La fragilità dei pesi

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Alessandro Franci    La fragilità dei pesi

Alessandro Franci è nato a Firenze nel 1954 dove si è laureato in architettura. Nelle Edizioni “Gazebo libri” Firenze, ha pubblicato: Senza luogo (1985); Delitti marginali (1994) e La pena uguale (2009). Presso la rivista online «Larecherche.it» gli e-book Il fermaglio (2011); La Luna è nuova. Poesie 1980-86 (2012); Sbagliando strada (2017). Nel 2013 il romanzo Il mese della Luna (Bologna, Gingko edizioni). Nel 2014 alcuni brani tratti da La pena uguale sono stati inclusi in Traducir leteratura ocho escritores italianos edito da Universidad de Malaga a cura di Alessandro Ghignoli. È presente in alcune antologie e pubblicazioni collettive ed è redattore del semestrale di letteratura e conoscenza «L’area di Broca» (già «Salvo imprevisti»).

euro 10,00

Alessandro Franci

La fragilità dei pesi

Società

Editrice Fiorentina

Una capriata che sostiene il tetto ne infragilisce il peso, lo neutralizza; una metafora presente nella prima poesia, il cui titolo è lo stesso del libro. Più avanti è il peso che assume forme e visioni diverse: il «perdere di peso del mancato», di tutto ciò, quindi, che nel tempo non è stato, e proprio per questo, pur nel vuoto e nell’assenza, rende fragile un peso possibile che, così, è stato evitato. Oppure «il peso è disciolto nel pensare» proprio come in una ridistribuzione delle forze che graverebbero sulle strutture sottostanti; in questo caso è un’idea, un’ipotesi che però non rientra tra le teorie della statica, bensì nel contesto più labile di processi psichici, mentali, come «i pesi della pena» o «il peso dei confronti». Oppure, addirittura, in una prospettiva che sembra esaltarne, apparentemente, i pregi, diventando «il peso dell’estate fonda». Un esame spesso visivo distribuito in un percorso immaginario e reale nello stesso tempo, all’interno e all’esterno della «fragilità dei pesi».



Alessandro Franci

La fragilitĂ dei pesi prefazione di Caterina Verbaro

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Š 2020 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice instagram account @sef_editrice isbn 978-88-6032-589-1 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


L’avventura dello sguardo nella poesia di Alessandro Franci

Quest’ultima raccolta di poesie di Alessandro Franci ci presenta una scena ricorrente, quasi archetipica: quella di un soggetto che si aggira per gli spazi del mondo – strade, periferie industriali, boschi, ruderi – sperimentandovi una sintonia esistenziale che traduce gli stati interiori in immagini, luoghi, oggetti. È propria a questi versi una complessiva postura meditativa, la presenza discreta di un soggetto risolto nella funzione di un vedere rabdomantico, alla ricerca di una consonanza con il mondo che possa dare voce all’esistenza, di un rispecchiamento tra il dentro e il fuori, il materiale e l’immateriale, la residualità della parola e quella del mondo coi suoi dettagli e frantumi. Al centro di questa poesia c’è perciò l’esperienza dello spazio, composto e scandito secondo caratteristiche precise e ricorrenti da una parola indagatrice, che insegue le cose e ne nomina i misteri e le ambiguità. La scena sembra sempre costruirsi seguendo l’andamento, progressivo ma insieme occasionale, dello sguardo, accumulando oggetti,

