, aver quasi l’aria di un congresso internazionale». Così, proprio nella scuola, fu subito ingaggiata una ferma e convinta battaglia non solo per condurre dal dialetto alla lingua i dialettofoni, ma anche e soprattutto – specie negli istituti cittadini d’istruzione media e superiore – per eliminare il vezzo della parlata regionale, correggendo pronuncia e idiotismi locali. Non c’è quasi libro di lingua o di retorica per le scuole del tempo che non contenga raccomandazioni contro l’uso dei “provincialismi”, talvolta con ampia esemplificazione, come nella Guida allo studio critico della letteratura di Pio Ferrieri (1882). I provincialismi, d’altra parte, erano assai più insidiosi dello schietto dialetto, che rimaneva un’entità a sé, mentre questi s’insinuavano nella lingua piegandola in usi e accezioni non sue. Per debellarli non bastavano i vocabolari dialettali raccomandati dai pedagogisti di fede manzoniana, perché, come osservava giustamente Giuseppe Romanelli nel manuale per le scuole secondarie Lingua e dialetti (1900), chiunque parli italiano, «imbevuto com’è del suo dialetto, dove vi son maniere di dire o termini comuni ma travisati o nel significato, o nella grafia, o nella pronunzia, se non impara prima a dubitare di quel che gli viene sulla bocca e sulla penna, non va certo a cercare nel dizionario. Se non sospetta prima di certi usi o abusi capricciosi e particolari del suo dialetto o dell’altrui, come fa a correggersi d’un errore che ignora?». Proprio per ciò bisognava pensare a uno strumento specifico: «Ci vuole dunque uno svegliarino, un manuale scolastico che, spigolando qua e là, faccia nascer de’ dubbi intorno alle voci italiane comuni al dialetto ma di significato diverso, intorno ai termini che paion comuni e non sono, e non tanto agli oggettivi o di nomenclatura che imbroglian meno e si trovano in ogni libro, quanto ai verbi e alle locuzioni, e a certe forme che io non vorrei dir termini ma espressioni, perché esprimon davvero lo spirito d’un dialetto». Tali “svegliarini” erano appunto i manuali di provincialismi che già circolavano nelle scuole: lo stesso Romanelli ne aveva compilato uno per la realtà napoletana, descritto qui di seguito da Vinciguerra. Questi manuali, al di là della finalità e della destinazione comune, avevano carattere piuttosto vario e spessore diseguale. Ma nel complesso, come si può ben capire, rivestono grande interesse per la storia dell’educazione linguistica


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dall’unità d’Italia alla grande guerra e per i criteri con cui sono redatti. Consentono, inoltre, di rendersi conto dei modelli di lingua, non tutti convergenti, che vi sono proposti e del diverso atteggiamento nei confronti del dialetto e della lingua letteraria che vi è sotteso. Infine, se ne può ricavare, come fa assai bene Vinciguerra analizzandoli comparativamente, un’ampia e pregevole documentazione, quasi sempre di prima mano, delle varietà regionali considerate per la prima volta nella loro effettiva realtà. Va subito detto che la produzione di questi testi e il loro intrinseco valore sono da porre in relazione da una parte con la scuola d’allora che, nella formazione dell’ideologia del nuovo stato e di una coscienza nazionale il più possibile salda e concorde, si trovò investita di particolari compiti civili oltre che culturali, fra cui quello, fondamentale, dell’acculturazione linguistica in senso unitario; dall’altra con la qualità del corpo docente, fatto in gran parte d’insegnanti ben preparati, anche quando uscivano dalle scuole normali, e talora dotati di non comuni competenze filologiche e dialettologiche. Non pochi degli autori dei prontuari, difatti, avevano studiato con ottimi maestri nelle migliori università del Regno, come Emanuele Nuzzo che era stato allievo di D’Ovidio a Napoli, o Fedele Romani e Giovanni Giannini che si erano formati a Pisa alla scuola di Alessandro D’Ancona, o Giulia FortiCastelli diplomatasi al magistero aggregato all’Istituto di studi superiori di Firenze. Su un piano più pratico, un non trascurabile sprone alla compilazione di tali prontuari era dovuto alla carriera stessa degli insegnanti di allora che, dalle elementari all’università, contemplava numerosi spostamenti da una regione all’altra prima di approdare alla sede scolastica ambita. I trasferimenti non erano da riferire solo a motivi “linguistici” (come auspicavano i manzoniani), ma certo rendevano inevitabile per i docenti la comparazione fra «le tante lingue italiane» della scuola, come le aveva chiamate Fedele Romani, il quale, ad esempio, insegnò a Potenza, Cosenza, Teramo, Sassari, Palermo, prima di ottenere una cattedra, nel 1893, al “Dante” di Firenze. Occorre infine considerare che gli autori dei prontuari potevano disporre, attraverso testi e compiti redatti dai loro allievi, di un’ampia e rappresentativa documentazione scritta degli “errori” tipici della varietà locale d’italiano, documentazione che consentiva di cogliere meglio non poche espressioni e particolarità provinciali che usate oralmente, come di solito avviene, possono passare inosservate alla stregua di tanti altri fatti dell’oralità. Ma ciò che provocò la fioritura dei manuali di provincialismi, al di là del competente orecchio dei docenti e delle ragioni d’ordine scolastico che si son accennate, fu il clima culturale del decennio che vide compiersi il processo di unificazione nazionale, nel quale, fra le tante altre cose, furono rivangate con nuovi intendimenti le questioni linguistiche che avevano infiammato letterati e intellettuali nella prima metà del secolo. Adesso quelle questioni si trasformarono inevitabilmente in questioni di politica e di pianificazione linguistica,


