Non è vero... ma ci credo. Spettri a Firenze

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elena giannarelli

NON È VERO… MA CI CREDO Spettri a Firenze



ELENA GIANNARELLI

NON È VERO… MA CI CREDO SPETTRI A FIRENZE


© 2020 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-583-9 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Referenze fotografiche Le foto pubblicate nel presente volume sono di proprietà dell’autrice (per gentile concessione) Disegno di copertina Lido Contemori


Indice

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Quattro chiacchiere a mo’ di introduzione

I fantasmi di città

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L’ombra di sant’Ambrogio certificata da san Zanobi Torre della Pagliazza: fantasma o fantasmi? Ponte Vecchio: lo spettro di Alighiero Piazza della Signoria: l’ombra di Beatrice Monna Tessa, suor Olimpia, suor Domitilla: le tre entità di Santa Maria Nuova Le ombre di piazza San Martino Ginevra: la donna due volte fantasma Andrea Corsini: il santo spettro in preghiera e in battaglia La questione della Croce al Trebbio Piazza Piave. Gli spettri dei condannati a morte Niccolò Machiavelli: il fantasma disoccupato La finestra di piazza della Santissima Annunziata La fanciulla di piazza San Paolino Insieme per una notte: la coppia dei cimiteri L’ombra di Byron, sister Julia e il Cimitero degli Inglesi Il fantasma in tribunale: la storia degli sposini di via Ghibellina L’albergo dei fantasmi La Casa Rosa di via Maragliano Il fantasma dell’armadio La signora di via di Mezzo Il fantasma di villa Favard sul Lungarno Le signore di via Bolognese Via Faenza, n. 1. I fantasmi di casa mia


Altre storie

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La voce di san Barnaba La tormentata questione del fantasma di Dante Il coboldo di via del Corno Storia del cane nero e del fico fatato Il caprone del Ponte alla Carraia Leopardi e “la fantasima� di via Buia Veronica e Caterina: delitto senza castigo La nave fantasma: la vera storia della Fiorenza Le voci delle romite del Ponte Rubaconte

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’è chi dice che il carattere dei Toscani in generale e dei Fiorentini in particolare sia troppo lucido, razionale, ironico per credere ai fantasmi. Giorgio Batini, nel suo libro Italia a mezzanotte, un classico per quanto riguarda le storie di spettri, delinea una penisola in cui la Toscana recita una parte non di primo piano, rispetto ad altre regioni più ricche di tradizioni sull’argomento. Questo probabilmente è stato il motivo per cui, quando ho confidato ai miei amici l’intenzione di dedicare un volume alle ombre di Firenze, mi sono trovata davanti un muro di scetticismo. Perfino Anna Viola, con la quale ho condiviso tutto, dalla scuola di danza classica da bambine all’abbonamento al teatro de “La Pergola” da ragazze, dalle gare di sci alpino alla stagione movimentata legata alla nascita dei suoi gemelli, dei quali sono stata “zia” ad honorem, ha spostato gli occhiali eleganti sulla punta del suo nobile naso e mi ha guardato con riprovazione. «Fantasmi? A Firenze? Non ce ne sono». Lo ha affermato in modo perentorio. Mi ha ricordato la sposa di Canapone, la granduchessa Maria Antonia che, nata a Palermo, arrivata in riva d’Arno da Napoli e abituata all’umanità particolare dei Quartieri Spagnoli, sosteneva convinta: «A Firenze, poveri non ce ne stanno». La mia amica, coerentemente, mi aveva invitata a dedicarmi a qualcos’altro. Invece, questa volta, ho avuto ragione io. Spettri a Firenze, dunque. In realtà nessun popolo può vantare un continuo commercio con l’aldilà come i Toscani: sul piano storico lo certificano gli Etruschi, su quello letterario è una costante da Dante a Malaparte. L’Inferno è addirittura, per chi è cresciuto qui da noi, “quel paese” dove si può mandare qualcuno senza rimorsi, o andare personalmente in tutta tranquillità. E converso, Plutone, re degli Inferi, tra tutte le città della terra, sceglie Firenze per spedirvi l’arcidiavolo Belfagor, nei panni di un bellissimo gio-


