La raccolta di rime per Michelangelo

Page 1

STUDI TESTI&

11 VITTORIA COLONNA

LA RACCOLTA DI RIME PER MICHELANGELO edizione e commento a cura di VERONICA COPELLO



studi e testi collana diretta da Simone Magherini, Anna Nozzoli, Gino Tellini

11


La collana «Studi e Testi» intende promuovere e diffondere, in campo nazionale e internazionale, studi e ricerche sulla civiltà letteraria italiana, nonché edizioni critiche e commentate di testi della nostra letteratura, dalle origini alla contemporaneità. La qualità scientifica delle pubblicazioni della collana «Studi e Testi» è garantita da un processo di revisione tra pari (peer review) e dal Comitato scientifico internazionale. La collana «Studi e Testi» prevede pubblicazioni in formato cartaceo e digitale con un modello di diffusione a pagamento o ad accesso aperto (open access).

comitato scientifico internazionale Andrea Dini (Montclair University), Marc Föcking (Università di Amburgo), Gianfranca Lavezzi (Università di Pavia), Paul Geyer (Università di Bonn), Elizabeth Leake (Columbia University), Alessandro Polcri (Fordham University), Pasquale Sabbatino (Università di Napoli “Federico II”), William Spaggiari (Università di Milano), Gino Ruozzi (Università di Bologna), Michael Schwarze (Università di Costanza).


Vittoria Colonna

La raccolta di rime per Michelangelo edizione e commento a cura di Veronica Copello

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Ouvrage publié avec le soutien de la Faculté des lettres de l’Université de Genève

© 2020 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-568-6 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


Indice

ix Introduzione

ix 1. Una raccolta per Michelangelo xi 2. Il mito delle tre raccolte xv 3. La struttura della silloge vaticana xix 4. La datazione xxi 5. La poetica spirituale di Vittoria Colonna xxvii 6. L’esperienza religiosa nelle rime spirituali

xxxvii

Nota al testo

xxxvii 1. Il manoscritto Vat. lat. 11539 xli 2. La presente edizione xliii 3. Varianti xlvi 4. Nota sugli schemi rimici

xlvii

Sigle e abbreviazioni

xlvii 1. Sigle dei testimoni xlix 2. Abbreviazioni nel commento

1

Vat. lat. 11539: testo e commento

Appendici 261 Appendice 1. Corrispondenze numeriche Bullock-Vat. lat. 11539 263 Appendice 2. Corrispondenze numeriche Vat. lat. 11539 - Bullock con date di edizione 267 Bibliografia

285

Indice dei capoversi

287

Indice dei nomi



Decte cose volentieri accecto, e son certo quando l’arò, non per averle in casa, ma per essere io in casa loro, mi parrĂ essere im paradiso (Michelangelo Buonarroti, lettera a Vittoria Colonna)



Introduzione

1. Una raccolta per Michelangelo Vittoria Colonna (1492-1547), Marchesa di Pescara, allestì un’unica raccolta di sonetti a tema sacro, e fra il 1539 e il 1540 la donò all’amico Michelangelo. Il Buonarroti stesso ne parlò nella lettera inviata al nipote Leonardo il 7 marzo 1551: Messer Giovan Francesco [Fattucci] mi richiese circa un mese fa di qualche cosa di quelle della marchesa di Pescara, se io n’avevo. Io ò un Librecto in carta pecora, che la mi donò circa dieci anni sono, nel quale è cento tre sonecti, senza quegli che mi mandò poi da Viterbo in carta bambagina, che son quaranta, i quali feci legare nel medesimo Librecto e in quel tempo gli prestai a molte persone, in modo che per tucto ci sono in istampa1.

Fu Enrico Carusi nel 1938 a identificare la silloge per Michelangelo nel manoscritto Vat. lat. 11539 della Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in poi V2). Non essendo il codice autografo, l’intuizione si appoggiava su tre elementi: il codice, stilato da mano del XVI secolo, è effettivamente un librecto di pergamena («carta pecora»); contiene esattamente 103 sonetti; in calce presenta tracce di cera, che «doveva servire per tenere attaccata qualche cosa di più che un foglio»2: l’ipotesi è che fosse stata utilizzata dallo stesso Michelangelo per «legare nel medesimo Librecto» il fascicolo di 40 sonetti ricevuto più tardi. L’identificazione, dunque, pare certa. Michelangelo dovette essere cosciente dell’eccezionalità di tale dono. Infatti, il 20 dicembre 1550 scriveva in modo intenzionalmente vago e impreciso al nipote Leonardo: Ebbi ieri una lecte[ra] da messer Giovan Francesco [Fattucci] che mi domanda se io ò cosa nessuna della marchesa di Pescara; vorrei che tu gli dicessi che io cercherò e rispondero

1

2

Buonarroti 1965-1983, vol. IV, mclx, pp. 361-362. Carusi 1938, p. 241; Carusi-Ruysschaert 1959, p. 276.


x

La raccolta di rime per Michelangelo

gli sabato che viene benché io non credo aver niente, perché quando stecti amalato fuor di casa, mi fu tolto di molte cose3.