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ingredienti, atmosfere cromatiche: «La gabbia, scrigno di lacere suture / e fibbie lucenti, le mensole di legno, / ancora le pastiglie Valda nella scatola / di latta, spezie friabili sparse ovunque» (Souvenir, p. 22). Quali spazi, quali scene si aprono dinanzi a noi? Si tratta di luoghi segnati dal realismo dei dettagli minuti, degli oggetti residuali, ma insieme caratterizzati da uno straniamento che li rende misteriosi e irreali, sempre sospesi tra veglia e sogno: luoghi abbandonati, solitari, custodi di memorie, che svelano un «riparo» (p. 50), «nascondigli» (p. 69), «rifugi» (p. 60), in una generale claustrofilia che protegge e attutisce. È significativo che due delle tre sezioni che compongono la raccolta – «Interni» e «Esterni» – siano intitolate a caratteri spaziali, come se all’attenta anatomia del luogo si affidasse la possibilità di rivelare il senso del proprio percorso esistenziale. In verità la distinzione tra luoghi aperti e chiusi risulta nel testo non particolarmente cogente, proprio perché più che di luoghi si tratta di spazi compositi, mai affidati a una descrittività diffusa ed esaustiva, ma piuttosto percepiti, avvertiti, percorsi alla ricerca di segni. La caratteristica forse più interessante di questi testi è la presenza di un io-sguardo peculiare, che non ambisce a restaurare un ordine, a catalogare e con ciò a dominare il mondo, ma piuttosto percorre lo spazio alla ricerca del segno, ovvero del montaliano miracŏlum, di

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ciò che deve essere visto, della salvifica epifania. Siamo davanti a un’instancabile flânerie dello sguardo, che indaga le cose visibili senza tradurle in inventario e sistema, affidandosi a una rete fittissima di interferenze, associazioni, stratificazioni, fluttuando nei Disordini (dal titolo di un componimento molto significativo) delle cose: «La vita scissa tra memoria e ragnatele, / la rimessa degli attrezzi, i ripostigli / di utensili e fiaschi negli angoli scuri, / dimora di ghiri addormentati sulle travi; // non c’è un inventario, uno schedario, / ci si perde tra i percorsi, ogni domanda / resta aperta, ammessa d’ufficio tra le attese» (p. 20). La rinuncia a inventariare il mondo è segnalata dagli stessi caratteri formali del testo. Pensiamo, ad esempio, alla lingua, insieme sobria, scevra di preziosismi, ma anche densa e semanticamente sapiente; al ritmo ragionativo del verso lungo, che si infrange su una metatassi accidentata; ma pensiamo soprattutto a un discorso che si frantuma e volutamente incespica e ritorna, alla sintassi rotta e ricorsiva, all’andamento accumulativo del discorso che, rinunciando alla confortante logica della struttura argomentativa, procede per giustapposizione di elementi e di caratteri, per improvvise illuminazioni e svolte («grava il peso dell’estate fonda della sera, / – perpetua sequenza d’imperfezioni – / carcasse di rifiuti, di strade polverose / e di asfalti, “film Luce” di un tempo / che

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non finisce più, rimasto un masso, / anche ora al filtro delle lenti, al vaglio delle menti», p. 47). La rappresentazione dello spazio, così attenta a riprodurne il «disordine» (p. 39) – uno dei lemmi tematici del testo –, sembra spesso indugiare in uno stato onirico: la parola circuisce ed esplora il «disordine» perché sembra sapere che solo in esso, nella resa fluttuante a questa «periferia dei bisbigli» (p. 40), è possibile individuare le immagini – o i miracoli – in cui si condensa il senso dell’esistenza. Sono molte nei testi di Franci le immagini memorabili, costruite come snodi a cui si affida il senso delle cose, dalla «capriata che regge il tetto» (p. 16) nella prima poesia, alla scena all’interno di un autobus vista nel riflesso del finestrino (pp. 2324), dalle «foglie in bilico sui rami» (p. 61) al movimento degli «uccelli sopra i rami» (p. 53) che scambiano le loro posizioni, in una danza che incanta l’osservatore per la sua perfezione. Semplici episodi della fenomenologia quotidiana che emergono da un tessuto associativo di immagini, tempi, memorie, come pietre miliari in cui l’io indugia, snodi di un’indagine visiva ed esistenziale che si impongono al flusso di parole divaganti e al ritmo della flânerie. Le immagini emergono da uno sguardo di scorcio, mai frontale, spesso interferente col ricordo, uno sguardo rappresentato nel testo come sempre parziale, o situato, o riflesso, attentissimo alle variazioni cromatiche, come