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vane. Costui dovrà sperimentare la vita coniugale e poi tornare a riferire se davvero avere moglie sia una condizione peggiore dell’Inferno. La sposa non può essere che fiorentina: si chiama Onesta Donati e costringe il marito a fare un debito dietro l’altro. Si innesca così una serie di avventure che vinceranno la resistenza del protagonista, tra l’altro emigrato in quel di Peretola. L’esperienza, come racconta Machiavelli nella celebre novella, è così negativa che alla fine Belfagor preferirà tornare per sempre nel regno delle tenebre. L’ironia dell’autore serve ad affermare come la realtà fiorentina, presa a simbolo di quella umana, abbia tratti talmente diabolici da spiazzare perfino un arcidiavolo. Che Satana in persona poi abbia un rapporto privilegiato con la “città del fiore” lo testimonia anche Emilio Ravel, autore del delizioso romanzo Il diavolo a Firenze, pubblicato nel 1987. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale il Maligno arriva in città nella persona del prof. Birinzi, insegnante di latino e greco alle Scuole Pie. Fa amicizia con la famiglia di un alunno e sfolla insieme ai suoi ospiti in una villa verso Fiesole. Dalla terrazza dell’elegante fabbricato tra gli olivi, l’eccentrico filologo, che si chiama ovviamente Adolfo, osserva con un cannocchiale gli effetti della distruzione dei ponti sull’Arno. Scrive Ravel: «Il suo volto non esprimeva alcuna emozione. Ogni tanto stirava le labbra in una smorfia che poteva essere un sorriso o uno sforzo per osservare meglio». Sogghignando guardava la rovina, tenendo lo strumento al contrario, perché quel fumo e quelle macerie risultassero il più lontani possibile. Con questi precedenti si capisce perché i fantasmi di casa nostra non abbiano alcun bisogno di catene, schiamazzi, risate agghiaccianti, ossia dell’apparato consueto che altrove caratterizza questo tipo di manifestazioni. I nostri spettri non sono all’inglese: sono più discreti, asciutti, toscani insomma. Ci saranno anche i tradizionali “rumori”, ma varranno come eccezioni che confermano una regola fatta di correnti gentili, piccoli aiuti, carezze, sia pure gelate: il fantasma s’inserisce nella dimensione quotidiana senza sforzo. Così l’ombra di Ambrogio torna a pregare nella basilica di San Lorenzo da lui consacrata e ne è testimone san Zanobi: un santo certifica la presenza del fantasma di un altro santo, che apparirà anche in un momento di pericolo per risollevare il morale dei Fiorentini assediati dai barbari, predicendo la vittoria di Stilicone sui Goti di Radagaiso. Siamo nella più remota antichità cristiana, tra IV e V secolo d.C., circa mille anni prima di Dante. Luogo ricchissimo di storia e di storie, Firenze ha risposto in maniera superiore alle mie aspettative: le ombre sono davvero molte. Non avrei sospettato una simile quantità di leggende e dovevano essere molte di più.


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È corretto pensare che tante siano sparite con l’emorragia di Fiorentini dal centro storico, che non è più abitato come una volta. Spesso si trattava di fragili tradizioni orali, destinate a perdersi con la scomparsa degli anziani. Allo stesso modo nelle periferie, spariti i campi e i casolari, con l’espandersi della cementificazione, sono venuti meno quei racconti che si narravano a veglia e che spesso vertevano su spettri. Questo libro intende recuperare antiche narrazioni, sentite dalla viva voce di testimoni affidabili, prima che una cappa di silenzio cada su un aspetto interessante della nostra cultura popolare. Dichiaro il mio debito di gratitudine verso molte persone, in prima battuta verso i miei nonni materni: Margherita Montelatici e Luigi Parenti, fiorentina di origine sivigliana l’una, fiorentino di origine senese l’altro. Hanno reso felice la mia infanzia con i loro racconti, con la straordinaria conoscenza che avevano della città, con l’arguzia tipica di chi vive all’ombra del Cupolone. Alla nonna Marghe in particolare devo la scoperta di una lunga catena di “affabulatrici”: era solita raccontarmi quello che, bambina, aveva imparato da sua nonna, Maria Monsani Bernardi e dalle zie, Ida e Francesca (Cecchina) Bernardi, ricamatrici di fino, le “Materassi di San Lorenzo”. Le storie di Ginevra degli Almieri e del coboldo di via del Corno mi sono state raccontate per la prima volta da una cugina della nonna, Annina Monsani, che ho conosciuto ottuagenaria e che andavo a trovare nella casa col giardino di via Gaspero Barbera. Era l’ultima delle cosiddette “bambine di’ zio Pasquale”. Rimasto vedovo giovanissimo, il loro padre non si era più risposato e le figlie Emilia, Jole, Ofelia e Annina, appunto, anche con i capelli bianchi erano rimaste “le bambine”, “le orfanelle”. Vantavano una parentela illustre: una loro cugina aveva sposato il commediografo Augusto Novelli. Erano rimaste tutte e quattro signorine e, giunte vicino all’età sinodale dei quaranta, si sentirono proporre, da una zia molto devota, di fare una novena alla Santissima Annunziata per trovare marito. Pochi lo sanno oggi, ma la tradizione delle spose fiorentine, che portano il loro mazzolino al santuario mariano cittadino, riposa sulla convinzione che l’Annunziata faccia miracoli per le zitelle. I fiori in origine venivano portati per grazia ricevuta. Torniamo alle signorine Monsani: le tre più giovani avevano rifiutato con sdegno la proposta, convinte che la Madonna non dovesse essere disturbata per simili faccende. Emilia, la maggiore e forse anche la meno piacente, aveva di buon grado detto rosari nei mesi mariani di maggio e di ottobre e aveva compiuto con fede tutto quanto la devozione richiedeva: aveva portato una candela davanti alla sacra immagine, aveva frequentato la basilica per la recita dei Vespri e per la Santa Messa.

