La giostra degli inganni

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MAURO SALVADORI

LA GIOSTRA DEGLI INGANNI Romanzo


Dello stesso autore Il servo inutile


Mauro Salvadori

La giostra degli inganni Romanzo

Società

Editrice Fiorentina


© 2021 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice instagram account @sef_editrice isbn 978-88-6032-631-7 ebook isbn 978-88-6032-635-5 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina Francesco Salvadori, L’abbraccio, particolare, tempera su tela, 2017 (per gentile concessione)


Prefazione

Mauro Salvadori è nato nel 1949 a Quarate, piccolo paese sulle colline di Bagno a Ripoli, nei pressi di Firenze. Il suo multiforme impegno artistico spazia dalla musica alla fotografia, dalla pittura alla narrativa. Legato alla sua terra d’origine, alla quale ha dedicato negli anni Ottanta un accurato e interessante documentario realizzato nell’arco di alcuni anni, ha sempre trovato infinite ispirazioni per dipingere le sue tele cogliendo gli scorci del suo paese. Ritengo però che sembrino emergere soprattutto nella narrativa quei punti di riferimento che costituiscono l’asse portante della sua ispirazione, quale che sia il campo a cui rivolge la sua attenzione. Così i suoi romanzi colpiscono non solo per la storia e i personaggi che ne trovano posto, quanto per le parole stesse, che arrivano a formare i tanti quadri viventi di autonoma luce che vi sono inseriti. È quindi una voce, quella di Mauro Salvadori, da godere, senza cercare inutili riferimenti ad altre culture che a quella dalla quale sgorga, come bevendo alla fontanella di paese si pensa alla sorgente montana di dove giunge l’acqua incontaminata che ci disseta. Sergio Paglicci

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La giostra degli inganni



CAPITOLO PRIMO

~1~ Era un burrascoso mattino quello del 6 marzo del 1957. Gli ulivi nei campi si scuotevano sotto la furia del vento e parevano voler combattere con la tempesta sbattendo freneticamente ogni loro foglia come tante ali di calabroni impazziti, facendo fiorire tutt’intorno un magico brulichio argentato. Era il Mercoledì delle Ceneri e le attempate sorelle Margherita e Giorgina, tornando di passo svelto dalla Messa, si affrettarono a salire le ripide scale di casa per entrare nelle loro stanze situate proprio sopra la bottega del Borro di Rapale. Pur avendo ambedue l’ombrello si erano ugualmente bagnate dalla testa ai piedi. Giorgina mise il suo ombrello nell’acquaio di pietra e dopo aver invitato con tono imperativo sua sorella a fare altrettanto andò di fronte al piccolo specchio appeso di lato alla credenza. «Lo immaginavo!» disse asciugandosi gli occhiali col fazzoletto. «La pioggia ha portato via la cenere che il prete mi aveva messo sui capelli, qui, proprio sopra la fronte! Avevo fatto il proposito di prestare mille attenzioni affinché vi rimanesse per l’intera giornata!». Margherita le si avvicinò per potersi specchiare pure lei e sospirò piano. «Anche a me è successo lo stesso… Beh, che vuoi che sia. Si tratta solo di un rito simbolico». Giorgina le diede uno sguardo furibondo. 9


«Quelle ceneri sono le sacre ceneri! Da un bel po’ di tempo mi sono accorta che riguardo all’osservanza delle pratiche religiose stai diventando un po’ troppo lascia fare!». Margherita scosse la testa. «Ti prego Giorgina, non ho voglia di parlarne adesso. Pensiamo ad asciugarci, altrimenti ci prendiamo un malanno». Le due sorelle si asciugarono il viso e i capelli con degli impeccabili asciugamani di lino, ricamati con le loro stesse mani e poi pensarono che sarebbe stato bene cambiarsi d’abito. Quel brutto tempo incuteva nei loro animi un atavico timore eppure, anche se nelle loro stanze si era addentrata una densa ombra tenebrosa, nessuna delle due si lasciò vincere dalla tentazione di accendere la luce. «Di giorno non va mai accesa, è uno spreco!» diceva sempre Giorgina, e col tono di ammaestrare, a chi si azzardava a paragonare la loro casa a un cimitero. Giorgina entrò in camera sua e chiuse piano la porta dietro di sé. Nella stanza regnava un’oscurità ovattata che pareva palpabile, quasi fosse assopita là dentro da tanto tempo. Anche il picchiettio della pioggia che batteva sul tetto sembrava meno rumoroso. La donna si mosse ugualmente con piena libertà e andò ad aprire gli scuri della finestra. La fioca luce che filtrò all’interno andò a distendersi sul letto matrimoniale, che era alto come il tavolo della cucina e già perfettamente rifatto, sul quale stava seduta una grossa bambola dai lunghi riccioli biondi con le braccia protese in avanti. Giorgina era vedova da poco più di trent’anni, ma non aveva mai voluto disfarsi di quel letto. Suo marito era stato portato via neanche un anno dopo il matrimonio da una impietosa e fulminante appendicite prima che avesse potuto renderla madre e, appese alle pareti, racchiuse in due scure cornici di grandi dimensioni, c’erano le foto che lo mostravano perennemente giovane, con gli occhi più chiari di quanto in realtà avesse avuto. Giorgina percepiva vivo lo sguardo che s’irradiava da quegli occhi e tutte le volte che si trovava in camera le piaceva illudersi che suo marito fosse ancora accanto 10