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nella migliore tradizione simbolista di cui Franci è certamente erede. Penso ad esempio in Città vecchia (p. 37) a come lo sguardo sospeso e associativo intersechi i piani semantici della città e della natura, laddove l’ocra delle arcate richiama «il bosco, la corsa». A come il riflesso di una «persiana socchiusa» (p. 26) modifichi l’immagine nello specchio, o a come lo sguardo in Appennino (p. 49) faccia i conti con la prospettiva verticale e coi giochi di luce che falsano la visione, così come pure accade in Riflesso (p. 73): «È fra i due palazzi e gli alberi dei giardini / che la luce appare prima, ma non sempre uguale / esattamente annera le colline… // il riflesso sul legno della porta / la maniglia di metallo e i suoi lampi / sul vetro screziato da aliti e impronte; // è questo, mai lo stesso, per effetto riflesso / sull’interno e sulle cose». Ma è forse in Imperfezioni prospettiche (p. 53) che questa anatomia dello sguardo appare in tutta la sua forza, capace di registrare la scena, ma immediatamente dopo di trasfigurarla e di proiettarla in ben altra dimensione da quella dell’evento quotidiano: Certe parti della prospettiva sono prive di spazi netti nelle vie di fuga dei tetti in proiezione; il cielo si annulla in fretta in una sola direzione

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che spezza i confini per dismisura, la luce manca ai bordi delle case quasi bianca si perde al vertice della retta proiettata… lo sguardo si perde nella modestia dei primi piani, osserviamo curiosi gli uccelli sopra i rami scambiarsi posizione, siamo incuriositi da tanta perfezione, in attesa che qualcosa accada d’un tratto, come a teatro, un colpo di scena.

Un’incessante specularità agisce dunque tra lo spazio indagato e lo sguardo che lo attraversa di scorcio, e che in esso cerca la conferma del mistero, ma anche la salvezza dell’epifania. Lo spazio urbano, notturno e inquietante, richiama memorie pittoriche in L’isola dei morti (p. 38) – non solo Böcklin, ma anche De Chirico, per la cancellazione sistematica della figura umana –, amplifica i suoni in Iniziazioni («tra schianti, sassi, / saracinesche, con la tosse dei risvegli», p. 40), ma soprattutto si fa ricettacolo del passato, culla di un tempo stratificato che lo sguardo rabdomantico del poeta percepisce ed evidenzia. L’«archeologia», altro lemma ritornante nel libro, è tessuto segreto dei luoghi più remoti e apparentemente anonimi, in verità stratificazioni di molteplici tempi e forme di vita, le «strade / che rivedo, che gli anni hanno leso / con crepe e squarci sopra i muri» (p. 23),

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la «topografia / che percorriamo» (p. 42), e racconta perciò le «vite che sono transitate / per queste strade sconnesse» (p. 62). Tra i testi che ci appaiono più importanti e rivelatori di questa raccolta c’è ad esempio Remoti e vivi (p. 44), che ruota proprio attorno alla custodia che il presente esercita nei confronti del passato, alla «soglia» tra questi due tempi, tra morte e vita, tra l’“allora” della foto sbiadita e il cielo dell’oggi «luminoso, carico del suo futuro». L’avventura dello sguardo che fonda le poesie di Alessandro Franci – uno sguardo capace di scoprire il passato nel presente, l’altro nell’io, il mistero nella realtà – permette al soggetto, declinato non di rado in un «noi», conformato a quella postura meditativa di cui si diceva e che appare ora particolarmente debitrice della lezione luziana, di vivere la duplicità dell’esperienza, l’essere qui e altrove, in una sorta di posterità al mondo in cui si può essere insieme «remoti e vivi»: «per noi, che siamo in questi anni remoti / e vivi, pietra di colonne pericolanti, / noi stessi codici miniati quasi illeggibili». Il richiamo ai codici miniati non è casuale e rappresenta un’immagine di quell’enigmatica «fragilità dei pesi» che dà il titolo al libro, richiamando la coriacea resistenza del passato, nella sua sempre effimera preziosità. E richiama in tal senso il testo che apre e dà il titolo alla raccolta, La fragilità dei pesi (p. 16), e in particolare quella «capriata» che copre e