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Insomma aveva pregato per trovare marito. Contro ogni aspettativa, era convolata a nozze con un antiquario di via de’ Fossi, che le cognate ribattezzarono subito “il rigattiere”; rimasta vedova dopo una decina d’anni, si era risposata con un attore, che questa volta le tre signorine chiamarono “lo Stenterello”. Annina, più delle altre, possedeva il dono di narrare. Ho passato interi pomeriggi da lei, a chiederle della Firenze della sua giovinezza ed è stata generosissima di ricordi e pennellate. Sapeva degli spettri di piazza Piave e dello spaventoso caprone del Ponte alla Carraia. Come dimostrano Andrea Corsini, Ginevra degli Almieri ed altre entità che appaiono soprattutto nei dintorni e delle quali tratteremo in un volume a parte, un consistente numero di fantasmi fiorentini appartiene a famiglie nobili. Per le mie ricerche ho chiesto aiuto a molte e molti esponenti dell’aristocrazia. Nobildonne e gentiluomini non si sono fatti pregare per arrampicarsi sui complicati rami del loro albero genealogico, dando risposte ai miei quesiti con estrema gentilezza. Sono loro grata. Ho trovato comprensibili resistenze non solo in loro, ma in tutte le persone che ho incontrato, quando si è trattato di ricordare fatti antichi o recenti di parenti che avevano operato scelte dolorose, come il suicidio. Dal mio libro mancano volutamente queste storie per una forma di rispetto che ritengo doveroso. Molti dei miei fantasmi sono poco noti: la vicenda della fanciulla di piazza San Paolino, ad esempio, è conosciuta dagli abitanti delle case che si affacciano sullo slargo di fronte alla chiesa e da chi vive nel raggio di pochi isolati; per lei ho scomodato il padre carmelitano Efrem Brogi, archivista dei conventi di San Paolino e di San Matteo in Arcetri, uomo di rara pazienza, che adesso dal Paradiso sorride alla mia dimensione di “cacciatrice di spettri”, come usava definirmi con una ironia non priva di un velato rimprovero. Secondo lui avrei fatto meglio a occuparmi di sant’Agostino, di Padri della Chiesa, in una parola di Letteratura cristiana antica, perché quello richiedeva la mia cattedra universitaria. Ho appreso la storia della motonave Fiorenza in un bar di San Frediano, dieci anni fa, dal signor Piero Masi, all’epoca ottantenne, di vivissima fede viola e capace di mettere a fuoco con estrema lucidità i motivi di incomprensione tra Fiorentini e Torinesi, a cominciare dall’arrivo di questi ultimi a Firenze con la capitale. «Lo sa, nina, perché un ci si poteva capire? Perché volevano dare una mano di calce sulla facciata di Palazzo Vecchio per farlo sembrare più moderno. E poi avevano alloggiato la cavalleria nei chiostri di Santa Maria Novella e il letame dei cavalli si ammucchiava sotto le pareti affrescate da Paolo Uccello». Così argomentava Masi, che conveniva sulle difficoltà incontrate da quelli del Nord nel trasferirsi qui, com-


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plice il carattere difficile dei Fiorentini. Per lui il ritorno a Firenze dello spettro della Fiorenza rappresentava una sorta di vendetta, di riequilibrio della realtà nell’annosa disfida con Torino e i Torinesi. Il signor Piero non aveva perdonato alla Juve lo scippo dello scudetto nel campionato conclusosi con il secondo posto dei gigliati. Si era nel 1982; da allora tanta acqua è passata sotto i ponti dell’Arno, del Mugnone, del Terzolle e degli altri torrenti fiorentini, ma per i tifosi viola quella delusione rimane sempre viva. «Meglio secondi che ladri»: è la frase messa in bocca a un irato Marzocco in quei giorni lontani; per Masi la Fiorenza ha lasciato Torino ed è tornata a casa, a dimostrazione che lassù, sul Po, nulla di fiorentino può resistere, nemmeno una motonave. Spero che l’ironico “sanfredianino” sia ancora tra noi e possa leggere queste pagine. Come il lettore avrà intuito, all’epica della vasta famiglia di mia nonna appartengono molte di queste storie, a cominciare dall’apparizione in piazza Signoria del fantasma di Beatrice Portinari, per giungere all’evanescente figura di suor Olimpia in Santa Maria Nuova, attraverso gli spettri di un noto albergo. Jolanda Falugi Attias è la giovane sposa di via di Mezzo. Dalla sua viva voce ho ascoltato il racconto della convivenza felice col fantasma dell’ignota signora che la proteggeva. Jolanda è stata una presenza costante nella mia vita: compagna d’infanzia di mio padre, era una cuoca sopraffina e la ricordo sempre con gratitudine. Il giorno della laurea mi ha regalato un bellissimo mazzo di rose bianche e rosa: era la prima volta che ricevevo fiori e mi sono commossa. Posso definirla in assoluto la donna più elegante che abbia mai conosciuto. Una volta l’ho accompagnata in macchina a Chianciano Terme, per passare le acque. In quell’occasione, fra i suoi bagagli, ho visto una cappelliera, oggetto che avevo incontrato solo nelle pagine dei romanzi e in qualche spezzone di film. Insieme al suo ricordo, indivisibile, affiora quello di Edo, con la sua giacca da camera marrone, i lunghi silenzi, l’ironia fulminante quando raccontava storie della sua giovinezza. Il loro matrimonio è stato lunghissimo: hanno festeggiato più di settant’anni insieme. Adesso non ci sono più. Al giornalaio Balsimelli di piazza Santa Maria Novella devo il terribile racconto dell’usuraio e della sua vittima, poi assassino, alla Croce al Trebbio. Piero Bargellini, il “signor Piero”, amico dei nonni, mi ha regalato la curiosità per le infinite sorprese che Firenze regala, la conoscenza della sua storia e una memorabile visita in piazza San Martino, che da allora è per me luogo magico. Lo divertì molto l’idea degli avventori illustri dell’osteria di Mariotto Albertinelli: mi invitò alla cautela sull’aggirarsi nella Piazzetta degli spettri satolli di Michelangelo e Pontormo, che aveva-

