Il cerchio e la croce

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Marco Giusti

Il cerchio e la croce Le memorie intime di Ottavio Ximenes d’Aragona Romanzo



Marco Giusti

Il cerchio e la croce Le memorie intime di Ottavio Ximenes d’Aragona Romanzo

prefazione di Diana Toccafondi

Società

Editrice Fiorentina


© 2021 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice instagram account @sef_editrice isbn 978-88-6032-621-8 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Studio Grafico Norfini (Firenze)


Prefazione

«Ogni morto lascia un piccolo bene, la sua memoria, e chiede che lo si curi. Per chi non ha amici, deve supplire il magistrato… Questa magistratura è la Storia. Ed i morti sono, per dirla con il Diritto Romano, quelle miserabiles personae delle quali il magistrato deve assumersi l’incombenza. Mai nella mia vita ho perso di vista questo dovere della Storia. Ho dato a molti morti troppo dimenticati l’assistenza della quale io stesso avevo bisogno». Così scriveva Jules Michelet nel 1872. Eppure proprio lui, il grande storico di Francia, l’appassionato cultore e ricercatore di fonti, che rivendicava di aver scavato negli archivi senza nulla tacere o attenuare, di aver combattuto per la verità cercando nei documenti «una base precisa e positiva» come il più pignolo degli eruditi, era nondimeno riuscito nel compito paradossale di scrivere la storia come nessun letterato fino ad allora aveva neppure immaginato di fare. «Scrivere la storia è, per Michelet, seguire un itinerario fatale che gli propone un susseguirsi di ascesi e di felicità, e che, a seconda si tratti di marcia o di sosta, ne fa un dio sofferente, oppure trionfante», scriverà Roland Barthes, affascinato da quello straordinario narratore, da quel divoratore di storia che non si limita a scivolare orizzontalmente sul tempo rimanendone estraneo (come fanno gli storici “da manuale”), ma vi si immerge dentro con tutto il corpo alla ricerca di un tempo esistenziale, inaspettato, a tratti lancinante come un dolore improvviso. Non sto parlando di immedesimazione, si badi bene, e tanto meno di empatia, cibo ormai diventato insipido per tropv


po abuso. E neppure del romantico “farsi contemporaneo di un’altra epoca”, finzione letteraria che adultera, drogandolo, il vino sincero e spesso aspro della storia. Ho avuto l’ardire di convocare Michelet scrivendo questa prefazione al romanzo di Marco Giusti non perché mi servisse un testimone d’eccellenza, o per saccheggiare dai suoi testi qualche citazione esornativa, ma perché nessun altro come lui ha vissuto (e sofferto) la storia come riscatto delle esistenze che furono, e ha incarnato la funzione sacrale dello storico, come colui che sa percepire le voci e finanche «ascoltare le parole che non furono mai dette, che restarono in fondo ai cuori (frugate nel vostro! ci sono)». Nessun altro avrebbe potuto testimoniare con altrettanta efficacia dell’esistenza di questa possibilità di fare storia. Ma, nello stesso tempo, è ancor più singolare che questo storico così sensibile alle vite «di coloro che non vissero abbastanza, che vorrebbero rivivere» non si lasci irretire dal pettegolezzo, non indulga alla lamentazione, non si perda nel vano chiacchiericcio da salotto, ma dimostri di essere perfettamente consapevole della serietà della storia, del fatto che storia individuale e storia universale non sono universi paralleli ma mondi che si cercano e si corrispondono misteriosamente. Perché «ogni uomo è un’intera umanità, una storia universale… E nondimeno quest’essere, nel quale dimorava una generalità infinita, era al tempo stesso individuo singolo, persona, un essere unico, irreparabile, che nulla sostituirà». Come l’individuo e la storia universale, anche la storia e la letteratura si cercano e si corrispondono, e – come succede agli amanti – un po’ si temono reciprocamente. Sarebbe arduo tracciare anche solo per sommi capi la storia di questa relazione, sicuramente sarebbe superiore alle mie forze. Dal romanzo storico ottocentesco alla fascinazione novecentesca (e anche odierna) per la storia e la biografia in forma di romanzo, fino ai più recenti esiti in direzione della memorialistica e della letteratura testimoniale, molti autori si sono avventurati nella storia e negli archivi non tanto in cerca di vaga “ispirazione” (che sarebbe ben poco nobile utilizzo) ma vi


per l’attrazione che esercita ogni sconfinamento e, forse ancor più, per la necessità di confrontarsi con le sempre più incerte e multiformi dimensioni del tempo, in un’epoca in cui i modelli di temporalità tendono a moltiplicarsi e a mescolarsi in un angosciante caleidoscopio e le generazioni rischiano di perdere quel vitale appuntamento tra loro che garantisce la trasmissione e la continuità. Da parte loro, anche gli storici da tempo hanno avvertito il pungolo urticante di queste stesse domande. La fascinazione e addirittura «il piacere dell’archivio» – per citare il fortunato testo che Arlette Farge pubblicò nel 1989 (la traduzione italiana è del 1991) – ha esercitato la sua seduzione soprattutto su coloro che nei documenti incontravano, come scrive la Farge, la «traccia grezza di vite che non chiedevano affatto di raccontarsi e che sono obbligate a farlo perché si sono scontrate un giorno con la realtà della polizia o della repressione». Donne, marginali, dissidenti, storie stritolate dalla macchina repressiva delle istituzioni, voci indistinte di vite altrettanto indistinte, «vite di uomini infami» come ebbe a chiamarle Michel Foucault editando nel 1977 i registri di internamento provenienti dagli archivi giudiziari seicenteschi. Documenti nei quali invano cercheremmo gli eventi biografici di una storia personale o le espressioni di una soggettività ma nei quali, in compenso, troviamo – come scrive Giorgio Agamben in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone – «la scia luminosa di un’altra storia; non la memoria di un’esistenza oppressa, ma l’arsione muta di un ethos immemorabile; non il volto di un soggetto, ma la sconnessione tra il vivente e il parlante, che ne segna il posto vuoto». Se la storia sociale e familiare, la storia delle donne, le microstorie di comunità e di individui sono stati i campi più dissodati di questa attitudine storiografica dagli anni ’70 in poi, fino agli esiti talvolta discutibili della più recente cosiddetta public history, va detto che sul problema della storia, del suo statuto e della sua narrazione nessuno ha scritto pagine così intense e dirompenti come Walter Benjamin. vii


Il suo ultimo testo, le tesi Sul concetto di storia, sono un testo sincopato, interrotto e drammatico come la sua vita, stroncata dalla violenza del secolo in cui la storia è sembrata presso alla sua fine. Benjamin è il primo ad avere il coraggio di ribaltare i rapporti tra presente e passato, di scardinare la falsa e tranquillizzante continuità storica che schiaccia a terra ogni cosa usando la livella delle ricostruzioni a posteriori, di fare del presente «l’oggetto di una profezia» e dello storico «un profeta rivolto all’indietro», capace di spazzolare contropelo la storia e fare del passato un’esperienza di redenzione. «Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute?... Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto». Non so se in questo libro Marco Giusti abbia consapevolmente inteso fare proprio quell’opera di redenzione rispetto al passato che racconta e al personaggio di cui così profondamente penetra la storia, so che tutto il libro è permeato da questa aura e che il lettore avverte di essere non solo spettatore ma presenza partecipe dell’appuntamento misterioso che sovrintende all’incontro tra l’autore e il cavalier Ottavio Ximenes d’Aragona. Un appuntamento che inizia con un ritrovamento di documenti, le lettere di Ottavio alla madre durante il viaggio e la permanenza a Lisbona, ritrovamento che avviene in un presente collocato prima e fuori dal romanzo (non un presente qualsiasi, dunque, ma «quel presente nel quale di volta in volta si scrive storia», per dirla ancora con Benjamin). Un lacerto documentario in cui giace la voce inascoltata di Ottavio Ximenes incontra l’autore, il quale tende l’orecchio non solo a quella voce ma alla costellazione di voci, di pensieri, di suoni e finanche di silenzi che abitano l’anima e il tempo di Ottavio. viii