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strettamente legate alle necessità del regno appena costituitosi e pervase da un forte sentimento nazionalistico. In quel frangente storico, con una amministrazione statale rigidamente centralizzata, ma con un paese ancora discorde, socialmente poco coeso e privo di un retroterra culturale condiviso, si cercò di ottenere a cose fatte ciò che avrebbe dovuto costituire la ragione e il fondamento dell’unificazione. L’idea di diffondere dalle Alpi al Lilibeo, comunque la s’intendesse, una mitica lingua comune – da creare dal nulla o da rafforzare e difendere, da cogliere dalla bocca del popolo o dalle pagine dei classici, da riferirla al modello fiorentino o all’intera nazione – costituiva indubbiamente un forte fattore di compattezza di tenuta identitaria. E così, sebbene una tale lingua unitaria fosse solo un’illusione (l’unità della lingua non c’è mai: le lingue evolvono in un continuo attrito fra tendenze contrastanti e talora persino disgreganti), ci se ne servì per giustificare l’avvio di una politica linguistica tesa per la sua parte a “fare gli Italiani”, sopprimendo quelle «marche di separazione» che erano certamente i dialetti, ma soprattutto le parlate provinciali che variegavano l’idealizzata univocità della lingua e che, non di rado, erano confuse anch’esse coi dialetti. Anche il più noto degli interventi del periodo, quello promosso dal ministro Emilio Broglio nel 1868 con l’istituzione di una commissione per «ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia», nonostante poi Manzoni nella sua relazione al ministro parlasse quasi solo di dialetti non potendo parlare di lingua, in realtà mirava a combattere proprio le varietà regionali che coi loro diversi accenti offendevano l’orecchio dei politici che affollavano il parlamento o degli avventori dei caffè della capitale. Appunto per questo Broglio addita la “buona lingua” e la “buona pronunzia” da diffondere “in tutti gli ordini del popolo”, senza concentrarsi su quello che a posteriori è apparso il problema maggiore: l’ignoranza della lingua di una parte della popolazione dialettofona. E nell’appendice alla relazione manzoniana, stesa da Giulio Carcano, fra le altre cose, si suggeriscono pubbliche letture di libri moderni nei quali siano notati e sostituiti i “provincialismi”, e poi l’istituzione di una sorta di censura nei vari capoluoghi che corregga le diciture, evidentemente provinciali, di insegne e avvisi pubblici. Mentre Manzoni nella sua relazione, oltre al vocabolario del dialetto fiorentino, aveva proposto al ministro anche la compilazione di vocabolari dialettali come «mezzo efficacissimo per diffondere la lingua del vocabolario destinato a diventar comune». In effetti vocabolari dialettali del genere, seppur non tutti compilati come auspicava Manzoni, erano già disponibili e nel 1890 li promosse un concorso bandito dal ministero. Ma chi insegnava nelle scuole, anche in quelle lontane dai grandi centri, avendo a che fare non tanto con dei puri dialettofoni, ma con allievi che usavano o sapevano usare una parlata regionale più o meno carica di dialettalismi, trovò più utile approntare degli strumenti che mettes-