a lei, fino a sentirsi rassicurata, spiritualmente ed eternamente amata. Dopo aver aperto ambedue gli sportelli dell’armadio, la donna scelse uno di quei vestiti grigi o neri che parevano tutti uguali e cominciò a cambiarsi d’abito stando attenta a voltare la schiena alla finestra, dalla quale, alta com’era, affacciata sui campi lontani, nessuno avrebbe potuto osservarla mentre si spogliava. Margherita, nella sua camera, appena più piccola di quella di sua sorella, si era subito spogliata per cambiarsi d’abito. Gli scuri della sua finestra erano già aperti e i vetri si mostravano completamente appannati. Sulle pareti della stanza era appesa una piccola foto dei suoi genitori racchiusa in un’austera cornice quasi nera, il crocifisso sopra il letto e una mattonella di porcellana con l’immagine della Madonna. Lei non si era mai sposata, sebbene durante gli anni passati fosse stata assai corteggiata da numerosi spasimanti. La stanza era stracolma di rose di carta, raccolte in piccoli canestri fatti di rami di salice, in qualche cestino o semplicemente legate insieme e appoggiate un po’ ovunque. Anche nelle altre stanze si potevano notare numerose composizioni sistemate negli angoli e anche sopra la credenza in cucina. Quei fiori finti erano usciti tutti dalle mani delicate di Margherita. Erano la sua passione. A colpo d’occhio le rose che lei creava avrebbero potuto ingannare chiunque da come apparivano autentiche, appena recise. La donna ricordava ancora con tanta soddisfazione quando dieci anni prima, durante la stagione invernale, ne aveva dovute fare ben tre cesti per la compagnia teatrale di Antella, che gliele aveva richieste per poter andare in scena con La nemica. In quegli anni le rose durante l’inverno non si trovavano, se non da qualche fioraio di prestigio e a peso d’oro, e il suo lavoro era stato infinitamente apprezzato, tanto che il regista alla fine della prima rappresentazione le aveva chiesto di alzarsi dal posto in prima fila a lei riservato per ringraziarla davanti a tutti, invitando il pubblico a onorarla con un bell’applauso. Come si era sentita importante quella sera! 11


Aveva avuto l’impressione di essere stata ammirata più degli attori stessi in quegli attimi in cui era stata in piedi, sorridente, volgendo lo sguardo un po’ ovunque nella sala gremita di persone. Da allora le sue rose finte si erano moltiplicate a dismisura e, col passare degli anni, così coperte di polvere da trasmettere inquietudine a chi metteva piede in quella casa per la prima volta. Ogni bocciolo pareva stringere all’interno dei propri petali una briciola di tempo perduto. Tanti petali, tante rose, tante composizioni, tanto tempo rimasto sospeso, come se si fosse imbrigliato in una coltre di ragnatele. Margherita però amava le sue rose, soprattutto perché racchiudevano un suo segreto, e non le vedeva invecchiate e velate di polvere. Qualche anno avanti il prete, don Mario, durante la benedizione delle case le aveva suggerito di conservarne solo un paio di piccoli canestri e di gettare nel fuoco le rimanenti. Lei si era offesa e per quasi un mese aveva tolto il saluto all’anziano sacerdote. Margherita non si sarebbe disfatta delle sue rose di carta per nessuna ragione al mondo. Tutte le volte che le guardava aveva l’impressione che ognuna di loro rappresentasse un messaggio di speranza. Le appartenevano, e lei apparteneva a loro. Dopo avere indossato un abito marrone, che cominciando a starle stretto esaltava le sue forme, si avvicinò alla finestra e dopo aver strusciato in cerchio il palmo della mano su uno dei vetri per togliere la condensa in modo da poter guardare fuori, arrivò ad appoggiare la punta del naso su quella specie di oblò appena improvvisato. Stava piovendo ancora molto forte e il rumore della pioggia copriva ogni altro suono. Margherita guardò istintivamente il cielo ma non riuscì a mettere a fuoco niente di preciso. Aveva notato solo una confusa immagine buia quasi come la notte. Non aveva avuto neppure l’impressione di aver visto una coltre di nuvole minacciose. Sospirando abbassò allora lo sguardo e il suo respiro di fermò per un attimo. C’era una grossa automobile nera parcheggiata di fronte, lungo la stra12


da, così si aggiustò gli occhiali sul naso per vedere meglio. Un uomo alto e magro, che indossava un lungo mantello scuro, stava scendendo da uno degli sportelli posteriori aiutato da un altro uomo che lo riparava con un grande ombrello di incerato verde. Le due persone tirarono poi fuori dal bagagliaio tre grosse valige che andarono a sistemare sul marciapiede, appoggiate alla parete, in modo che si bagnassero il meno possibile. In quel momento Giorgina entrò nella stanza. «Margherita, affrettati, non perdere tempo! Lo sai che dobbiamo terminare di cucire le camicie per la fattoressa di Tizzano!». Margherita agitò la mano per farle capire di stare zitta, continuando a tenere la punta del naso appoggiata sul vetro. Giorgina si avvicinò incuriosita. Dopo aver passato anche lei una mano sul vetro accanto guardò curiosa fuori della finestra. Vide i due uomini mentre stavano scendendo le scalette di pietra che portavano alle due piccole stanze situate sotto la scala esterna del caseggiato di fronte, di là dalla capanna abbandonata, dove il proprietario, Alvaro Bonechi di Capannuccia, li stava aspettando. Giorgina spalancò la bocca meravigliata come non mai. «Sembra che qualcuno prenda dimora in quelle due sudice stanzette! Ecco perché nei giorni scorsi il signor Alvaro è venuto a svuotarle di quel poco che c’era dentro, pulirle alla meno peggio e poi portarci della vecchia mobilia. Io avevo pensato che volesse riporvi cose che in casa non gli servono più. Però com’è possibile che qualcuno possa abitarvi? Sono senza finestre e neppure comunicanti tra loro!». «Ti prego, fammi vedere cosa succede!» la interruppe Margherita. «Perché, se parlo t’impedisco di vedere?». «Per piacere, fai silenzio» aggiunse Margherita abbassando la voce. Le due sorelle allora si appiccicarono col viso ai vetri che avevano asciugato alla meglio, una accanto all’altra. Così eb13


bero modo di vedere il signor Alvaro aprire di fretta le due piccole porte a vetri e, subito dopo, quell’uomo con la lunga mantella scura entrare all’interno di una stanza con una valigia mentre l’altra persona, che non aveva mai lasciato l’ombrello di incerato verde, risaliva le scalette per andare a prendere le altre due valigie. «Guarda» sussurrò Giorgina «quello sconosciuto e il signor Alvaro si sono chiusi dentro una stanza! Staranno contrattando per la pigione!». Margherita le diede una veloce occhiata. «Eppure, anche se è stata fatta un po’ di pulizia nessuno potrebbe adattarsi ad abitare là sotto… Davvero non capisco…». Giorgina storse la bocca. «Si tratterà di una sistemazione d’emergenza, in attesa di meglio». Nel giro di un minuto il signor Alvaro uscì fuori, mentre l’altro uomo stava pronto ad aspettarlo. Immediatamente, senza stare a perdere una sola briciola di tempo, i due risalirono le scalette, entrarono di schianto nell’auto e se ne andarono di gran carriera. Giorgina non poteva stare zitta come avrebbe desiderato sua sorella. «Quanta furia di andar via! Mi hanno dato l’impressione che abbiano appena combinato qualcosa di losco». Margherita l’ammonì. «Vai subito a pensar male! Non vedi come piove? Sono andati via così di corsa per bagnarsi il meno possibile». Giorgina si mordicchiò le labbra. «Sarà come dici tu… Chi lo sa…» borbottò. All’improvviso le due sorelle sgranarono gli occhi e schiacciarono la fronte sul vetro. Quell’uomo aveva aperto la porta ed era tornato fuori. Rimanendo sotto le scale esterne, che fiancheggiando il caseggiato conducevano all’appartamento situato sotto il tetto, si stava guardando intorno con aria smarrita. A un certo momento, chiudendosi nella sua larga e 14