Il ritrovamento dei documenti non è un artificio letterario, la narrazione non lo cita e non ne dipende, ma lascia aperta e indefinita la crepa tra due bordi, quello della creazione letteraria e quello del substrato documentario. Non si saprà mai quanto in ciò che si intravede ci sia dell’una o dell’altro, ma è proprio in questa faglia, in questa duplicità, in questo vedonon vedo che risiede il piacere del testo, come ci ha insegnato Barthes («un mezzo per valutare le opere della modernità: il loro valore deriverebbe dalla loro duplicità»). Il mondo di Ottavio, a partire dal lungo viaggio da Firenze a Lisbona, le persone che incontra, i panorami, i luoghi, i tempi, le relazioni interpersonali e quelle amorose, le vicende di corte e quelle familiari, il ritorno a Firenze, la vita d’accademia e di teatro, le aspirazioni più alte e le esigenze più sordide non vanno a comporre una messa in scena di maniera, un “tableau vivent” secentista, un’immersione nel secolo per appassionati di antiquaria o per lettori in cerca di “esperienze immersive” (tanto per citare la pessima locuzione che oggi sovrintende ad ancor peggiore museologia). Tutt’altro. Il testo sceglie un’altra strada, del tutto inaspettata ed originale. È la lingua, nella duplice e completa accezione di lessico e sintassi da un lato e di scansione metrica dall’altro, a sorprendere e incantare il lettore fino a imprimere alla lettura un ritmo la cui musicalità permane anche dopo la fine della lettura stessa, come un’eco o un ritornello che risuona pervasivamente nella mente. Non si può non restare stupiti e incantati dall’andamento della frase, dalla musicalità e articolazione elegante della sintassi, dalla ricchezza di un lessico che di volta in volta attinge indifferentemente al registro aulico, popolare, tecnico, letterario, giuridico, artigianale. Una lingua composita e bellissima i cui ultimi echi forse qualcuno tra i più anziani ricorda di aver sentito nei vecchi, colti o illetterati che fossero, e nei luoghi dove più forte è stata la resistenza all’omologazione e all’impoverimento. Una lingua (in alcuni casi forse una infralingua) in cui l’autore dimostra una conoscenza approfondita dell’eix


poca, della sua vita materiale, degli aspetti minuti della vita quotidiana così come degli aspetti più complessi della vita sociale e della cultura. Ma ancor più si rimane conquistati dalla prosodìa e soprattutto dalla frequenza con cui l’endecasillabico fiorisce e si nasconde nel testo, come una primavera inaspettata e segreta. Individuare il verso, riconoscerlo e sorridergli può essere un modo di intrattenere con il testo, con il suo protagonista e con il suo autore, un sentimento di giocosa complicità. Non è un libro da leggere orizzontalmente, per scansioni intermittenti o frammenti, ma da esplorare verticalmente e gustare nella sua integrità, con una lettura applicata che noti non solo gli eventi ma quello che succede al linguaggio. Perché la lingua è a sua volta il medium del disvelamento/ nascondimento di Ottavio e della sua anima (e quindi, proseguendo nel gioco della duplicità dei bordi, del disvelamento/ nascondimento dell’autore e della sua anima). Marco Giusti sceglie la narrazione in prima persona da parte del protagonista sotto forma di “memorie” ed è così, prima per accenni, poi sempre più chiaramente, che Ottavio si svela a se stesso e al lettore mostrando le sue fragilità, il senso quasi destinico di incompiutezza e ignavia, il bisogno insoddisfatto di una guida e la ricerca di approvazione, l’erotismo adolescenziale e ambiguo. Una sequela di paradossi punteggia la sua vita, con il sapore di segnali infausti: Accademico Infuocato, al contrario del biblico roveto ardente si consuma senza bruciare; “Prigioniero di se stesso”, come recita il titolo di una delle sue commedie, di cui non vedrà mai la messa in scena, si rivelerà alla fine una sorta di Heautontimorumenos, feroce castigatore di se stesso. Anche Totò Merùmeni, l’epigono gozzaniano (e insieme la parodia, fin nel nome) del protagonista della commedia di Menandro, («molta cultura e gusto in opere d’inchiostro, / scarso cervello, scarsa morale, spaventosa / chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro») ritiratosi nella «villa-tipo del Libro di Lettura», «col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei balconi x


secentisti guarniti di verzura», medita sulla vita che «si ritolse tutte le sue promesse». Questo conferma che esistono insondabili assonanze che fanno vibrare insieme epoche diverse. Ma bisogna avere occhi per vederle e farle vedere. Come fa questo libro, che alla incompiuta vita di Ottavio Ximenes congiunge le nostre incompiute vite, sulle tracce di un senso universale della vicenda umana. Ancora con Michelet: «Così la giustizia [della storia] associa coloro che non vissero nella stessa epoca, compie atto di riparazione in favore dei molti che non apparvero che per un attimo, giusto il tempo di scomparire. Vivono adesso insieme a noi, che ci sentiamo loro parenti, amici loro. In tal modo si forma una famiglia, una città comune di vivi e di morti». Diana Toccafondi

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Il cerchio e la croce



Capitolo 1

Il valore è avido di pericolo (Seneca, De Providentia)

Quando il navicello si staccò dal molo di Montelupo mi voltai a guardare per l’ultima volta l’Ambrogiana. Sulla riva dell’Arno erano rimasti pochi parenti e qualche amico ad agitare fazzoletti. Mia sorella piangeva. Antonio fu l’unico a restare impassibile; mi salutò con un cenno della mano, il sorriso impacciato, una smorfia che trasmetteva bene la frivolezza del suo carattere; indossava un vestito di velluto fiorito alla francese che pareva rinnovato per festeggiare la mia partenza. Ancora prima che la barca guadagnasse la corrente del fiume, vidi risalire i miei cari sul molo della villa e li persi di vista. Era la mattina del 4 ottobre 1665, una ventosa domenica che non scorderò mai. Il reverendissimo principe Carlo de’ Medici si era occupato amorevolmente di me: custodivo nel corpetto le lettere scritte di suo pugno per illustri personaggi della corte parigina. Nessuno più di me a Firenze stava ora così alto di riputazione fra i familiari del granduca. Con il benestare di mio zio, il marchese Carlo Gerini, ero stato scelto per scortare dalla Francia a Lisbona la principessa di Savoia-Nemours, promessa sposa al re del Portogallo. Proprio io, Ottavio Ximenes, accademico Infuocato, fui preferito a tanti altri cavalieri più esperti in armi e diplomazia. Da attore di teatro m’inebriava stare sulla scena: godevo che fosse giunto il mio momento e non mi spaventava rispondere all’impronta a questa sfida. 3