È difficile credere che l’artista non ricordasse di possedere un intero libro di poesie della Colonna. Infatti, il 1° agosto 1550 aveva già parlato a Fattucci della Marchesa, inviandogli sul verso della lettera un sonetto e un madrigale composti proprio per lei4. La conferma della ritrosia di Michelangelo a inviare il codice a Fattucci emerge da un’altra lettera a Leonardo, dell’8 maggio 1551: «Circa i’ Librecto de’ sonecti della Marchesa, io non lo mando, perché lo farò copiare prima e poi lo manderò»5. L’accuratezza che contraddistingue il manoscritto Vat. lat. 11539 permette di escludere che possa trattarsi della copia a cui allude il Buonarroti o di un’altra. L’incontro fra Vittoria e Michelangelo era avvenuto con ogni probabilità nel 1536 a Roma, dove la Colonna era giunta nel marzo e dove risiedette stabilmente fino al novembre di quell’anno6. Tornata la Marchesa nell’Urbe nell’ottobre 1538 (dopo la parentesi ferrarese e quella toscana), l’amicizia si dovette intensificare in fretta, come attestano le conversazioni di S. Silvestro al Quirinale, che Francisco de Holanda ambienta nel febbraio 15397. Michelangelo la frequentò poi assiduamente fino agli ultimi giorni di vita, facendole spesso visita nel monastero di S. Anna, dove ella alloggiò dal 1543 alla morte8. Il loro scambio epistolare fu cospicuo, come riferisce lo stesso Michelangelo: «Ò poi molte lectere che la mi scrivea da Orvieto e da Viterbo»9. Di tale corrispondenza sono rimaste solo sette epistole, nessuna datata: due di Michelangelo e cinque della Colonna, che si segnalano per la familiarità del dettato e per le poche formule di cortesia, quali invece solitamente abbondano nel carteggio della Marchesa10. Il rapporto di amicizia tra i due fu segnato da stima e affetto, e la differenza di stato sociale che necessariamente intercorreva fra l’artista e una delle donne più potenti d’Italia non trapela in alcun modo dalle testimonianze, dirette o indirette. Emerge piuttosto la distanza spirituale che Michelangelo avvertiva nei confronti della Colonna, a cui si rivolgeva come a una guida sicura da seguire nei labirinti del dubbio. La loro «stabile amicitia et ligata in christiano nodo sicurissima affectione»11 si nutrì di dialoghi personali (come racconta Francisco de Holanda), 3

4

5

6 7

8

9

10 11

Buonarroti 1965-1983, vol. IV, mclvii, p. 357. «M(esser) Giovan Francesco amico caro, […] per non esere troppo breve nello iscrivervi, non avendo da scrivere altro, vi mando qualche una delle mie novelle che io iscrivevo alla marchesa di Pescara, la quale mi voleva grandisimo bene, e io non manco a llei. Morte mi tolse un grande amico» (Buonarroti 1965-1983, vol. IV, mcxlvii, pp. 344-345). Buonarroti 1965-1983, vol. IV, mclxi, p. 363. Cfr. la cronologia in Copello 2017b. Per la datazione di tali conversazioni al febbraio 1539 (e non all’ottobre 1538, come si è generalmente creduto) si vedano Lo Re 1998, p. 38n e Busi 2017, pp. 366-368. Buonarroti 1965-1983, vol. V, p. 210. Buonarroti 1965-1983, vol. IV, mclx, pp. 361-362. Su questo scambio epistolare si veda Copello 2020c. Carteggio, CLVII.


Introduzione

xi

desiderati al punto che il Buonarroti andò anche a Viterbo per incontrare la Marchesa12. Quegli anni furono costellati di continui scambi di doni, di molteplice natura: materiali (come la lente che la Colonna si preoccupò di trovare per Michelangelo)13, artistici e letterari. Vittoria ricevette tre dipinti a tema sacro – un Crocifisso, una Pietà e una Samaritana – che la colpirono profondamente, specialmente il primo14. Prese vita poi un dialogo poetico, che assunse anche la forma di vere e proprie rime di corrispondenza ad argomento spirituale (sonetti XXXV e XXXIX)15. Michelangelo conosceva bene i testi poetici della Marchesa16; si può quindi immaginare la gratitudine che dovette sorgere nell’artista di fronte a quel dono unico ed eccezionale che è la silloge vaticana. Ed è ragionevole pensare che proprio a tale raccolta egli faccia riferimento in una famosa lettera alla Colonna: Volevo, Signiora, prima che io pigliassi le cose che vostra S.a m’à più volte volute dare, per riceverle manco indegniamente ch’i’ potevo, fare prima qualche cosa a quella di mio mano; di poi riconosciuto e visto che la gratia di Dio non si può comperare e che ’l tenerla a disagio è pechato grandissimo, dico mie colpa e decte cose volentieri accecto, e son certo quando l’arò, non per averle in casa, ma per essere io in casa loro, mi parrà essere im paradiso, di che ne resterò più ubrigato, se più posso esser di quel ch’i’ sono, a vostra S.ria 17.