lunga mantella, volse lo sguardo in alto, notando quelle due facce dietro la finestra. Giorgina scattò subito indietro, meravigliata che sua sorella non avesse fatto altrettanto. «Margherita! Ci ha viste! Che fai? Di certo ci avrà giudicato delle ficcanaso!». Margherita però non si mosse da lì. Quell’uomo la stava guardando negli occhi e anziché provare imbarazzo poteva avvertire farsi largo nel suo animo un piacevole fremito. Intorno a sé si stava muovendo una brezza leggera che pareva giungere da un tempo lontano ma non perduto. Per un attimo lo scroscio della pioggia se n’era andato e nella sua mente si rincorrevano parole che non aveva mai dimenticato. Si sentiva circondata da un’atmosfera sublime, fresca di gioventù e l’emozione di quel momento fece sì che tutto scomparisse intorno a lei. Davanti ai suoi occhi non esisteva altro che quell’uomo, che non aveva più l’aspetto di uno sconosciuto. Giorgina si preoccupò. «Margherita… ti vedo strana, assente… Che hai? Vuoi dirmi perché non stacchi gli occhi da quel forestiero?». Margherita allora piano piano fece un passo indietro e girando la testa evitò di guardare in viso sua sorella. «Ecco, è rientrato dentro… Lo stavo guardando incuriosita, non c’è niente di strano… Lo hai chiamato forestiero, ecco, io trovo che abbia un aspetto molto signorile, nobile». Giorgina la guardò severamente. «Un nobile? Ho inteso bene? Non puoi aver usato questo termine a caso! Per esempio un barone? Non starai pensando che possa trattarsi proprio del barone Valerio che più di trent’anni fa quando ti vedeva ti copriva di apprezzamenti? Non mi è piaciuto affatto il tuo sguardo trasognato mentre lo stavi fissando! Ti ho vista bene! Quel bellimbusto donnaiolo di San Donato, amico del Conte di Tizzano dove tu andavi a fare le faccende per il quale ti eri illusa e sempre per il quale hai rifiutato la mano di tanti uomini che invece 15


si erano innamorati sul serio di te?» le disse senza quasi riprendere fiato. Margherita si scosse. «Ma che vai a pensare? Hai detto tutto da sola, non te ne rendi conto? Io… io ho solo detto che ha l’aspetto di un nobile, non capisco questa tua arrabbiatura». Giorgina la guardò con sospetto e poi si mosse da lì. «Va bene, voglio crederti, ma ora andiamo a terminare di cucire quelle camicie. Vieni subito, io intanto sistemo le seggiole davanti alla finestra di cucina. E poi cambiati codesto vestito! Non lo vedi come ti strizza ai fianchi?» le disse con tono imperativo. «E come mai ti sei tolta gli occhiali? Che ti prende? Li stai quasi nascondendo tra le mani! Rimettili sul naso che è meglio!». «Li ho tolti, è vero… che vuoi che sia… Tanto ora devo mettere quelli per cucire» le rispose pacata Margherita che comunque, non riuscendo mai a disobbedire a sua sorella, inforcò nuovamente gli occhiali e la seguì remissiva, senza fretta, mentre col pensiero le pareva di avere ancora davanti a sé gli occhi di quell’uomo appena arrivato in paese. Le due sorelle in paese erano anche chiamate Le Camiciaie dato che erano specializzate a cucir camicie. Lavoravano per alcune piccole sartorie di Grassina e Firenze e ogni tanto accettavano anche ordinazioni da privati. In quell’ultimo periodo avevano avuto una richiesta proprio dalla moglie del fattore di Tizzano. Si era trattato di un impegno abbastanza facile ma ambedue si erano impegnate più del solito per fare bella figura. Ora quel lavoro era terminato e Giorgina mise le camicie appena stirate in una scatola bassa che aveva scelto con cura fra le tante che aveva in casa, le coprì con la carta velina bianca e poi sistemò il coperchio. Notando che non stava più piovendo andò in cucina e afferrò la mezzina riposta nell’angolo dell’acquaio e uno dei bottiglioni di vetro verdastro di cui era tanto gelosa. 16


Uscendo dalla cucina si voltò verso la camera di sua sorella e notando la porta chiusa strinse forte i denti, immaginandola ancora davanti alla finestra a sbirciare fuori. «Vado a prendere l’acqua al fontanello!» urlò uscendo. Scendendo le ripide scale di pietra la donna formulò più di un turbinoso pensiero riguardo a quello sconosciuto arrivato durante la mattina mentre dal cielo scendeva una pioggia torrenziale. Si sentiva arrabbiata nei confronti di sua sorella. Detestava il turbamento dal quale evidentemente ella era stata invasa. Se ne era accorta, non era stupida. Non era riuscita a scambiare con lei neppure una mezza parola mentre sedute insieme l’una di fronte all’altra stavano ultimando di cucire le camicie. Uscendo per strada si accorse che il cielo mostrava un bel ventaglio d’azzurro e riuscì a modellare la bocca in un lieve sorriso. “Non devo innervosirmi in questo modo… sto esagerando. Voglio promettere a me stessa di non lasciarmi sopraffare dall’ira in questo tempo di Quaresima. È bello e giusto vivere in pace con chi ci sta accanto”. Dando un sospiro di sollievo attraversò la strada e accelerò il passo per raggiungere il fontanello, posto di lato alla viottola che saliva ripida verso il Poggio Grande, intorno al quale stavano radunate due vecchie signore del Borro di Rapale, Assuntina e Leonia, intente a bisbigliare animatamente. Le due donne troncarono la loro conversazione nel veder sopraggiungere Giorgina che accolsero sorridendo. Ad Assuntina brillavano gli occhi. «Prendi pure l’acqua Giorgina. Noi abbiamo già empito i nostri fiaschi». Leonia si fece in avanti con bramosia. «Hai visto anche tu arrivare quell’uomo stamattina, mentre stava piovendo?». Giorgina si voltò verso casa e nel rispondere, sospettando che sua sorella Margherita si trovasse davvero ancora dietro i vetri della finestra, le piacque usare un tono scherzoso. 17


