Agricoltura pratica tratta dall'esperienze nel giro d'anni LX

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Giuseppe Del Moro

AGRICOLTURA PRATICA tratta dall’esperienze nel giro d’anni LX a cura di

Daniele Vergari



accademia dei georgofili

Giuseppe Del Moro

AGRICOLTURA PRATICA tratta dall’esperienze nel giro d’anni LX a cura di

Daniele Vergari prefazione di

Rossano Pazzagli

Firenze, 2021

Società

Editrice Fiorentina


Con il contributo di

Copyright © 2021 Accademia dei Georgofili Firenze http://www.georgofili.it Proprietà letteraria riservata È vietata la riproduzione in qualsiasi forma, intera o parziale (testo e immagini) ISBN 978-88-6032-636-2 Servizi redazionali, grafica e impaginazione società editrice fiorentina Le immagini del volume sono tratte dal Mss. di Del Moro conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Palatino 481) e sono pubblicate su concessione del Ministero della Cultura / Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Si ringrazia il personale della Sala Manoscritti per la sua cortese e gentile collaborazione e per la concessione delle immagini In copertina Un versante sistemato con terrazzamenti trasversali, fossette e acquidocci, tratto da Firenze, BNC, Pal. 481, c. 70


Indice

Premessa di Massimo Vincenzini

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Prefazione di Rossano Pazzagli

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Introduzione

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Un fattore georgofilo: notizie biografiche intorno a Giuseppe Del Moro xvi Fattori, contadini e padroni nella seconda metà del XVIII secolo xvii La pratica dell’agricoltura in Toscana fra Cosimo Trinci e Giovanni Targioni Tozzetti xxiii L’agricoltura toscana attraverso l’Agricoltura pratica di Giuseppe del Moro xxvii Meteorologia e agricoltura nell’opera di Del Moro xxxv Conclusioni xxxviii Note sulla trascrizione xxxix

Ringraziamenti

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giuseppe del moro, agricoltura pratica 1 appendici Elenco dei proverbi contenuti nell’opera Misure antiche toscane Varietà di piante citate nel manoscritto

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Bibliografia 239 Indice delle cose notevoli

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Indice dei luoghi citati

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Indice dei nomi citati

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premessa

Il trattato Agricoltura pratica di Giuseppe Del Moro, fattore dei Duchi Salviati e uno dei primi accademici aggregati dei Georgofili nel XVIII secolo, rappresenta un importante tassello per definire la storia dell’agricoltura toscana e dell’Accademia nel corso dei suoi primi decenni. L’opera di Del Moro si presenta come un vero e proprio compendio delle conoscenze agricole del periodo e, allo stesso tempo, un manuale di agricoltura pratica tratta dall’esperienza dell’autore. Un manoscritto interessante che è rimasto fino ad oggi inedito nonostante l’Accademia, alla quale fu presentato il 22 luglio 1758, ne avesse espresso un favorevole giudizio per il tramite di Pietro Petrucci, come ci descrive Ubaldo Montelatici nelle sue Memorie, da poco digitalizzate e presenti in rete sul sito dell’Accademia. L’interesse di Montelatici, ispiratore dei Georgofili e animatore dei primi anni del nostro sodalizio, è testimoniato anche dal fatto che questo volume rappresenta una copia del manoscritto originale di Del Moro, fatto su richiesta dello stesso Montelatici e probabilmente destinato ad essere stampato. Del manoscritto nelle mani di Montelatici si hanno notizie fino agli anni ’70 del XVIII secolo e poi se ne perse le tracce fino a che, nel 1821, il testo era già presente nella Biblioteca Palatina di proprietà della famiglia granducale lorenese. Il testo passò poi nelle collezioni della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze dove è stato ritrovato grazie all’impegno del dott. Daniele Vergari, accademico anch’esso, che ne ha curato la trascrizione arricchendola di note e appendici che la contestualizzano e la rendono attuale. Oggi il manoscritto di Del Moro, corredato anche di un interessante presentazione di Rossano Pazzagli, dopo oltre 250 anni dalla sua presenta-


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zione ai Georgofili, viene finalmente pubblicato dall’Accademia colmando, in qualche modo, una lacuna nel nostro Archivio storico e confermando che la storia della nostra agricoltura ha profonde radici nel passato. Massimo Vincenzini Presidente dell’Accademia dei Georgofili


Prefazione

Fu soprattutto nel corso del Settecento, il secolo degli illuministi e delle rivoluzioni economiche e politiche, che l’agricoltura, attività pratica per eccellenza, diventò anche oggetto di studio e che il sapere agrario venne lentamente trasformandosi in scienza, fino ad approdare in varie forme tra i banchi di scuola e sulle cattedre delle università. Ciò avvenne seguendo percorsi articolati, con esiti differenziati tra i Paesi europei e nei contesti regionali italiani, dove si assiste a una varietà di progetti, spinte in avanti e battute d’arresto, caratterizzati da ricorrenti dibattiti sui soggetti da istruire e sul rapporto tra scienza ed economia e tra teoria e pratica. Nell’Europa settecentesca la cir­colazione delle conoscenze in materia di scienza, di economia e di tecnica rurale venne progressivamente allargandosi, con la circolazione e traduzione di libri di agricoltura e la comparsa di istituzioni nuove con l’obiettivo di incoraggiare il progresso nelle campagne, tra le quali spicca la nascita dell’Accademia dei Georgofili istituita a Firenze nel 1753. Nell’Inghilterra del XVIII secolo, in Francia, in Germania e in Italia si sviluppò l’intreccio tra l’esperienza pratica di agricoltori e allevatori e l’opera degli scrittori, dei divulgatori, dei viaggia­tori. Per lungo tempo il dotto in agricoltura era identificato con il proprietario terriero illuminato, con il nobile letterato e istruito, con professionisti eclettici come medici e avvocati, o con qualche ecclesiastico, spesso considerati come intenti a contrastare l’ignoranza e il tradizionalismo dei contadini. Al di là di questa contrapposizione da sfatare, o comunque da riportare alle sue reali dimensioni, un ruolo significativo deve essere riconosciuto alle figure intermedie operanti nei diversi sistemi agrari, cioè a coloro che tendevano ad assumere una funzione direzionale, di guida o di coordinamento dell’attività degli agricoltori (fittavoli, fattori, castaldi, massari, agenti rurali di varia denominazione).


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Nel sistema agrario toscano, incentrato sulla mezzadria come rapporto di produzione prevalente e sulla fattoria come struttura agraria delle grandi proprietà fondiarie organizzate in poderi, questo ruolo si è identificato a lungo con il fattore, agente del proprietario in campagna, intermediario tra il padrone della terra e i contadini, amministratore della fattoria e sovrintendente alla conduzione delle unità poderali. Giuseppe Del Moro, di cui Daniele Vergari pubblica l’interessante e corposo trattato Agricoltura pratica rimasto inedito fino ad oggi, era uno di questi: un fattore illuminato nell’età dei lumi, quando anche le campagne furono progressivamente toccate dall’impeto georgofilo del miglioramento agricolo ancorato a una razionalizzazione e a una sistematizzazione delle conoscenze. Di lui, come del dibattito sul ruolo dei fattori nella Toscana settecentesca, animato in primis dalla nuova Accademia dei Georgofili, si occupa Vergari nella approfondita introduzione al trattato di Del Moro. Qui mi preme sottolineare come questa opera, oltre a costituire un arricchimento delle fonti e della documentazione per lo studio dell’agricoltura toscana nel ’700, sia da un lato espressione del sistema mezzadrile e dall’altro fornisca l’occasione per riflettere sulle dinamiche del sapere agrario e della sua trasmissione, correggendo la troppo netta contrapposizione tra saperi esperti e saperi contestuali. Prima del XIX secolo lo sviluppo dell’agricoltura doveva ben poco alla ricerca scientifica e all’istruzione tecnica. Le innovazioni nella coltivazione e nella conduzione delle aziende agricole avvenivano su base empirica, grazie alle conoscenze accumulate localmente o all’emulazione di buone pratiche rese note da viaggiatori e mercanti, magari divulgate da qualche impegnato prete rurale, come Giovan Batista Landeschi a San Miniato, o da qualche proprietario terriero illuminato. Su questa linea, il trattato di del Moro appare al tempo stesso come un manuale di campagna e come un tentativo di codificare il sapere dell’esperienza e dell’osservazione, in un tempo in cui prevaleva il sapere pratico non codificato. Il del Moro non era uno scienziato, era un uomo pratico che ha osservato a lungo i contadini delle campagne fiorentine e che grazie alla sua esperienza di fattore si è formato un’idea anche sul ceto proprietario, contribuendo a suo modo allo sviluppo della conoscenza; uno sviluppo che pur essendo uno dei temi centrali del mutamento economico, è uno degli elementi più sfuggenti nella ricerca storica. Ma è chiaro che ogni processo produttivo contiene e ha sempre contenuto dei saperi. Bisogna quindi fare attenzione a non contrapporre i diversi livelli della conoscenza (pratica e scientifica, sapere alto e basso, popolare e d’élite, locale e globale, esperto e contestuale, appunto), ma considerare soprattutto le modalità e i risultati


Prefazione

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della loro integrazione. Il valore della conoscenza è dato soprattutto dalla continua integrazione dei linguaggi tecnico-scientifici e dei saperi contestuali che sono depositati nelle tradizioni produttive e nelle realtà locali. Quello degli agronomi è stato di fatto un percorso a professionalizzazione debole, sia per l’incerto statuto scientifico dell’agronomia e per la pluralità di competenze connesse con l’agricoltura, «un’arte senza della quale niuno esisterebbe», come scrisse Giuseppe Maria Galanti nel clima culturale dell’Illuminismo italiano. Fu anche il fervore di uomini pratici come Del Moro a generare, soprattutto a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, un fenomeno senza precedenti di proliferazione di libri e scritti di agricoltura, con una intensificazione dei contatti culturali. Oltre ai libri fece la sua comparsa anche una letteratura agraria periodica che accrebbe il flusso delle informazioni e delle conoscenze dal tardo ’700 in avanti, mentre il contemporaneo progresso scientifico (chimica agraria, botanica, meccanica…) stava conducendo alla formazione del­le prime idee e dei primi tentativi di promuovere l’istruzione tecnica in agricoltura con un approccio teorico-pratico, che si concretizzerà più tardi in scuole e fattorie sperimentali. Sull’onda del pensiero fisiocratico e delle spinte illuministiche verso una razionalizzazione delle arti e dei mestieri, maturò un po’ in tutta Italia un interesse per i problemi dell’agri­coltura, con la creazione di accademie e società agrarie, a cominciare da quella dei Georgofili e da quelle sorte poco dopo nella Repubblica di Venezia, i cambiamenti giuridici (le riforme) che facilitarono l’accesso alla terra, l’avvio dei moderni catasti, ecc. L’insegnamento dell’agricoltura e la diffusione delle conoscenze nelle campagne divennero temi molto dibattuti: chi auspicava che i tradizionali maestri di scuola comunitativi venissero incari­cati di tale insegnamento e chi individuava i parroci come categoria adatta a instillare nei contadini le più elementari nozioni agrarie e a mostrargli la convenienza delle innovazioni. Ma nel dibattito emerse che non sarebbe stato sufficiente occuparsi di una generica istruzione dei contadini e che occorreva fornire attraverso nuove scuole una buona preparazione tecnica proprio ai fattori o a proprietari che assumessero sempre più un profilo imprenditoriale nella gestione delle proprie terre. Si tratta di un’esigenza che il Del Moro esprimeva nel suo trattato: mentre da un lato sottolineava come l’agricoltura fosse «arte nobilissima» e che doveva essere considerata come «una scienza da coltivare la terra mediante la quale tutti gli viventi si sostentano e vivono», dall’altro indicava la necessità di una maggiore preparazione dei fattori, visti come soggetti da istruire affinché potessero a loro volta «instruire i contadini». Era una chiara dichiarazione programmatica, ben inquadrata nel sistema


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mezzadrile toscano e moderna nel suo fondamento pratico che non contraddiceva la scienza, ma la chiamava in aiuto di un’attività fondamentale come l’agricoltura. Del Moro scrisse il suo trattato negli anni centrali del ’700, e il suo non era un impegno isolato; basta ricordare, come fa giustamente Vergari, i precedenti di Domenico Falchini e di Cosimo Trinci, anch’essi fattori toscani che qualche decennio prima avevano redatto trattati agrari almeno in parte assimilabili, a partire dal titolo: Trattato di agricoltura e L’agricoltore sperimentato. Nella cultura agraria della mezzadria settecentesca sembra dunque emergere un fermento descrittivo e in parte innovativo per quanto riguarda le tecniche agricole e i metodi di coltivazione, un fermento che nella seconda parte del secolo confluirà nell’attività dei Georgofili assumendo in qualche misura una dimensione intellettuale. Sul piano sociale ed economico la mezzadria significava la famiglia contadina e il podere, il proprietario della terra e il fattore; dal punto di vista tecnico e degli assetti produttivi voleva dire policoltura e integrazione coltivazioni-allevamento del bestiame. Poi c’era il piano ambientale, al quale Giuseppe Del Moro riserva una particolare sensibilità: le stagioni, il clima, la geomorfologia dei terreni sono tutti aspetti che ricorrono nel trattato, in particolare quando si sofferma sulle sistemazioni idrauliche dei campi, distinguendo nitidamente tra pianura e collina, dove il governo delle acque e la disposizione delle colture richiedono soluzioni differenti, riassumibili nella sistemazione a porche nei terreni pianeggianti, mentre quelli collinari «Bisognano le coltivazioni per il traverso dei campi»: «Nei luoghi piani scrive – si deve seminare a porche, per difesa dell’umido, con fare ai campi dei solghi traversi che si chiamano “acquai” quali portano l’acqua piovana fuori dal campo. Per i monti, e particolarmente ne’ terreni asciutti o sottili, si deve seminare senza porche a fine che il terreno si mantenga più umido ma si faccia però, quanto si può, i solchi a traverso ai campi, a fine che l’acqua non rompa e porti via il terreno». Anche in questo può essere considerato anticipatore di questioni che di lì a pochi decenni diverranno centrali nel pensiero agrario toscano, da Landeschi a Testaferrata e a Cosimo Ridolfi. Lo stesso si può dire per la sfera economica e tecnica dell’agricoltura regionale, per la quale Del Moro indica in conclusione tre problemi principali: l’assenteismo dei proprietari, in particolare di quelle casate che rischiano l’estinzione; l’incuria di chi possiede pochi poderi, quindi non organizzati in fattoria, e l’impossibilità di promuovere qui una buona coltivazione da parte dei padroni; infine la necessità di allestire, nelle diverse province, dei terreni sperimentali per superare le “false teorie” e favorire l’emulazione delle buone pratiche agricole. Per tutte e tre le questioni l’autore invoca l’impegno delle istituzioni – il sovrano nel primo caso, le comunità locali


Prefazione

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nel secondo e l’Accademia dei Georgofili nel terzo – dimostrando così di possedere una visione più ampia, non limitata agli aspetti tecnici, ma ispirata a un ruolo centrale dell’agricoltura nell’auspicio che questa recasse un contributo primario alla promozione della «pubblica felicità». Rossano Pazzagli



introduzione

Il manoscritto di Giuseppe Del Moro è conservato presso il fondo Palatino della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze almeno dal 1827, data in cui è descritto nell’inventario dei codici della Palatina stessa compilato da Giuseppe Molini1. Nonostante quindi il volume fosse noto, pochi sono stati gli studiosi che hanno usato questa fonte per studi sulle tecniche agricole nella Toscana del XVIII secolo. Il testo di Del Moro è riconducibile ai primi anni di attività dell’Accademia dei Georgofili, nata a Firenze nel giugno del 1753, e offre un interessante contributo alla conoscenza delle tecniche agricole e del mondo rurale della seconda metà del Settecento in Toscana. Un momento fondamentale per l’agricoltura del Granducato che proprio in quel periodo, grazie alla reggenza lorenese e alla nascita dell’Accademia dei Georgofili, muoveva i primi passi verso una stagione di riforme e di trasformazioni che, nonostante limiti e fallimenti, fu osservata con interesse da gran parte dei Paesi europei. Il titolo Agricoltura pratica condensa perfettamente il pensiero e l’obiettivo di Del Moro, fattore presso il duca Salviati, nello scrivere queste memorie che abbracciano tutta l’attività agricola che Del Moro, nel corso di una lunga esperienza durata oltre 60 anni, ha avuto modo di conoscere e “toccare con mano”.