La presenza domestica («in casa») di un dono giunto direttamente dalle mani di Vittoria è avvertito come un onore inatteso e impossibile da ricambiare. Anzi, più che ospitare un codice di rime entro le proprie mura, Michelangelo ha la sensazione di abitare lui stesso fra le mura di quella poesia sacra, di essere in paradiso, di abitare vicino a Dio. 2. Il mito delle tre raccolte «L’unica raccolta di rime spirituali di Vittoria Colonna compilata sotto il controllo dell’autrice» è quella inviata a Michelangelo18. Tuttavia, nella letteratura critica ha trovato ampio spazio il mito di tre raccolte da lei allestite e inviate attorCarteggio, CLXIII; si veda il testo nell’edizione più affidabile fornita da Pagano-Ranieri 1989. Lettera ad Alvise Priuli, maggio-giugno 1543, cit. in Pagano-Ranieri 1989, p. 151. Al riguardo, si veda Donati 2019, pp. 143-146 14 A questo proposito si rimanda innanzitutto ai cataloghi di alcune mostre (Ferino-Pagden 1997; Ragionieri 2005; Joannides 2007; Rovetta 2011). Dell’ampia bibliografia sui disegni michelangioleschi per la Colonna si vedano almeno i più recenti: Forcellino 2009; Moroncini 2009; Firpo 2010; Masi 2011; Rafanelli 2012; Kleinbub 2013; Forcellino 2016; Bambach 2017; Donati 2019; Copello-Donati 2020. 15 Copello 2017a. 16 L’affettuoso attaccamento del maestro alla poesia dell’amica è rivelato da una copia delle Rime colonnesi edite nel 1558 da lui autografata. Il volume è ora conservato alla British Library C. 28.a.10; una riproduzione della firma si trova in Ragionieri 2005, p. 191. 17 Carteggio, CXXV, rivisto sull’originale autografo realmente spedito, conservato presso la Fondation Martin Bodmer di Cologny. 18 Scarpati 2005, p. 129.

12 13


xii

La raccolta di rime per Michelangelo

no al 1540: oltre a quella per Michelangelo, una per Francesco Della Torre, segretario di Giberti, e una per Margherita d’Angoulême, regina di Navarra. Si tratta, però, di una ricostruzione che non ha consistenza documentaria19. Il 30 gennaio 1540 Della Torre aveva richiesto a Carlo Gualteruzzi alcuni sonetti della Colonna da far copiare: «Ho inteso per lettere di Messer Lattantio [Tolomei] d’un parto di molti bellissimi sonetti: ho gran desiderio d’averli, se si può senza importunità»20. Gualteruzzi glieli inviò già il 7 febbraio, come si deduce dalla lettera in risposta di Della Torre del 16 febbraio: Signor mio, le più lunghe delle vostre lettere mi sogliono essere sempre più care, ma questa vostra breve de’ VII è piena di tanti favori, che ha molto tempo che non hebbi la più cara. Ho letto molte volte i sonetti di quella nostra Illustrissima Signora, ma perché non mi contento se non li rileggo molte altre, vi piacerà impetrarmi perdono se non li mando questa volta, ché li manderò col primo, ma toltone prima copia con promessa di non lasciarmeli uscir di mano. […] Basciatemi vi priego le mani a Sua Eccellenza del favore che si è degnata di farmi21.

Il giorno successivo (17 febbraio 1540) Gualteruzzi mandò a Della Torre un ulteriore sonetto. Dopo averne ricavato una copia, il 28 febbraio tutto fu restituito, come promesso: Signor mio, io vi rimando i bellissimi sonetti della nostra Illustrissima Signora, i quali tanto più piacciono quanto più si leggono. Per non ingannarvi, oltra la copia che ne ho fatta io, non ho potuto negarne una al nostro messer Tullio [Crispoldi] […]. Con l’ultima de’ XVII ho ricevuto l’ultimo sonetto22.