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sero a fuoco i nodi specifici di quelle interferenze: adattamenti e camuffamenti di espressioni dialettali, falsi amici, slittamenti semantici, ipercorrettismi, ecc. Fu così che si cominciarono a compilare quei pratici “svegliarini” cui accennava Romanelli. Svegliarini che ebbero anche il merito di far sì che i parlanti iniziassero a diventare più consapevoli del loro proprio italiano regionale, tanto da stabilizzarlo e rafforzarlo, seppur in modo indiretto, conferendogli un valore che prima non aveva: talvolta succede che le cannonate dei grammatici finiscano per aprire delle brecce anche dove non si sarebbe voluto. Nella battaglia postunitaria contro le varietà regionali, come risulta evidente dalla rassegna di Vinciguerra, quella toscana costituisce un caso a parte. In effetti, data la stretta affinità fra i dialetti toscani, la comune lingua parlata e quella letteraria, non era affatto facile mettere a fuoco la specificità dell’italiano regionale di Toscana. Lo stesso Baretti, che nella sua lettera aveva strapazzato tutte le varietà regionali come “linguacciacce”, quando arriva alla Toscana, «paese di Lilliputte», ne deplora la decadenza della cultura e della lingua, che tuttavia considera solo una “linguerella” tisica e pidocchiosa, non ancora ridottasi come le lingue mescidate delle altre regioni, sebbene fosse anch’essa su una brutta china: «se le cose continuano nel loro attuale progresso […] diverrà pure, prima che questo secolo si compia, una linguacciaccia inetta e barbara, da non si valutare un pelo più della bergamasca e della furlana!». A maggior ragione, quando si considerava il toscano (o il fiorentino) come lingua modello e dunque, per forza di cose, si doveva rinnegare o celare la sua dialettalità, risultava quasi impossibile distinguere i vari strati della scorza linguistica della Toscana, già di per sé piuttosto sottili. Un convinto assertore, inflessibile fino alle estreme conseguenze, del modello fiorentino, un modello a cui la lingua della nazione avrebbe dovuto adeguarsi, fu Manzoni. Nella perfezione geometrica della sua teoria, per la quale in Italia le uniche vere lingue erano i dialetti, tanto che, per ovviare alla mancanza di una lingua comune, occorreva prenderne uno – il fiorentino vivo – e imporlo ovunque, non c’era spazio per alcuna realtà intermedia, come il toscano comune o la varietà fiorentina d’italiano. Eppure, solo attraverso questa via si sarebbe potuto stabilire un ponte con le altre varietà regionali e la proposta manzoniana avrebbe avuto una certa facilità a essere accolta; mentre non era altro che una lucida utopia credere di riuscire ad annullare tutti i dialetti grazie all’imposizione, a suon di vocabolari, del dialetto fiorentino. Ben prima del 1868 Rosmini e Tommaseo avevano cercato di convincere il grande scrittore lombardo che non era al dialetto fiorentino che si doveva guardare, ma a una lingua che gli stessi Fiorentini stimavano di più e che era accetta ovunque, ovvero l’italiano che si parlava a Firenze o, come già loro dissero, il fiorentino delle “persone colte”: «gl’Italiani non fiorentini – scriveva nel 1843 Rosmini a Manzoni – benché inclinati ad abbracciare in generale la lingua de’ fiorentini, pure sentono ripugnanza grandissima e, quanto pare a