1 Il volume manoscritto, legato con coperta in cartapecora, misura 305 x 214 mm e consta di 250 pagine numerate. La collocazione è all’interno dei mss. Palatini, 481 (cfr. I Codici Palatini della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Roma 1899, ii, p. 47). Sul manoscritto si veda anche la scheda su MANUS https://manus.iccu.sbn.it//opac_SchedaScheda.php?ID=297614. Ringrazio per le informazioni David Speranzi e Leonardo Frassanito della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.


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Un fattore georgofilo: notizie biografiche intorno a Giuseppe Del Moro Poche sono le notizie biografiche finora reperite su Giuseppe Del Moro. Fattore, figlio a sua volta di fattori sempre al servizio della famiglia Salviati, svolse la sua attività prima presso la fattoria di Castagnolo e poi, in tarda età, alla fattoria di Ponte alla Badia, nei dintorni di Firenze. Morto in età imprecisata (ma sicuramente posteriore al 1775) fu nominato accademico il 22 luglio 1758 dopo che Ubaldo Montelatici aveva presentato all’Accademia il trattato Agricoltura pratica redatto da Del Moro2. Le parole del canonico lateranense – che asserisce di aver richiesto esplicitamente la stesura delle esperienze di Del Moro – lasciano intuire un contatto fra i due che potrebbe essere nato per la prossimità fra la residenza dei duchi Salviati – presso al quale abitava Del Moro – e la Badia di San Bartolomeo (nota come Badia fiorentina) dove risiedeva Montelatici3. Una volta recuperato da Montelatici, il manoscritto deve essere ritornato, in data imprecisata, in possesso dell’autore ma la notizia di questo trattato pratico di agricoltura circolò all’interno dell’ambito accademico tanto da essere citato da Francesco Pagnini nella prima parte del suo progetto di scuola agraria: Merita che qui sia riportato, o per meglio dire notificato, quanto asserisce intorno all’abilità e carattere della maggior parte dei nostri Fattori uno del loro medesimo ceto, e professione (cioè un Fattore), il quale per buona ragione deve più d’ogni altro poterne parlare, e giudicare, in una sua Opera manoscrit2 Cfr. P. Bargagli, L’Accademia dei Georgofili nei suoi più antichi ordinamenti, «Atti della R. Accademia dei Georgofili», v serie, iii, 1906, pp. 387-502: 427-428: «In appresso mostrai all’Accademia un Trattato di agricoltura composto da un fattore del Sig. Duca Salviati, e fu commesso al Sig. Pietro Pierucci d’esaminarlo, come fece, e ne diede a me e all’Accademia buona e favorevole relazione. Io conservo detto trattato manoscritto presso di me, perché fu fatto a mia istanza, e mandatomi dall’autore e proposi detto autore per nostro corrispondente, in cui nome è Giuseppe Del Moro fattore del Sig. Duca Salviati a Castagnolo». Nella stessa giornata Giovanni Targioni Tozzetti lesse il secondo ragionamento sull’agricoltura dedicato allo studio dei terreni. 3 Del Moro si trasferì dalla fattoria di Castagnolo (o Castagnoli) nel comune di Castellina in Chianti (oggi di proprietà della famiglia Schefenacker che ringrazio per la disponibilità) in data imprecisata, in una casa presso la fattoria Salviati a Ponte alla Badia, a poche centinaia di metri dalla Badia fiorentina. La fattoria di Castagnolo apparteneva ai Salviati e poi, per via matrimoniale, ai Salviati D’Atri e, infine, da loro all’ospedale di S. Giovanni di Dio fino all’alienazione del bene nel 1817. Da allora la fattoria è passata attraverso vari proprietari fra cui ricordiamo Torello Ticci, professore all’Università di Perugia, economista (1823-1913 circa) che combatté a Curtatone, nel 1848, nel Battaglione universitario. Sulla villa Salviati presso il ponte alla Badia, acquistata dallo Stato italiano nel 2000 e oggi sede dell’Ist. Universitario Europeo, si veda F. Gurrieri, R. Renai, Villa Salviati alla Badia. L’acquisizione della villa, l’opera di restauro, le grotte, Firenze 2012.


introduzione

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ta, da me e da non pochi altri stata veduta, e che, per contenere molte buone regole, e apprezzabili pratiche, comparirà forse in breve alle stampe. Questo è Giuseppe Del Moro Fattore del Sig. Duca Salviati al Ponte alla Badia, il quale, nell’aggiunta di esso fatta alla sua Opera intitolata Agricoltura pratica tratta da esperienze nel giro di anni 60. In foglio di pag. 249 ed esistente presso il medesimo Autore ancora vivente, dice che dei Fattori buoni se ne trovano pochissimi, e che quasi tutti non sanno i principi della loro arte4.

La descrizione del Pagnini concorda perfettamente con il manoscritto conservato presso la Nazionale anche se non conosciamo il modo e il momento in cui il testo sia entrato nel Fondo Palatino. Poco di più sappiamo di Giuseppe Del Moro e, con le recenti vicende sanitarie, non è stato possibile consultare l’archivio Salviati conservato presso la Scuola normale superiore di Pisa5. Fattori, contadini e padroni nella seconda metà del XVIII secolo Il ruolo dei fattori all’interno del sistema agricolo toscano in età moderna è stato oggetto di vari studi fra cui quelli pionieristici di Mirri e di Luttazzi Gregori seguiti, nel tempo, da altri contributi più precisi in termini territoriali6. La situazione di arretratezza nella quale si trovava l’agricoltura toscana, alla metà del ’700, era dovuta a vari fattori fra i quali un generale assenteismo dei proprietari e una diffusa ignoranza dell’arte dell’agricoltura fra i contadini e i fattori che impediva, di fatto, l’adozione di nuove tecniche Cfr. «Magazzino Toscano», vol. xxii, 1775, pp. 175-176. Nel fondo Salviati sono presenti alcuni disegni come quello di un granaio eseguiti dallo stesso Del Moro. (cfr. E. Karwacka Codini, M. Sbrilli, Catalogo delle piante e disegni dell’archivio Salviati, Pisa 1993). 6 Sugli aspetti e il dibattito sulla mezzadria in Toscana vi è un’ampia bibliografia. Oltre ai vari articoli sulla «Rivista di Storia dell’Agricoltura» e alla Storia dell’agricoltura italiana, curata dall’Accademia dei Georgofili (Firenze 2002), si rimanda ai seguenti testi: M. Mirri, Ferdinando Paoletti, agronomo, “georgofilo”, riformatore nella Toscana del Settecento, Firenze 1967; P. Clemente, M. Coppi, G. Fineschi, M. Fresta, V. Pietrelli, Mezzadri, letterati e padroni nella Toscana dell’Ottocento, Palermo 1980; E. Luttazzi Gregori, Fattori e fattorie fra settecento e ottocento, in Contadini e proprietari nella toscana moderna, Firenze 1981, v. 2, pp. 5-83; Mezzadri e mezzadrie tra Toscana e Mediterraneo, a cura di G. Biagioli, R. Pazzagli, Pisa 2013. Per un quadro più preciso delle pratiche agricole fra Settecento e Ottocento invece rimandiamo a C. Pazzagli, L’agricoltura toscana nella prima metà dell’800, Firenze 1973; E. Donati, Per una storia dell’agricoltura toscana nell’età delle riforme: sistemi colturali e produzione in alcune fattorie granducali del contado fiorentino, «Ricerche Storiche», 2, 1992, pp. 261 e segg.; Agricoltura come manifattura: istruzione agraria, professionalizzazione e sviluppo agricolo nell’Ottocento, a cura di G. Biagioli, R. Pazzagli, Firenze 2004. 4 5


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agrarie e la transizione verso una nuova agricoltura più razionale e basata su moderne teorie scientifiche7. L’Accademia, fin dalla sua nascita aveva stigmatizzato la mancanza «di lumi e di scienza agraria nei Proprietari, nei Fattori, e nei Contadini» che – come osservava Francesco Pagnini nella sua memoria del 1775 – era la causa principale della «inazione grande, se non continova» di molti terreni della Toscana quando gli stessi, «colla rendita accresciuta dei loro prodotti, formerebbero la prosperità civile della medesima»8. Ne consegue una scarsa predisposizione dei contadini ad accettare migliorie e nuove tecniche mentre i fattori, che dovrebbero avere maggiore esperienza e conoscenza, non sono adatti a trasmettere i precetti della nuova agricoltura ai contadini perché si distinguono da quelli per essere non meno rozzi ma più presuntuosi9 solo perché «dalla vanga e dall’erpice prescelti alla penna ed all’amministrazione, che alcuno studio non hanno fatto giammai sui buoni maestri d’Agricoltura»10. D’altra parte i proprietari, spesso richiamati dai vari autori del periodo alle loro responsabilità e invitati «a far prima un buono studio su gli ottimi maestri d’Agricoltura» e «nel tempo della villeggiatura»11 ad occuparsi delle loro proprietà con maggiore attenzione, tardavano ad accogliere l’invito e preferivano restare nei comodi palazzi di città. In quest’ambito, nonostante le critiche per l’inadeguatezza della sua preparazione, la figura del fattore non poteva che rimanere essenziale nel sistema mezzadrile toscano e, stante l’assenza dei proprietari dei terreni, non se ne sarebbe potuto facilmente fare a meno e l’Agricoltura pratica di Del Moro ribadisce anche questo concetto. L’autore, infatti, inserito pienamente nel sistema mezzadrile toscano, partecipò da subito al dibattito accademico e, pur in accordo con le posizioni della neonata Accademia, difese il suo operato e soprattutto l’appartenenza a un ceto, quello dei fattori, identificandone le caratteristiche necessarie: I fattori è necessario che abbiano non una mediocre tintura di pratica circa l’agricoltura ma che siano eccellentemente in quella istruiti, per essere non solo utili al loro principale quanto ancora al pubblico tutto; perciò tornerebbe Cfr. Luttazzi Gregori, Fattori e fattorie…, cit., p. 11. F. Pagnini, Progetto di scuola agraria esposto nella prima delle tre parti, Firenze 1775, p. 10. 9 G. Targioni Tozzetti, Ragionamenti del dottor Giovanni Targioni Tozzetti sull’agricoltura toscana, Lucca 1759, p. 4. 10 U. Montelatici, Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l’agricoltura, colla relazione dell’erba Orobanche detta volgarmente Succiamele e del modo di estirparla da Pier Antonio Micheli, Firenze 1752, p. 17. 11 Ivi, p. 18. 7

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in acconcio che i medesimi, avanti di porsi a questo mestiere, fossero scrupolosamente esaminati da persone deputate a tal fine. Di più che il padrone, per riprova in pratica dell’abilità, gli assegnasse un pezzo di terra ove fossero viti, piante e tutt’altro degno di coltivazione, e quel terreno deve essere del tutto custodito e lavorato dallo stesso fattore a riprova del vangare e zappare; in specie dovrebbe attendere a potare le piante, piantare, innestare e cose simili, per ridursi in stato di instruire i contadini e conoscere chi sia pratico dell’agricoltura perché non succeda che i contadini debbano farla da maestri a’ medesimi fattori12.

Nello scorrere il testo di Del Moro emergono le caratteristiche di un fattore ideale: acuto osservatore, ordinato, metodico, in grado di leggere e di scrivere, esperto nel trattare i contadini, pienamente cosciente della sua posizione gerarchica nella società rurale toscana, capace di osservare con curiosità e acume l’agricoltura delle altre parti d’Italia da lui visitate, buone capacità commerciali e, similmente a quanto scriveva nel 1673 il preposto Bartolommeo Mercanti, spedalingo dello Spedale di Figline, nello scegliere un fattore per la fattoria dei Serristori, capace di discorrere benissimo del piantare ovolaie, delle nestaie, e moraie sa benissimo potare viti, potare frutti, annestare mori, e altri frutti, s’intende d’ortaggi di qualsivoglia sorte, e in particolare di cavoli fiori, bietole rosse, sparagi, carciofi, e altro13.

Ma nell’Agricoltura pratica l’autore non vuole solo definire le caratteristiche di una «nuova professione» ma anche di affermare, attraverso un testo scritto da un fattore e basato spesso su esperienze concrete, la sua professionalità e le sue non comuni capacità personali14. Lo stesso Del Moro, è particolarmente orgoglioso dei suoi successi professionali raccontati con 12 G. Del Moro, Agricoltura pratica, mss. sec. XVIII, (Palat. 481), cc. 248-249. Sulle caratteristiche del buon fattore riportiamo il pensiero di Giovanni Targioni Tozzetti: «Si richiede in esso un gran fondo di onestà e di giustizia, ed una non ordinaria teorica, e pratica di Agricoltura, e di mercatura rurale. Egli deve impiegare una somma attenzione per far rendere più fruttifere che sia possibile le possessioni a pro del Padrone, e del Lavoratore, spartire giustamente le ricolte, proporre al Padrone tutto quello, che crederà necessario per il vantaggio degli effetti, ed invigilare che i Contadini soddisfacciano alle loro incumbenze» (cfr. Targioni Tozzetti, Ragionamenti…, cit., p. 94). 13 Cfr. A. Zagli, Mezzadria e vita rurale nelle fattorie valdarnesi dei Serristori (secolo XVII), «Ricerche storiche», 1, 2018, p. 114. 14 Dovremo aspettare le iniziative di Cosimo Ridolfi nella sua scuola agraria teorico-pratica di Meleto aperta nel 1834 per vedere i primi tentativi di formare personale adeguato alle mutate esigenze tecniche, produttive ed economiche dell’agricoltura toscana. Su questo si veda, ad esempio, R. Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura. Istruzione, cultura, economia nell’Italia dell’Ottocento, Milano 2008, pp. 63-71.