Non si tratta, dunque, di rime che la Colonna organizzò e liberamente offrì in dono a un amico: la selezione dei testi fu probabilmente condotta da Gualteruzzi, e la poetessa si limitò ad acconsentire che fossero inviati (il «favore che si è degnata di farmi»). Per altro, la poetessa esigeva che il manoscritto le fosse restituito per il timore che le sue rime si diffondessero, «uscendo di mano» a Della Torre. Inoltre, la richiesta riguardava le ultime rime della Marchesa (quelle di recente parto): non sembrando probabile che a questa altezza temporale la Colonna componesse ancora rime amorose (cfr. oltre), si sarà trattato di componimenti spirituali. Di conseguenza, cade definitivamente l’identificazione della copia di

Tale credenza ebbe inizio con il saggio di Tordi 1900a e trovò poi largo consenso (per es. Bullock 1982, p. 225), benché non siano mai mancati studiosi che abbiano messo in dubbio l’attendibilità di alcune conclusioni di Tordi. 20 Cit. in Tordi 1900a, pp. 14-15, che però riporta l’anno 1541, poi corretto da Lalli 2015, p. 361, che si rifà alla lettera manoscritta conservata nel codice Federici 59 della Biblioteca Comunale Federiciana di Fano, c. 191v. 21 Anche per questa lettera, già cit. in Tordi 1900a, pp. 15-16, ci si serve della nuova lezione basata sul ms Federici 59, cc. 192r-193r della Biblioteca Comunale Federiciana di Fano (Lalli 2015, p. 385). 22 La lettera, contenuta nel citato ms Federici 59 (c. 193r-v) è stata trovata e pubblicata in Lalli 2015, pp. 387-388. 19


Introduzione

xiii

sonetti inviata al Della Torre con il ms F1, sostenuta da Alan Bullock (che si è servito del codice come testo base per l’edizione delle Rime Amorose)23. Si ha notizia di altri due manoscritti (non uno solo) di sonetti colonnesi allestiti negli stessi mesi per la regina di Navarra Margherita d’Angoulême (14921549). Il primo giunse nelle mani della destinataria il 23 agosto 1540 dopo aver superato alcuni ostacoli24; la vicenda è narrata da Alberto Sacrati, oratore estense presso la corte di Francia, che da Joinville, il 24 agosto 1540, raccontava al duca di Ferrara: Alli passati essendomi stato indirizzato un libretto di sonetti scritti a mano della Signora Marchesa di Pescara da un gentilhuomo mio compatre, acciò gli avessi da presentare alla serenissima Regina di Navarra in nome suo, per havere sua Maestà fatto recercare lui de detti sonetti per mons. de Rhodes [Georges d’Armagnac, vescovo di Rodez e ambasciatore francese a Roma], et per esser quel gentilhuomo gran servitore della Marchesa et esser persona che si diletta di questa arte et ne fa cumullo, non gli seppe negare, et il libro capitò con le lettere nelle mani di mons. Gran Contestabile, et sua Exc.a […] retene il libro […]; l’haveva mostrato al Re et dappoi datolo alla Reina di Navarra […]. Di quanto al libro Sua Maestà non volse gli ne movessi altro dicendomi che mons. Contestabile haveva detto al Re ciò, che in detti sonetti v’erano di molte cose contro la fede di Gesù Christo, et sapendo Sua Maestà il buon nome della signora Marchesa, se ne mocava, et mi ha pregato scriva ad Roma ne sia mandato un altro25.

Si trattava innanzitutto di un libretto scritto a mano da un copista ferrarese, e dunque non di fogli sciolti come probabilmente furono quelli inviati a Della Torre; non fu un dono della Colonna alla regina, che ne aveva invece fatto esplicita richiesta («per havere sua Maestà fatto recercare lui de detti sonetti»); conteneva testi spirituali, che vennero sospettati di eresia. Intanto, proprio negli stessi mesi, dalla corte di Francia Pierpaolo Vergerio scriveva a Bembo: «Messer Carlo vostro da Fano fece la fatica di raccoglier le rime della Marchesa. Ho veduto in mano della regina ciò che egli scrive in qua, et

Bullock 1966; Bullock 1982. L’identificazione è stata smentita da Tobia Toscano (Toscano 1998, pp. 23-24; cfr. anche Dionisotti 1981, p. 278). Il manoscritto contiene infatti una canzone e 99 sonetti (di cui 90 in stampa già nel 1538, dunque di un parto non recente), per la maggior parte amorosi (88, più 4 spirituali e 7 epistolari). La novità editoriale contenuta nel codice si riduce quindi a 9 sonetti, fra i quali nessuno di argomento spirituale. Un dato che non pare in alcun modo conciliabile con i molti testi frutto di un recente parto a cui Della Torre faceva riferimento (Toscano 1998, p. 24). Egli, per altro, conosceva assai bene le rime della Colonna e in particolare quelle apparse nell’edizione del 1538, come testimonia una sua lettera in cui si lamenta dei molteplici errori ivi contenuti (cit. in Lalli 2015, p. 363). Ma l’epistola del 28 febbraio scioglie ogni dubbio: il fatto che a pochi giorni di distanza Gualteruzzi spedisse un altro sonetto significa che si trattava di rime inviate alla spicciolata, non di una raccolta. 24 Sulla vicenda: Tordi 1900a, Brundin 2001, Brundin 2008, pp. 101-131, Corsaro 2009. Sulle relazioni della Colonna con Margherita di Navarra si vedano anche Couture 1877; Ansermin 1966; Febvre 1980; Saulnier 1980; Rutter 1991; Collett 2000; Pignatti 2013; Fliege 2019a. 25 Cit. in Tordi 1900a, pp. 19-20. 23