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no sperimentato la cucina del loro collega. Per questo, accogliendo il suo suggerimento, a distanza di tanti anni ho usato il punto interrogativo per chiudere quella storia. Il canto delle romite del Ponte Rubaconte è frutto della mia esperienza personale. Un mattino presto mi sono affacciata al Ponte alle Grazie: un velo impalpabile di nebbia saliva dall’Arno e mi sono trovata a evocare le casette, a pronunciare i nomi di Apollonia, Giana e delle altre donne coraggiose che decisero di passare i loro giorni pregando, nascoste, in un luogo non luogo come un ponte. Può essere stata suggestione, certo, ma un canto sommesso mi ha risposto. Adesso Marisa Aterini e Beatrice Pucci vegliano sull’Oratorio della Madonna delle Grazie e su quell’immagine di Maria che stava sul Ponte Rubaconte e che per noi fiorentini è da sempre “la Madonna con gli occhi storti”. A Beatrice si deve la ricostruzione dell’avventura delle antiche recluse tra cielo e acqua, in un libro che tutti i fiorentini dovrebbero leggere. Pochi mesi fa, ai miracoli del passato se n’è aggiunto uno davvero straordinario. Domenica 17 novembre 2019, appena passata la piena dell’Arno, si è cominciato a sentire un forte odore di gas nell’Oratorio, nella casa delle due consacrate, addirittura sul Lungarno. I Vigili del Fuoco sono accorsi e hanno trovato non solo una fuga del pericoloso elemento, ma addirittura una voragine di cinque metri sotto il manto stradale, che si era saturata. Avrebbe potuto verificarsi un crollo disastroso da un momento all’altro; le candele accese sull’altare, un mozzicone di sigaretta gettato via da un passante distratto avrebbero potuto innescare un’esplosione catastrofica. Niente di tutto questo si è verificato: ancora una volta la Madre celeste ha vegliato sulla sua Fiorenza, insieme alle romite. Non possiamo che dirle grazie. Un grazie molto più personale a Lorella Pellis, che ho conosciuto in Università come promettente studentessa di Lettere Classiche, mentre io ero già dall’altra parte della barricata. Il che non ha impedito il nascere di un’amicizia che va avanti da moltissimi anni. Diventata giornalista a «Toscanaoggi», devo a lei e ai suoi direttori Alberto Migone, Andrea Fagioli, Domenico Mugnaini, se ho potuto realizzare il sogno di scrivere per un giornale. Abbiamo condiviso la fatica della ricerca e il piacere della pubblicazione di Donne di pietra. Adesso potrei definirla la madrina di questo libro: lo ha presentato quando ancora non era finito. La seduta inaugurale dei “Thè di Toscanaoggi” dell’annata 2018-2019 è stata dedicata a Ginevra degli Almieri, alla coppia dei cimiteri, a san Barnaba, ossia ai protagonisti di molte storie fiorentine di fantasmi. Infine, last but not least, Massimo Ciani, l’editore. La sua pazienza è stata davvero senza fine, così come la sua fiducia nelle mie capacità. C’è stato