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precisione (ad esempio il suo intervento alla fattoria di Cesa per conto della Mensa arcivescovile di Arezzo) e non perde occasione di giustificare il suo ruolo evidenziando le scarse conoscenze tecniche dei contadini spesso pigri, abituati a perpetuare pratiche secolari senza capirne il senso e influenzati da superstizioni che inibiscono le innovazioni e l’adozione di nuove pratiche agricole. Forse sarebbe bastato fornire i contadini di una semplice istruzione per superare la loro incapacità ma proprio questo era uno dei punti centrali del dibattito accademico del periodo: è necessario fornire un’istruzione ai contadini? E come? Quasi tutti gli accademici erano concordi nel sostenere che i contadini non dovevano ricevere che poche nozioni pratiche perché nel “nuovo modello” di agricoltura toscana che si veniva a delineare, era richiesto fondamentalmente un maggiore impegno al lavoro e una maggiore fedeltà al padrone e al suo agente e, quindi, la loro educazione doveva essere più morale che tecnica15. Anche per Del Moro i contadini non sono certo chiamati a far parte del processo di rinnovamento dell’agricoltura e, nel capitolo a loro dedicato dal titolo Dell’essere del contadino o capo di casa, ne tratteggia le caratteristiche fondamentali: quando il contadino, è vero contadino, deve conoscere in primo luogo la qualità della terra e sua natura, e a che tempo e stagione debba essere lavorata, concimata, e seminata; deve conoscere la qualità dei frutti e che sorte di semenza richiegga quella terra e clima; deve essere esperto intorno alle piante, in ispecie delle viti e ulivi come piante più degne, fruttifere e di tutti gl’altri alberi salvatichi, poiché da ogni cosa se ne ricavano entrate; deve molto conoscere il fatto suo intorno ai bestiami, sì da lavoro che da frutto, per mezzo dei quali alcuni ci fanno dei buoni guadagni e, alcuni, de’ cattivi scapiti dependendo ciò perché il capo di casa rilascia tutto il pensiero delle bestie alle donne e guardiani, e sopra alla custodia di quelli, si riposa per attendere forse egli a cose di minore importanza e, talora, ai suoi propri interessi con il fare qualche arte non appartenente al suo mestiere e questa è verità da me più volte osservata in più contadini16.

I compiti del contadino sono ben definiti e coinvolgono tutte le attività agricole, dalla cura del bestiame al momento corretto per effettuare le lavorazioni del terreno, alle semine, potature e raccolte, purché effettuati tutti 15 Sull’evoluzione dell’agricoltura toscana del periodo verso quello che Ciuffoletti chiama «sistema di fattoria» si veda Il sistema di fattoria in Toscana, a cura di Z. Ciuffoletti, Firenze 1985 e F. Mineccia, Campagne toscane in età moderna: agricoltura e società rurale (secoli XVI-XIX), Galatina 2002. 16 Cfr. Del Moro, Agricoltura pratica, cit., pp. 25-26 della trascrizione.


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con una certa sollecitudine nelle lavorazioni e una docile predisposizione d’animo che li porti ad ascoltar tutti, in ogni luogo e tempo, quello che fa loro più a proposito per il loro vantaggio, metterlo in opera (poiché da tutti si può imparare).

L’organizzazione del lavoro deve essere tale da impiegare sempre i contadini anche se il tempo non è adatto ai lavori in campo e, oltre alle competenze tecniche, il buon «capo di casa» deve avere l’ubbidienza da quelli a lui soggetti e, per avere ciò, deve avere in primo luogo il timor di Dio; poi sia discreto con tutti perché devono essere a lui sudditi e non schiavi.

Un sistema strettamente gerarchico dove ognuno conosce bene il proprio ruolo e la propria posizione e dove il «capo di casa» deve, a sua volta, tenere sotto stretto controllo i propri familiari sia negli aspetti lavorativi che nella disponibilità di somme da spendere, fino a limitare gli «spassi nell’ore notturne perché, il più delle volte, riescono discoli» mentre a lui, proprio per il ruolo che ricopre, non è mai lecito uno spasso, o altro simile, come ad un suo suddito; […] non deve andare egli alle veglie, giochi, spassi e alle bettole, come ho visto io più volte con i miei propri occhi, scialacquare al capo di casa quel poco d’assegnamento che si trova e poi contendere con la famiglia; che facendo ciò si fa levare il rispetto e la venerazione, e non ha più luogo di comandare quando fa di bisogno17.

Il dibattito sulla necessità di istruire i contadini rimase costante, per decenni, all’interno dei lavori dell’Accademia fiorentina con varie prese di posizioni fra le quali segnaliamo, nel 1771, il concorso pubblico – promosso dalla stessa Accademia – su come «ideare un progetto di scuola d’agricoltura, e coerentemente un sistema di educazione per i ragazzi della campagna». Il concorso, vinto da Francesco Pagnini con una lunga memoria poi pubblicata sul «Magazzino Toscano», proponeva la costituzione di scuole di agricoltura per i proprietari, di scuole speciali per i fattori e di una forma di educazione sul campo per i contadini limitata agli aspetti agricoli18. I tempi non erano ancora maturi per affrontare la questione dell’edu Cfr. Del Moro, Agricoltura pratica, cit., p. 26 della trascrizione. Cfr. Pagnini, Progetto di scuola agraria, cit., edita anche sul «Magazzino Toscano», vol.

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cazione dei contadini e, conseguentemente, dei fattori; nonostante varie proposte e nuovi momenti di discussione, a partire dall’opera di Giovan Battista Landeschi, Saggi di un parroco samminiatese edita nel 1775 e poi, successivamente, alle posizioni espresse da Marco Lastri e Francesco Chiarenti19. Quest’ultimo, nel suo testo Osservazioni sopra l’agricoltura toscana edito a Pistoia nel 1819, arrivò a proporre che la direzione delle fattorie non fosse affidata solamente ai proprietari ma a «persone istruite che riuniscono cioè la teorica alla pratica»20; ma la posizione, forse ritenuta troppo rivoluzionaria, colpa forse anche i passati giacobini di Chiarenti, è uno degli elementi che fu più duramente contestato dalla Commissione dei Georgofili incaricata di valutare l’opera dell’agronomo di Montaione. Nel Rapporto riportato a stampa nel volume stesso, la Commissione scrive: Vorrebbe il Sig.e D. Chiarenti che i fattori o ministri di campagna fossero persone istruite, dotate di cognizioni matematiche, chimiche, fisiche, amministrative vorrebbe che fossero civili, caritatevoli, pazienti… Noi però siam di parere che siavi un mezzo più semplice onde giungere a questo risultato medesimo, ed è l’educazione dei proprietarj21.

Le questioni sollevate dal Chiarenti furono riprese solo nel 1834 quando Cosimo Ridolfi, ritornando in parte sulle proprie idee espresse nel rapxxii. Sull’opera di Pagnini si veda anche Luttazzi Gregori, Fattori e fattorie…, cit., pp. 51-53 e V. Campinoti, Francesco Chiarenti agronomo montaionese e il tema dell’istruzione dei fattori e dei contadini, «Miscellanea storica della Valdelsa», a. ciii, n. 1-2-3, 1997. Le carte del Concorso sono conservate presso l’Archivio dell’Accademia dei Georgofili, Busta 105.6. 19 Per quanto l’istruzione pubblica fosse un tema fondamentale della scuola fisiocratica francese non tutti erano concordi sui benefici. Alcuni sostenevano che l’istruzione delle popolazioni rurali avrebbe portato all’abbandono delle campagne, altri invece ritenevano che l’istruzione avrebbe favorito la permanenza delle popolazioni rurali in campagna (cfr. C. Doria, Aux origines du «paternalisme industriel». L’éducation industrielle dans la pensée physiocratique et dans la Société d’encouragement pour l’industrie nationale, «Les Études Sociales», n. 1 (159), 2014, pp. 11-28.) Anche in Toscana il dibattito fu importante e una parte degli scrittori toscani di agricoltura, come Landeschi e Lastri, sostenevano sempre l’istruzione dei contadini direttamente da parte dei proprietari attraverso un processo di «dimostrazione pratica ed emulazione» (cfr. Pazzagli, Il sapere…, cit., p. 46) mentre Chiarenti supera quest’impostazione, proponendo che la direzione sia svolta dai proprietari e «da persone istruite che riuniscano cioè la teorica e la pratica» (cfr. D. Vergari, Francesco Chiarenti fra agronomia, istruzione e governo del territorio, in F. Chiarenti, Riflessioni e osservazioni sull’agricoltura toscana e particolarmente sull’istituzione de’ fattori, Ristampa anastatica dell’ed. del 1819, a cura di V. Campinoti e D. Vergari, Firenze 2007). Peraltro i parroci furono identificati, in Toscana, come le persone più idonee a trasmettere le nuove conoscenze ai contadini sulle tecniche agrarie che l’Accademia stessa stava cercando di raccogliere e promuovere. Sul tema dell’educazione morale e tecnica dei contadini, sul ruolo dei parroci in Toscana e sull’opera dell’Accademia si veda anche Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura…, cit., pp. 46-52. 20 Chiarenti, Riflessioni…, cit., p. 25. 21 Ivi, p. 46.


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porto della Commissione, diede vita alla prima scuola teorico-pratica di agricoltura nella sua tenuta di Meleto in Valdelsa22. La pratica dell’agricoltura in Toscana fra Cosimo Trinci e Giovanni Targioni Tozzetti La dimensione del trattato di Giuseppe Del Moro è prettamente regionale e, a prima vista, sembrerebbe facilmente assimilabile al Trattato di agricoltura di Domenico Falchini, edito nel 1990 a cura di Simonetta Merendoni e accompagnato da una precisa introduzione di Giovanni Cherubini23. Le descrizioni di certe pratiche enologiche e di coltivazione della vite sono simili ed entrambi i testi sono stati scritti da persone che ricoprivano il ruolo di fattori in fattorie di medie/grandi dimensioni. Tuttavia le analogie sono solo superficiali: il Trattato di Falchini è quasi completamente dedicato alla coltivazione della vite e alle tecniche enologiche, ampiamente descritte, del periodo mentre l’Agricoltura pratica di Del Moro si presenta come uno scritto molto più ampio, per i vari argomenti trattati, tanto da rappresentare una sorta di manuale pratico per l’agricoltura toscana del periodo e un primo tentativo di quel rinnovamento delle tecniche agricole che si sviluppa, a partire dalla seconda metà del ’700, in seno al dibattito nell’Accademia dei Georgofili24. Del Moro è persona minimamente istruita, che sa sicuramente leggere e scrivere, e anche i vari argomenti trattati non possono non avere riferimenti nella trattatistica agronomica del periodo, sicuramente conosciuta dal fattore di casa Salviati. Scorrendo i contenuti del testo manoscritto viene naturale associarlo a quello del pistoiese Cosimo Trinci, anche lui fattore, georgofilo e soprattutto autore di varie opere che ebbero larga fortuna nella pubblicistica toscana e italiana dell’epoca, in particolare L’agricoltore sperimentato. Per quanto non sia citato dal nostro autore, la correlazione con l’opera del fattore pistoiese appare evidente e forse non potrebbe essere altrimenti vista la fortuna di questo testo edito a Lucca nel 1726, e giunto alla quarta ristampa – aumentata e corretta – nel 175925. 22 Sull’esperienza di Meleto e l’istruzione si rimanda al già citato Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura…, cit., ai numerosi volumi curati da Veronica Gabbrielli dei carteggi e dei diari di Cosimo Ridolfi (pubblicati dalla Fondazione Nuova Antologia) e a Agricoltura come manifattura, cit. 23 Domenico Falchini compose il suo trattato fra il 1710 e il 1729 e, come Del Moro, era figlio di fattori. Cfr. D. Falchini, Trattato di agricoltura (sec. XVIII), a cura di S. Merendoni, Firenze 1990. 24 Cfr. A. Saltini, Storia delle scienze agrarie, Firenze 2011, vol. ii, p. 281 e segg. 25 Sulle varie edizioni dell’opera del Trinci si veda la nota bibliografica di L. Pagliai in Cosimo Trinci agricoltore sperimentato, a cura di G. Magnani, Pistoia 2012.