xiv

La raccolta di rime per Michelangelo

averà ancor me, tale quale io sia, procuratore»26. Dunque Carlo da Fano, cioè Gualteruzzi, aveva raccolto le rime della Colonna, e con ogni probabilità è sua la lettera seguente, databile all’estate 1540: Alla Regina di Francia Essendosi nuovamente inteso V. M.tà desiderar di haver copia delle Rime Spirituali della Ill.ma S.ra Marchesa di Pescara, e sopra ciò haver dato ordine ch’elle siano cercate, et mandatele con buona diligenza; io, il quale mi trovo haverle di mano in mano, mentre ella dettate le ha, copiate et conservate tutte, la qual cosa a me è stata assai agevole per l’antica servitù che io con sua Ex.a tengo, ho giudicato di non poter senza nota di christiana impietà cessare di mandargliele. Là onde mi sono messo a farle trascrivere, e ridurre in picciolo volumetto, nudo d’ogni esteriore ornamento27.

Anche Gualteruzzi aveva dunque fatto rilegare in un picciolo volumetto un buon numero di poesie spirituali della Colonna per la regina, poesie che aveva personalmente conservato a mano a mano che gli venivano inviate dall’autrice. «Data la rilevanza sociale e politica della destinataria», Gualteruzzi dovette far leggere la minuta dell’epistola per Margherita di Navarra a Bembo, che la riformulò di suo pugno, in persona dell’amico: Ser.ma Reina. Essendo a mano venuti del Card.l Bembo cento molto belli sonetti della Ill. S.ra Marchesa di Pescara tutti religiosi et santi, […] fu da llui confortata et pregata la detta Madonna, a dovergli fuori mandare in mano de gli uomini massimamente a questi tempi alla vera nostra religione così contrari et disagiosi, come si vede che sono. La qual cosa non avendo S. S. ottener da llei potuto, ché alle divine cose et alla contemplation di loro in tutto volta, niente si cura delle mondane, raddomandatole i detti sonetti per meglio rivedergli, et havutogli, se ne fece subitamente scrivere uno essempio, per darlo a me, affine che io il mandassi a V. M.tà […]. Né [Bembo] cura per piacerle, che la S.ra Marchesa di lui si dolga, che così adoperato habbia28. ma

Queste righe rivelano da una parte che questo manoscritto donato alla regina di Navarra era una copia (un essempio) di quello che la stessa Colonna aveva inviato a Gualteruzzi; dall’altra che, apparentemente, la poetessa non avrebbe gradito un’ulteriore diffusione delle proprie rime. Domenico Tordi credette di individuare la raccolta allestita da Bembo-Gualteruzzi nel codice L, datato al 1540 e con il blasone della regina di Navarra miniato: «l’identificazione è dunque sicura»29. Eppure, permane l’imbarazzo suscitato Dionisotti 1981, p. 285. Degli incontri con Margherita Vergerio scriveva alla Colonna nell’estate 1540 (Carteggio, CXVI). Si cita da Amendola 2019, della cui edizione si è solo modificato in punto e virgola il punto dopo diligenza (cfr. Tordi 1900a, p. 18; Bembo 1993, vol. IV, p. 606). Cfr. Toscano 1988, pp. 24-25 e Toscano 2020. 28 Si cita da Amendola 2019, al quale si rimanda per una esaustiva revisione della vicenda filologia relativa a questa lettera (cfr. Dionisotti 1981, pp. 284-285; Bembo 1993, vol. IV, pp. 606-607). 29 Dionisotti 1981, p. 278. 26 27