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un momento in cui, forse nell’imminenza del pensionamento, mi sono bloccata ed è stato con grande sforzo che ho ripreso a scrivere. Massimo e la sua SEF mi hanno attesa, senza forzare, in un atteggiamento di fraternità che ho apprezzato molto. Esistono altri modi di leggere i fantasmi, legati allo spiritismo, ai medium, alle evocazioni. “Il Cerchio Firenze 77”, riunitosi intorno alla figura di Roberto Setti, ha portato avanti un’attività notevole: ha ricostruito le sedute spiritiche che si svolgevano nel villino dei Trollope nei pressi dell’allora piazza Maria Antonia, poi Barbano, quindi dell’Indipendenza; ha dato resoconto di contatti con spiriti illustri, tra cui Michelangelo Merisi da Caravaggio. Il tutto è testimoniato in numerosi libri, firmati appunto con nome “Il Cerchio Firenze 77”. Mi sento estranea a quelle problematiche: in queste pagine le ombre avranno una dimensione letteraria, storica, familiare. Ho passato tutta la mia vita a leggere, tradurre, commentare testi antichi e a cercare di trasmettere ai giovani questa passione. Sono ormai una filologa in pensione, contenta dei risultati scientifici delle mie ricerche e orgogliosa per avere portato un qualche contributo alla storia delle donne. Non ho mai dimenticato però la mia prima vocazione: avrei voluto fare l’attrice di teatro, soprattutto l’attrice comica. Adoravo Ave Ninchi e Bice Valori, stravedevo per Tina Pica, una caratterista straordinaria: con le sue improvvisazioni dava del filo da torcere perfino al grande Totò, che ne soffriva la presenza. La mia preferita tuttavia era Franca Valeri, che si scriveva i copioni da sola, come avrei voluto fare io. La mia austera famiglia spense i miei sogni sul nascere: quando dissi a mio padre che, superata la maturità, avrei desiderato andare a Roma all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica per studiare recitazione e regia, la risposta non fu “no”, ma qualcosa di peggio. Il babbo disse con voce gelida: «Non ti ho cresciuta fino a diciotto anni per mandarti sul marciapiede». Il che mi suonò strano, perché mia nonna era amica di Wanda Capodaglio, si frequentavano; la grande attrice era stata da noi e con la sua brillante conversazione sui ricordi di scena aveva reso indimenticabile un’intera serata. Non solo: io stessa ero guarita dalla “erre moscia” con cui ero nata grazie agli esercizi che mi aveva consigliato Sarah Ferrati. La “Sara con l’acca”, come la chiamavo da bambina, era una presenza costante presso la stessa nonna. Almeno una volta all’anno veniva a pranzo da noi quando recitava a “La Pergola” e per me era una festa. Non ci fu niente da fare, perché mio padre trovò un’alleata potente proprio in mia nonna, che con una frase lapidaria pose una lastra tombale sulle mia aspirazioni: «Le mie amiche mi hanno raccontato che cosa è il mondo del teatro».

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Ho dovuto aspettare di avere sessant’anni perché la mia antica passione si realizzasse. Ho ritrovato un vecchio compagno di scuola e un amico con cui andavamo a sciare, Paolo Romagnoli e Giancarlo Nutini; le loro illuminate mogli, Giovanna Malinconi ed Emma Mantovani, avevano fondato “Arcoiris. Centro d’arte e cultura”, con scopi benefici. Ho cominciato così a scrivere copioni, a fare regia, a recitare io stessa, a montare spettacoli di musica colta e popolare con un amico chitarrista, il maestro Luigi Gagliardi, con il quale ho cantato e ho perfino scritto il testo di una ballata dedicata al Mugnone. Quella di stare sul palco e percepire l’interesse del pubblico è stata una scoperta bellissima. Qualche anno prima avevo già sperimentato la straordinarietà del palcoscenico: ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Le lezioni dell’Università dell’Età Libera mi avevano portata sulle tavole del proscenio a “La Pergola”. Avevo vissuto da lì il momento “rosa” di quel teatro, un attimo prima che le luci della platea si abbassino: pura magia. Tutto questo preambolo spiega la dedica di questo libro a due grandi della nostra cultura, due uomini di spettacolo che sono stati per me importanti. Il primo è Eduardo De Filippo, che ho avuto la fortuna di vedere recitare spesso e del quale ho apprezzato la carismatica presenza scenica, la misura delle pause e dei silenzi, l’inventiva di commediografo. Ha firmato un capolavoro dal titolo Questi fantasmi e per un po’ di tempo ho pensato che anche il mio libro avrebbe potuto chiamarsi così, con allusione all’assunto finale di Eduardo, che sono i vivi a crearsi gli spettri a loro uso e consumo. Poi però, con l’approvazione dell’editore, mi sono orientata verso Non è vero… ma ci credo, che rimanda a una pièce di Peppino De Filippo, fratello di Eduardo, con al centro la superstizione. Come ben si vede, si resta in famiglia. Il secondo dedicatario è il geniale, coltissimo Paolo Poli, che forse avrebbe trovato materia in queste pagine per una delle sue travolgenti rappresentazioni: continuo a sognarlo nei bianchi veli di Ginevra degli Almieri, in fuga dal regno dei morti. Gli ho parlato una sola volta, dopo uno spettacolo al “Rondò di Bacco”, il teatrino bomboniera di Palazzo Pitti. Argomento di conversazione furono gli Apocrifi. Lo esortavo a leggere gli “Atti di Paolo e Tecla”: sarebbe stato una Tecla strepitosa. Mi rispose che aveva già per le mani una santa. Infatti poco tempo dopo mise in scena, con Ida Omboni, la memorabile Rita da Cascia, meno blasfema di quanto si pensi, intessuta di rimandi a san Gerolamo e alle donne idealizzate del suo circolo sull’Aventino. Non ho mai perso un suo spettacolo. Cantava con ironia tutta fiorentina vecchie canzoni, manifesto di un’epoca:


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indimenticabile la sua interpretazione di Ziki-paki Ziki-pu, l’esaltazione in chiave ironica, appunto, delle doti di grande amatore dell’uomo italiano, conquistatore di donne a getto continuo, massimamente nelle colonie. Le sue Favole al contrario sono davvero grandiose: ricordo che per lui Cappuccetto Rosso era una rompiscatole e il Lupo la vittima di una società iniqua. Non mi meraviglierei se la sua ombra calcasse ancora il palcoscenico del “Niccolini” e si aggirasse sconcertata nell’abbandono del “Rondò di Bacco”. Non posso però chiudere queste pagine senza nominare Vera Parenti e Vincenzo Giannarelli, i miei genitori. All’una devo l’amore per Firenze e la fotografia, all’altro l’interesse per la storia e la passione per la montagna: a entrambi sono grata per avermi guidata in lunghe passeggiate per la città in cui, con la complicità del nonno, ogni sasso diventava materia di racconto. Dalla loro voce ho imparato a conoscere la baronessa Favard, la carcerata della Pagliazza, Veronica Cybo e Caterina Canacci, gli sposini di via Ghibellina e la questione della finestra di piazza della Santissima Annunziata. Diamo a Cesare quel che è di Cesare: il libro lo firmo io, ma l’hanno scritto loro e tutti gli altri fiorentini che da secoli, oralmente, si tramandano le infinite storie poi raccolte dal vento, mentre gira ammirato attorno alla Cupola di Brunelleschi.

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A Vera e Vincenzo, a Eduardo e Paolo


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L’ombra di sant’Ambrogio certificata da san Zanobi

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iamo nell’unica città al mondo nella quale la presenza del fantasma di un santo è stata certificata da un altro santo. Come si dice in buon fiorentino, «qui non si frigge con l’acqua». È una storia lunga e complicata. Cominciamo dall’inizio che si colloca, tanto per dare un’idea, mille anni prima della morte dell’inglese John Hawkwood, per noi nati in riva d’Arno Giovanni Acuto, feroce capitano di ventura al soldo di Firenze, di cui si ammira sulla parete di sinistra del Duomo il celebre monumento equestre in un affresco firmato da Paolo Uccello. Se preferite, siamo negli anni 392-405 d.C.: Dante nascerà nel 1265. Fate i vostri conti. Era la fine del secolo IV d.C. e la situazione politica dell’impero romano risultava tutt’altro che tranquilla. Dopo la morte, o forse l’uccisione, di Valentiniano II, Eugenio si era fatto proclamare imperatore e aveva concesso il ripristino dell’ara della Vittoria nella Curia di Roma, un simbolo pagano, legato alla grandezza della “città eterna” e da tempo al centro di una disputa accanita tra adoratori degli dei e cristiani. Il vescovo di Milano si chiamava Ambrogio ed era una vera celebrità, protagonista di una storia per certi versi straordinaria, che forse è utile riassumere. Gran signore, figlio di un alto funzionario imperiale, tornato da piccolo a Roma dalla natia Treviri dopo la morte del padre, era cresciuto in una famiglia di credenti, con una sorella che aveva fatto voto di verginità. La sua educazione di altissimo livello gli aveva consentito una rapida carriera nell’amministrazione pubblica: nel 370 era approdato a Milano come consularis, in pratica con il compito di governare l’Italia del Nord. Era davvero molto per un trentenne: Ambrogio era nato fra il 339 e il 340. La sua vita però ebbe una svolta imprevista e imprevedibile, che lo colse di sorpresa. Nel 374 era morto il vescovo ariano di Milano, Aussenzio: la lotta tra eretici e ortodossi in città sfociò in episodi di violenza. Il giovane funzionario amministrativo, non ancora battezzato, si


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adoperò per portare la pace e si ritrovò vescovo per volontà popolare. Gli fu impossibile rifiutare: ricevette il battesimo e la cattedra episcopale. La sua azione fu contrassegnata dalla difesa a spada tratta dell’ortodossia, da una cura pastorale attentissima, dalla creazione di una liturgia nuova, nella quale trovarono spazio inni che egli stesso aveva composto. Inoltre introdusse in Occidente testi di autori importanti della stagione giudeo-ellenistica e della cultura greca cristiana, come Filone di Alessandria e Basilio Magno, traducendoli, o meglio tuffandoli nel sapere latino. Torniamo dunque agli anni 392-394. Quando si rese conto che l’usurpatore Eugenio stava dirigendosi verso Milano, il futuro santo decise di andarsene sdegnato. Considerava l’Augusto “un barbaro”, “un traditore della fede”: lo scriverà in una lettera a Teodosio. Così l’alto prelato scese a Bologna, sulla cui cattedra episcopale si trovava l’amico Eusebio, e da lì andò a Faenza. Qui gli giunse l’invito dei Fiorentini a recarsi a Florentia e il vescovo accettò. È il debutto della Chiesa di Firenze sul grande palcoscenico della storia. Il solo fatto di aver invitato il presule mentre questi “contestava” la politica dell’imperatore automaticamente metteva la comunità fiorentina sulla stessa lunghezza d’onda ambrosiana; inoltre il vescovo di Milano era il più autorevole difensore dell’ortodossia contro l’arianesimo, che forse aveva anche nella futura Firenze i suoi sostenitori. La “cronaca” di quella visita è firmata dal diacono Paolino da Milano, nella Vita di Ambrogio, un testo in latino risalente al V secolo. Paolino fu segretario del vescovo Ambrogio negli ultimi tre anni di vita del santo (394-397 d.C.). C’è chi afferma che in realtà il modesto scrittore dovrebbe essere chiamato Paolino da Firenze, perché nella biografia di Ambrogio, che egli scrive su richiesta di sant’Agostino, si dimostra particolarmente aggiornato sulle cose fiorentine ed entra in scena con la visita del vescovo in città. L’illustre ospite fu accolto nella casa di un tal Decenzio, di rango senatorio e dal nome latino, che all’epoca doveva essere già morto: infatti fecero gli onori di casa la moglie Pansofia e il figlio Pansofio. I nomi dei due personaggi, che valgono “tutta saggezza” e “tutto saggezza”, sono di origine greca, a riprova del cosmopolitismo della città, sede di commerci e traffici, aperta a chi vi giungeva da regioni lontane. Qualche decennio dopo, là dove sorge l’attuale chiesa di Santa Felicita, un cimitero accoglierà tombe di siriani ellenizzati che testimoniano la presenza di una comunità di orientali grecizzati in Florentia. La tradizione fiorentina vuole che la dimora ospitale di Pansofia si trovasse dove adesso vediamo la chiesa di Sant’Ambrogio. Ciò spiega anche la presenza, sulla cantonata tra Borgo La Croce e via de’ Macci, del tabernacolo con la statua del santo benedicente, un’opera di Giovanni della Robbia, datata al 1525 circa, in terracotta invetriata, preziosa per i suoi colori.