«Chi? Il barone?». Le due vecchie si guardarono in viso meravigliate. «È un barone? Dunque si tratta di una persona che conosci?». Giorgina si era già pentita di aver risposto in quel modo. «Conoscerlo? Ma no, che diamine! Mi è venuto di chiamarlo così nel vederlo arrivare con quella grossa automobile nera. Quelle automobili di lusso di solito appartengono solo a persone di un certo rango, lo sapete. E così gli ho appioppato questo nomignolo, il barone». Assuntina aggrottò la fronte e mentre le sue rughe si affossavano le une sulle altre riprese a parlare sottovoce. «Io l’ho visto bene dalla balza che sovrasta il Borro! A me ha dato l’impressione di assomigliare a un disertore di guerra che a forza di scappare non sa più dove andare a nascondersi!». Leonia la guardò sgranando gli occhi. «Ma non essere ridicola! La guerra per fortuna è finita tredici anni fa! Sì… potrebbe davvero essere un barone, ora diventato povero. Tanti nobili si lasciano vincere dalle tentazioni della vita, sperperano tutti i loro beni e vanno a finire in miseria. Probabilmente avrà terminato i pochi soldi che gli erano rimasti in tasca per prendere a nolo quella macchina». Assuntina distese l’espressione del viso. «Hai ragione, immaginiamo che sia un barone. È un termine che gli si addice. Nonostante avesse indosso quella mantella scura non ho potuto fare a meno di notare che possiede indubbiamente un aspetto assai signorile». Leonia fece un passo indietro e strizzando gli occhi cercò inutilmente di vedere il caseggiato di lato alla bottega. «Un barone… Dunque qui al Borro di Rapale è arrivato il barone… Prima o poi lo conosceremo e sapremo chi è e cosa è venuto a fare qui. Vorrà fare amicizia con tutti noi, almeno spero…». E così da quel momento cominciò a diffondersi velocemente in paese, di casa in casa, la notizia che un uomo chia18


mato «il barone» era arrivato durante la mattinata per andare ad alloggiare nelle due piccole stanze situate sotto la scalinata del caseggiato accanto alla bottega…

~2~ Trascorsero alcuni giorni e in tutte le case di Quarate, sul selciato della chiesa e per le strade si parlava tanto del barone. Ormai questo era il nome di quello sconosciuto che sembrava intenzionato a non farsi vedere da nessuno. «Non sarà un carcerato evaso dalle Murate?». «Figuriamoci! E il Bonechi della Capannuccia si sarebbe addossato la responsabilità di nasconderlo?». «Forse non lo sa che si tratta di un bandito e gli avrà affittato quelle stanzucce in buona fede». «Anche se non si tratta di un poco di buono c’è qualcosa di losco in questa faccenda. Si vede chiaramente che vuole nascondersi, come fanno i briganti!» diceva la gente. Ma c’era anche chi si fermava a riflettere. «Ieri, camminando per la strada l’ho visto là in piedi, fermo come se stesse scaldandosi al sole. Il suo viso era triste, aveva l’aria stanca, e i suoi occhi mi sono sembrati tanto buoni. Non è altro che un uomo solo». Il barone infatti usciva più volte durante la giornata, limitandosi a rimanere nel piccolo cortile lastricato con pietre di fiume, lisce e tondeggianti, realizzato tanti anni prima dal muratore Nello, che abitava proprio sopra quelle due stanzette. Mostrandosi sempre chiuso nei suoi pensieri andava a sedersi per un po’ sul muretto di mattoni che si affacciava sul Borro e poi ritornava all’interno della sua misera abitazione dopo essersi soffermato a guardare verso il cielo, che da là sotto gli appariva ancora più lontano, senza mai dimenticarsi di dare anche uno sguardo verso la finestra della casa di fronte, lassù in alto, proprio sotto il tetto, dove poteva notare assai spesso 19


dietro i vetri il viso di una donna che tutte le volte aveva gli occhi rivolti verso di lui. Poi, quando alla sera diventava buio, allo scopo di non incontrare nessuno, andava al fontanello a prendere l’acqua, di solito un secchio e due bottiglie. Era il 16 marzo, un bel sabato che si annunciava pieno di sole. Margherita non poteva fare a meno di guardare tutti i giorni attraverso i vetri della sua finestra in direzione delle due stanzette sotto la scalinata là di fronte. Prima di allora non si era mai soffermata a osservare quel piccolo angolo del Borro di Rapale; addirittura le era quasi sconosciuto il racchiuso cortile che ora vedeva così ben lastricato con pietre di fiume levigate dal passaggio dell’acqua e dallo scorrere del tempo. Anche in quel mattino si era messa davanti alla finestra, quasi in raccoglimento, per lasciarsi inebriare dal profumo dei suoi anni verdi, che immancabilmente si posava soffuso su di lei. Ora le sembrava che quella nascosta briciola di mondo stesse prendendo vita, per aprirsi almeno ai suoi occhi, che cercavano ansiosamente di carpire i lineamenti del volto di quell’uomo così misterioso e tanto restio a farsi vedere. L’uomo con l’automobile nera era tornato più volte nei giorni avanti per portargli alcune cose, come sedie, un piccolo tavolo, una lampada e tante scatole contenenti chissà cosa. Probabilmente anche generi alimentari, dato che egli non era mai uscito neppure a comprare mezzo chilo di pane alla bottega. “Potrebbe davvero trattarsi del barone Valerio… Il mio cuore batte forte quando lo vedo, non faccio che fantasticare su di lui, si risveglia in me tutto il fresco desiderio d’amore perfetto che provavo quando ero giovane… Sì, non può essere che lui!” pensava. E guardandosi intorno si sentiva osservata dalle sue rose finte e socchiudendo gli occhi le piaceva rivedersi giovane e 20