Introduzione

xv

da alcuni errori: dei 102 sonetti, tre sono ripetuti due volte con alcune varianti, e ben otto non sono della Colonna. «Questa arbitraria mescolanza non può essere imputata», come vorrebbe Tordi, «al Gualteruzzi, che a menadito conosceva le rime del Bembo e dei suoi corrispondenti»30, né tantomeno a Bembo; i testi non sono «cento molto belli sonetti», ma 102, dei quali ben 49 erano già apparsi a stampa fra il 1535 e il 1539, mentre 7 furono pubblicati nello stesso 1540; il codice L presenta errori congiuntivi con l’edizione del 153831, che fu tanto biasimata da Bembo nelle sue lettere a Gualteruzzi32; la regina cercava sonetti spirituali, mentre L contiene anche rime amorose (mentre i sonetti che Bembo-Gualteruzzi mandano a Margherita sono «tutti religiosi et santi»). In conclusione, il codice L «should be considered a collection that was not directly controlled by the poet, but was probably put together in Ferrara and sent from there to Marguerite via the orator to the Este Dukes, Alberto Sacrati»33. Le lettere di Gualteruzzi/Bembo si riferiscono invece all’invio di un altro manoscritto, ora scomparso, che comprendeva unicamente rime spirituali34. A differenza dei sonetti inviati a Della Torre, entrambe le sillogi per la regina di Navarra rappresentano effettivamente un dono (sonetti selezionati, fatti ricopiare con eleganza, e rilegati in volume), ma sempre su commissione della destinataria e soprattutto senza il controllo – forse pure senza il consenso – dell’autrice. 3. La struttura della silloge vaticana La raccolta donata a Michelangelo presenta un’impalcatura di matrice petrarchesca. Vi sono, innanzitutto, un inizio (sonetto I) e una fine, o meglio una doppia fine: si tratta dei testi CII e CIII, legati nelle quartine dalla medesima famiglia di rime. In questi tre testi, focalizzati sul senso e le finalità di una poesia di argomento sacro, si rinvengono le ragioni profonde della scrittura colonnese, che pone le proprie radici sull’obbedienza all’ispirazione divina a servizio del lettore. Se si sottraggono le tre rime estreme al totale dei 103 sonetti, si raggiunge il numero fatale di 10035. Si è parlato di una doppia chiusura, in virtù dei legami formali e tematici che saldano fra loro gli ultimi due testi. Tuttavia, percorrendo la silloge a ritroso si scopre come anche le rime precedenti siano collocate in posizione finale con un preciso intento. Nel sonetto CI la Colonna si rivolge direttamente a san Pietro affinché protegga papa Paolo III, suo successore, e tutta la Chiesa; il testo C è una Dionisotti 1981, p. 280. Si veda la scheda di Antonio Corsaro in Ragionieri 2005, p. 129. Corsaro 2009, p. 35. 32 Bembo 1993, vol. V, p. 141 (8 novembre 1538). 33 Corsaro 2009, p. 35. 34 Cfr. Toscano 1988, p. 25. 35 Cfr. Gorni 1984, p. 515. Anche il numero 103, tuttavia, vanta una certa tradizione, come ha ricordato Crivelli 2013 (p. 125) citando Albonico 2009 (pp. 270-271). 30 31


xvi

La raccolta di rime per Michelangelo

preghiera alla Madonna, nella veste di advocata nostra presso Dio; le rime XCIX e XCVIII sono gli unici testi di tutta la raccolta rivolti a personaggi viventi, rispettivamente Reginald Pole e Pietro Bembo. La presenza di due rime ‘epistolari’ quasi in chiusura di libro, e in posizione contigua, non può essere casuale: la poetessa intendeva indicare con decisione quale fosse – all’altezza del 1540 – la più significativa trama di rapporti, dal punto di vista intellettuale, letterario e religioso. Il testo XCVII, quasi il manifesto spirituale della Marchesa, mostra come in virtù del saldo legame con Cristo si possa affrontare qualsiasi avversità. Le rime conclusive, insomma, delineano un’immagine a tutto tondo della spiritualità della Colonna: ancorata alla viva pietra, Gesù (XCVII 13), alla ricerca di rapporti personali nella vita terrena (XCVIII e XCIX) e insieme di guide celesti per tutta l’umanità (C e CI), la poetessa mette i propri versi al servizio del Signore e a vantaggio del prossimo (CII e CIII). La parte centrale della raccolta vaticana presenta, nelle parole di Giovanni Bardazzi, «una coesione piuttosto forte, ottenuta attraverso legami rimici, lessicali, tematici»36, che ne fanno «un edificio dalle parti solidamente interconnesse»37. Innanzitutto vi sono le vere e proprie corone di sonetti già individuate da Claudio Scarpati: quella per la Vergine (XLIV, LI, LII, LIII, XCV), i «cinque sonetti paradisiaci» (XXXV, LIX, LXXII, LXXIII, LXXXI), alcune «liriche di ispirazione evangelica» (tra cui VI, VII, XII, XIV, XVIII, XLI), due componimenti sul tema della riforma della Chiesa (XCIII e CI), oltre ai motivi-guida dei primi testi, che sono «luce, fuoco e fiamma» (XIX, XXI, XXII, XV)38. Vi si possono poi aggiungere una serie eucaristica (XI, XXIX, XLI, LVII-LVIII, XCIV) e una di contemplazione della croce (XXVIII, XLIII, LV, LXI, LXXVII, LXXXVII, LXXXVIII). In secondo luogo, Bardazzi ha mostrato come esistano «connessioni intertestuali tra sonetto e sonetto» e ne ha fornito un’esemplificazione riguardante i primi 34 testi della raccolta39. Si tratta talvolta di legami tematici, come fra le rime XXXII-XXXIII dedicate a san Francesco, XXXVI-XXXVII a Noè, o XLIIXLIV alla Madonna; ma vi possono essere anche relazioni lessicali: l’incipit interrogativo del sonetto XLIX 1-2 («Quanta gioia… / alor che…?») si riaggancia per esempio all’incipit esclamativo del precedente sonetto XLVIII («Quante dolcezze… / alor che…!»); le «scintille del cor» di LXXVI 11 ricordano la «scintilla di carità» del testo precedente (LXXV 5); o ancora, il sonetto XCI si lega ai successivi tramite le espressioni van lavoro e tesoro (XCI 2 e 7), che compaiono identiche a XCII 4-5. Talvolta, infine, lo strumento connettivo è la rima, come avviene fra XCI e XCII e fra CII e CIII. Ulteriori elementi portanti dell’architettura sono i testi ‘d’occasione’ per festività o solennità liturgiche, che svolgono funzione analoga a quella delle petrarche 38 39 36 37

Bardazzi 2004, p. 94. Scarpati 2005, p. 134. Scarpati 2005. Bardazzi 2004, pp. 90-93.