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In ambedue le opere l’esperienza personale rappresenta un elemento fondamentale: le varie nozioni di agricoltura, più che da un confronto con opere di interesse agronomico edite nel periodo, si basano sulla conoscenza diretta, rafforzata (ad esempio nel caso di Del Moro) dalla necessità di testimoniare l’esperienza pratica attraverso frasi del tipo «come più volte ho visto». È interessante segnalare anche i limiti territoriali che emergono dalla lettura dei testi dei due autori. Trinci, nella sua opera, affronta ampiamente la coltura della vite e dell’olivo mentre minore spazio viene dedicato ai cereali, riflesso della sua esperienza di fattore maturata nei poderi collinari fra Lucca e Pistoia; Del Moro, al contrario, si permette uno sguardo più ampio nel descrivere l’agricoltura toscana che ha vissuto grazie anche alle molteplici esperienze fra la val di Chiana e il Chianti, con viaggi in varie parti del nord Italia. Anche l’indice dell’Agricoltura pratica di Del Moro riflette la visione di un’agricoltura più ampia, rappresentata con maggiore metodicità anche se il contesto territoriale resta sempre quello della Toscana interna26. Ma al di là delle analogie che ci sono con l’opera di Cosimo Trinci, il contesto in cui si forma il manoscritto di Del Moro è decisamente diverso: nel 1753, sotto la spinta di Ubaldo Montelatici, era nata a Firenze l’Accademia dei Georgofili e, nonostante i primi anni del nuovo sodalizio siano contrassegnati da difficoltà organizzative e da uno scarso dibattito, uno dei temi principali affrontati dagli accademici è proprio il tentativo di superare lo stato di decadenza dell’agricoltura toscana del periodo, promuovendo il miglioramento tecnico e coinvolgendo i proprietari, spesso assenteisti, a occuparsi in prima persona dei loro poderi. Era necessario migliorare l’agricoltura toscana promuovendo la transizione verso un’agricoltura pratica, più razionale e, soprattutto, libera da errori e consuetudini che erano perpetuati ingenuamente dai contadini e la cui vera causa andava ricercata nell’ignoranza e nell’ostilità verso l’introduzione di nuove pratiche agricole, manifestata da contadini e fattori che Giovanni Lapi definiva duramente niente altro che «contadini levati dalla zappa e messi a sedere a riempire e distendere la pelle»27. Proprio in questa prima fase del dibattito accademico è possibile collocare l’opera di Giuseppe Del Moro che fu letta da Montelatici nella seduta accademica del 22 luglio 175828, nella quale anche Giovanni Targioni Cfr. Saltini, Storia delle scienze agrarie…, cit., vol. ii, pp. 286-287. Cfr. Luttazzi Gregori, Fattori…, cit., p. 13. 28 Cfr. Bargagli, L’Accademia dei Georgofili…, cit., p. 428 e M. Tabarrini, Degli studi e delle 26 27


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Tozzetti aveva esposto la seconda memoria del suo Ragionamento29 dal titolo Riflessioni sopra i lavori della terra necessari per l’Agricoltura. L’accostamento della memoria del Targioni Tozzetti con la lettura dell’Agricoltura pratica è solo apparentemente casuale perché è proprio con le proposte dello scienziato fiorentino che l’opera di Del Moro ha maggiore attinenza. Il Targioni, uno dei più attivi componenti dei georgofili in quegli anni, aveva già delineato nel Prodromo della corografia e della topografia fisica della Toscana30 uno studio che, secondo Pasta, costituiva «un compiuto manifesto per il rinnovamento dell’agricoltura toscana, fondato sull’integrazione tra filosofia naturale e pratica agronomica, formazione tecnica e miglioramento delle condizioni delle popolazioni rurali»31. E infatti, nel Prodromo, la seconda sezione della parte ottava contiene uno schema dettagliato di un trattato di agricoltura dalla cui struttura sembra trarre forte ispirazione l’Agricoltura pratica di Del Moro32. Ma il disegno targioniano sulla nuova agricoltura è meglio leggibile in un’altra memoria, letta sempre ai Georgofili il primo giugno 1757, dal titolo Riflessioni sopra il metodo di studiare l’agricoltura. In questa memoria, stampata poi nel suo Ragionamento, Targioni osserva che vicende della Reale Accademia dei Georgofili, Firenze 1856, p. 67. Nella stessa data l’anziano fattore fu nominato georgofilo, nella classe degli Aggregati, della quale facevano parte altri fattori e cultori di agricoltura. 29 Targioni Tozzetti, Ragionamenti del dottor Giovanni Targioni Tozzetti sull’agricoltura toscana, cit. Per quanto il volume sia importante nella pubblicistica agronomica del periodo vale la pena ricordare che il testo del Targioni non ebbe particolare fortuna colpa anche dell’autoreferenza dello stesso Targioni che, invece di rivolgersi a un pubblico più vasto di studiosi e scienziati si rivolge al ristretto gruppo degli accademici per i quali ritiene che non sia necessario, ad esempio, avere l’indice del volume. 30 G. Targioni Tozzetti, Prodromo della corografia e della topografia fisica della Toscana, Firenze 1754. 31 Si veda il profilo di Giovanni Targioni Tozzetti, curato da R. Pasta sul Dizionario Biografico degli Italiani (https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-targioni-tozzetti_%28Dizionario-Biografico%29/ consultato il 20.01.2021). 32 La Parte viii, Sez. ii del Prodromo prevedeva vari articoli e capitoli così articolati: Articolo i: Osservazioni generali sull’agricoltura toscana; Art. ii: Lavori delle terre; Art. iii: Coltura del Grano, e degli altri Frutti Cereali o Frumentacei; Art. iv: Coltura dei Legumi; Art. v: Coltura di altre Piante, le quali servono per alimenti, per condimenti, e per diversi altri usi economici, e tecnici; Art. vi: Coltura delle Viti; Art. vii: Coltura degli Ulivi; Art. viii: Coltura d’Alberi Pomiferi, e nociferi; Art. ix: Coltura d’Alberi non pomiferi, ma che servono a diversi usi; Art. x: Trattato dei Boschi, ed Alberi, o Frutici, o Ghiandiferi, o da Taglio, o che servono ad altri usi economici, o tecnici; Art. xi: Trattato delle Piante, le quali servono per pastura degli animali, per governo dei terreni, e per diversi usi economici; Art. xii: Trattato della coltura praticata negli Orti e Giardini della Toscana; Art. xiii: Trattato della Manna, del Mele, della Cera, e della Seta, e dei modi migliori da praticarsi per ottenere questi utilissimi prodotti in parte di vegetabili, in parte d’animali. (Cfr. Targioni Tozzetti, Prodromo…, cit., pp. 74-81). La struttura è sostanzialmente simile alla prima parte dell’opera di Del Moro.


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fra i tanti errori popolari del nostro paese non è il minimo, né il meno dannoso quello di credere per cosa indubitata, che le nostre campagne non abbiano bisogno di una più metodica, più estesa, e più diligente coltivazione, e quindi vi siete lodevolmente accinti ad esaminare le pratiche usuali di agricoltura, affine di scoprirne i difetti, e ad applicare le vaste, e solide notizie fisiche da voi possedute per stabilire le vere ragioni naturali ed i veri fondamenti filosofici della metodica e ragionata agricoltura, donde a suo tempo a pro della Patria se ne possa formare un completo e sicuro sistema, e dedurne le regole generali ed infallibili di essa arte33.

Per giungere alla definizione di questo insieme di regole di agricoltura, di cui lamenta l’assenza, lo scienziato fiorentino avverte che è necessario pensare prima d’ogni altra cosa a formare un piano o schema completo e metodico di agricoltura, il quale serva di norma invariabile ai nostri studj ed alle nostre osservazioni, e coerentemente al quale si possano per ora provvedere, e distribuire i materiali di notizie. Un tal piano o sistema invano si cercherà nei libri, e perciò fa di mestieri che ce lo formiamo da per noi; ed appunto a questo fine, Illustriss. Principe, ci avete esortati a comunicare separatamente all’Accademia i nostri progetti sopra tal richiesta34.

Nelle pagine successive Targioni delineò dettagliatamente quel «sistema generale e filosofico dell’Arte georgica»35 che doveva rappresentare la base per riformare l’agricoltura ricordando la necessità di coniugare informazioni scientifiche con le conoscenze pratiche adottate dagli agricoltori e renderle leggibili grazie ad un linguaggio più facile e accessibile: bandite affatto dai vostri studi georgici i pomposi discorsi, i periodi rotondi, ed i laboriosi giri di parole, e applaudite solamente lo stile naturale, semplicissimo, narrativo e didascalico, ben persuasi che ornari res ipsa negat, contenta doceri, anzi gradite, e chiedete perfino le sole verbali notizie, massime dalle persone di Campagna, le quali non sappiano scrivere, e servirà che destiniate alcuni amorevoli soci per riceverle e registrarle36.

Sul finire della memoria lo scienziato fiorentino esorta l’Accademia a raccogliere le memorie, purché precise, veritiere e non anonime, al fine di 35 36 33 34

Ivi, pp. 1-2. Ivi, pp. 2-3. Ivi, p. vi. Ivi, p. 27.


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responsabilizzare gli autori nel raccogliere «tutte le più giudiziose e sicure regole e pratiche di Agricoltura»37. Non sappiamo se Del Moro fu presente alla lettura pubblica delle Riflessioni sopra il metodo di studiare l’agricoltura ma possiamo supporre che, venutone a conoscenza, ne accolse la proposta tanto da presentare all’Accademia, un anno dopo, un lavoro che seguiva quasi fedelmente le linee tracciate dal Targioni e ricevendone, al contempo, un giudizio positivo coronato dalla sua elezione a georgofilo. L’agricoltura toscana attraverso l’Agricoltura pratica di Giuseppe del Moro Il trattato Agricoltura pratica di Del Moro ha una struttura semplice, didascalica, ben ordinata e accompagnata da una lunga iniziale premessa nella quale l’agricoltura viene esaltata come attività principale dell’uomo, corroborando tale affermazione con lunghe citazioni tratte dalla Bibbia e dai Vangeli. Nell’affrontare i vari argomenti Del Moro ci descrive uno spaccato interessante dell’agricoltura toscana della seconda metà del XVIII secolo anche perché descritto da un fattore che ha una conoscenza diretta dell’agricoltura e del sistema mezzadrile. L’opera si apre con una lunga descrizione dei principali tipi di terreno («terre») la cui conoscenza è necessaria per sradicare uno dei problemi principali delle pratiche agronomiche errate del periodo – come ribadisce anche Targioni Tozzetti nel suo Ragionamento – e cioè i tempi di lavorazione sbagliati perché tanta è la di lei [della terra] diversità che non conoscendola e lavorandola alla ventura, il più delle volte si gettano via le spese e la fatica di modo che, in breve tempo, fallisce il lavoratore, pieno di debiti38.

La corretta esecuzione nei modi, ma soprattutto nei tempi, della prima aratura e della successiva erpicatura è fondamentale per la semina e ogni terreno ha le sue modalità per essere lavorato; in generale, alla lavorazione con l’aratro, segue, dopo tre anni, la vangatura tradizionalmente considerata come lo strumento principe dell’agricoltura toscana. Come afferma lo stesso Del Moro:

Ivi, p. 26. Cfr. Del Moro, Agricoltura pratica, cit., p. 14.

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quando la terra è bene disposta, consiglio che ciascheduno ne vanghi di più che può, perché da quella benedetta vanga se ne ricava moltissimi e grandissimi benefizi; e quando un padrone ha un vero contadino, che sappia e voglia bene vangare, può stare sicuro che le entrate di quel podere, o sia in poggio o sia in piano, mai gli falliranno39.

Ma il problema delle lavorazioni è strettamente connesso a un altro aspetto agronomicamente fondamentale – e ancora oggi di drammatica attualità – come quello di assicurare la fertilità dei suoli con rotazioni o concimazioni. Le scarse conoscenze scientifiche non avevano fatto ancora comprendere i meccanismi di nutrizione delle piante se non in modo empirico attraverso le rotazioni agrarie e la pratica del sovescio, peraltro citata alcune volte da Del Moro. Anche l’utilizzo di concimazioni organiche, per quanto ben noto e praticato, non era sempre sufficiente ai bisogni del podere e l’insistenza dell’autore su questo aspetto riflette l’interesse al corretto impiego dei «sughi» oggetto di un lungo e dettagliato capitolo. La disponibilità di concime organico era estremamente importante e poteva avvenire solo se il contadino era abile a raccogliere tutto il materiale organico possibile nella «buca del concio». Nel suo testo Del Moro accenna solo sommariamente alle rotazioni e sembra essere contrario alla tradizionale convinzione di tenere terre a riposo, secondo l’antico metodo del maggese, preferendo il sistema del rinnovo con leguminose e la pratica del sovescio, il cui beneficio era stato empiricamente già affermato40. Per quanto riguarda le produzioni il quadro dell’agricoltura toscana descritto da Del Moro vede la netta presenza della coltivazione del grano, con 39 Ivi, p. 33. Sull’importanza della vangatura come operazione principale dell’agricoltura toscana si veda I. Imberciadori, Campagna toscana nel ’700, Firenze 1953, pp. 179-181; Pazzagli, L’agricoltura toscana…, cit., pp. 159-216. Il lavoro di Pazzagli, sempre attuale, descrive in modo preciso l’evoluzione e i termini delle pratiche colturali in uso nella campagna toscana nel corso della prima metà del XIX secolo che non erano diverse da quelle in uso nel corso del secolo precedente. Solo l’impiego su larga scala dell’aratro (o meglio dell’aratro-coltro), grazie all’impegno e al dibattito in seno all’Accademia dei Georgofili nel corso degli anni ’20 del XIX secolo, avrebbe permesso l’uso progressivo di questo strumento indispensabile per la lavorazione dei terreni. Su tale tema si veda Evoluzione dell’aratro nella Toscana dei Lorena, a cura di G. Gori, Firenze 2002 e G. Taddei, Rapporto della Deputazione ordinaria sugli aratri-coltri presentati al concorso dell’anno 1824, «Continuazione degli Atti della R. Società dei Georgofili», v, 1827, pp. 25-38. 40 Sulla presenza della pratica di tenere terre incolte per ristabilire la fertilità (terre maggiatiche) si veda Imberciadori, Campagna toscana…, cit., pp. 181-185. Anche l’Accademia dei Georgofili ritenendo che il maggese fosse una pratica errata, anche se talvolta necessaria, promosse un concorso nel 1774 (Archivio Accademia dei Georgofili B. 105.7). La pratica del maggese si scontrava con la necessità di aumentare le produzioni e i terreni messi a coltura e già agli inizi del XIX secolo era stata ampiamente abbandonata soprattutto nell’area della Piana fra Firenze e Pistoia (cfr. Pazzagli, L’agricoltura toscana…, cit., pp. 52-58).


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le sue diverse varietà tradizionali dal gentile bianco o rosso al mazzocchio, e la presenza degli altri cereali minori fra i quali la scandella – un orzo distico detto anche orzo di Galazia – oggi praticamente dimenticata. Anche le leguminose e le altre piante «economiche» hanno un loro ruolo: le leguminose, come vecce, lupini e fave, sono da seminare in agosto se destinate al sovescio, in altri periodi dell’anno per la granella mentre lino e canapa sono necessari per trarne materiale destinato alla filatura. Accanto a queste piante le altre due protagoniste dell’agricoltura toscana sono, ovviamente, la vite e l’olivo. La prima, in particolare, è oggetto di una precisa descrizione dei lavori necessari a piantarla con esatte indicazioni circa la costruzione delle fosse per l’impianto, al fine di assicurare alle radici un ambiente privo di ristagni idrici sempre dannosi, sulla disposizione dei filari e sulle varietà da scegliere con riferimento al territorio del Chianti dove lo stesso Del Moro aveva operato per vari anni nella fattoria di Castiglioni vicino a Castellina in Chianti. Lo spazio dedicato agli altri fruttiferi rivela alcune delle trasformazioni in atto nell’agricoltura toscana e, in particolare, la rapida diffusione della coltivazione dei gelsi (mori) per l’allevamento dei bachi da seta. La gelsicoltura rappresentava una redditizia opportunità per contadini e proprietari e già la Reggenza lorenese, il 30 novembre 1750, aveva emesso una prima legge con cui obbligava i proprietari dei terreni confinanti con le strade pubbliche del pisano a piantare gelsi41. Negli anni successivi altre norme e leggi avrebbero portato a uno sviluppo della gelsicoltura che, come osserva anche Del Moro, rappresentava una interessante opportunità di guadagno sia per il padrone che per il mezzadro anche se bisogna rilevare la difficoltà a gestire il rapporto tra proprietari e contadini perché non sempre l’allevamento dei gelsi e dei bachi da seta rientrava nel contratto mezzadrile e quand’anche fosse così, di conseguenza, il contadino non aveva nessun interesse a curare le piante dei gelsi perché non ne traeva nessun guadagno. Completano il quadro delle piante arboree le descrizioni dei vari fruttiferi presenti in Toscana come peri, meli, albicocchi, peschi, susini, ciliegi, mandorli, fichi, giuggioli, noci e castagni secondo uno schema non troppo dissimile, e solo leggermente più ampio, da quello seguito dal Trinci ne L’agricoltore sperimentato; il capitolo sugli oppi o alberi, utilizzati per le fabbriche e per i piccoli lavori, e quello – più ampio – sul modo di produrre gli alberi per le viti ci permettono di cogliere nel dettaglio la complessa organizzazione, quasi autarchica, dei poderi mezzadrili mentre sono 41 Sulla gelsicoltura in Toscana si veda F. Battistini, Gelsi, bozzoli e caldaie. L’industria della seta in Toscana tra città, borghi e campagne (sec. XVI-XVIII), Firenze 1998.