bella, protagonista della fiaba che come per incanto era fiorita in silenzio nel suo animo. Una bella favola che da sola si era fatta largo tra i tanti dolori della sua vita, che era riuscita a creare una breccia attraverso la fitta foresta delle sue delusioni. Il barone un giorno l’avrebbe portata via con sé, per trovare con lui quella felicità che non aveva mai provato. Aveva visto il barone Valerio tante volte in gioventù, quando si recava a fare le faccende alla villa della fattoria di Tizzano; c’erano state alcune occasioni in cui si era trovata a parlare appena con lui e le sue parole erano sempre state dolci, il suo sguardo colmo di calore, le sue strette di mano tenere come carezze. E poi una volta, alla sontuosa festa da ballo offerta dal Conte in occasione del compleanno delle due figlie gemelle, alla quale lei era stata invitata, egli aveva fatto alcuni giri di valzer con lei, fino a chiederle di poterla rivedere il giorno seguente. E dal giorno seguente si erano incontrati più volte nel parco, sotto il cedro secolare, e nascosti tra i rami bassi che incurvandosi arrivavano ad accarezzare lui l’aveva stretta a sé, per abbracciarla e baciarla con passione. Le era piaciuto ricambiare quei baci e quegli abbracci, non aveva rifiutato le sue carezze e infine si era lasciata prendere come una sposa. Margherita conservava gelosamente nel suo cuore le seducenti parole che egli le aveva sussurrato, tanto da chiuderle segretamente nella sua anima. Ma un giorno lui si fece trovare triste, con gli occhi abbassati per evitare il suo sguardo. «Dobbiamo interrompere di incontrarci» le aveva detto. «Sono legato a certi doveri, non posso ignorare le regole imposte dalla mia famiglia. Odio l’etichetta che sono obbligato a rispettare, eppure non riesco a ribellarmi! Io… devo andare via per qualche tempo, cercherò di tornare dopo aver conquistato la libertà che non possiedo…». Margherita lo aveva lasciato andare in silenzio, senza chiedergli altre spiegazioni, senza rivederlo mai più. Egli era innamorato di lei, ne era certa, ma probabilmente era impensabile che un uomo del suo rango potesse legarsi a una povera ragazza di campagna. Qualcuno in famiglia si era accorto del 21


loro amore e lo aveva ammonito, non poteva essere altrimenti. Non aveva provato rancore nei suoi confronti perché era sicura che egli un giorno sarebbe tornato da lei. “È innamorato di me…” aveva pensato all’infinito. Quante volte col pensiero andava a ricordare le sue labbra che avevano sfiorato più volte le sue guance simili a morbido velluto… ed era stato bello cominciare a sognare… e poi cominciare ad aspettare… aspettare che egli un giorno si fosse presentato nuovamente a cercarla per stringerla per sempre a sé… Era stato bello e irresistibile tenere in vita quel sogno. Se quel sogno fosse svanito non avrebbe potuto vivere. “Un giorno lo vedrò arrivare, salirà le scale e busserà alla porta… Forse mi porterà una rosa…” aveva pensato tante volte. Venne così un mattino in cui nacque dalle sue mani la sua prima rosa di carta velina rossa e portandola poi al petto si era immaginata che fosse stato lui a donargliela. E da quel giorno era iniziata la fioritura senza fine delle sue rose finte. A nessuno aveva mai rivelato per quale motivo avesse iniziato a coltivare quella passione. Neppure sua sorella Giorgina lo aveva mai immaginato. Se lo avesse saputo le avrebbe dato di matta, lo sapeva bene. Autoritaria com’era probabilmente l’avrebbe anche schiaffeggiata. A questo pensiero Margherita indietreggiò di un paio di passi e vedendo la propria immagine riflessa nelle specchio del cassettone si rattristò. La gioventù se n’era andata via e non riusciva a capire come mai fino a quel momento non se ne fosse mai dispiaciuta. Guardando poi la piccola cornice appoggiata sul marmo con la sua foto ritratto, che la mostrava poco più che ventenne, quando non le pareva di essere così tanto incantevole, abbassò gli occhi e si allontanò da lì. “È lui, il barone, che desidera rivedermi giovane e bella come mi ha conosciuta tanti anni fa… Ed io ormai non sono più come mi ricorda”. Uscendo di camera incontrò sua sorella Giorgina con delle lenzuola in mano e con la furia di un fulmine le parlò all’istante. 22


«Voglio tagliarmi i capelli» disse a voce alta. «Sono stanca di averli lunghi fin sotto la schiena e perennemente raccolti sulla testa. Non c’è infatti altro modo di portarli… La sera perdo un sacco di tempo per scioglierli e pettinarli, poi ancora pettinarli al mattino e subito dopo dover impiegare almeno dieci minuti per appuntarli di nuovo sulla testa. Così lunghi non posso neppure mai lavarli e non sopporto più di strusciarli a non finire con le garze imbevute di lozione quando sono sporchi». Giorgina si era immobilizzata e pareva una statua. Colta di sorpresa per quell’inconsueto tono di voce era rimasta con gli occhi sgranati fissi sul viso di Margherita. «Beh, lo stesso è per me… In effetti non sarebbe male… Anch’io ci ho pensato più volte ultimamente… Si può fare, non ci vedo niente di strano. Tutte le domeniche viene quella parrucchiera di Firenze nella stanza del Palazzo accanto alla scuola e possiamo andare da lei risparmiandoci così di prendere la Sita per andare a Grassina. Dice che si sia fatta un gran giro di clienti! Io, se proprio lo decidiamo, penso che potremmo tagliarli abbastanza corti per farci fare la permanente, come ora si stanno facendo fare quasi tutte le signore della nostra età. Così la mattina sarà sufficiente una passata veloce con la spazzola e via!». Margherita pensò a tante donne di Quarate che da un po’ di tempo avevano adottato quella informe pettinatura a cappuccetto tempestato di riccioli fitti fitti e duri come le spugnette di lana d’acciaio che si usava per raschiare il fondo dei tegami. «Io… no, non li voglio corti come dici tu. È vero che si tratta di una moda per le donne come noi» disse ripensando alla sua fotografia sul cassettone «ma io preferisco tagliarli in modo che rimangano di una lunghezza da arrivarmi alle spalle, così avrò la libertà di acconciarli come più mi piace, dato che ho la fortuna di avere pochissimi capelli bianchi. A colpo d’occhio sembrano ancora tutti castani. E di certo non voglio trattarli con quella permanente che fa diventare i capelli simili al vetro o addirittura al cemento». 23