Partivo senza appesantirmi di bagagli e servitù: viaggiare leggero, prendendo per il petto l’avventura, mostra bene quel che un uomo può valere e io non vedevo l’ora di esibire il mio talento. Lo scafaiolo tuffò la stanga in acqua con movimenti lenti e poderosi; torcendo il busto indietro scaricò col legno tutta la forza delle braccia sul fondale. Al posto della camicia portava un telo di canapa stretto in vita con lo spago; striminziti calzoni gli coprivano appena le cosce robuste lasciandogli le polpe nude e i piedi scalzi. Scrutavo attentamente quel colosso da una seduta arrangiata fra i bauli. La posizione risultò oltremisura scomoda e mi rincrebbe molto avere smarrito le forme e l’agilità d’un tempo, colpa, credo io, di gola e d’ozio cittadino. Durante le otto ore di viaggio mi alzai diverse volte per dare agio al flusso delle gambe e avvicinandomi traballante al Nettuno arrubinato, ne gustavo la possente complessione e l’olezzo diffuso intorno dall’energico esercizio. Era dotato di spudorata carnalità, non c’era dubbio, ma a guardarlo negli occhi appariva d’indole umile e vergognosa. Lo avrei preso volentieri al mio servizio. Stimolato dall’osservare tanta foggia maschia così a portata di mano, presi a immaginarlo nelle vesti di un rustico ortolano attirato nel verziere dalle moine di una matrona accalorata. Ne fui eccitato a tal punto che tornato nella ristrettezza del sedile soddisfeci con l’immaginazione l’impellente appetito amoroso. Dio mi perdoni se ho indugiato troppo con l’occhio sulle forme del navicellaio, così rare fra studiosi e banchieri che frequento; spero mi sia discolpa l’aver ammirato con discrezione le bellezze del creato, senza arrivare al punto di mescolarmi in indecenti pratiche col villano, che di lungo e costoso affinamento meriterebbe d’essere educato per trarne lodabile godimento. Scivolando dolcemente sull’Arno incrociavamo barchetti di renaioli e scafe dirette a Firenze; era tutto un via vai 4


d’imbarcazioni e il nostro imponente barcaiolo, noto come Polverone, dava sulla voce a tutti i naviganti che incrociava. Conosceva palmo a palmo le insidie del fiume e governava la rotta del navicello passando da una sponda all’altra con grande agilità. Di quel primo entusiasmante viaggio ricordo ancora bene lo scorrere delle chiatte cariche di merce: avanzavano a stento controcorrente trainate da nerboruti bardotti curvi sull’alzaia e spinte talvolta dalla vela quadra gonfia di libeccio. I saluti e gli auguri di buon viaggio da una barca all’altra mi facevano sentire parte di un’operosa fraternità concessa da Iddio benedetto e dal nostro amato sovrano, da dubitare di trovare simile armonia in altre lande. A ogni incontro le gagliarde voci dei timonieri stanavano uccelli acquatici che pigolavano infastiditi per volare verso rive più tranquille. Il cielo non prometteva nulla di buono, ma i grandi nuvoloni che passavano veloci erano l’occasione giusta per l’uscita dei pescatori: a due a due stendevano il tramaglio là dove l’acqua era più bassa e riempivano la rete di guizzanti pesciolini da vendere al mercato ancora vivi nelle zucche. Suonò mezzogiorno mentre passavamo davanti al monastero della Santa Croce. Stavamo lasciando ville e campanili di borghi conosciuti, e così mi resi finalmente conto di essere partito per un viaggio che mi avrebbe portato in paesi lontanissimi e misteriosi, che allora neppure riuscivo a immaginare. Nonostante il sacrificio di allontanarmi dalle piacevoli costumanze, non temevo alcuna contrarietà per la mia persona, avevo solo l’ambizione di crescere in prestigio alla corte del granduca. Seduto sui bauli stava Giuseppe Nolfi, fedele e giudizioso servitore di famiglia; a lui avevo affidato la guardia della borsa contenente i miei oggetti più preziosi. Senza il Nolfi non avrei mai potuto sostenere la fatica del viaggio ed ero disposto a pagare vitto, alloggio, cinquanta crazie al mese e una livrea l’anno, pur di averlo al mio fianco fino al compimento della missione. 5


Giunti a Pisa, e lasciato Polverone al suo destino di promettente stallone nel verziere, i bauli furono sistemati su un navicello più slanciato già pronto nel canale. Arrivammo a Livorno all’imbrunire e i bagagli furono allogati per la notte in un magazzino ben custodito nella Venezia Nuova. Padrone di quel fondaco era un mercante genovese che aveva accumulato una fortuna col commercio del corallo e degli schiavi. Giuseppe Rossano lo trovai seduto allo scrittoio, curvo a registrare entrate e uscite su un libro mastro largo più d’un braccio. Avvisato dell’arrivo del fiorentino in viaggio per Parigi, lasciò la scranna per venirmi incontro con un ossequio che trovai persino esagerato. Ebbi la sensazione, per carità del cielo, solo la sensazione, che manifestasse la viscida attitudine del mercante, che prima ti liscia il pelo e poi t’inganna. «Mi umilio di ricevere vostra signoria nella mia modestissima casa. So quanto si parli bene di voi a Firenze e come goda la vostra famiglia di eccellente considerazione alla corte del serenissimo sovrano. Potervi servire per tutto quello che comanderete sarà per il mio banco un onore e un vanto». Poi, rivolgendosi a due giovani praticanti, che dal vestiario e dai modi giudicai essere di nascita distinta, mi presentò loro, seppure facendo grande confusione. «Il signore che oggi ci degna della presenza è Ottavio Ximenes d’Aragona, signore di Saturnia e cavaliere di Santo Stefano. Primo priore di Romagna e nipote del marchese Carlo Gerini…» Lo interruppi: «Il signor Rossano per gentilezza m’incensa con uffici immeritati, ma io non sono cavaliere di Santo Stefano, né tantomeno signore di Saturnia, titoli che spettano a mio fratello Francesco. Ho appena iniziato un viaggio che richiede grande cognizione di uomini e d’affari; spero d’essere all’altezza del compito ricevuto, per consolazione mia e avvantaggio del casato». La sosta a Livorno fu più lunga del previsto. Una forte libecciata sferzò la costa per tre giorni e impedì alla nave di 6


prendere il largo per Genova. Meglio. Ebbi così modo, seguendo i consigli del signor Rossano, di studiare il percorso più opportuno per giungere a Parigi. Il ritardo della partenza mi dette inoltre l’occasione di salire in pellegrinaggio al santuario di Montenero e di prendere confidenza con i collaboratori del banco; un praticante in particolare mi colpì per l’acume privo di superbia. Era Marco. Da tempo fantasticavo che se gli esiti del mio viaggio fossero stati veloci e di un certo guadagno per la casa, seppure sopportando il faticoso esilio, i miei fratelli avrebbero consentito che io tornassi in patria per attendere di tanto in tanto ai miei piacevoli interessi. Ciò sarebbe stato possibile affiancandomi quanto prima un giovane di fiducia che sbrigasse da solo gli affari di Lisbona durante la mia assenza. Marco sarebbe stata la persona giusta. Benché intendessi quanto fosse ancora inesperto negli affari, era volenteroso e intraprendente; gli si leggeva negli occhi, e da come si muoveva, la tenacia necessaria per non mollare al primo inciampo, l’ambizione temperata dal rispetto delle regole e l’amabilità di un candido sorriso. Non mi sembrò poco per un ragazzo di diciotto anni! Il mercante di Livorno, lagrimoso per la diminuzione dei traffici e dei facili guadagni, sentenziò con lo sbadiglio del satollo, che non era più il mondo di un tempo, quando gli uomini nati dalle querce, mangiavano le ghiande per confetti. Visto il mio interesse per Marco e giudicando sufficiente per l’azienda l’altro giovane che stava tirando su, mi incoraggiò a fare una proposta al ragazzino biondo. Prontamente la feci e non me ne sarei mai pentito. Il porto della Repubblica genovese ci accolse dopo tre giorni di mare grosso. Avevamo ancora le budella arrovesciate, eppure, senza alcun riguardo per le nostre facce bianche, i gabellieri pretesero dei bei denari appena messo piede a terra. La prima preoccupazione del Nolfi fu di trovare bastanti cavalcature per noi e i bagagli, uno staffiere che ci facesse da 7