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sicuramente interessanti le considerazioni pratiche e ben dettagliate sulla costruzione e sulla gestione di un vivaio da cui trarre le piante, sia per il sostegno vivo alla vite, ampiamente diffuso, sia per fornire i pali di sostegno a quelle cosiddette palate, ovvero allevate ad alberello e sostenute da un palo. Accanto a queste coltivazioni vi sono quelle di cui spesso abbiamo meno informazioni come verdure e ortaggi considerate «erbe» da distinguere fra quelle da semplicista che «all’agricoltore si tralasceranno» e quelle «più essenziali per il benefizio della cucina». Ortaggi e verdure infatti, spesso prodotti negli orti vicino alle case, rappresentavano un aspetto fondamentale per l’economia della famiglia mezzadrile. La loro cura, affidata a donne e bambini, permetteva di ottenere prodotti sempre freschi e, scorrendo la lista di “erbe” stilata da Del Moro, è possibile avere un’idea dell’alimentazione dei contadini: accanto ai legumi come fagioli, ceci, lenticchie e cicerchie la base dell’alimentazione era composta da cavoli e lattughe, bietole, finocchi, cipolle, zucche, carciofi e asparagi insieme a prodotti deliziosi come cocomeri e poponi, alle quali si aggiungevano le erbe aromatiche come il basilico, il petrosello (prezzemolo), il rosmarino e la salvia. Nel testo di Del Moro dobbiamo però evidenziare gli scarsi accenni al bestiame in generale: il problema in Toscana era annoso e i poderi erano spesso in difficoltà avendo la necessità di coniugare le superfici a cereali, vite, olivo e altri prodotti agricoli con quelle dedicate alle foraggere, che avrebbero permesso di mantenere sul fondo un numero maggiore di bestiame che avrebbe portato a una maggior produzione, ad esempio, di latte e formaggio ma, soprattutto, di sostanza organica con la quale fertilizzare i campi. D’altronde la riduzione delle superfici a cereali, con delle rese di raccolto/seminato che difficilmente superavano il 7:1 o 8:1, avrebbe messo in crisi la sopravvivenza stessa della famiglia42. Un equilibrio difficile da ricercare – quello fra presenza di bestiame e superfici a cereali – che, a sua volta, era influenzato anche da altri fattori come il tipo di terreno, la giacitura e le condizioni climatiche. Un aspetto sul quale Del Moro pone un certo rilievo è quello delle costruzioni rurali, un problema particolarmente sentito nel corso del XVIII secolo, e che per il fattore toscano merita una lunga e dettagliata esposizione. Troppo spesso, come osserva Imberciadori43, le case rurali erano in miserevoli condizioni, i fabbricati per gli animali erano assenti e il bestiame veniva custodito negli stessi ambienti dove viveva la famiglia favorendo

Cfr. Pazzagli, L’agricoltura toscana…, cit., pp. 37-157. Cfr. Imberciadori, Campagna toscana…, cit., pp. 126-130.

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malattie e condizioni di vita deplorevoli44. E questo tema sembra essere, per Del Moro, di particolare importanza tanto da suggerire costruzioni ben organizzate, con locali appositamente progettati per le loro funzioni e, soprattutto, costruite in luogo salubre dove possano restare «bene luminose». Vale la pena leggere interamente le parole con cui Del Moro descrive la costruzione di case secondo i criteri sopra esposti perché rivelano un’attenzione non comune, a nostro avviso, nei confronti dei mezzadri: sieno le stanze intonacate e imbiancate perché quella vaghezza rende allegre le persone dove che, le stanze oscure o brune rendono le persone malinconiose onde nascono l’infermità, e questo ho riprovato in due case, poste in aria dove poco vi campavano le persone o si rendevano inferme, e dopo ridotto quelle case nella forma come sopra ho descritto, vi vivono sane lungo tempo; da quella parte che si prende il lume, si deve vedere liberamente il cielo perché, non potendo vedere per la linea che fa la finestra il cielo, quella stanza sarà d’aria colata; che però si devono fare i muri in maniera che dalle finestre restino bene strombati, a fine che l’aria possi meglio agitare le stanze.

Interessanti sono le descrizioni precise – accompagnate da alcuni disegni – dei locali per il ricovero delle granaglie45 o, ad esempio, sulla manifattura delle botti con la descrizione sommaria delle tecniche costruttive e alle quali seguono le indicazioni di come è necessario tenere in ordine i registri di entrata e uscita dei prodotti in modo che l’onesto lavoro del fattore sia verificabile attraverso il controllo preciso e puntuale dell’amministrazione della fattoria. Le competenze del fattore si completano in qualche modo con la conoscenza e l’esercizio di pratiche professionali come la pratica agrimensoria, capacità computistiche e la stima dei fondi rustici che, per quanto legate a una certa pratica di campo, si differenziano del tutto dalle capacità esprimibili dai semplici agricoltori in un contesto come quello del testo di Del Moro teso sempre ad affermare il ruolo fondamentale dei fattori. 44 Ad esempio, Targioni Tozzetti si esprime chiaramente nel suo Ragionamento, nei confronti della necessità di costruire le case per i contadini: «L’abitazione per gli uomini ed animali destinati a mantenere la coltivazione, deve occupare una gran parte dell’Architettura georgica. È troppo necessario che le famiglie dei lavoratori si mantengano sane e prospere…» (cfr. Targioni Tozzetti, Ragionamenti…, cit., p. 7) e, poco oltre, afferma essere necessario «non trascurare la notizia delle Leggi agrarie, e dei doveri che passano per il Padrone, ed i lavoratori… siccome anche il calendario rustico, e dei proverbi che all’Agricoltura appartengono. Finalmente si ricerca una perfetta cognizione, e pratica dell’Agrimensura, delle regole di stimare i terreni, ed i bestiami…» (ivi, p. 9); tutti elementi che sono presenti nell’opera di Giuseppe Del Moro. 45 Crediamo interessante notare la pratica di costruire granai ipogei, in auge da secoli, secondo tecniche costruttive consolidate che ritroveremo anche nel trattato ottocentesco del barone Giuseppe Nicola Durini Del Costruir delle Fosse del Conservare il Grano nel Regno di Napoli edito attorno al 1837.


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agricoltura pratica

Con il capitolo Del modo di mettere in carta la pianta di qualsiasi possessione, Del Moro descrive puntualmente la pratica agrimensoria che si lega precisamente alla nascente pratica estimativa in quel momento oggetto di evoluzione. L’analisi del valore di un fondo era sempre stata affrontata all’interno della trattatistica agronomica classica a partire da Agostino Gallo e poi ad Olivier de Serres e così via fino agli inizi del XVIII secolo quando l’evoluzione delle nuove discipline del sapere agronomico, ma soprattutto l’evoluzione delle politiche fiscali degli Stati e la maggiore vivacità economica, impongono lo sviluppo di nuove metodologie, più rigorose, completamente assenti prima del Settecento, per la stima del valore dei fondi agricoli46 che proprio in Toscana hanno il primo interprete con Cosimo Trinci, al quale si riconosce la nascita del moderno estimo rurale. L’autore pistoiese pubblicò, nel 1755, la prima edizione del Trattato delle stime de’ Beni stabili per uso degli stimatori47 che fu presto ristampato e che di certo servì a Del Moro per la stesura delle sue note48. Nell’Agricoltura pratica vi sono tre metodi di stima: il primo – ampiamente utilizzato fin dal Medioevo – è basato sulla capitalizzazione delle rendite e viene considerato da Del Moro in linea con quanto afferma Cosimo Trinci, un sistema valido nonostante la forte criticità della difficoltà di conoscere il dato di partenza, ovvero le effettive entrate dell’azienda49. Ambedue gli autori sono concordi nel dare maggiore importanza al metodo sintetico, o a vista, dove la valutazione viene basata sull’esperienza e sulla capacità di acquisire informazioni precise e ampie. Fra i due metodi Del Moro introduce un metodo diverso, da utilizzare per verifica, che consiste nella determinazione delle rendite per unità di superficie e per territorio da capitalizzare successivamente per ottenere il valore. Si tratta di un metodo intermedio fra la stima analitica e quella proposta precedentemente secondo uno schema peraltro già accennato dallo stesso Trinci nel vi capitolo del suo Trattato50. Il manoscritto si conclude con un’analisi sulle necessità dell’agricoltura toscana divisi in due capitoli. Il primo ha per titolo Punti dai quali ne sono Cfr. Saltini, Storia delle scienze agrarie…, cit., vol. ii, pp. 303 e segg. C. Trinci, Trattato delle stime de’ Beni stabili per uso degli stimatori, Nella stamperia di Gaetano Albizzini, Firenze 1755. 48 Sulla storiografia estimativa in Italia si rimanda a F. Malacarne, Storiografia dell’Estimo in Italia. I precursori di Cosimo Trinci, «Rivista di Storia dell’Agricoltura», a. xxiv, n. 2, dicembre 1984, pp. 67-98. 49 Si veda Malacarne, Storiografia…, cit. e Del Moro, Agricoltura pratica, cit., pp. 168-171. Per ridurre l’impatto di annate sfavorevoli sul calcolo delle rendite, Del Moro suggerisce di prendere i dati relativi ad almeno dieci anni. 50 Trinci, Trattato delle stime…, cit., p. 32 e segg. 46 47


introduzione

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nate e nascano le decaducità de’ poderi e, maggiormente, nei monti e colli. E punti di rimedi per ridurgli più fruttiferi e si presenta come una lunga analisi della decadenza della produttività dell’agricoltura toscana che viene imputata in primis ai contadini e al loro scarso impegno lavorativo che si traduce in una generale rilassatezza nell’effettuare i lavori richiesti. Da questo atteggiamento si genera, secondo Del Moro, una spirale viziosa che porta i contadini a dipendere dall’assistenza dei proprietari e, contemporaneamente, a inasprirsi, a maltrattare le bestie e a dividersi in famiglia. La conseguenza, secondo il fattore, è la rovina del podere stesso e delle famiglie che viene descritta con immagini così vivide che sembra quasi di leggere la trama di un libro di Federigo Tozzi: la famiglia del mezzadro, che occupava il podere, ne verrà allontanata e, nella migliore delle ipotesi, troverà un nuovo podere oppure, nella peggiore, si dedicherà al furto e all’accattonaggio perché ogni giorno mangiar si vuole, e siccome la povertà ha tanta forza di far sì che anche l’uomo da bene si dia a far male, perché la povertà è congiunta con la fame, ne segue che sono scarpate maggior parte del legname, frutte contigue a quei castelli, ecc.51

Anche tanti altri atteggiamenti dei contadini vengono giudicati severamente da Del Moro come perturbatori non solo della comune morale ma, soprattutto, di un ordine sociale nel quale i ruoli sono ben definiti e dove il fattore cerca di porsi come elemento intermedio che non desidera essere scavalcato: Non è minor danno nei poderi quando i contadini, o in villa o in città, tengono discorso con il Padrone, i quali rapportano sempre cose contro il prossimo e, particolarmente, discorrono del fattore perché come un contadino ha discorso col Padrone, o leccato un piatto in cucina, non vuole più lavorare nel campo; cosa, che sarebbe gran vantaggio per l’interesse del Padrone, in vece di tenere i contadini per le fattorie a fare l’occorrenti faccende, tenessero un facchino a salario che facesse le faccende e viaggi contadineschi, che così molti contadini non diverrebbero senza voglia di lavorare52.

All’opposto, la figura del padrone (o del proprietario), spesso assente, risulta quasi sempre assolta dalle proprie responsabilità: una posizione comprensibile considerando che Del Moro presenta la sua Agricoltura Cfr. Del Moro, Agricoltura pratica, cit., p. 183. Ivi, p. 185.