Giorgina si scosse nelle spalle. «Fai come vuoi. Anch’io li ho ancora scuri, ma che vuoi m’importi delle acconciature. Se davvero prendo la decisione di tagliarli voglio una soluzione pratica e comoda. Non devo mica apparire…». Giorgina s’interruppe e stringendo forte i denti guardò verso la camera di sua sorella. Margherita seguì il suo sguardo. «Non hai finito di parlare…». Giorgina tornò a fissarla negli occhi. «Stavo per dire che non devo certo apparire bella agli occhi di qualcuno… Al contrario di te! Tu non vuoi tagliarti i capelli per una questione di praticità, ma per apparire bella agli occhi del barone, quel miserabile che vive come un carcerato nelle ombrose stanzette laggiù di sotto! Lo vedo quanto tempo passi lì alla finestra per osservarlo con gli occhi incantati come quelli di una ragazzina! Come ho fatto a non pensarci subito?». Margherita si aggrappò a tutte le sue forze per rimanere calma il più possibile. Aveva sempre usato tanto riguardo nei confronti di sua sorella quando doveva dirle qualcosa, ma quella volta riuscì ad alzare la voce. «Pensa quello che vuoi! Da troppo tempo siamo ormai cadute nella rassegnazione e qualunque motivo sia intervenuto io ho deciso lasciare alle spalle questo funesto stato!». Giorgina le andò di fronte col suo solito fare autoritario. «Che ti prende? Stai imparando ad arrabbiarti con me? Hai un bel coraggio! Forse perché ho colto nel giusto? Infatti figurati se non vuoi farti bella agli occhi del barone! Non sono mica nata ieri! Non credevo che ti piacesse vivere di fantasie assurde! Guarda bene in faccia la realtà che è meglio! Non lo vedi che sei una vecchia gallina, esattamente come me?». Margherita s’indispettì come poche volte le era accaduto prima di allora in vita sua. «Siamo volute diventare due vecchie galline, e a me questo non va più! Io ho cinquantasei anni e tu due più di me! Non 24


siamo vecchie, lo sembriamo soltanto per come viviamo nella trascuratezza. Essendo la mia sorella maggiore ti sono sempre stata devota, come mi era stato insegnato, ma ora ti sarei grata se mi lasciassi fare. Se ho scoperto che posso ancora trovare piacere nell’aprire il mio animo alla gioia delle illusioni a te che importa? Da almeno trent’anni tu hai deciso di mettere il cuore in pace e io ti sono venuta dietro… Ma chi ce lo ha fatto fare? Siamo state cattive con noi stesse! Quando mi hai chiesto di venire a vivere insieme a te, dopo la morte di tuo marito, è stato davvero un grosso sbaglio da parte mia l’avere accettato. Io ho sempre subito la tua autorità e anche in quell’occasione mi sono piegata. Obbedirti l’ho sempre inteso come una regola di vita che avrei dovuto eternamente osservare. In pratica vivendo insieme così passivamente abbiamo costruito una solida prigione intorno a noi, giorno dopo giorno, passando il tempo ad aspettare le morte!». Giorgina strinse nervosamente le lenzuola a sé. «Si comincia ad aspettare la morte fin dal momento della nascita, non ci hai mai pensato?». Margherita allora urlò più forte di una belva inferocita. «Non vorrai farmi credere di non aver capito quello che intendevo dire!». «Vorrei piuttosto capire che cosa ti sta accadendo! Non abbiamo mai litigato in trent’anni e ora per colpa tua ce ne stiamo dicendo di tutti i colori!». Io abitavo accanto a Giorgina e Margherita. Uscendo dall’appartamento ci dividevamo lo stesso pianerottolo, situato in cima alle ripide scale e le nostre porte erano perfettamente di fronte l’una all’altra. In quel mattino da casa mia si sentiva una gran baldoria. Le due sorelle infatti proseguirono a lungo la loro animata discussione. Avevo un po’ meno di otto anni e stando a sedere alla tavola guardavo incuriosito mia madre e la zia Bruna, sorella non sposata del mio babbo, allarmate ma soprattutto anche tanto incuriosite, appiccicate 25


alla porta e con gli orecchi attenti a non perdere una battuta. Era davvero insolito che Margherita e Giorgina stessero litigando. Non era mai accaduto e avevano sempre vissuto nel silenzio perfetto. Non accendevano neppure mai la radio e andavano a letto presto anche d’estate. E in quel momento stavano saltando fuori cose che fino ad allora evidentemente erano sempre rimaste celate nel loro cuore. La mamma e la zia ridacchiavano con la mano davanti alla bocca e bisbigliavano tra loro. «Ma senti un po’…». «Si stanno stuzzicando a più non posso!». «Chi l’avrebbe mai detto che Margherita riuscisse ad alzare la voce contro sua sorella! Giorgina l’ha sempre comandata a bacchetta!». «Immagino che da ora in poi ne vedremo delle belle!». «Forse anche il barone sta udendo quello che dicono. Senti come vociano!». Io invece non sorridevo affatto. Non mi piaceva il fatto che Giorgina e Margherita stessero litigando. Avevo paura che probabilmente avessero smesso di volersi bene e non riuscivo a fare altro che mordicchiarmi le dita delle mani. Ero sempre stato affezionato a loro. Mi avevano coccolato fin da piccolo e tante volte mi avevano chiamato in casa, a volte perché avevano da offrirmi una fetta di torta nei giorni di festa, ciliege, pesche e albicocche d’estate, qualche manciata di noci d’autunno, il migliaccio con i pinoli d’inverno, i cenci spolverati con lo zucchero vanigliato a primavera. E tutte le volte rimanevo affascinato dalle rose di carta che vedevo sistemate dappertutto, proprio in ogni angolino. La loro casa era per me come un altro mondo, dove riconoscevo un odore che non esisteva da nessun’altra parte. Se qualcuno mi avesse portato nelle loro stanze con una benda sugli occhi avrei capito subito dove mi trovavo. Avevo sempre immaginato che quella fragranza provenisse da quei fastelli di rose, anche se erano finte. Non mi piaceva stare seduto lì alla tavola senza fare nulla, ma era così che passavo gran parte del mio tempo in quel 26