guida e una chiesa vicina per le orazioni e le limosine prima del viaggio. La mattina del 12 ottobre uscimmo di buonora dalle nuove mura della città. Non incontrammo che poche persone e tutte guardinghe, sfuggenti, come se l’abbominoso mostro della peste impregnasse ancora le vesti di ogni forestiero. Varcata la porta di San Bartolommeo, munita dal Durazzo di un rassicurante ponte levatoio, ci inoltrammo lungo la pietraia di una fiumara asciutta. Ci mantenemmo a mezza costa di una collina adorna di belle ville; lo spettacolo del mare era perso e ritrovato a ogni curva. Di tanto in tanto, passavamo appresso agli archi di un ardito acquedotto che dalle boscaglie piovose dell’Appennino riforniva la città del bene più prezioso. Forse proprio quella deviazione dell’acqua montana era la ragione di tanta magra nel fiume in una stagione ormai autunnale. Breve fu il tratto percorso con la lettiga. Già nel borgo chiamato Olmo, distante tre ore dalla foce, dovemmo noleggiare delle bestie da soma e un corsiero per salire al passo della Crocetta. Pernottammo a Orero nell’unica locanda della zona, abituale ospizio dei portatori di sale. Non fu una bella esperienza. Mentre il cavallante portò le bestie nella stalla, il Nolfi rimase a sorvegliare i bauli sotto il loggiato. Al mio ingresso nella locanda feci fatica a distinguere ambiente e avventori; non si vedeva nulla per il fumo e la pochissima cera, più che altro si sentiva odore di vino e di pesce salato. Chiesi a una malgraziosa che tutti brancicavano se ci fosse una camera per dormire e squadrandomi perbene, da autentica insolente, mi rispose che dovevo accontentarmi di dormire insieme agli altri, e giù una risata. Non so proprio che cosa intendesse. Glielo feci notare risentito e nella stanza tutti si chetarono. Poi nel silenzio da un angolo buio partì un peto e scoppiò uno sghignazzo generale. Misi mano alla spada e a quel punto entrò anche il Nolfi armato di ferro per portarmi aiuto. Si fece avanti l’oste, peloso come un orso. Si curvò in un ridicolo 8


inchino, urlò una bestemmia terribile alla Madre Santissima e con quella mise a tacere gli avanzi di galera del suo tugurio. L’untuoso locandiere mi biascicò che per favorirmi potevo dormire nel fienile sopra la taverna: avrebbe aggiunto un covone, ma di cortine neanche da parlarne. Se gradivo, potevo avere la ragazza grassa che serviva il vino; il tutto, compresa anco la stalla, costava un luigino. Accettai. Il mattino seguente, senza aver trovato ristoro dal sonno, riprendemmo a cavalcare su di un sentiero malagevole e cupo. Valli tenebrose e ancora montagne e boscaglie selvagge si paravano davanti ai nostri occhi, così diverse dalle educate colline toscane. Avvertii un certo affaticamento d’animo per un viaggio che prometteva onori, ma anche dure prove da superare, e senza il conforto di persona conosciuta. Sembrava impossibile che foreste viste dall’alto tanto fitte, in realtà nascondessero un via vai di traffici e mercanzie da paragonarsi all’andirivieni incessante di una città. In prossimità di borghi spesso miseri, brulicavano come nei formicai attività di sussistenza che davano nutrimento a gente priva di tutto, fuorché di braccia tenaci e con la bocca perennemente spalancata dalla fame. Donne che mai avranno avuto la parvenza della leggiadria, nei loro poveri cenci, spesso incinte, fuligginose e mai lavate, s’ingegnavano a trasportare dal cannicciaio fino al molino sacchi di castagne per l’imminente inverno. Donne usate come muli e uomini curvi a spaccare legna e custodire brace e respirare fumo, per campare a stento con la farina dolce, sui gioghi del feudo che, anche se non è abbastanza pari la terra per tirare su palazzi, i signori provvedono a controllare strade e segnano con i cippi il loro marchesato, che tanto di lì, prima o poi, devi passare. A sera non eravamo ancora usciti dal dedalo boscoso quando lo staffiere disse di voler tornare indietro. Ci accompagnava fino a Vergagni e nella locanda di quel paese avremmo trovato altri cavalli per proseguire fino a Milano. Inutile discutere, a volte l’uomo ligure è più testardo di un mulo e, da sprovveduti, la metà del pedaggio l’avevamo già pagata 9


alla partenza. Aggiungendo quindici denari convinsi l’uomo per misericordia a salire fino alla chiesa di San Ruffino, ben in vista sul poggio alla mancina. Proprio allora le campane chiamavano a raccolta per il vespro e io scelsi di affidarmi alla provvidenza, piuttosto che avere altre esperienze come all’osteria di Orero. Rimasi in compagnia del Nolfi, entrambi muti, la schiena dolorante e il bisogno di mettere nello stomaco qualcosa di caldo. I bagagli erano allineati sul sagrato della chiesa come se aspettassimo l’arrivo della carrozza con i cavalli alati. Uscirono invece dal portone dell’edificio quattro vecchiette vestite di nero e dietro di loro un parroco anziano dalla tonaca malconcia. A San Ruffino non si fermava mai nessuno, c’è da immaginarsi la sorpresa del prete nel trovarsi sul sagrato quei due forestieri con le valige a terra. Don Tomaso era a San Ruffino da quasi vent’anni e viveva privo di tutto, come un eremita. L’aveva scelto lui quel posto lontano dall’umano consorzio per meglio onorare il Signore Iddio e per levarsi da Tortona, un covo di serpi velenose. Tutto quello che possedeva era un ciuco e le limosine di pochi fuochi isolati in una valletta cieca, ché tutti gli altri parrocchiani rimanevano più in basso, nella valle che porta a Cantalupo e per le estreme unzioni andavano a Salata da un frate infingardo, diventato secolare per godere i servigi di una perpetua ancora in buon arnese. Tutte queste cose ci raccontò il curato quella sera a cena, mentre mangiavamo una zuppa di verdure e qualche mela rinsecchita. La promessa di un’offerta per riparare il tetto della sagrestia convinse don Tomaso ad ospitarci per la notte e fu talmente certo che fossimo angeli mandati dal Signore, da impegnarsi l’indomani a trovare un brav’uomo per portarci a Vergagni con il carro. Finalmente avevamo dove passare una notte tranquilla: due sacchi di vegetale appoggiati sulla terra battuta del cucinone e una mantella per coperta. Non ho mai raccontato a 10