51 52


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agricoltura pratica

pratica a un’Accademia composta in gran parte da aristocratici proprietari terrieri nei confronti dei quali proprio Del Moro cerca di affermare un ruolo e una professione come quella di fattore. Le soluzioni proposte, per quanto ben dettagliate e motivate, evidenziano i limiti propositivi di Del Moro per risolvere il degrado progressivo dei poderi. La prima proposta cerca di contrastare la fuoriuscita dei mezzadri dai poderi facendo leva sulla crescente attività di allevamento dei bachi da seta: i mezzadri sarebbero stati obbligati a piantare dei gelsi e a non vedere riconosciuto il loro lavoro se non dopo dieci anni, perdendo così le somme in caso di abbandono anticipato. La seconda, allo scopo di «sempre più invigorire i contadini al lavoro», prevede che il padrone elargisca del denaro ai mezzadri che vangano maggiori quantità di terra e raccolgano più concime. La terza proposta, decisamente azzardata, prevede la destinazione coatta in Maremma per le famiglie dei contadini che fossero state licenziate dal podere e che fossero rimaste senza altro podere da coltivare. Il secondo capitolo che merita attenzione è la conclusione vera e propria del trattato, che probabilmente risale alla seconda stesura, nella quale Del Moro propone la possibilità di favorire un intervento pubblico con prestiti ai proprietari, per trasformare i terreni da incolti a produttivi, con l’obbligo di restituzione negli anni. L’altra proposta originale riguarda la possibilità di affidare all’Accademia dei Georgofili alcuni appezzamenti sperimentali in varie parti della Toscana con l’obbligo dei proprietari di adottare le pratiche sperimentate dall’Accademia53. Per tutto il testo, oltre alle già ricordate citazioni tratte dalle Sacre scritture, i temi riguardanti sono spesso presentati attraverso l’uso di proverbi che tendono a rafforzare e confermare il concetto tecnico-pratico espresso da Del Moro. I contenuti prevalentemente precettistici dei proverbi sono evidenti e gran parte di loro sono noti, o si ritrovano nelle varie raccolte di proverbi che dalla fine del settecento sono oggetto di pubblicazione in Toscana54. Questa sorta di «enciclopedia del sapere popolare» – per usare le parole di Nanni55 – è ben rappresentata nel testo di Del Moro che usa i proverbi proprio per rappresentare e fissare nella memoria del lettore, quegli insegnamenti pratici sull’agricoltura in generale, sulla lavorazione dei terreni, 53 Tutte queste proposte possono sembrare forse semplicistiche o difficilmente attuabili ma evidenziano un aspetto interessante: la visione ampia di Del Moro e le sue capacità di superare gli stretti confini aziendali per affrontare la risoluzione dei problemi. 54 Cfr. P. Nanni, P.L. Pisani, Proverbi agrari toscani. Letteratura popolare, vita contadina e scienza agraria tra sette e ottocento, Firenze 2003. In particolare si rimanda alle pp. 17-43. 55 Ivi, p. 25.


introduzione

xxxv

sulle pratiche agronomiche e, soprattutto, sulla stagionalità dei prodotti e gli andamenti meteorologici. Nei vari proverbi, ben 40 nel testo presentato – alcuni dei quali inediti – si tratteggia tutta la realtà di quel mondo mezzadrile toscano con la sua agricoltura policolturale rappresentata dai vari proverbi sulle varie coltivazioni, dalla vite all’olivo, al grano, al popone e alla rapa. Per ogni coltivazione sembra esserci un proverbio che ne evidenzi, in modo sintetico e facilmente assimilabile, un concetto fondamentale per la buona riuscita della coltivazione. Ma è soprattutto negli auspici meteorologici che i proverbi esprimono tutta l’aspettativa dei contadini per il successivo raccolto: prevedere, attraverso l’andamento meteorologico di un dato mese la raccolta del grano equivale a prepararsi, forse, alla presenza di un periodo di carestia oppure a una annata particolarmente felice56. D’altra parte, non possiamo non rimanere stupiti di fronte alla capacità di osservazione che questi proverbi nascondono. Meteorologia e agricoltura nell’opera di Del Moro Uno degli aspetti più singolari dell’opera di Del Moro è la presenza di precise osservazioni meteorologiche redatte per circa 27 anni e scrupolosamente riportate nel manoscritto. Si tratta di osservazioni qualitative relative a tipologie di eventi atmosferici o particolari come pioggia, diaccio, caldo, ecc. dal significato abbastanza intuitivo. Può stupire che un fattore, pur acuto nell’osservare i fenomeni naturali, abbia tenuto un diario meteorologico cosi preciso e costante ma dobbiamo ricordare che la Toscana non era certo nuova a questo tipo di osservazioni. Nel 1654, il granduca Ferdinando II aveva istituito la prima rete di osservazioni meteorologiche sinottiche – la Rete medicea – e dal 1715 Giovanni Gualberto Beccari aveva ripreso a fare delle continuate osservazioni meteorologiche a Firenze. Pochi decenni dopo, a partire dal 1728, Cipriano Antonino Targioni registrò regolari osservazioni meteorologiche, purtroppo andate perdute, per oltre 20 anni mentre il nipote Giovanni Targioni Tozzetti, dal marzo

56 Lo stesso Targioni Tozzetti, nella sua Alimurgia, evidenzia come ogni tre anni, in media, si presentasse un anno di carestia o di penuria di generi alimentari (cfr. G. Targioni Tozzetti, Alimurgia, o sia modo di rendere meno gravi le carestie per sollievo de’ poveri, Firenze 1767, p. 273. Il desiderio dei contadini di conoscere l’andamento stagionale e l’esito della raccolta dagli auspici meteorologici era quindi evidente e ne sono prova i numerosi lunari che fino a pochi anni fa, sulla base delle fasi lunari e altri elementi astronomici, davano indicazioni in tal senso.


xxxvi

agricoltura pratica

173757, aveva iniziato a fare regolari osservazioni con lo scopo di cercare la correlazione fra il tempo meteorologico e gli organismi viventi58. Non abbiamo informazioni sulle motivazioni che hanno spinto Del Moro a iniziare le sue osservazioni fin dal 1746 ma possiamo rilevare come esse siano strettamente collegate con gli aspetti agricoli. Il rapporto mensile delle osservazioni è infatti corredato da brevi osservazioni sull’andamento della campagna, delle semine e delle produzioni e da una indicazione dei prezzi, nella piazza di più vicina, delle principali produzioni come il grano, le fave e il vecciato. Il periodo delle osservazioni di Del Moro copre 27 anni e le osservazioni sono divise in due parti: la prima parte comprende dati che vanno dal gennaio 1746 al dicembre 1757 e sono state, probabilmente, elaborate nella fattoria di Cesa in Valdichiana dove sappiamo, per sua stessa ammissione, che Del Moro operò per diversi anni (il mercato di riferimento per i prezzi è, infatti, indicato come quello di Monte San Savino). A partire dai primi mesi del 1749 le osservazioni fanno riferimento al mercato di Poggibonsi e questo fa supporre che le osservazioni siano state rilevate nella fattoria di Castagnolo, proprietà dei Salviati, nei pressi di Castellina in Chianti. La seconda parte di osservazioni meteorologiche, in tutto simili alle precedenti, iniziano dal gennaio 1757 per concludersi nel dicembre 1773, e anche queste sono state probabilmente fatte nella fattoria di Castagnolo. L’aggiunta, quasi in fondo al manoscritto, suggerisce anche alcune indicazioni sullo sviluppo dell’opera di Del Moro che, nella stesura definitiva, invece di rielaborare l’intero testo, si è limitata ad ampliare gli argomenti trattati. La mancanza di indicazioni strumentali non esclude che però Del Moro possedesse uno strumento semplice come un termometro fiorentino centigrado come suggerisce l’osservazione relativa al 1763 quando «venne un freddo terribile fuora di stagione propria, che principiò la neve e il diaccio il dì 21, e seguitò sino al dì 27 di novembre che passò il freddo gradi 100, e non avendo i frutti e alberi, sì domestichi che selvatichi, fermato gl’umori molti si seccorno». Targioni Tozzetti, Alimurgia…, cit., p. 129. Per la precisione i tipi di tempo atmosferico rilevati da Del Moro sono: tramontana, diaccio, neve, tuoni, pioggia, nebbia, caldo, varie stagioni (crude, dolci, fredde o semplicemente varie) con lievi variazioni e considerazioni aggiuntive. Sulla storia delle osservazioni meteorologiche in toscana fra XVII e XVIII secolo si veda: D. Vergari, Contributo alla storia della meteorologia a Firenze. Le osservazioni meteorologiche fiorentine fra il 1751 e il 1813, «Annali di Storia di Firenze», 2006, pp. 99-120 e D. Vergari, A. Crisci, S. Casati, A brief history of the Florentine observations between the seventeenth and eighteenth centuries, in Two hundred years of urban meteorology in the heart of Florence, International conference on urban climate and history of meteorology, Firenze 2013, pp. 46-54. 57 58


introduzione xxxvii

La lunga cronica meteorologica di Del Moro trova poi preciso riscontro nelle pagine dell’Alimurgia di Giovanni Targioni Tozzetti, opera erudita e contestata a suo tempo ma oggi fonte inesauribile di informazioni sugli eventi meteorici in Toscana nel corso di oltre 600 anni. Il confronto fra le osservazioni riportate nelle due opere conferma l’affidabilità delle osservazioni del fattore dei Salviati, come, ad esempio, nel 1749, ricordato da Targioni Tozzetti per il suo inverno «placido, e senza nevi, e ghiacci» nei mesi di gennaio e febbraio ai quali seguì però un marzo caratterizzato da «uno scoppio di neve, che quantunque da lì a poco si squagliasse, pure ci rubò i primi frutti, danneggiò gli orti, e la foglia de’gelsi, e poco propizia fu a’ grani che già si erano mossi»59. Nelle sintetiche osservazioni di Del Moro possiamo osservare come il mese di gennaio si presentasse con 13 giorni di stagione dolce, febbraio con 9 giorni di pioggia e con 11 di stagione dolce mentre marzo presenta un brusco cambiamento con 8 giorni di brina e diaccio, 4 di neve 10 di pioggia e l’amara considerazione che «il freddo ha mandato male dal foglia di moro». Anche il terribile freddo del 1755 nel quale, seguendo il racconto di Targioni Tozzetti, «La notte del 6 gennaio incrudelì il tempo, con un orribile tramontana, che fece sbassare il termometro sotto al grado del diaccio, e da detto giorno fino al dì 6 di febbraio, giorno di Berlingaccio, fu sempre freddo grandissimo […] e l’acqua d’Arno stette quasi sempre diacciata»60, trova preciso riscontro nelle osservazioni di Del Moro che annota, nello stesso mese, 16 giorni di tramontana, 4 di diaccio crudele, uno di neve e 5 di varie stagioni crude e «il diaccio ha portato via, cioè mandato male, gran parte delle semente». Anche il mese di febbraio, analogamente a quanto descrive Targioni Tozzetti, presenta 5 giorni di diaccio, 2 di neve e 8 di varie stagioni crude mentre la campagna «dal freddo sì crudele, è bruciata e sono in molti luoghi andati male le fave, mochi, vena e del grano e rami d’olivi». Anche il ben noto periodo delle carestie fra il 1764 e il 1767, che tanta influenza avrebbe avuto sulla storia dell’agricoltura e delle scienze in Toscana, è ben leggibile nelle osservazioni del Moro seguendo l’andamento dei prezzi delle grasce e l’andamento delle stagioni61. Nell’aprile del 1764 il grano al mercato di Poggibonsi veniva venduto a lire 7.16.8 lo staio mentre le fave raggiungevano lire 6.13.462 lo staio. Un prezzo che era am Targioni Tozzetti, Alimurgia…, cit., p. 125. Ivi, p. 126. 61 Sugli aspetti climatici e la crisi alimentare del periodo 1763-1767 si veda F. Venturi, Quattro anni di carestia in Toscana (1764-1767), «Rivista Storica Italiana», lxxxviii, 1976, e F. Venturi, Settecento riformatore, vol. v, t. i, Torino 1987, pp. 221-423. 62 Per le unità di valore monetario si veda l’appendice. Ricordiamo che le somme espresse 59 60


xxxviii agricoltura pratica

piamente superiore, più che doppio, alla media dell’anno precedente63, comprensibile considerando che i mesi invernali erano stati miti mentre a marzo e aprile il tempo era peggiorato con nebbie, piogge e temperature fredde e i raccolti erano stati compromessi. Anche nel 1765, segnato dalla improvvisa e drammatica incursione di aria fredda del 14 aprile che «fra le ore due e le quattro della Mattina […] in momenti bruciò nelle pianure della Toscana gli occhi delle Viti, dei Peschi, dei Fichi, e dei Noci»64, Del Moro indica 5 giorni di ghiaccio nel mese di aprile e un prezzo del grano in rapida ascesa fino a lire 6 nel mese di luglio e comunque inferiore ai prezzi raggiunti nel 1766 quando, fra il mese di giugno e agosto, il grano non scese mai sotto il prezzo delle 7 lire per staio. Quello che colpisce in queste osservazioni, utili sicuramente allo storico economico e allo studioso della meteorologia, è la capacità di Del Moro di registrare, in modo costante e metodico, regolari osservazioni il cui uso – se possiamo azzardare un’ipotesi di lavoro – poteva essere legato a evidenziare il legame fra produzioni, prezzi e condizioni meteorologiche come base per successive valutazioni inerenti la produttività dell’azienda. Conclusioni Il testo di Del Moro si presterebbe a ulteriori commenti dettagliati sopra le modalità di coltivazione e tanti altri dettagli che compongono il manoscritto e, in qualche modo, ne caratterizzano l’originalità. Sospeso fra una agricoltura pratica – rappresentata ancora a metà del XVIII secolo, ad esempio, dalle posizioni di Gregorio Soldani Benzi nelle sue due lettere agrarie – e l’inizio di un rinnovamento dell’agricoltura scientifica, proposta come abbiamo visto da Giovanni Targioni Tozzetti e da gran parte dei georgofili dei primi anni65, l’opera di Del Moro rappresenta un interessante contributo alla costruzione di quell’architettura georgica alla vanno lette secondo la monetazione del periodo che prevedeva l’espressione delle stesse in lire, soldi, denari (12 denari= 1 soldo; 20 soldi= 1 lira). 63 La media indicata da Del Moro per l’anno precedente era di lire 3.11.2 per il grano e lire 2.17.11 per uno staio di fave al mercato di Poggibonsi. Una breve disamina dei prezzi del grano si trova anche in Targioni Tozzetti, Alimurgia…, cit., pp. 272-273. 64 Ivi, pp. 12-13. 65 G. Soldani Benzi, Lettera agraria scritta da un proprietario in villa a un amico di città, Firenze 1788. Si veda Imberciadori, Campagna toscana…, cit., pp. 167-171. Sul testo di Soldani Benzi vale la pena ricordare il giudizio negativo espresso da Filippo Re che la definisce «un monumento del male cui fanno certi agronomi che, ignari delle teorie, le screditano indifferentemente con tutti» (cfr. F. Re, Dizionario ragionato di libri di agricoltura, veterinaria, ecc., Venezia 1809, t. iii, p. 67).


introduzione

xxxix

base di ogni razionale agricoltura, per usare le parole dello stesso Targioni, da costruirsi sulla conoscenza dell’ambiente, delle condizioni fisiche e del clima, sull’innovazione tecnica e il miglioramento agronomico66. Le nozioni e le osservazioni riportate dal fattore di casa Salviati descrivono in modo interessante lo stato dell’arte delle tecniche agricole alla metà del Settecento e, soprattutto, la complessa e variegata dimensione del mondo rurale rappresentato dalla trasversalità degli argomenti trattati da Del Moro che spaziano dalla coltivazione del grano all’agrimensura, dalla stima dei barili alla costruzione delle case coloniche. Un quadro preciso quindi dell’agricoltura toscana del periodo ricco di argomenti, notizie e suggestioni che nel loro insieme costituiscono una fonte significativa per la storia dell’agricoltura toscana nel XVIII secolo. Oltre agli aspetti relativi alla conoscenza pratica dell’attività agricola, la presente edizione può essere uno stimolo per la ripresa degli studi sugli aspetti tecnici e produttivi dell’agricoltura e degli aspetti ambientali collegati a essa, in un periodo di transizione fra le permanenze dell’età medicea e le nuove spinte illuministiche pienamente espresse nel Granducato di Toscana dal governo lorenese e dalla sua stagione riformista. Una stagione complessa, nella quale anche l’agricoltura toscana attuale trova gran parte delle sue radici profonde, che vide protagonista l’Accademia dei Georgofili, istituzione che ancora oggi svolge, con la sua documentazione e il suo patrimonio di accademici, un importante ruolo nello sviluppo dell’agricoltura europea. Note sulla trascrizione Il testo manoscritto si presenta, di fatto, privo di punteggiatura e di segni di interpunzione. Pur avendo operato quindi con una sistemazione generale del testo, si è cercato di mantenere, per quanto possibile, la fedeltà al testo originale. Tuttavia abbiamo ritenuto di sciogliere alcune abbreviazioni nel testo. Le parole e le citazioni in latino sono state evidenziate usando il corsivo. Per quanto riguarda frasi, proverbi, citazioni di qualunque tipo si è preferito metterle fra virgolette. Unica eccezione le varietà delle piante coltivate e degli animali che, per evidenziarne la specificità, sono state trascritte in corsivo.