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me, insuperabile, ad abbracciare alcune cose di quella lingua […]; ed all’opposto i fiorentini inclinano ad abbandonar quelle cose, a cui ripugna il resto d’Italia, modificando la lingua propria in tal parte sull’oppinione comune de’ loro connazionali. Tanto è vera questa disposizione ne’ Fiorentini, che nella maggior parte di essi, per non dire generalmente, è già invalsa l’opinione, che tali cose siano difetti del loro dialetto, da’ quali le persone più colte cercano d’astenersi». E il Roveretano continuava elencando i vari punti, a partire dalla gorgia, in cui a Firenze ci si discostava dal dialetto: «Tanta è la ripugnanza che ha l’intera Italia a sì fatta gorgia, che a me pare affatto impossibile il persuadere tutta la nazione italiana d’imitarla. Alla quale ripugnanza della nazione i fiorentini colti cedono senza contrasto, e si persuadono che la gorgia sia un difetto d’abbandonarsi, come l’abbandonano veramente». Anche se dopo la morte di Manzoni il “fiorentino delle persone colte”, a cominciare da Ruggero Bonghi, diventerà la bandiera dei manzoniani, il deciso arroccamento dello scrittore lombardo sul fiorentino vivo come un tutto compatto, proposto senza alcun tentennamento a modello di lingua, offuscherà agli occhi di molti, e per lungo tempo, una precisa e chiara visione della realtà linguistica di Firenze e della Toscana che, in fondo, era analoga a quella delle altre città e regioni. Così, invece di individuare i provincialismi fiorentini per poterli scansare usando l’italiano, come si faceva per quelli d’altra provenienza, c’era chi li ricercava per meglio fiorentineggiare. E non è un caso che l’unico manualetto che affronti la varietà toscana sia l’ultimo e il più smilzo di quelli del Romani, I toscani parlano bene e scrivono male? (1898) che già dal titolo, diverso dai suoi soliti (solo nell’edizione del 1907 si muterà in Toscanismi), la dice lunga e, pur registrando qualche fiorentinismo, mostra una sostanziale tolleranza: «Mentre i provincialismi delle altre regioni sono, d’ordinario, veri e propri spropositi, i provincialismi fiorentini possono essere, quasi tutti, […] sostenuti e difesi con esempii di scrittori e autorità di vocabolarii. Essi, in una parola, non sono zizzania». Per la verità ci sarebbero ancora i tardivi Lucchesismi (1917) di Giovanni Giannini e Idelfonso Nieri, ma per l’area periferica cui si riferiscono e il carattere scarsamente prescrittivo che hanno, non cambiano il quadro toscano. Così acquista non poca importanza ed è assai opportuna la seconda parte del presente volume, che Vinciguerra dedica a un’opera particolare e, data la sua rarità, finora del tutto ignorata: la Pratica della grammatica per le scuole elementari del circondario di Pistoia (1887) che rivela, come meglio non si potrebbe, la realtà linguistica di una provincia toscana. Addirittura, di quella provincia che nel corso dell’Ottocento era stata ritenuta, più della stessa Firenze o di Siena, il luogo privilegiato della più pura ed espressiva parlata toscana. E aveva attratto filologi e letterati, come Filippo Pananti, Giuseppe Giusti, Niccolò Tommaseo, Massimo D’Azeglio, Giovanbattista Giuliani, Renato Fucini, i quali l’avevano percorsa in lungo e in largo in cerca di lingua, di poesia popolare, di echi danteschi.