mia madre la fortunosa sistemazione a San Ruffino, ma in quel momento era l’alcova più invitante che potessi desiderare. Viaggiare in leggerezza non è comodo e può generare spiacevoli situazioni, ma permette di avvicinare l’umile gente per conoscerne l’animo o giudicarne le storture. Don Tomaso aveva un’idea del mondo tanto strampalata, che ancora oggi mi sovviene e un po’ mi turba. Questi, prima di coricarsi, ci chiese di seguirlo all’aperto. Attraversammo l’orto e si salì la scala che menava a un ballatoio esterno; da lì, procedendo a tentoni e fiancheggiando la chiesa, giungemmo fino alla porticina del campanile. Ancora due rampe di scale e si fu sul piano più alto, sopra le campane. Una lama d’aria gelida mi scosse dal torpore e, invitato dal prete a guardare in alto, alzai gli occhi verso le stelle lucentissime. Il vento di tramontana aveva spazzato le nuvole e la luna era una sottilissima falce crescente che spuntava appena dal crinale del monte Acuto. Mi sembrava di essere giunto così in alto da vedere intorno alle stelle i nove cori angelici e fui tutto commosso da quell’ispirazione sovrannaturale. Chiesi a Tomaso quanto lui, uomo di chiesa, avesse più di me la percezione del creato fatto su misura per noi e tanto più, perciò, dovesse l’uomo ingraziarsi con opere e preghiere l’immenso amore dell’Onnipotente che si manifestava a noi con lo spettacolo della divina volta celeste. Il curato ci rivelò che soprattutto d’estate era lì che passava le notti, sempre riflettendo e pregando, e che le stelle tutte conosceva per nome e che della loro fissità si diceva certo. Lontane dovevano essere e grandi, più del nostro sole, e che la terra gira e la luna insieme a noi, intorno alla stella più vicina che ci dà calore e luce. Non è l’uomo al centro del creato, bensì la Carità d’Iddio, che all’universo dà armonia; l’eterna armonia del bello e del vero di cui tutti si può godere in parti uguali, senza distinzione di nascita e di ricchezza. Replicai che Dante aveva dato un ordine a tutte le cose e che la gerarchia esiste, tanto dell’umana che della divina sfera; così come il premio e il castigo esistono per il nostro 11


operare sulla terra. Ma lui non riprese il mio discorso e disse che ognuno è bravo a mirare il cielo, ma non tutti l’intendono, perché l’intendere è una grazia di sì squisito gusto che va ben oltre la gittata d’occhio, e l’infinita vastità dell’universo può trovare soluzione solo nella profonda lucidità della ragione umana. Al ché me ne ritrassi, che niente mi tornava di quell’oscuro dissertare. Mi svegliai intorpidito dal freddo e ammaccato dal pagliericcio più sodo di un tavolaccio di castagno. Nello sgranchirmi le ossa il primo pensiero corse ai bagagli. Mi affacciai all’uscio della canonica e con mio grande sollievo vidi i bauli già sistemati sul carro del villano. Mi sentii molto obbligato per tutto quello che il prete di San Ruffino aveva fatto per me e non volli essere da meno in generosità. Mentre il Nolfi scendeva a piedi verso Vergagni per trovare cibo e noleggiare i cavalli, offrii poche monete di rame al barrocciaio e un ricco contributo a don Tomaso per iniziare a riparare il tetto prima delle piogge. Lo vidi strabuzzare le orbite senza sollevarle da quel gruzzolo di monete d’argento, come se volesse calcolare, senza darlo ad apparire, il valore di quello che stringeva nelle mani. Ripeté due o tre volte «troppo, cavalier Ximenes, troppo…!». Ora Tomaso poteva fare i lavori da solo, senza di nuovo chiedere aiuto al vescovo di Genova, che in tanti anni di suppliche non gli aveva mai risposto. Scendendo la valle del Borbera le montagne s’addolcivano e il taglio dei boschi aveva messo a nudo dorsi molli e rugosi come le ginocchia di una vecchia. Pianori sempre più larghi erano arati per la prossima sementa e al loro margine le strade si percorrevano agevolmente in discesa con la carrozza. Il castello di Volpedo fu la nostra tappa di quella sera. Pur trattandosi di un piccolo borgo, dopo una settimana di continui adattamenti d’emergenza, tra flutti minacciosi e buie boscaglie, mi fu chiaro che anche con un dialetto tanto diverso e in un crocevia di feudi e di signorie, si percepiva finalmente un 12


umano intendere, un primo segno di civiltà che andava oltre la foggia delle casacche addosso ai gabellieri. L’indomani all’alba affrontammo la grande pianura e a sera si varcò a Milano la Porta Ticinese. Sebbene fosse già buio, avemmo buone indicazioni per trovare l’ambasceria toscana, un palazzotto scuro di severe forme. Dovetti dedicare del buon tempo, e sapone assai, per togliermi di dosso il lezzo di polvere e di sudore, ma la sensazione di repulsa durava, come se ancora si annidassero fra le pieghe della carne corpiccioli animati con numerose zampe. Il residente toscano mi mostrò tanta amorevolezza, più che se fossi stato suo familiare: ebbi un quartiere per me e per il mio uomo, personale di servizio, e la carrozza, perché non mi mancasse l’agio nel breve passaggio da Milano. L’indomani il gentilissimo signor Bondicchi mi accompagnò dal presidente del senato milanese Bartolomeo Arese e feci così ingresso nel palazzo di corso Porta Vercellina. Il vecchio senatore lesse il piego del cardinal decano e mi guardò con una tristezza che mi parve non aver rimedio. La sua faccia allungata era segnata da rughe sì profonde da sembrare cicatrici di una brutale tortura. Lo sguardo smarrito cercava altrove qualcun altro e mi fece intendere che avrebbe pagato ogni fortuna perché fosse lì suo figlio al posto mio. Ma Giulio se n’era andato giovinetto per sempre in primavera e mancava chi potesse raccogliere tanta eredità. Fui congedato in fretta, come se la mia presenza fosse insostenibile al presidente. Venni affidato alle premure del suo segretario e così, munito di ogni necessaria presentazione per distinti ritrovi milanesi, lasciai il palazzo senza farvi più ritorno. Non era ancora ben chiaro in me il progetto per giungere a Lisbona. La strada di Spagna non poteva essere scartata e l’incertezza sulla scelta del percorso mi convinse a giocare l’ultima carta nel ducato di Milano. Fra le lettere commendatizie nascoste nel corpetto, ne conservavo una scritta dal cardinale de’ Medici al governatore della piazza milanese: 13


Luis de Guzmán Ponce de León. Il cardinale si appellava alla benignità di Don Luis per fornire a me, in ogni occasione, i favori necessari alla permanenza nel ducato. Quante volte avrò letto quella lettera prima di entrare all’interno del castello! Scriveva il cardinale dei miei meriti e di quanto io fossi caro alla Casa fiorentina. Mi sembrava, da modesto cavaliere, di non meritare tanto incenso e fino ad allora avevo pensato che solo mio fratello Francesco, il priore, godesse di attenzioni alla corte di Firenze. Invece tutti della mia famiglia erano cari al principe e di ciò fui oltremodo lusingato: un gran regalo essere nel cuore di una persona tanto influente in così lontane signorie. Mi preparai all’incontro con ogni cura. Libri, mappe e confidenze cercai a Milano da chi, pratico di mercature, s’ingegnava di trovare l’onesto utile appresso il cristianissimo trono di Spagna. Ma voci preoccupate giungevano dal regno di Castiglia: morto Filippo IV, il giovane Carlo vi regnava da appena un mese e ancora non parlava o camminava. Si diceva che fosse malformato e la regina madre tutto brigava per nascondere le mancanze dell’infante e mantenere la corona. La reggente era poco amata, sia dal popolo che dai cortigiani, e pure dal figliastro. Così dicevano le malelingue. Mi aspettavo dal governatore di Milano utili informazioni per la prosecuzione del mio tragitto e se, strada facendo, vi fosse occasione di qualche affare per la casa degli Ximenes. Mi trovai davanti un uomo alto e corpulento, con lunghi capelli ingrigiti divisi al centro della capa, cauto e dolorante nei movimenti. Sua eccellenza mi sembrò ben disposto nell’accogliermi in camera ancora da vestire e dopo le dovute reverenze sbirciò con rapida occhiata la lettera del cardinale. Mi disse schiarendosi la voce che non era un gran momento per il suo paese, ma che la pace in corso col Portogallo mi avrebbe permesso tranquillità di movimento per giungere fino a Lisbona. A un cenno del capo due camerieri lo aiutarono a vestirsi e mentre infilava le lunghe calze nere fui congedato, senza darmi il tempo di parlare dei negozi. 14