periodo. Ero stato gracile fin dalla nascita e mi aveva sempre accompagnato una pesante stanchezza. Udendo il dottore parlare con la mia mamma tutte le volte che veniva lì in casa quando mi ammalavo, lo avevo sentito dire a ripetizione che la mia salute era cagionevole. Ad appesantire la mia già precaria costituzione fisica nei mesi avanti avevo avuto il morbillo e subito dopo l’asiatica, quella grave epidemia che aveva fatto morire anche delle persone di Quarate. Io ne ero uscito fuori ma parevo uno scheletro e avevo perso forza nelle gambe. Era già stato deciso che non sarei tornato neppure a scuola e passavo il tempo in casa leggendo quello che mi capitava, soprattutto le storie per ragazzi che erano appartenute a mio fratello Silvano, più grande nove anni di me. Storie che avevo letto ognuna più di una volta e con le quali ero riuscito a evadere da quella grande cucina che era diventata il mio ristretto mondo. Pareva che la guarigione non volesse arrivare mai ed ero stanco di vivere come un piccolo prigioniero. Nessun bambino era mai venuto a trovarmi perché pare che con l’asiatica non ci fosse proprio da scherzare; eppure era già passato un bel po’ di tempo… A parte quella settimanale del prete, le uniche visite che avevo avuto in quel lungo periodo di isolamento erano state proprio quelle di Giorgina e Margherita, che in quel momento mi facevano stare tanto male nel sentirle litigare tra loro. Volendo svagarmi un po’ scesi piano dalla seggiola e continuando a rimanere con le mani appoggiate alla tavola iniziai a muovere dei passi verso la finestra. Se solo avessi potuto affacciarmi avrei potuto ammirare il cielo, che in quel mattino pareva essere più azzurro e splendente del solito. Ed ero anche curioso di sapere se le rondini fossero già tornate… Al momento di dover staccare le mani dalla tavola però m’immobilizzai… La finestra era lì vicino, in tre o quattro passi l’avrei raggiunta, ma non sapevo più che fare… la vedevo lontana e tanto più grande di me… Sentivo le gambe tremare e se avessi smesso di stare appoggiato sulla tavola con tutta facilità sarei caduto sul pavimento come uno straccio bagnato… eppure si 27


trattava solo di provare… Alla fine mi feci coraggio. Tirai via le mani ma non ebbi neppure il tempo di vacillare perché la mia mamma arrivando da dietro mi afferrò sotto le braccia, «Andrea!» gridò. «Vuoi farmi morire di crepacuore? Se ti piace stare per un po’ alla finestra ti ci porto io, non lo vedi che sono qui? Non hai che da chiedermelo… Lo sai che ancora non riesci a camminare. Non vorrai farti del male». «Volevo provare da solo» le dissi con rammarico. «Forse non ce l’avrei fatta, ma se non provo mai come faccio a capire se ci riesco oppure no?». La zia Bruna si avvicinò tenendo le mani strette l’una nell’altra. «Questo è vero Rita, e poi se non le usa mai quelle gambe non potrà certo recuperare. Sei troppo apprensiva! I muscoli non gli si possono che indebolire se non lo facciamo mai camminare». Mia madre sospirò e tirandomi su mi mise nuovamente a sedere sulla seggiola. «Lo so, lo so! Abbiamo anche provato, non dire di no, ma non ce la fa! Non lo vedi che è diventato tutt’ossa! Dio solo sa se ne usciremo fuori! E poi dimmi come faccio a non essere apprensiva con tutto quello che abbiamo passato!». Quando la mamma diceva quelle cose mi si fermava il respiro in gola e cominciavo a far finta di non vedere niente intorno a me, per immaginare meglio di trovarmi fuori a camminare lungo il Borro, di chinarmi ogni tanto a mettere una mano nell’acqua e d’incantarmi ad ammirare i teneri manti di muschio verde fluttuare tra le pietre scivolose, mossi con grazia dalla corrente. Immaginavo anche di stare seduto fuori, sulla seggiolina accanto allo scalino di pietra grigia posto davanti alla porta di casa mia, per guardare l’altro mio fratello, Giuseppe, che aveva appena compiuto quattro anni, correre all’impazzata su e giù per la strada, col viso sempre sorridente e tanta carica di vivacità che gli usciva da ogni parte del corpo. Aveva costantemente mani, fronte e ginocchi sbucciati ed era sempre 28


sporco di terra. La mamma lo chiamava Argentovivo, mentre il prete gli aveva appioppato il soprannome di Gianburrasca. Quella mattina non era in casa. Era venuta a trovarci la zia Zelinda, in realtà zia del mio babbo, mezza cieca ma ostinata a non voler portare gli occhiali perché a parer suo le mettevano mal di testa, ed era uscito con lei a raccogliere dei fiori nei campi sotto il Poggio Grande. Più diversi non potevamo essere. Io ero contento di avere un fratellino tanto vispo ed esuberante. Il suo brio infatti mi contagiava e ogni volta che il babbo e la mamma mi raccontavano qualche marachella che aveva combinato mi divertivo a fantasticare volendo credere di essere stato invece io l’autore delle sue bravate. E così, stando seduto con rassegnazione alla tavola, prigioniero dei miei pensieri, non mi ero reso conto che intorno a me era tornato tanto silenzio. Giorgina e Margherita avevano smesso di litigare e la mamma era tornata davanti ai fornelli, mentre la zia Bruna era uscita per andare a prendere due secchi d’acqua al fontanello. Non mi ero accorto di niente, stavo lì a immaginare quello che più mi piaceva, lontano da quella realtà. Margherita si era barricata in camera sua. Non ricordava di aver mai sbattuto tanto forte la porta chiudendosi dentro e neppure di aver tirato prima di allora il piccolo paletto situato sotto la lucida maniglia. Sentiva la necessità di dover assolutamente stare da sola, senza provare la velenosa preoccupazione che sua sorella potesse all’improvviso entrare nella stanza per controllare cosa lei stesse facendo. Ora stava lì appoggiata al davanzale interno e si sentiva libera di poterlo fare. La sfera di verdi e luminosi sentimenti, delicata come una intoccabile bolla di sapone, nata nel suo animo da quando il barone era arrivato in quel piovoso mattino del Mercoledì delle Ceneri, aveva preso potenza e calore. Certamente traspariva dal suo viso, forse creava intorno a lei quell’alone che solo l’amore riesce a mettere in mostra. E a lei piaceva sentirsi innamorata… 29