66 Cfr. D. Vergari, Giovanni Targioni Tozzetti georgofilo e agronomo. Uno scienziato al servizio della comunità, «I Georgofili. Atti della Accademia dei Georgofili», Firenze 2012, pp. 881-894.



Ringraziamenti

Questo volume non avrebbe visto la luce senza la cortese e amichevole collaborazione del personale della Sala manoscritti della Biblioteca Nazionale di Firenze e della biblioteca dell’Accademia dei Georgofili. Ringrazio anche i tanti amici che mi hanno dato suggerimenti e notizie e, in particolare, Paolo Nanni per il suo contributo e la sua collaborazione, Rossano Pazzagli e Zeffiro Ciuffoletti per le loro preziose osservazioni. Ringrazio inoltre la famiglia Schefenacker, proprietaria di Castagnolo, per le informazioni cortesemente ricevute. Avrei voluto dedicare questo libro a Francesco Scarafia, collega e amico, che con la sua curiosità e saggezza avrebbe trovato tante cose da osservare e da suggerire. Infine un pensiero a mio padre, che ha visto l’inizio ma non la fine di questo lavoro, a Sarah ed Emanuele indispensabili nella loro pazienza.



giuseppe del moro

agricoltura pratica



Agricoltura pratica tratta dalle esperienze nel giro d’anni LX. Fatica di Giuseppe Del Moro Fattore di Sua Eccellenza il signor Duca Salviati Tavola delle cose, che si contengono nel presente discorso d’Agricoltura capitoli

*

carte

1

Che cosa sia agricoltura

1

2

Tra i quattro elementi quello della Terra è il più benefico

9

3

Modo e tempo di lavorare la terra rossa

11

4

Della terra rossa sterile

14

5

Della terra bastarda naturale

15

6

Della terra bastarda artificiale

16

7

Della terra gentile

17

8

Della terra gentile tenace

18

9

Della terra gentile arenosa

19

10

Della Terra galestrosa feconda

20

11

Della terra galestrosa focaiola

21

12

Modo di conoscere la bontà della terra

22

13

Dell’essere del contadino o capo di casa

25

14

Della terra alberese

20

15

Modo di vanghare, o zappare la terra

34

16

Modo di conservare il letame

38

17

Modo di letamare la terra

39

18

Della semente e tempo di seminare il grano

41

19

Della sarchiatura del grano

43

20

Della qualità de grani

44


4

giuseppe del moro capitoli

*

carte

21

Del grano per seme

44

22

Correggiere il grano dalla volpe

45

23

Sementa delle fave

46

24

Modo di mitigare i succiameli

46

25

Sementa della segale

48

26

Sementa dell’orzo

48

27

Sementa del moco, o veggione

49

28

Sementa della vena

50

29

Sementa della veccia

50

30

Sementa della lente

51

31

Sementa del cece

51

32

Sementa della cicerchia

53

33

Sementa de’ fagioli

53

34

Sementa de’ piselli

54

35

Sementa del miglio

55

36

Sementa del lino

57

37

Sementa della canapa

57

38

Sementa del lupino

58

39

Sementa delle rape

58

40

Della coltivazione per le viti

59

41

Del piantar le viti nel Chianti

68

42

Dell’olivo

70

43

Del piantare i mori

73

44

Del piantare i peri

75

45

Della qualità delle pere

77

46

Dell’albicocco

801

47

Del ciliegio

82

48

Del mandorlo

86

49

Del fico

86

50

Del giuggiolo

84

51

Del noce

85

1 L’indice di Del Moro non rispetta esattamente i titoli dei vari paragrafi di cui si compone il manoscritto.


agricoltura pratica capitoli

*

5

carte

52

Del castagno

85

53

Delli oppi, o alberi

56

54

Modo di produrre gl’alberi

86

55

De nesti de frutti

88

56

Delle boscaglie

90

57

Del cavolo, o brassica

91

58

Della lattuga

93

59

Del radicchio, o cicoria

93

60

Del petrosello

94

61

Del basilico

94

62

Della bietola

94

63

Del finocchio

95

64

Dello spinace

96

65

Del popone

96

66

Del cocomero

97

67

Delle zucche

97

68

Della cipolla

98

69

Dell’aglio

99

70

Delli asparagi

100

71

Del carciofo o cardo

102

72

Del rosmarino

103

73

Della salvia

103

74

Gennaio

104

75

Febbraio

104

76

Marzo

104

77

Aprile

105

78

Maggio

105

79

Giugno

106

80

Luglio

106

81

Agosto

106

82

Settembre

106

83

Ottobre

108

84

Novembre

108


6

giuseppe del moro capitoli

*

carte

85

Dicembre

109

86

Segni di serenità

110

87

Segni di pioggia

111

88

Segni di fertilità

112

89

Segni di sterilità

100

90

Osservazioni delle stagioni

117

91

Ristretto delle stagioni

137

92

Dimostrazione di pezzi di grasce

143

93

Delle fabbriche

144

94

Dell’arena

146

95

Dell’aja da battere

147

96

Della colombaia

148

97

Dei risarcimenti delle case

148

98

Del conservare il grano nelle fosse

149

99

Del modo di fare i vini

151

100

Modo di fare i vini scelti

155

101

Vino di mezzo grappolo

156

102

Vino di lacrima

156

103

Vino forzato

157

103

Vino passo

157

104

Modo di fare il vino medicato

158

105

Modo di dar l’odore al vino

159

106

Vino come si fa a Montepulciano

159

107

Per conoscere il vino inacquato

161

108

Qualità dei cerchi da tini e botte

162

109

Modo da accomodare la cantina

166

110

Modo di tenere registrato il grano

168

111

Modo da accomodare gli orci dell’olio

171

112

Modo di porre in carta un effetto

174

113

Altro modo di mettere in carta

178

114

Dell’origine del peso e misura

181

115

Modo di misurare i corpi solidi

186

116

Modo di misurare le botti vecchie

184


agricoltura pratica capitoli

*

7

carte

117

Modo di misurare i luoghi da tenere il grano

185

118

Della misura delle fosse da grano

185

119

Modi di misurare l’olio

187

120

Prima regola per la stima dei beni

188

121

Secondo modo di stimare la terra

193

122

Terzo modo di stimare i terreni

195

123

Discorso e osservazioni sulla vita delle pecore

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124

Supplemento al capitolo delle semente baccelline in quel che riguarda i succiameli

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Supplemento al capitolo riguardante alla coltura de gelsi

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Supplemento a quanto s’è detto rapporto ai fattori

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Conclusione del trattato

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Che cosa sia agricoltura L’agricoltura è una scienza da coltivare la terra mediante la quale tutti gli viventi si sostentano e vivono e dove, senza di essa, nessuno si potrebbe sostentare; e questa, dopo la creazione dell’uomo, fu la prima arte che si facesse al mondo la quale fu ordinata di bocca di Dio, all’uomo in gastigo della sua disubidienza, dicendogli che con il sudore del suo volto si guadagnerebbe il pane, e questa fu l’agricoltura. E similmente, ancora dopo il Diluvio universale, la prima arte che incominciassero i figliuoli di Noè fu l’agricoltura, come ce ne assicura la Sagra Genesi al Cap. ix Coepitque Noe vir agricola exercere terram, et plantavit vineam2, benché Livio, nel proemio xvi, vuole che gl’uomini da principio usassero le ghiande per cibo. Cerere fu quella che trovò il formento, così dice Plinio, et anche insegnò a macinarlo e fare il pane; lo trovò che nasceva nelle selve tra l’altre erbe salvatiche, ed ancora insegnò il modo di seminarlo; e vuole, l’istesso Plinio, che fusse trovato in Sicilia, perché in quelle parti il formento, salvatico, nasceva. E Proserpina, o vero il Cerere, fu quello che congiunse l’aratolo a boi 2 Genesi 9: 20. «E Noè, che era agricoltore principiò a lavorare la terra, e piantare una vigna». La trascrizione e traduzione dei versetti è stata conformata all’edizione di Mons. A. Martini, Vecchio Testamento secondo la volgata. Luigi Vannini, Prato 1817, visitabile su sito www.scrutatio.it.


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perché, per innanzi, la terra veniva lavorata a mano; tuttavia, ogni strumento d’agricoltura, insieme con l’aratolo, fu trovato da Cerere come dice Virgilio: «Cerere, prima di voltare la terra col ferro mi insegnò la via migliore»3; si legge, nell’antiche istorie, che al principio che i romani incominciorno a fiorire ebbero in grandissima venerazione l’agricoltura, quale loro facevano con le proprie mani e da questo possiamo conoscere l’agricoltura essere sempre stata arte nobilissima, poscia che da Iddio fu instituita e dai romani esercitata. Però, al giorno d’oggi, ella viene molto disprezzata per essere essa ridotta nelle mani di gente rustica et indiota, che l’esercitano solamente per un poco di pratica senza avere cognizione della scienza sua: malamente la fanno, con tutto ciò che vi nascono dentro e l’esercitino tutto il tempo della vita loro. Veder potiamo, dunque, in che mani si è ridotta la povera agricoltura con tutto che ella sia capo e regina di tutte le scienze, ed arte del mondo. E che questa sia scienza si può provare in diverse maniere, ma molto più in diverse culture di diversi paesi e province perché se noi osserveremo tutte l’agricolture, troveremo che quello che produce una provincia, non la produce l’altra, e ciò procede per causa dei cieli e del sito, o dall’acque, come dice Vitruvio, e di qui possiamo conoscere di quanta intelligenza possano essere questi agricoltori moderni che non hanno mai visto, né praticato, altro che quel piccolo paese dove sono nati o allevati, e non hanno mai sperimentato altro che quella agricoltura che hanno imparato per pratica, in quel luogo dove sono abitati e da quelle persone che hanno loro praticato e sono stati allevati. E tutto giorno noi vediamo che la maggior parte degli agricoltori, allor che le loro prole sono in età puerile et a propria d’imparare l’arte fondamentale dell’agricoltura, invece d’ammaestrargli o farli ammaestrare in quella, gli fanno esercitare arti diverse da quella e, allorché sono arrivati all’età dell’adolescenza che allor sono atti alla fatica, gli ritornano all’agricoltura; la quale non sono più atti d’impararla perché sono svagati, chi agli spassi e giochi e non sono da piccoli assuefatti alla fatica, malamente le esercitano e di mala voglia; e così in questa forma vanno la maggior parte degli agricoltori per descendenza dei loro antenati. E questo l’esperienza ce lo dimostra perché, se noi osserveremo, vedremo che non solo ogni piccolo paese, ma ancora ogni contadino, ha un’oppinione e modo di esercitare la loro arte diversa dagli altri e questo depende dai buoni o mali costumi d’operare, che sono stati e vegliano in quelle loro famiglie. Vedremo ancora alcuni contadini esercitare con proprietà la loro arte quali se ne La citazione è tratta da Virgilio, Georgiche i, 147.

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vivano bene, esenti da ogni necessità, ai quali domandiamo da chi hanno imparato questa bella massima «d’accattare con le quotidiane fatiche non da altri che dalla terra»; risponderanno «per descendenza dei loro antenati» e, all’opposto, ci sarà di quelli che malamente operano, per minorarsi la fatica nella loro arte d’agricoltura, quali se ne vivano nella loro miseria con animo cotidiano d’accattare il vitto da tutti fuori che dalla terra; che però santamente disse il Re al profeta, nel salmo xvii: Sancto sanctus eris et cum perverso perverteritis4. Che però fortunati possono dire esser quegli che hanno l’essere dai genitori o maestri che, con fondamento, sanno ed insegnano la loro arte ma, maggiormente, l’agricoltura; perché tutte l’arti, in diversi paesi e province, dapertutto sono le medesime regole ma all’agricoltore gli conviene sapere e conoscere tante diversità di terre, tempi di lavorarle, che qualità di piante e animali sieno più atti a fruttare, e quelle piante, semente e animali che provano in un terreno, clima o provincia, non provano in altro per essere tante le diversità dell’agricoltura; e quando a qualche agricoltore, poco esperto nella sua arte, gli vien sentito il modo dell’altre agricolture d’altri paesi, restano molto maravigliati e quasi non lo possono credere in modo nessuno. Se si dicesse a un nostro agricoltore fiorentino che per le campagne di Roma arano la terra con due para di bovi a un solo giogo e aratro, come anche per la Lombardia, Romagna, etc. arano con tre e più para di bovi similmente a un aratro il quale ha le rote come i carri, quale perticaro lo chiamano, questo lo crederebbero per una favola non ricordandosi del comune proverbio, che dice «Tanti paesi, tante usanze». Le quali usanze, quando sono messe in opera in ciascheduno paese, con il loro fondamento sono molto profittevoli perché con un aratro ed un paro di teneri bovi che si costuma lavorare per le colline e monti, dove i terreni sono perlopiù trattabili e i solchi non troppo lunghi, tali arnesi e bovi non sono atti a lavorarsi i duri terreni e i lunghi solchi delle vaste pianure; come anche quelle qualità d’aratri, erpici e più para di bovi, che costumano in dette vaste pianure, non sono usabili nei monti dove, alcune volte, conviene al bifolco portare lui l’aratro per i duri sassi, frutti e gran ciglioni che in alcuni luoghi vi sono; come anche molte qualità di strumenti rusticali che s’usano in un paese, in un altro non sono atti. Che però nessuno si dovrebbe maravigliare di queste diversità d’agricoltura perché non sono, come alcune arte, rimodernate ma sono trovate dagli agricoltori antichi e costumate sempre nell’istessa forma; perché si 4 Salmo xvii: 26-28. «Coll’uomo sincero sarai sincero, e con chi mal fa tu sarai malfacente». Il testo del Salmo riporta pervertis e non perverteritis.