La mattina del 22 ottobre 1665 lasciai Milano sotto il diluvio universale. In quel cataclisma vi lessi il presagio di future avversità e fui tentato di rimandare la partenza all’indomani. Finalmente, ma era ormai quasi mezzogiorno, le nubi si diressero altrove e confidando in Dio ripresi coraggio per portare avanti l’intrapresa. Grazie all’intercessione dell’ambasciatore toscano, il senatore Arese mi aveva concesso l’uso della vettura chiusa, ma nonostante i vetri agli sportelli e la tela cerata sul tettuccio, arrivati alla sosta di Novara, io e il Nolfi eravamo bagnati e infangati come anatre di cortile. Durante il viaggio mi venne da pensare alla squisitezza del senatore per avermi alleviato il tragitto con la comoda carrozza e ancora di più appariva incomprensibile il fastidio da lui mostrato nel ricevermi a palazzo. Quando morì mio padre, avevo appena due anni e mezzo. Non ho nessun ricordo di lui; so solo che il suo trapasso fu repentino e pieno di tormenti. Era ancora giovane e aspettava un altro figlio, nessuno immaginava quella fine. Mi hanno raccontato che stava lavorando con la compagnia de’ Bardi e fu proprio lo zio Giovanni a soccorrerlo quando gli prese il primo spasmo allo scrittoio. Da allora il conte Giovanni Bardi non si è più ripreso dal ribrezzo di veder la morte in faccia; si è chiuso nel riserbo più assoluto e inutili gli sforzi di farlo ragionare su quel terribile accidente. Le prime nozioni per imparare a stare al mondo, a me e ai miei fratelli, ci vennero date dunque dallo zio Raffaello Ximenes. Per essere sincero, grazie alla compagnia di tre fratelli e una sorella, con l’amorevole presenza di mia madre e degli zii Gerini, non sentii molto il vuoto causato dalla perdita paterna. Anche se precoce, la morte del genitore rientra nell’ordine naturale delle cose. Assai diverso il discorso quando un padre perde il figlio nel fiore della giovinezza. Per carità cristiana si è soliti confortare chi sopravvive con frasi pietevoli: Gesù lo chiamò a sé per tanta grazia celeste. Muor giovane colui che al cielo è caro. 15


Gesù lo volle preservare dal logorio del tempo e dalle tentazioni corporali. Di lassù avrebbe interceduto come un angelo per la salute materiale e spirituale dei vivi. Ma a Bartolommeo Arese, che di figli maschi aveva solo Giulio, e ogni bene in lui riponeva per accomiatarsi soddisfatto da questo mondo, non sarebbe dispiaciuto affatto cedere la propria salute e l’intera ricchezza della famiglia, in cambio della vita di quell’unico erede. Più tardi seppi che il giovane Arese era nato a Milano, esattamente lo stesso giorno in cui io vidi la luce a Firenze. L’istinto di padre riconobbe durante il nostro incontro la fatale coincidenza e l’ingiusto destino. Il giorno seguente entrammo nel Ducato di Savoia. Via facendo, il sole illuminò grandi distese allagate dallo straripamento della Dora. Con molto giudizio gl’ingegneri avevano costruito la strada in rilevato rispetto alla pianura e così potemmo arrivare a Torino dopo dieci ore di legno, con mal di reni, ma salvi per grazia d’Iddio. Era notte fonda. Poche persone ho trovato nella mia vita tanto tremebonde quanto il nunzio apostolico Bargellini. Il sommo pontefice nel nominarlo a Torino avrà sicuramente inteso arginare la nuova eresia dei Francesi, che serpeggiava già nel ducato sabaudo e per questo scelse un teologo. Ma il monsignore per indole desiderava solo stare alla larga dalle rogne cercando di contentare tutti; la coperta però era troppo corta e Giansenio diventò per il Bargellini un incubo che si metteva di traverso sulla strada della porpora. Lo trovai nel palazzo dell’Arcivescovado, spaesato e seguito come un’ombra da un canonico esangue e taciturno, certamente al soldo di qualcuno. Dopo i convenevoli il nunzio, con mano tremante e un sorriso melenso, mi consegnò una lettera del cardinal decano che mi istruiva sulla prossima sosta di Lione. 16


Il Bargellini mi dette proprio l’impressione di persona poco perspicace, che si smarriva per una voce grossa o per lo sferragliamento di spade e di speroni che di tanto in tanto risuonavano nelle sale affrescate dell’Arcivescovado. Doveva stare in biblioteca a scribacchiare sull’utilità dei precetti e a studiare i libri delle sentenze, ma la sua ambizione, non corroborata da talento, lo spinse ad avventurarsi nei meandri della diplomazia romana, ottenendo più rampogne che prebende. Era già il 24 di ottobre e non potevo permettermi di indugiare oltre ad attraversare le Alpi, in certi anni il passo si era imbiancato già ai primi di novembre. Da Torino feci partire le notizie verso casa sulla mia ottima salute e al cardinale detti conto delle accoglienze ricevute grazie alle sue lettere commendatizie. Iniziava la salita verso la montagna. L’avventura si faceva ardita. Dopo due giornate di comoda vettura, a Novalesa lasciammo perdere le ruote e noleggiammo tre muli e due guide, qui chiamate marroniers. Un servizio caro, carissimo, ma come cercavi di trovare una guida a minor costo dovevi contentarti di un vecchio malandato e la fatica da fare era tanta per arrivare con i bauli fino al Col du Mont Cenis. Alla fine trovammo padre e figlio assai robusti che per uno scudo d’argento e cinque soldi per ogni bestia ci assicurarono il passaggio fino a Lans le Bourg. A differenza della via del sale, la strada per andare in Francia era animata da pellegrini che per devozione andavano o tornavano da Roma. Qualche penitente, addirittura, era in marcia da mesi per essersi spinto fino a San Giacomo di Galizia. Fedeli di ogni regione e lingua che scioglievano voti e chiedevano grazie, a dimostrare l’universale bisogno dell’aiuto divino; da soli o a piccoli gruppi, come formicole operose salivano e scendevano le balze spoglie della Ferriera. A ogni incontro una parola di sostegno, il resoconto di un prodigio, uno sciogliersi in lacrime, una conversione. Da quelle fervide 17