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In quella dimora, Ambrogio cacciò un demone dal piccolo Pansofio. Qualche giorno dopo, il fanciullo morì. La madre, disperata, compose il corpo del figlio sul letto del vescovo, in quel momento fuori di casa. Al ritorno, egli lesse quel gesto come un atto di fede e una richiesta di aiuto. Si stese quindi sul defunto e con le preghiere restituì vivo alla donna colui che era morto. Il precedente biblico cui si fa riferimento è l’episodio che vede protagonista il profeta Eliseo, pronto a stendersi sul corpo senza vita del figlio della Sunammita e capace di restituirgli pregando calore e vita (2Re 4,33). Secondo Paolino, sarà Ambrogio stesso a raccontare questi fatti a Pansofio, in uno scritto che non ci è giunto. Sembra che le donne avessero un ruolo importante nella Chiesa fiorentina dell’ epoca. La basilica che il vescovo di Milano fu chiamato a consacrare è la primitiva San Lorenzo: l’attuale, in forme brunelleschiane, è la terza. Il sacro edificio era stato fatto costruire dalla vedova Giuliana, il cui defunto marito era un “ministro venuto meno ai sacri altari”. Quindi un diacono o un prete, secondo la prassi del IV secolo. I due coniugi avevano avuto tre figlie: desideravano un maschio. La loro preghiera fu esaudita per intercessione di san Lorenzo, il celebre martire romano. Passato del tempo, Giuliana fece erigere la chiesa e Ambrogio la consacrò in prossimità della Pasqua del 394. Così racconta Paolino. In quell’occasione le tre figlie della donna presero il velo dalle mani del vescovo di Milano e il figlio Lorenzo, che ovviamente si chiamava come il santo che ne aveva propiziato la nascita, divenne lettore, primo gradino della scala verso la dignità del sacerdozio. Di quella memorabile giornata è giunta l’omelia pronunciata dal presule. Si intitola Esortazione alla verginità. In essa Ambrogio dedica grande spazio all’elogio di quella vedova che ha fatto costruire la basilica e offre a Dio i suoi figli. Ha costruito un tempio di pietra, ma ha anche dato a Dio il tempio di carne fatto dal cuore dei suoi cari. Il testo presenta continui rimandi ai testi biblici: i fedeli fiorentini, quindi, come tutti i cristiani della tarda antichità, erano perfettamente in grado di cogliere allusioni e citazioni. La Bibbia allora era molto più conosciuta di adesso. Nel testo di Paolino manca ogni accenno a un vescovo fiorentino che sia andato incontro ad Ambrogio per accoglierlo. Eppure è probabile che all’epoca Florentia fosse già sede episcopale: un’antica tradizione, che risale a Ottato di Milevi, afferma che nel 313 a Roma si svolse un Concilio al quale aveva partecipato un vescovo, di nome Felice, a Florentia Tuscorum, il che farebbe pensare all’esistenza di una cattedra episcopale in Firenze. Che cosa si deve dedurre da questa notizia? Che quel vescovo fosse solo originario della città, ma non ne fosse il presule? Pare poco probabile. Non è forse sbagliato pensare che al momento dell’arrivo di Ambrogio la