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Come dice il titolo, la Pratica della grammatica è in sostanza un manuale pratico, o eserciziario, per correggere errori e improprietà grammaticali degli scolari pistoiesi. Si tratta di un’opera per certi versi differente dagli altri manuali di provincialismi, innanzitutto perché destinata espressamente alle scuole elementari, e, a giudicare dagli esercizi, non tanto a quelle cittadine, ma a quelle del “circondario”: che vuol dire proprio la campagna e montagna pistoiese ritenute dai filologi alla Giuliani la fonte delle “delizie del parlar toscano”. E poi perché gli esercizi linguistici non son fatti secondo il solito modulo dell’Appendix Probi tipico degli altri manuali di provincialismi: “non si dice così, ma cosà”, ma si presentano come nudi e crudi elenchi di parole e di frasi, con grafie forme costrutti lessico significati “scorretti”, in quanto propri dell’uso locale o popolare. L’opera, insomma, a parte la prefazione, la nota finale e poco altro, offre solo ciò che è stato raccolto direttamente dal parlato o dalle scritture di ragazzi del popolo, con una cura e un rispetto che sono più quelli dello studioso di tradizioni popolari o del dialettologo che non del maestro di lingua. Il fatto che tali materiali non siano accompagnati dalle soluzioni “corrette” o da note e chiarimenti, mostra l’atteggiamento aperto e sagace dell’autore, il quale evita di suggerire alcunché, dato che sa bene che tutti quegli “errori” dei suoi scolari hanno in fondo le loro ragioni. Dovranno essere gli stessi scolari a cercare di riscoprirle e a giudicare della bontà della loro lingua, individuando nello stesso tempo, del tutto liberamente, magari a gara fra loro e con il maestro, le possibili vie per potersi esprimere in modo adeguato alle diverse circostanze. Della Pratica della grammatica per le scuole elementari del circondario di Pistoia s’ignora l’autore, anche se Vinciguerra ipotizza, sulla base di un’indicazione del Monaci, che possa esser attribuita a Gherardo Nerucci. Certo è che si tratta di opera redatta da persona competente e profonda conoscitrice del dialetto e della realtà scolastica, com’era il Nerucci. Sebbene, più che esser diretta alle scuole elementari del circondario di Pistoia, proprio per il suo particolare carattere, risulti tutta centrata su una scuola sola: la scuola del maestro che l’ha compilata con l’aiuto, si può ben dire, dei suoi scolari, i quali alla fine sembrano gli unici destinatari in grado di saperla mettere davvero a frutto. Anche qui non si può fare a meno di pensare al Nerucci e alla singolare scuola per ragazzi del popolo e contadini che per alcuni anni aveva tenuto nella sua villa di Montale. Va anche aggiunto che diversi esempi, addirittura dei più peregrini, corrispondono esattamente a quelli che figuravano già nel suo Saggio di uno studio sopra i parlari vernacoli della Toscana (1865). Ma anche se si ritiene che non vi siano prove decisive per trarre dall’ombra l’autore della Pratica della grammatica, essa resta comunque un testo esemplare che mostra come anche i Toscani, al pari degli Italiani di altre regioni, accanto al loro particolare dialetto, usassero un italiano parlato che ne era intriso più o meno largamente a seconda della loro condizione sociale. Ma sapessero giudicare anche di altri dialetti vicini – un esercizio si basa su uno dei sonetti


Prefazione   15

in vernacolo pisano di Neri Tanfucio – e perfino accostarsi senza timore alla “buona lingua” dei grandi scrittori, come rivelano un componimento di Manzoni e alcune favole del Clasio che arricchiscono e ravvivano questo originale eserciziario pistoiese. Massimo Fanfani



Premessa

In un articolo pubblicato nel 2010 in «Lingua nostra»1 ho proposto un primo censimento e una ricognizione dei manualetti postunitari per la correzione dei regionalismi (o provincialismi, come si usava chiamarli in passato), un genere di testi di cui è noto il valore documentario per lo studio dell’italiano regionale. Recentemente ho avuto modo di ritornare sull’argomento in due articoli dedicati ad alcune di queste opere in particolare2. Riunisco ora questi lavori nel presente volume allo scopo di offrire un primo studio complessivo dei repertori di provincialismi apparsi in Italia fra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, quando questa speciale tipologia di manuali scolastici volti all’insegnamento dell’italiano conobbe una relativa fortuna (che si spiega anche con l’ampia ostilità di cui erano oggetto allora le varietà regionali di italiano). Nel primo capitolo, che rielabora ampiamente l’articolo del 2010, anche con integrazioni e aggiornamenti tratti da Vinciguerra 2020a, oltre a illustrare i caratteri e i contenuti delle diverse opere, ho cercato di rilevarne i collegamenti col contesto storico-culturale in cui esse videro la luce, di mostrarne i rapporti reciproci e di fornire inoltre, quando possibile, alcune informazioni bio-bibliografiche sulle autrici e sugli autori. Nell’insieme, questi testi consentono, da un lato, di reperire, attraverso le loro più o meno rigide prescrizioni, informazioni di prima mano sui tratti caratterizzanti l’italiano usato fra Otto e Novecento nelle diverse aree della Penisola; dall’altro, se considerati dal punto di vista della storia esterna della lingua, essi costituiscono una testimonian Vedi Vinciguerra 2010. Vedi Vinciguerra 2020a (dedicato ai manualetti di Giulia Forti Castelli) e Id. 2020b (che offre una prima analisi linguistica, rivolta soprattutto alla fonetica e alla morfosintassi, della Pratica della grammatica per le scuole elementari del circondario di Pistoia [1887]). Il secondo articolo costituisce a sua volta lo sviluppo di un intervento tenuto a Pistoia nel 2017 in occasione del convegno Pistoia e la lingua dell’Italia unita. 1