e commosse frasi raccolte sulla mulattiera, mi mosse il desiderio di recarmi a San Giacomo per onorare la tomba dell’apostolo. Ma quanta strada c’era ancora da fare! Al valico sostammo nell’ospizio della Prevostura di Santa Maria, ad peregrinorum receptionem. Una camerata con le mura di pietra dove potevano riposare o curarsi più di cinquanta viandanti alla volta. Il freddo si faceva già sentire, ma ogni giaciglio era fornito di una coperta di lana e la disciplina notturna assicurata da un canonico guardiano. Chi poteva, dava qualcosa, e una ciotola di brodo caldo non era negata a nessuno. I due marroniers si alternarono nella guardia dei nostri bagagli e il Nolfi ebbe così occasione di scrivere una lettera a Firenze. Quella sera avvertii una pace profonda, sia dentro di me che intorno a me. Lo spirito si mise in tutt’uno con il corpo; l’aria finissima bene si sposava con la nudità del colle e lo scalpiccio dei muli non guastava affatto la compieta dei canonici. Fu in quel momento di suprema quiete che fui persuaso di non essere nato per la vita di famiglia e per certe materiali abitudini che lasciavo volentieri ai miei fratelli. Nonostante i miei trent’anni, non avevo ancora chiaro a cosa rivolgere l’ingegno. C’era in me tanta passione per la commedia e andavo istruendomi sui grandi autori del teatro spagnolo, ma le piacevoli serate con gli amici della Nuova Accademia non riuscivano a soddisfare il bisogno di una comunità profonda con un essere a me affine. L’esclusività che andavo cercando nel rapporto umano non era stata mai contraccambiata da alcuno e lungi da me pensare che potesse stabilirsi con una donna, di cui avvertivo la limitatezza e l’indecente utilizzo. Fu quella notte, uscendo a respirare sotto le stelle, che ripensai a Marco. Oltrepassata Chambéry, perdemmo di vista le montagne piovose del ducato sabaudo e procedemmo sulle strade dritte dell’Alvernia. Il tempo si manteneva buono e il cammino 18


spedito, ma l’accorciarsi delle giornate non consentiva più di una posta al giorno. Giunti a poche miglia dalla città di Lione i cavalli della diligenza furono assaliti da una torma di cani randagi e talmente brusco fu lo scarto dei due frisoni imbizzarriti, che per poco non fummo sbalzati nel canale. Il Nolfi batté violentemente la testa sulla cornice dello schienale e perse copioso sangue. Il cocchiere cadde a terra e, mentre la canea rabbiosa gli si avventava sopra, riuscì a impugnare un vecchio petrinale che teneva alla bisogna per difendersi dai briganti ed esplose un colpo nel mucchio. Come per prodigio i bastardi rognosi si dileguarono guaendo in più direzioni e io uscii indenne da questo accidente che rischiò di avere fatali conseguenze per la riuscita del viaggio. Nel proseguire acciaccati verso la città mi resi conto di quanto poco bastasse per rendere vana ogni mia ambizione e come ogni progetto umano fosse nelle mani del fato, a volte benigno e a volte tragico. Tuttavia non mi sembrò azzeccato cercare nei cani randagi l’incarnazione di un disegno maligno, come tuonava dalla cassetta il cocchiere, anche se le terribili fauci delle bestie e il loro ringhiare parevano davvero provenire da un girone infernale, più che da una placida campagna ben coltivata. In quel saliscendi di colline, la villa di Lione si teneva rimpiattata al nostro guardo, ma dietro una svolta, tutto a un tratto, ci apparvero i tetti, le chiese e i fiumi, come se la città fosse affiorata per incanto dalle viscere della terra. Ringraziando il Cielo per la raggiunta mèta, il Nolfi, con la testa fasciata, recitò la preghiera del viandante, confidando per il restante viaggio nella protezione di San Cristoforo. Lione è ricca di banchi e di mercanti italiani che fanno gagliardi affari con la seta. Ogni quattro mesi la città si affolla di compratori provenienti dalla Fiandra, dalla Polonia e dall’Italia, tanto che anche viverci è diventato sommamente dispendioso. Capitai ai primi di novembre nel bel mezzo della 19


fiera di Ognissanti e la piazza era un via vai continuo di uomini, merci e danari. Le compagnie di mercanti fiorentini si erano ben inserite nella città francese, tanto che per loro numero e merito in passato si ebbero a chiamare Nazione, ad avere rappresentanza nel governo lionese come una fraternita e a eleggere un console. Il cardinale de’ Medici, da Firenze, mi aveva affidato una lettera per Pierangelo Guinigi e con quella mi presentai il giorno appresso nel suo fondaco di Croix-Rousse. Non avevo idea di quale egli fosse in un crocchio di cinque o sei persone, che tutte vociavano e si muovevano agitate, con una lingua di curiose mescolanze che facevo fatica a intenderne l’origine. Uno mi vide. Stese la mano e gli altri più non parlarono. Mi feci avanti e dopo un inchino dissi che cercavo il signor Guinigi. «Sono qua per servirla, e voi chi siete?». La cena procedeva rumorosa con abbondanza di selvaggina e vini, e molto avrei voluto starmene appartato dopo tanti giorni di cavalcatura; mi ritrovai invece ospite d’onore alla festa che il Guinigi offriva ogni anno durante la fiera. Ero seduto al suo fianco e neanche un minuto stette fermo e zitto; a tutti riparava e su tutto metteva bocca. Intorno a lui gl’invitati si muovevano da un tavolo all’altro e tale era la confusione che inutili sembravano gli sforzi del musico per far ascoltare le note del suo liuto. Quattro torce rischiaravano la stanza e tanti lumi accesi sui tavoli si mescolavano a piatti, pane e pentole imbrattate. Le donne se ne stavano a parte e molte in cucina, dove giravano arrosti e borbottavano pignatte, in un continuo entrare e uscire a portar pietanze. In quel serraglio variopinto notai che molti commensali avevano i denti guasti e pensai dovesse essere per l’uso del tabacco che dopo la cena uomini e donne masticavano, sputando in grandi ciotole di rame messe nei cantucci delle stanze. 20


Qualcuno mostrava del riguardo e usciva nel cortile a vomitare; al suo rientro gli veniva data della cioccolata calda così la bocca poteva ricominciare a masticare profumata. Ogni tanto Pierangelo mi guardava e cercava di scuotermi e m’invitava a mettere del mio in quel gran baillame. Un moro, che tutti chiamavano sceicco, frugava fra le costole di una serva malnutrita che rideva giurando d’offrirgli presto la purezza. Anche il Nolfi mi pare guadagnasse l’uscita in compagnia di una francesina rossa di pelo raccattata fra le serve di cucina. Senza dare nell’occhio mi defilai prudente da quella fuminea e barcollando per l’eccessivo vino, trovai le scale che portavano al mio letto, un giaciglio finalmente soffice e pulito. Controllato che ogni cosa ci fosse ancora nella borsa, orinai dalla finestra e mi addormentai con i vestiti addosso. Passata la sbornia di quella prima cena, rimasi dal Guinigi ancora cinque giorni e proseguendo i bagordi ogni sera della fiera, feci conoscenza col giovane musico pregandolo d’insegnarmi a cavare una melodia dal liuto. Si chiamava Filippo, era figlio di una sorella del signor Guinigi. Nato a Lione, non sapeva che poche parole d’italiano, ma destava il mio interesse per un’aria assorta così diversa dallo zio. Portava lunghi capelli castani raccolti in un berretto di velluto nero ed era dotato di malinconica grazia e sicurezza d’espressione. Ci trovammo così d’intesa nello scambio: musica per lingua. Anche sua madre fu contenta e ci disse di andare a fare scuola in una stanza dove lei teneva riposta la roba del corredo. Ben presto ci stancammo d’accordare il difficile strumento e fu più naturale esercitare l’italiano dell’impacciato transalpino. Filippo non era sveglio come Marco, mancava d’intraprendenza e dovetti io scuoterlo dal torpore; per non essere troppo duro nei rimproveri, ogni tanto gli passavo le dita nei capelli e cominciai a prendergli la mano. Lui non si riscosse e mi chiese di esercitarsi ancora. Sua madre, non ricordo più come si chiamasse, ogni tanto si affacciava da un piccolo per21