Introduzione

xvii

sche ‘rime d’anniversario’. Tipica marca testuale di questi componimenti è oggi (XXXVIII 2 per la Discesa agli Inferi; XLVI 5 per la festa di Sant’Orsola; LXXXIX 1 per il Battesimo di Gesù), oppure «quest’almo giorno» (IX 1 per la Natività di Maria). Il ricordo di numerosi santi costella l’opera, quasi essi fossero compagni di viaggio dell’anno liturgico40; vi si affianca ovviamente la Madonna, la cui presenza è costante, dal principio (IX) alla fine (LXXXII, XCV e C), per concentrarsi in particolare nella parte centrale (XLII, XLIII, XLIV, LI, LII, LIII, LXIV). Sulla Colonna, tuttavia, oltre al modello-Canzoniere agì forse anche l’esempio dei laudari, sillogi organiche di testi ad argomento sacro. Costruiti attorno a pochi blocchi tematici, i laudari spesso venivano aperti da un’introduzione, costituita da testi rivolti a Dio o ai santi protettori della confraternita a cui il singolo codice apparteneva. Una presenza costante era poi il gruppo di rime consacrate alla Vergine, a cui si affiancava la sezione destinata al circulum anni e quella – cospicua – riservata alla Passione; normalmente, il libro era chiuso dal santorale. Nella silloge vaticana, benché si rinvengano facilmente alcuni gruppi tematici, la disposizione dei testi sembra evitare accuratamente di apparire monolitica41. Dopo il componimento incipitario si trovano cinque sonetti in cui è messo a tema il rapporto personale con Dio e che costituiscono una sorta di introduzione generale alla raccolta. Seguono due richieste di aiuto, all’Angelo Custode e alle anime del Paradiso. Si alternano poi liriche legate per lo più alle varie sezioni tematiche riscontrate nei laudari. Fra quelle ascrivibili al circulum anni non vi è alcuna coerenza cronologica, come per altro avviene frequentemente anche nelle sillogi di laude due-trecentesche: sonetto IX Natività di Maria; XXX Natale; XXXVIII la Discesa di Cristo agli Inferi; XLVII Natale; XLIX Epifania; L Strage degli Innocenti; LXIV Annunciazione; LXXXII Immacolata Concezione; LXXXVI Epifania; LXXXIX Battesimo di Gesù; XCIV-XCV Natale. Le rime mariane, come detto, si coagulano nei due gruppi centrali XLII-XLIV e LI-LIII, ma si trovano anche isolate (IX, LXXXII, XCV, C). Lo stesso avviene per i testi dedicati alla Passione (LXI, LXX, LXXVII-LXXVIII, LXXXVII-LXXXVIII) e per il santorale (XVII Martiri; XXVI Maddalena; XXXII-XXXIII Francesco; XL Stefano e XLI Giovanni Evangelista; XLV Luca e XLVI Orsola e le Undicimila Vergini; XLVIII Andrea; LXV Ignazio d’Antiochia; LXXIV Tommaso Apostolo; LXXXIII Caterina d’Alessandria). I sonetti rimanenti si occupano di altri episodi contenuti nella Sacra Scrittura (XII-XIV, XVI, XXXVI-XXXVII, LXVIII), dell’Eucarestia (XI, LVIILVIII), del Paradiso (XXXI, XXXV, LXXII-LXXIII, LXXXI), e soprattutto della fede personale della poetessa, protesa verso Dio in un cammino fatto ora di dubbi ora di certezze. Nell’ultima parte della raccolta compaiono alcune rime de contemptu mundi, altro motivo ricorrente nei laudari (XCI-XCII, XCVI-XCVII): Cfr. Copello 2020a. «The conceptual texture behind the entire macro-text is very complex, resisting any attempt at linear organization, and is run through by vectors that mirror each other and are redefined semantically in reciprocal ‘citations’» (Sapegno 2016c, p. 153).