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18    sui manualetti postunitari per la correzione dei regionalismi

za di grande rilievo della presenza significativa, accanto ai dialetti, e della diffusione, anche maggiore di quanto siamo abituati a pensare, di un italiano, “regionale” quanto si vuole, ma con una sua propria consistenza e tendenzialmente comune, già non molto dopo l’Unità d’Italia anche lontano dai grandi centri urbani. Senza dimenticare il valore di queste opere anche come documenti per la storia dell’educazione linguistica e del dibattito linguistico postunitario. Il secondo capitolo, che riprende e amplia Vinciguerra 2020b, è invece dedicato a un manualetto in particolare: la Pratica della grammatica per le scuole elementari del circondario di Pistoia (1887). Si tratta di un’opera anonima, forse attribuibile a Gherardo Nerucci, la quale, pur potendosi accostare al genere dei repertori di provincialismi, se ne differenzia tuttavia per alcuni aspetti (come la scelta di non fornire le correzioni alle forme e agli usi ritenuti impropri e l’interesse rivolto soprattutto alla lingua d’uso popolare). Di questo singolare e sostanzialmente sconosciuto manualetto, che rappresenta un prezioso documento della realtà linguistica del circondario pistoiese di fine Ottocento, si fornisce qui un’analisi mirata a rilevare i tanti fenomeni e gli usi linguistici che sono stati volutamente registrati dall’autore in modo sparso e asistematico. Inoltre, considerata la rarità dell’opera, ho ritenuto utile riprodurla in appendice. Desidero esprimere la mia sentita gratitudine innanzitutto a Massimo Fanfani, e poi ad Andrea Dardi e Alessandro Parenti, per i loro consigli e le loro osservazioni. Resta naturalmente solo mia la responsabilità di eventuali errori o imprecisioni.


studi   1. Anton Ranieri Parra, Sei studi in blu. Due mondi letterari (inglese e italiano) a confronto dal Seicento al Novecento, pp. 188, 2007.   2. Gianfranca Lavezzi, Dalla parte dei poeti: da Metastasio a Montale. Dieci saggi di metrica e stilistica tra Settecento e Novecento, pp. 264, 2008.  3. Lettres inédites de la Comtesse d’Albany à ses amis de Sienne, publiées par Léon-G. Pélissier (1797-1802), Ristampa anastatica a cura di Roberta Turchi, pp. xvi-492, 2009.   4. Francesca Savoia, Fra letterati e galantuomini. Notizie e inediti del primo Baretti inglese, pp. 256, 2010.  5. Lettere di Filippo Mazzei a Giovanni Fabbroni (1773-1816), a cura di Silvano Gelli, pp. lxxxvi-226, 2011.   6. Stefano Giovannuzzi, La persistenza della lirica. La poesia italiana nel secondo Novecento da Pavese a Pasolini, pp. xviii-222, 2012.   7. Simone Magherini, Avanguardie storiche a Firenze e altri studi tra Otto e Novecento, pp. x-354, 2012.   8. Gianni Cicali, L’ Inventio crucis nel teatro rinascimentale fiorentino. Una leggenda tra spettacolo, antisemitismo e propaganda, pp. 184, 2012.   9. Massimo Fanfani, Vocabolari e vocabolaristi. Sulla Crusca nell’Ottocento, pp. 124, 2012. 10. Idee su Dante. Esperimenti danteschi 2012, a cura di Carlo Carù, Atti del Convegno, Milano, 9 e 10 maggio 2012, pp. xvi-112, 2013. 11. Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, pp. 148, 2013. 12. Arnaldo Di Benedetto, Con e intorno a Vittorio Alfieri, pp. 216, 2013. 13. Giuseppe Aurelio Costanzo, Gli Eroi della soffitta, a cura di Guido Tossani, pp. lvi96, 2013.