“È questo che sono… Sono innamorata, e mi piace esserlo… Ma sono gelosa di questo stato d’animo. Voglio custodirlo dentro di me, per il momento…”. A un tratto i suoi occhi si sgranarono nel vedere il barone uscire con aria mesta da una delle due stanzette. Irrigidendo tutto il corpo appoggiò la fronte sul vetro per osservarlo meglio, con la speranza nel cuore che egli si voltasse anche per un breve attimo verso di lei. Questo però non accadde e una scura ombra di dispiacere si addensò nel suo animo. Margherita si sentì però libera di seguirlo con lo sguardo e quando lo vide sedersi sul muretto che si affacciava sul Borro sapeva già che lo avrebbe fatto. Ormai si trattava di una consuetudine e si sarebbe meravigliata se lo avesse visto fare due o tre passi in più per andare ad appoggiarsi alla capanna di scope di Nello, il muratore. Quella mattina però lo vedeva più abbattuto del solito, forse in totale stato di abbandono e le sarebbe piaciuto scendere di corsa le scale, mettersi seduta accanto a lui per offrirgli tutto il suo aiuto, perché senza alcun dubbio egli aveva bisogno di aiuto… Era un uomo che stava soffrendo, forse per mancanza d’amore e lei avrebbe potuto donarglielo… “Io potrei donargli tutto l’amore di cui ha bisogno, l’amore che ho tenuto in serbo solo per lui…” pensava. In realtà, uscendo, il barone si era accorto che Margherita era dietro i vetri di quella finestra tanto alta ma aveva preferito non rispecchiarsi nei suoi occhi. Il vuoto che avvertiva nel suo animo stava prendendo il sopravvento, lo avvertiva con chiarezza e aveva paura. Nei giorni passati si era sempre rassicurato nel vedere il volto di quella donna sconosciuta, quasi si fosse sentito ogni volta accarezzare con amore… Carezze immaginarie, pensava, sicuramente inutili, che avrebbe fatto bene a ignorare… Nell’impulso di evitare quello sguardo che proveniva dall’alto voltò la testa dalla parte opposta, in basso, verso il Borro, provando l’assurdo desiderio che le saltellanti acque del piccolo ruscello potessero con i loro flutti trascinar via i suoi cupi pensieri. 30


“Sarebbe così bello… ma i miei pensieri sono avvinghiati come tanta edera intorno a me… mi soffocano, mi nascondono del tutto, non permettono che si possa vedere quanto io sia diventato simile ad un tronco d’albero già secco e senza radici”. In quel momento il suo sguardo si fece più attento e alzandosi di scatto in piedi si appoggiò con le mani sul muretto per affacciarsi meglio sul Borro. Sul fondo del ruscello c’era un mattone al quale mancava un intero angolo. Lo scorrere dell’acqua rendeva quell’immagine tremolante, vagamente irreale. Il barone ne fu attratto e dopo aver tenuto a lungo lo sguardo fisso, senza ribattere le ciglia, si mosse da lì con frenesia, guardandosi intorno con fare incerto. Doveva scendere di sotto al muro per raggiungere la sponda del Borro per afferrare quel mattone, non poteva perdere tempo… Poco più in là, sulla sua destra, vide che nel muretto si apriva una breccia, dalla quale scendeva dritto verso il Borro un brevissimo e angusto sentiero. In pochi passi il barone raggiunse quell’apertura e con attenzione iniziò a discendere il sentiero. Accorgendosi di scivolare allargò entrambe le braccia per mantenersi in equilibrio, assumendo così delle sembianze che potevano ricordare quelle dei funamboli che si esibivano al circo. Margherita non sapeva cosa pensare… Schiacciata col viso al vetro della finestra, senza preoccuparsi che con tutta probabilità avrebbe potuto romperlo, non riusciva a staccare gli occhi dal barone mentre con difficoltà riusciva ad afferrare quel mattone dal letto del Borro, poi tirarlo fuori dall’acqua, risalire svelto il viottolino e tornare a sedersi sul muretto. Ed ecco che ora stava lì, con quel mattone sorretto con ambo le mani sotto i suoi occhi che parevano incantati nell’osservarlo con attenzione esagerata. “Sta contemplando quel vecchio mattone rotto” pensava sbigottita “e da come lo sta fissando sembra che tutti i suoi pensieri si siano legati insieme in un’unica infinita idea…”. Poi, dopo qualche attimo, durante il quale il tempo pareva aver smesso di scorrere, il barone si alzò piano dal muretto e 31


stringendo quel mattone al petto tornò senza fretta all’interno di una delle sue stanzette. Margherita allora si tirò indietro e accostandosi alla parete lasciò che il suo sguardo andasse a posarsi sul canestro di rose di carta che le rimaneva accanto, appoggiato sullo sgabello vicino al letto. Era rimasta turbata e non riusciva a comprendere perché. Il barone fin da quel pomeriggio smise di passare il tempo costantemente seduto sul muretto, quando usciva sul cortile. Scendeva ogni volta verso il Borro e camminava a lungo su e giù saltando anche da una sponda all’altra nei punti più stretti. Margherita allora poteva solo immaginare cosa stesse facendo. Dalla sua finestra poteva osservare appena un breve tratto del Borro. Alla sua sinistra c’era il muro della casa e in corrispondenza della capanna di Nello tutto era nascosto dalle acacie che cresciute in piena libertà, mai potate da nessuno e perciò praticamente intrecciate tra loro con i loro rami pieni di lunghe spine, formavano da lì in poi, fin poco oltre la fine del paese, una galleria impenetrabile e scura come la notte. Il barone passeggiava sempre con fatica lungo le ristrette sponde del piccolo ruscello, guardando e riguardando tra le acque che scorrevano accompagnate dai soliti festosi gorgoglii, che assomigliavano tanto al canto dei passeri, ed era questo che Margherita immaginava, volando in silenzio col pensiero accanto a lui…

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Indice

5 Prefazione di Sergio Paglicci

La giostra degli inganni

9

Capitolo primo

33

Capitolo secondo

84

Capitolo terzo

112

Capitolo quarto

158

Capitolo quinto

191

Capitolo sesto

216

Capitolo settimo

240 Epilogo 243 Postfazione di Enrico Zoi


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