tugio che dava aria al guardaroba e poi in silenzio si ritraeva. Al terzo giorno di quell’infruttuoso insegnamento, vedendo Filippo mortificato per lo scarso comprendonio, ed essendo io eccitato per la tenerezza che mi faceva, accompagnai la sua mano inerme verso il mio cavallo e lì la lasciai mentre gli accarezzavo il volto. Ci regalammo il piacere l’un l’altro e sono certo che la particolare lezione non sfuggì agli occhi della madre. Il giorno dopo me la trovai al posto di Filippo a riordinare le lenzuola del corredo e salita a bella posta su una scala ne ammirai le sode forme nude e la natura. Alla fine mi fu chiara la ragione della lunga permanenza dello zio Gerini a Lione, ospite della compagnia lucchese per oltre un anno… L’8 di novembre, firmata una lettera di cambio al Guinigi, ebbi da lui delle buone monete d’argento e all’alba di un giorno senza pioggia, partimmo per Parigi. Era domenica mattina e, presa la messa in San Giovanni, uscimmo contriti pellegrini dalla porta di Francia con fiacco passo. Cavalcando lungo la Saona ci lasciammo volentieri avvolgere dalla nebbia, a nascondere anche a noi stessi la vergogna per tante turpi voglie assecondate. Senza furia, e non più cedendo ad altre umane tentazioni, superammo le poste, una dietro l’altra, e diretti al nord, dopo varie giornate in groppa, giungemmo a Digione. Digione è villa dove ognuno vorrebbe consumare il suo destino. Mi sentii da subito a mio agio e, senza temere maramaldi, avrei voluto mescolarmi fra quei borghigiani dai semplici costumi e dallo sguardo schietto. A Digione non abitano altro che famiglie giudiziose, con madame abituate alla custodia della madia e con uomini onesti che dopo il travaglio entrano in città solo la sera, certi d’aver fatto guadagno col sudore. Che meravigliosa città, senza tanti intrighi, dove manca l’ambizione del sovrappiù ed è bandita la cerchia magnatizia che, in Francia come in Italia, spadroneggia con le prepotenze dei cavalieri armati! 22


Mi stupì molto che non vi fosse un vescovo, ma due antichissime chiese, con nobili e sapienti capitoli, che non avrebbero sfigurato a esser cattedrali. Mi fermai a Digione due giorni per una forte flussione di petto venuta dall’umidità dell’aria e nella tranquilla camera della locanda presi a scrivere a mia madre e agli amici fiorentini che da tempo mancavano di notizie. Scrissi per ordinario anche a Pietro Bini e volli sapesse quanto mi mancava l’accademia e di come viaggiando pensassi alla commedia; che certo sarei tornato per stare in loro compagnia godendo il plauso dei serenissimi principi. Mandai a Marco un piego per Livorno, annunciandogli il mio prossimo arrivo a Parigi e che lì l’avrei aspettato per il proseguo del viaggio, sperando che non ci fossero stati ripensamenti, e quanto reclamassi la sua presenza. Il Nolfi è tanto un brav’uomo, affidabile come nessuno e che si presta a ogni fatica, che Dio lo benedica, ma la sua compagnia è limitata a parlar dei mali e di come curarne l’aggressione, e dopo più d’un mese di viaggio sento la necessità di stimoli giovani e di più vivaci discussioni, magari litigando ad ascoltare idee diverse dalle mie. Chiudendo il piego, pregai Marco di mettere a profitto il tempo che gli mancava alla partenza, imparando la lingua dei francesi, che a Livorno non gli sarebbe mancata l’occasione di far pratica con i naviganti di Marsiglia. Consegnato poi tutto al celere postale, visitai la chiesa di San Benigno, che un tempo era stata abbazia degli Agostiniani. Vi risiedeva monsignor Miguan d’Auxerre, prevosto di Digione per conto del vescovo di Langres. Lo trovai indaffarato coi calcoli delle decime e mi pregò di tornare da lui dopo mezzogiorno. Senz’altro indugio approfittai della tiepida giornata per cavalcare fuori dalle mura fino ai margini della campagna, tanto bella che pareva la Toscana, con assai più vigne e senza olivi, ma identica la cura di ogni più piccolo lembo di terra, sarchiato zolla a zolla e pronto per la semina. 23


Durante il colloquio spiegai al prevosto l’intento del viaggio e di quanto alla mia età fossi ancora tormentato dal dubbio se la reale mia natura fosse il dedicarmi agli altri come un laico non ordinato o, se per fare meglio la volontà d’Iddio, dovessi formare una famiglia crescendo i figli da devoti cristiani. Il prevosto, forse a causa del mio imperfetto linguaggio, non capì a pieno il senso di quel dubbio e fu per questa probabile incomprensione che mi chiese se intendevo confessarmi. A Firenze ottenevo la remissione dei peccati il giorno del venerdì santo nella chiesa di San Pier Maggiore. Era un’abitudine che seguivo fino dalla tenera età e quando sorsero i primi turbamenti della giovinezza, grande era la vergogna a confessare i miei più intimi desideri. Il parroco conosceva la storia della mia famiglia e giudicava le devianze morbose una conseguenza della mancanza dell’esempio paterno. Forse il prete raccontava tutto anche a mia madre, ma da lei non venne mai un rimprovero e così cominciai a considerare la preferenza per le forme virili un atteggiamento tollerato dalla Chiesa, o non tale da cacciarmi tra le fiamme dell’inferno. Il prevosto di Digione, quasi a eliminare ogni possibile frainteso, mi portò in sagrestia e indossata la stola mi mostrò l’inginocchiatoio del confessionale. Fui assolto senza scontare straordinarie penitenze, o almeno con sollievo così intesi al di là della grata: «Neanche i preti si sposano e la rinunzia alla carne è un sacrificio a volte troppo grave per poveri cristi come noi; sarebbe sufficiente non essere di scandalo e non usare violenza sulle creature deboli». Fu questo il suo commento, e benedicendomi aggiunse: «Sapesse quanto obbrobrio esiste nelle cristiane famiglie che non trascurano la frequentazione della Chiesa, il santo rosario e ogni altra devozione… Ma che poi nel sacramento della confessione, tutto non hanno il coraggio di raccontarmi!». Eravamo ancora molto lontani dalla meta e i bauli rallentavano il cammino. La stagione si era messa al piovoso e fra le strade malmesse e i ponti ceduti si persero alcuni giorni di 24


viaggio. Cominciavo a sentire la gravezza dell’impresa e per ogni contrattempo sboccavo con il Nolfi. Finalmente il 20 di novembre giunsi a Parigi. Ero smagrito, sebbene ben temprato; avevo perso per la strada ogni flaccidume, i vestiti largheggiavano, ma avevo preso una certa baldanza d’animo da farmi innamorare di me stesso. Era passato un mese e mezzo dal principio del viaggio e Firenze mi sembrava già un mondo lontanissimo, minuscolo e non più indispensabile.

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Indice

v Prefazione di Diana Toccafondi

Il cerchio e la croce

3 Capitolo 1 26 Capitolo 2 95 Capitolo 3 149 Capitolo 4 164 Capitolo 5 203 Capitolo 6 283 Capitolo 7


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