14. Marco Villoresi, Sacrosante parole. Devozione e letteratura nella Toscana del Rinascimento, pp. xxiv-232, 2014. 15. Manuela Manfredini, Oltre la consuetudine. Studi su Gian Pietro Lucini, pp. xii152, 2014. 16. Rosario Vitale, Mario Luzi. Il tessuto dei legami poetici, pp. 172, 2015. 17. La Struzione della Tavola Ritonda, (I Cantari di Lancillotto), a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxiv-134, 2015. 18. Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze. Carteggio (1825-1871), a cura di Irene Gambacorti, pp. xl-204, 2015. 19. Simone Fagioli, La struttura dell’argomentazione nella Retorica di Aristotele, pp. 124, 2016. 20. Francesca Castellano, Montale par luimême, pp. 112, 2016. 21. Luca Degl’Innocenti, «Al suon di questa cetra». Ricerche sulla poesia orale del Rinascimento, pp. 160, 2016. 22. Marco Villoresi, La voce e le parole. Studi sulla letteratura del Medioevo e del Rinascimento, pp. 276, 2016. 23. Marino Biondi, Quadri per un’esposizione e frammenti di estetiche contemporanee, pp. 452, 2017. 24. Donne del Mediterraneo. Saggi interdisciplinari, a cura di Marco Marino, Giovanni Spani, pp. 144, 2017. 25. Peter Mayo, Paolo Vittoria, Saggi di pedagogia critica oltre il neoliberismo, analizzando educatori, lotte e movimenti sociali, pp. 192, 2017. 26. Antonio Pucci, Cantari della «Guerra di Pisa», edizione critica a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxvi-140, 2017. 27. Leggerezze sostenibili. Saggi d’affetto e di Medioevo per Anna Benvenuti, a cura di Simona Cresti, Isabella Gagliardi, pp. 228, 2017. 28. Manuele Marinoni, D’Annunzio lettore


di psicologia sperimentale. Intrecci culturali: da Bayreuth alla Salpêtrière, pp. 140, 2018. 29. Avventure, itinerari e viaggi letterari. Studi per Roberto Fedi, a cura di Giovanni Capecchi, Toni Marino e Franco Vitelli, pp. x-546, 2018. 30. Mario Pratesi, All’ombra dei cipressi, a cura di Anne Urbancic, pp. lx-100, 2018. 31. Giulia Claudi, Vivere come la spiga accanto alla spiga. Studi e opere di Carlo Lapucci. Con tre interviste, pp. 168, 2018. 32. Marino Biondi, Letteratura giornalismo commenti. Un diario di letture, pp. 512, 2018. 33. Scritture dell’intimo. Confessioni, diari, autoanalisi, a cura di Marco Villoresi, pp. viii-136, 2018. 34. Massimo Fanfani, Un dizionario dell’era fascista, pp. 140, 2018. 35. Femminismo e femminismi nella letteratura italiana dall’Ottocento al XXI secolo, a cura di Sandra Parmegiani, Michela Prevedello, pp. xxxiv-302, 2019. 36. Maria Bendinelli Predelli, Storie e cantari medievali, pp. 188, 2019. 37. Valeria Giannantonio, Le autobiografie della Grande guerra: la scrittura del ricordo e della lontananza, pp. 368, 2019. 38. Per Franco Contorbia, a cura di Simone Magherini e Pasquale Sabbatino, 2 voll., pp. xviii-1028, 2019.

39. Ettore Socci, Da Firenze a Digione. Impressioni di un reduce garibaldino, a cura di Giuseppe Pace Asciak, con la collaborazione di Marion Pace Asciak, pp. xl196, 2019. 40. Massimo Fanfani, Dizionari del Novecento, pp. 168, 2019. 41. Giulia Tellini, L’officina sperimentale di Goldoni. Da «La donna volubile» a «La donna vendicativa», pp. 264, 2020. 42. Hue de Rotelande, Ipomedon (poema del XII secolo), traduzione e introduzione di Maria Bendinelli Predelli, pp. liv-266, 2021. 43. Marco Lettieri, Word and Image in Alfonso d’Aragona’s Manuscript Edition of the «Divina Commedia», pp. 132, 2021. 44. Giovanni Bianchini, «La nostra comune patria». Uomini, letterati e luoghi di cultura del Seicento aretino, pp. xxiv-240, 2021. 45. Ferrante Unframed. Authorship, Reception and Feminist Praxis in the Works of Elena Ferrante, Edited by Roberta Cauchi-Santoro and Costanza Barchiesi, pp. 144, 2021. 46. Antonio Vinciguerra, «Quella specie di lingua letteraria provincialesca». Sui manualetti postunitari per la correzione dei regionalismi, pp. 224, 2021.


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