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sostiene un’antica chiesa francescana, con la cui esplorazione si avvia il libro. La struttura portante che caratterizza questo primo luogo onirico, quasi fondante i tanti altri che seguiranno, «fruga la fragilità dei pesi», ovvero ne indaga la forza, la resistenza. Il titolo ossimorico apre alla speranza, se è vero che lo sguardo sapiente e straniante conosce l’irremovibile resistenza di ciò che sembra sempre in bilico e in pericolo, arreso alla propria fragilità: le vestigia del passato, la memoria, la poesia. Caterina Verbaro

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I (Interni)



«Chi è solo in una stanza silenziosa, ode chiaramente il battere di un orologio. Se entrano però altri e il movimento e la conversazione hanno inizio, cessa di udirlo. Ma il battito non smette per questo di essere accessibile all’udito» (Konstantinos Kavafis) «Parlo di me, dal cuore del miracolo: la mia colpa sociale è di non ridere, di non commuovermi al momento giusto. E intanto muoio, per aspettare a vivere» (Giovanni Giudici)


La fragilità dei pesi Ha un colore di osso secolare, brunito, di reliquia, la capriata che regge il tetto, prediletta nei sogni, nelle sere di sciami, di guano, che il fare del caso ripresenta; eterno approdo delle ore, rifugio di ombre disposte dai tramonti e se l’ora ritarda solo di poco gli istanti se la luce si sofferma ancora, un lembo oscura, graffia i margini rimasti tra puntone e staffa, fruga la fragilità dei pesi, i punti di rottura, al rintocco di campane dai sentieri dimenticati, all’urto dei ferri e dei tiranti e si rivela indubbia la sua forza nel sonno improvvisato, poco più che il lenire d’analgesico per l’insaziabile dolore.

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Indice

5 L’avventura dello sguardo nella poesia di Alessandro Franci di Caterina Verbaro

I (Interni)

16 La fragilitĂ dei pesi 17 Visita obbligata 18 Riti del mattino 19 Barlumi 20 Disordini 21 Omissioni 22 Souvenir 23 A margine del tempo 24 Punti di vista 25 Orientarsi 26 Alterazioni 27 Blandi giochetti 28 Solo il compito della mosca

II (Esterni)

32 Sotterranei 33 Se


34 Contrasti 35 Celebrazioni 36 Dalle porte aperte 37 Città vecchia 38 L’isola dei morti 39 Spiragli 40 Iniziazioni 41 Inezie 42 In silenzio 43 Ogni volta ritornando 44 Remoti e vivi 45 Forse già è tardi 46 Effetto dei roghi 47 Distanze 48 Echi nel tempo 49 Appennino 50 Gli alberi 51 Archeologia 52 Ammirazioni 53 Imperfezioni prospettiche

III (Appendice)

58 Rivelazioni 59 Archetipi 60 Le vie dei parassiti 61 Commiati 62 Gli sprechi 64 Strade 65 Ombre 66 Né un urlo né un pianto


67 Di unica sostanza 68 Case 69 Particolari svelati 70 Città dall’alto 71 Linee orizzontali 73 Riflesso 74 Giostra di luci

77 Note


nella stessa collana

Pier Luigi Canzi, Per ripetuto caso, pp. 68, 2008. Giovanni Gut, Senza mai fermarsi, pp. 76, 2010. Carlo Cantagalli, Riverberi. Quarantaquattro sonetti, pp. 68, 2011. Walter Rossi, erfahrung. 140 caratteri in poesia, pp. 60, 2012. Carlo Villa, Eclisside, pp. 100, 2013. Emma Pretti, Un guaio che non è stato preso in esame, pp. 100, 2014. Walter Tripi, Londra, pp. 48, 2014. Carlo Cantagalli, Riverberi. Improvvisi e strambotti, pp. 76, 2015. Giacomo Soremic, Un lontano paradiso, pp. 52, 2016. Carlo Villa, Retrostrato, pp. 220, 2017. Carlo Cantagalli, Riverberi. Percorsi inversi. (Poesie 20151960), pp. 192, 2018. Raffaele Riela, Cinquanta. Poesie per strada, pp. 132, 2018. Carlo Villa, De te dedica narratur, pp. 256, 2018. Debora Scrofani, Lo sguardo teso, pp. 52, 2018. Massimo Bettetini, Luce di Candoglia, pp. 52, 2020. Simone Fagioli, Inconsapevoli emozioni, pp. 256, 2020.


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