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fantasmi di città


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6  non è vero… ma ci credo

L’attuale basilica di San Lorenzo, in forme brunelleschiane, è stata preceduta in questo luogo da un’aula di culto medievale e dalla chiesa tardoantica consacrata da sant’Ambrogio

sede fosse vacante, come spesso è successo anche in seguito per la fortuna della famiglia dei Visdomini, che amministravano i beni della Chiesa in mancanza del legittimo pastore. Potrebbe anche darsi che all’epoca il vescovo fosse un ariano, non certo disposto ad accogliere Ambrogio. Comunque sia, nei giorni della consacrazione della basilica, non risulta che il santo ospite abbia avuto contatti con un vescovo a Firenze. È frutto di una leggenda molto più tarda l’abbraccio tra Zanobi e Ambrogio, immortalato da Neri di Bicci in un quadro celeberrimo e riproposto da mons. Livi e dal card. Martini nei festeggiamenti del xvi Centenario della fondazione di San Lorenzo. Infine Ambrogio ripartì per Milano e non tornò più in riva d’Arno. I contatti però non si interruppero: un legame sottile, inquietante, si instaura tra Firenze e l’ombra del grande personaggio. Il biografo Paolino, dopo aver narrato la morte del santo e la sua apparizione ad alcuni uomini nel giorno stesso della scomparsa, racconta altri prodigi simili. Al cap. 50 si legge: In Toscana, nella città di Firenze, dove è ora vescovo l’uomo santo Zanobi, poiché aveva promesso ai cittadini che glielo chiedevano, che sarebbe venuto spesso a visitarli, abbiamo imparato che fu visto pregare di frequente presso l’altare che è nella basilica ambrosiana, che da lui stesso lì era stata consacrata, poiché il santo vescovo Zanobi ce lo riferisce.


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Al momento della partenza da Firenze, gli abitanti della città avevano chiesto al loro ospite di tornare: egli aveva evidentemente promesso una nuova visita. La morte lo aveva colto nel 397. Un santo non promette mai invano: ecco dunque la sua ombra apparire in preghiera in San Lorenzo. Quel che più conta, la fonte di questi fatti straordinari è certa e affidabile. Paolino ha saputo delle apparizioni dalla viva voce di Zanobi, il vescovo evidentemente eletto dopo il 394. C’è quindi un rapporto stretto tra Milano e Firenze: il vescovo toscano nota le apparizioni del santo, ne parla con il diacono della Chiesa milanese, che poi inserirà le notizie nella biografia. È in questa pagina che Paolino chiama San Lorenzo “basilica ambrosiana”, la titolatura più antica dell’insigne monumento, usata ancora oggi. Non è tutto. Il biografo di Ambrogio continua: In quella stessa casa nella quale dimorò al tempo in cui evitava Eugenio, nel momento in cui Radagaiso assediava la sopradetta città, quando ormai i cittadini della stessa città avevano perso ogni speranza riguardo a se stessi, apparve in visione ad un uomo e promise che l’indomani ci sarebbe stata per loro la salvezza. E mentre quell’uomo riferiva questo, gli animi dei cittadini furono confortati; infatti il giorno seguente, all’arrivo di Stilicone, allora comandante, con l’esercito, avvenne la vittoria sui nemici. Queste notizie le abbiamo apprese dalla voce di Pansofia, donna religiosa, madre del fanciullo Pansofio.

I fatti cui si fa riferimento si collocano nell’anno 405 d.C., quando Ambrogio è nella tomba da otto anni. Mentre i Goti guidati da Radagaiso assediavano la città e tra i Fiorentini la preoccupazione era già diventata disperazione, il vescovo apparve in quella stessa casa in cui era stato ospitato. Testimone dello straordinario evento fu un credente del quale non sappiamo nulla: egli solo riferì che l’ombra aveva predetto per il giorno dopo la salvezza di Florentia. Appena la notizia si diffuse, gli animi degli assediati si risollevarono: è evidente che consideravano Ambrogio come un loro patrono. L’indomani giunse Stilicone e, nella battaglia di Fiesole, combattuta soprattutto nella Valle del Mugnone, i nemici furono sbaragliati: la città fu liberata. Il testo sembra insinuare che il prodigioso evento sia stato una specie di ricompensa per i Fiorentini, che avevano accolto Ambrogio con estrema generosità. Fu infatti Pansofia, madre del fanciullo miracolato, a informare Paolino dell’apparizione in casa sua. Ciò rese in qualche misura sacro il luogo dove l’abitazione sorgeva: tra le attuali via Pietrapiana, Borgo la Croce e la piazza della chiesa nota in Firenze perché teatro del miracolo eucaristico del 1230 legato all’anziano prete Uguccione, era sorto un monastero femminile, la cui cappella era intitolata al santo milanese, per serbare memoria del suo passaggio in quelle

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Prima della targhetta con il nome della strada, questo tondo indicava via San Zanobi

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zone. Secondo una credenza medievale, Ambrogio non fu il solo artefice dello scampato pericolo. In quell’occasione pare che nel cielo della città si sia librata santa Reparata, con la bandiera col giglio in mano. Questo narrano i testi antichi. Non si hanno notizie della presenza dell’ombra di Ambrogio nell’attuale San Lorenzo: resta però la confortante certezza di poter ricostruire una catena di eventi che viene da molto lontano. Il primo fantasma apparso sotto i nostri cieli è un santo, certificato da un altro santo. La vicenda dell’antica Firenze cristiana si snoda tra testimoni eccellenti, tra un miracolo e l’altro, creando un patrimonio di realtà e leggende che è parte integrante e fondante dell’identità religiosa e culturale fiorentina.


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