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legge nel terzo libro de Regi, al cap. xix, quando il Profeta Elia per comandamento di Dio andò alla città di Dammasco trovò Eliseo che arava con molti para di bovi, Profectus ergo inde Elias reperit Eliseum filium Saphat, arantem in duodecim jugis boum, et ipse in duodecim jugis boum arantibus unus erat5. All’agricoltore, dunque, s’appartiene di sapere lavorare il terreno e, poi, di sapere conoscere che sorte di piante e semente saranno in quel luogo più atti a provare; e similmente ancora sapere qual sorta d’animali saranno più atti a nutricarsi in quel paese, perché un luogo non è atto a nutricare tutte le specie animali; mentre che nell’aspre montagne non si possono nutrire molte bestie bovine e cavalli, sì oche che altri bestiami, atteso non solamente per le nevi e gran freddi che vi sono nell’inverno e, ancora, perché tali sorti d’animali vogliono stare in pianure dove sieno erbaggi, acque, paglia, fieno, clima dolce ed altro necessario al vitto loro, siccome nelle pianure non si possono mantenere gran copia di porci, bestie muline, pecorine e simili altri animali, ai quali animali si richiede più la montagna che il piano. Si richiede all’agricoltore di sapere piantare, allevare e nutrire tutte le sorti di piante acciò che s’appiglino e, con prestezza, faccino il loro frutto. È anche necessario sapere in qual tempo e costume si facci la traduzione, con innesti e frutti dal salvatico al domestico, e il saperli produrre; come anche in che tempo sia più convenevole il seminare il grano, fave, orzo, vena, mochi, ceci, cicerchie, lenti, lini, cavoli, cipolle, agli, spinaci, lattuga ed un’infinità d’altre semenze appartenenti all’agricoltura che troppo ci vorrebbe a nominarle tutte. S’appartiene all’agricoltore di sapere acconciare viti ed ogni genere di frutti, saper fare i vini e mantenerli, come anche saper mantenere le grasce acciò non vadino male; all’agricoltore è necessario di sapere allevare e nutrire varie e diverse sorte d’animali, quadrupedi e simili, e d’uccellami, e d’aver notizia dei cibi con i quali si nutriscono i detti animali. In somma, questa agricoltura è un caos da non trovarne mai il fine e non è al mondo scienza, né arte, più necessaria di questa perciocché, senza d’essa, le genti molto malamente viverebbono, sicché ella è molto necessaria da essere intesa da tutti; perciò che l’uomo che non intende questa agricoltura non sarà mai possibile che si possi fare perfetto in molte scienze ed arte; e che ciò sia il vero, quello che si vorrà esercitare nella Santa Teologia come potrà esser mai perfetto in tale scienza se non intende l’agricoltura, essendo 5 iii Re 19: 19. «Partitosi adunque di là Elia, trovò Eliseo figliuolo di Saphat, il quale arava la terra con dodici paia di buoi, ed egli era un di quei, che aravano colle dodici paia di bovi: e giunto a lui Elia, gettò sopra di lui il suo mantello».


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necessario al teologo di sapere qual sia il buon terreno che renda cento per uno e sapere quello infruttifero, o che produce la zizzania, e quale è il buon terreno da piantare la vigna e come si deve coltivare. Egl’è ancora necessario di sapere l’arte del pastore e che cosa, al pastore, s’appartenga di fare, e come debba reggere la sua gregge; sì che tutti questi termini d’agricoltura s’appartengono al vero e perfetto teologo volendo, con ragione, dimostrare la Santa Teologia. Agli Iureconsulti e dottori di legge (con tutto che abbiano i loro periti) è parimente necessario avere cognizione dell’agricoltura, volendo aver perfetta cognizione delle leggi perché dovendo giudicare la differenza d’alcun paese, egl’è di necessità saper la natura del luogo, il corso delle acque, la qualità delle piante ed un’infinità di cose le quali sono tutti membri dell’agricoltura. Agli filosofi naturali, similmente, gli è necessario grandemente tutte le parti dell’agricoltura imperoché non disputano mai d’altro che di segreti naturali, figlioli dell’agricoltura. Ai medici egli è più che necessario di sapere in tutto gl’effetti dell’agricoltura, volendo intendere bene la medicina, imperoché loro sono chiamati imitatori della natura; e per questo egli è molto necessario di sapere conoscere gli alberi, animali, pietre e erbe d’ogni sorte, il clima, il terreno che lo produce, sopra le quali cose la medicina è fondata. Ai pittori e scultori è molto necessario l’intendere l’agricoltura, avendo loro da dipingere e scolpire cose naturali figliuole dell’agricoltura. Insomma, se noi anderemo passeggiando quasi tutte l’arti del mondo, troveremo che in qualche parte v’entra l’agricoltura come anco alle persone nobili e gran signori, con tutto ciò che abbino da vivere senza impiegarsi in cosa alcuna, l’agricoltura però pare che gli si convenga l’intenderla per più ragioni; prima per essere scienza nobilissima nella quale Costantino Cesare Imperatore, con tutto che fusse monarca, di essa era molto sciente. Seconda, essendo che la maggior parte della nobiltà sono vaghi de’ cavalli. Il che è cosa molto onorifica e assai profittevole il sapere il modo di produrre, allevare e addestrare essi cavalli, di che regno e razza sieno i migliori, che qualità d’erbe, strami e biada più gli si convenga e di qual terreno sia il miglior strame per mantenergli più sani e gagliardi. Terzo, siccome è cosa molto usitata nella mente dei Signori il discorre tra di loro di varie cose e, molto più in ultimo, della tavola in tempo che si pongono in mensa le frutte le quali, alle volte, sono di più qualità e di diversi colori e sapori; gli sarà di sommo piacere il saper conoscere le qualità di quelle frutte, vini et altri ornamenti di vivande, il terreno e clime che le produce migliori e le stagioni di usarle. Quarto, allor che vanno passeggiando per le loro pos-


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sessioni, gli sarà di piacere e vaghezza il conoscere le qualità degli alberi, piante, frutti, fiori, erbaggi ed altro che compone la campagna; il che, non conoscendo le dette cose, invece di piacere sarebbe a lor di maggior noia di vedere le suddette cose da loro non conosciute, e più piacere averebbono di una semplice pianticella, benché salvatica, da loro ben conosciuta; e che ciò sia il vero ciascheduna persona, di qual si voglia grado, provi andare in qualche luogo dove vi sieno moltissime persone d’ogni stato, grado, scienza e condizione, con più si porti a vedere le moltitudini di personaggi che concorrono nelle feste, funzioni che si fanno nell’alma città di Roma. Dopo che averà visto tante persone, se tra quegli non vi vede alcuno dei suoi famigliari o conoscenti con tutta la veduta di quella gran gente e magnificenza, non troverà contento. Se poi vede una persona della sua patria, o altro amico da lui bene conosciuto con tutto che anche fusse vile, averà gran consolazione di vederlo e avendo in sua compagnia; e gli sarà più cara la veduta di quel suo vil conoscente, per poter seco ragionare, che tutta la moltitudine di persone da lui vista e conosciuta. Con più se una persona andasse al cielo e vedesse tutta la Divinità e tutti gli ordini dei cieli, il sole, le stelle e la luna, e tutta la terra e, di poi, vedute tutte le sopraddette cose, tornasse quaggiù, di tutte quelle cose non piglierebbe alcuna dilettazione se non avesse persone, conoscenti e amici con chi raccontarle. Così appunto sarebbe un Signore che vedesse la campagna vestita e popolata di piante, erbe, fiori ed animali sì celesti, terrestri che acquatici e non gli conoscere, se non in tutto almeno in parte, sarebbe a lui cosa assai noiosa e non di poco dispiacere. Invece di piacere ai Signori, dunque, par che gli sia più che necessario l’intendere l’agricoltura non solo per vaghezza e godimento della campagna ma, molto più, per ridurre e mantenere con bon ordine le loro possessioni, a quali deve premere più che ad ogni altra persona che facci le sue veci; e così discorrendo per tutte le scienze, arti e persone di qualunque grado, non troveremo nessuna che non gli sia più che necessario l’intendere, se non in tutto almeno in parte, l’agricoltura. Oltre che gli è poi tanto necessario al vitto umano che, senza di essa, il mondo perirebbe perciocché da essa si cava la sostanza del vitto nostro; oltre la grande utilità che da essa si cava, non vi è più cosa grata e dolce all’uomo, quanto che abitare nella Villa dove viene praticata l’agricoltura: le persone vivono più sane, l’aria è sincera, la Repubblica è più quieta e i pensieri vi sono minori ed i piaceri maggiori; sì che la nostra agricoltura non è altro che lavorare, seminare varie e diverse sorte di semente, piantare e acconciare le piante, vendemmiare l’uva, far vini, raccogliere i frutti, custodire le grasce, come in tutto a suo luogo distintamente dirò, e poi vivere


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con pace e allegrezza ma, sopra d’ogni altra cosa, aver sempre d’avanti agli occhi il santo timor di Dio benedetto che è quello che manda le piogge sopra il terreno, fa verdeggiare, crescere e nutrire tutte l’erbe, piante di tutta la campagna, il tutto per nostro benefizio; e per dimostrare a questo nostro grandissimo benefattore atto di gratitudine, sì per averci creati e redenti come anche per averci aperto l’esercizio dell’agricoltura, di ciò lo ringrazieremo e pregheremo a darci grazia d’imprimere, a ciascheduno nel suo cuore, et osservare il precetto di legge di natura che dice quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris6, che ciò facendo saremo sicuri di terminare l’agricoltura nostra e piantare la vigna dell’anime nostre nell’eterna possessione della Santa Sion. Tra i quattro elementi, quello della Terra è il più benefico di tutti Siccome tra gl’elementi non vi è il più benefico all’umana natura che la Terra, di questa dunque brevemente tratterò, poiché si vede che l’elemento dell’Acqua esso ancora è benefico imperciocché, senza di questo, l’uomo non può vivere; ma talora ancor essa diviene nemica dell’uomo che se gli dimostra con l’inondazione. All’elemento dell’Acqua, ne segue l’Aria quale viene ad essere dappertutto perché il vacuo non si dà. Siccome anco essa è benefica molto all’umana natura, sì per il mantenimento di essa come di tutto quanto si trova in tutta la fabbrica dell’universo, ma ancora essa alcuna volta, scordatasi affatto dell’uomo, si scaglia contro di esso con lampi, con fulgori, tenebre e tempeste. Ne segue il Fuoco che, con la sua attività, ci riscalda, mantiene il calor naturale, ci difende dal freddo e ci fa una concozione di quei cibi che il calore umano naturale non è sufficiente a concuocere; ma anco questo elemento si volta contro l’uomo con abbruciarlo e incenerirlo. Ma venghiamo all’elemento della Terra; questa sempre troveremo disposta a benefizio de’ viventi e se ella talora non rende la mercede all’uomo delle sue mercede, non si può, né si deve, lei incolpare ma bensì gli altri elementi che talora dispergono le campagne: l’Aria con l’intemperie, l’Acqua con le continue piogge e inondazioni e il Fuoco del sole, con il suo calore, le dissecca l’umido vegetativo e le stringe; ma secondo le Sante scritture non vi han colpa alcuna neppure i pianeti o l’elementi ma, bensì, il peccato commesso dall’uomo; propter peccata veniunt adversa7 si legge nella Sacra «Non fare agli altri, ciò che non vuoi sia fatto a te». Antichissimo detto che attinge dalla sapienza biblica, riferito abitualmente alle sventure che

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Genesi al Cap. iii dopo che Adamo, Padre di tutti posteri, ebbe trasgredito al divino precetto. Iddio, in gastigo della sua colpa, gl’assegnò la terra per lavorarla ma immediatamente disse Maledicta Terra in opere tuo in laboribus comedes ex ea cuntiis diebus vitae tua, spinas, et tribulos germinabit tibi8, e quello che per avanti il peccato era suddito all’uomo, dopo commesso il peccato diventò nemico. Solo la Terra più degli altri elementi si mantenne più umile e discreta a favore dell’uomo poiché noi vegghiamo che quando l’uomo nasce essa, con molta carità e amore, lo riceve; vivendo, lo pasce, nutrisce e difende dagl’insulti degli altri elementi; morendo nel suo seno come madre pietosa, l’abbraccia, lo riceve e conserva dove che l’aria non lo sostiene, il foco l’incenerisce e l’acqua lo rigetta; dunque se non v’è elemento tanto umile e benefico all’uomo quanto la Terra, quale riceve la feccia di tutti gli altri elementi, quantunque l’uomo sia composto di tutti e quattro, e che un elemento non si possa separare dall’altro per il vicendevole consorzio che è tra di loro. Della terra dunque dico; le parti sostanziali della terra sono le seguenti: zolle, fango, arena, cleta, pietra e sabbione i quali, però, si dividono in altre parti e qualità di terre secondo i paesi e pronunzie cioè, terra grossa, sottile, gentile, bastarda, alberese e galestro per essere queste le più comuni e migliori. Si tralasciano molte altre qualità di terreni che ci sono, e quelli che vogliono utilmente lavorare la terra è necessario che conoschino la qualità e natura della medesima; perché tanta è la di lei diversità che non conoscendola e lavorandola alla ventura, il più delle volte si gettano via le spese e la fatica di modo che, in breve tempo, fallisce il lavoratore, pieno di debiti. Se pure trova da farne e vanno in malora gl’effetti, con grande svantaggio de’Padroni, volendo poi molto tempo e spese a rimettergli. Se pure si trova un buon lavoratore, all’opposto poi, coltivandogli con ragione e conoscendo la natura di ciascheduna qualità di terra, sopravanza ad ogni altra arte di giustissimi guadagni maggiormente osservando e così della Luna9.

si manifestano a causa del peccato di un popolo o di una nazione. Ad esempio, Girolamo Savonarola lo cita come proverbio, riferendolo alla città di Firenze (cfr. G. Savonarola, Prediche sopra l’Exodo, Sermone Quarto, [28 febbraio 1497], Venetia 1540 c. 51v: «Popolo fiorentino, io dico a’ cattivi: tu sai che gli è un proverbio che dice: propter peccata veniunt adversa; cioè che per i peccati vengono le avversità»). 8 Genesi 3: 17-18. «17 E ad Adamo disse: Perché hai ascoltata la voce della tua consorte, e hai mangiato del frutto, del quale io ti avea comandato di non mangiare, maledetta la terra per quello che tu hai fatto: da lei trarrai con grandi fatiche il nudrimento per tutti i giorni della tua vita. 18 Ella produrrà per te spine e triboli, e mangerai l’erba della terra». 9 La conclusione non è chiara ma la grafia non dà spazio a equivoci.


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