40 41


xviii

La raccolta di rime per Michelangelo

come nel Paradiso dantesco, insomma, nell’antologia per Michelangelo si alternano la contemplazione del divino e l’invettiva contro i mali del mondo, l’incontro personale con uomini realmente conosciuti (Bembo e Pole) e i millenari exempla della tradizione cristiana. Per concludere il discorso sulla dispositio dei sonetti occorre osservare l’affinità fra la silloge per Michelangelo e l’edizione Valgrisi (d’ora in poi 46V). Se non è per forza, questo, sintomo della presenza autoriale dietro a un’edizione non ufficialmente avallata dalla poetessa, è almeno segno del fatto che chi ha presieduto all’allestimento della stampa possedeva un manoscritto autorevole. Lo conferma una lettera che Donato Rullo, agente finanziario dei Colonna presso la Zecca di Venezia e promotore dell’edizione Valgrisi, inviò ad Ascanio Colonna il 13 novembre 1546: Io aspetto con desiderio che Vostra Eccellentia habbi ricevuto le Rime Spirituali stampate, che io le mandai, della illustrissima sua sorella et mia patrona, la quale intendo essere Sua Eccellentia mutinata contra di me, perché io le hebbi date a stampare, o perché io non habbi prohibito. S’io non avessi a fare questa guerra con signori romani et casa Colonna, spererei potermi difendere da me solo e da Rullo, altre volte anch’esso romano. Ma qui che ho da fare altro, se non chiamare soccorso di chi mi può, mi vuole et mi debbe aiutare? Può per la causa giusta; vuole come Signore et Padrone; debbe per esser propria sua virtù, et promessa, che me ne fece (se ben mi ricordo) un dì a san Giorgio offrendomi alcuni di quelli sonetti. Ricorro adunque a Vostra Eccellentia et la supplico che non mi lasci ferire faccendome sentire a me et a gli altri le ragioni che habbiano42.

Dunque Ascanio, al quale si può pensare che fosse la stessa sorella a inviare i testi, aveva consegnato a Rullo alcuni sonetti affinché li facesse stampare. Come sostiene Tatiana Crivelli, insomma, l’editore della Valgrisi «‘presumably’ had access to Colonna’s papers»43. Ma il volume veneziano non era ancora giunto nelle mani di Ascanio per un semplice motivo: «il libro che mandò m. Donato sel ritenne la S.ra [cioè Vittoria] et fin qui non me l’à voluto dare», scriveva Lorenzo Bonorio al Colonna il 12 novembre44. Fra V2 e 46V spicca in primo luogo la coincidenza delle scelte di apertura (I = S1:1) e di chiusura (CIII = S1:179)45. Si tratta però di testi che possono essere Donato Rullo ad Ascanio Colonna, Venezia, 13 novembre 1546 (ed. in Tordi 1900a, pp. 4-5 e Donati 2019, pp. 447-448, appena citata in Bullock 1982, p. 225). 43 Crivelli 2016b, p. 122. 44 Lorenzo Bonorio ad Ascanio Colonna, Roma, 12 novembre 1546 (Donati 2019, p. 447, riveduto sull’originale conservato a Subiaco, Biblioteca di Santa Scolastica, Archivio Colonna, Corrispondenza di Ascanio Colonna. Sottoserie 1, 1546. Bonorio Lorenzo). Il volume doveva circolare già da fine ottobre, come testimonia una lettera di Cosimo I de’ Medici a Pietro Camaiani da Arezzo, in Trento, del 4 novembre 1546: «Haviamo con questa a accusarvi la ricevuta solamente di due vostre lettere, l’una de’ 26 con la quale ci mandasti il libro delle rime spirituali della marchesa di Pescara per ordine di m. Marcantonio Flaminio […] et a dirvi per risposta che il libro ci è stato gratissimo et vogliamo che ne ringratiati il Flaminio da nostra parte, et che comendiamo voi della diligentia vostra che usate in tenerci giornalmente avvisati di tutto quello che intendete […]» (ASF, Mediceo del Principato, 8, c. 156, trascritto da bia.medici.org). 45 Crivelli 2016b, p. 122. 42


Introduzione

xix

intuitivamente collocati in tali posizioni, visto il tema metapoetico che li accomuna: il primo come dichiarazione di intenti, di svolta e di nuovo inizio, il secondo come riflessione a posteriori sul proprio operato. Piuttosto, sembrano maggiormente significative alcune sequenze di sonetti che ritornano invariate in entrambe le raccolte. Vi sono casi in cui la vicinanza tra due testi è ancora del tutto prevedibile, come per XXXII-XXXIII (S1:124 e 123), entrambi dedicati a san Francesco; per XXXVI-XXXVII (S1:113 e 112), incentrati sulla figura di Noè; per i mariani XLII-XLIV (S1:108, 107 e 105) e LI-LII (S1:103-104); per gli eucaristici LVII-LVIII (S1:22 e 20). Meno facilmente si spiega la vicinanza di XIX-XX (S1:10 e 12), quella di XC, XCI, XCIII e XCVI (S1:32-35), o quella che interessa la maggior parte dei testi che va da LXII al LXXXVIII (da S1:60 a S1:81), fra i quali risalta la coincidenza numerica perfetta del trittico LXXVI-LXXVIII (S1:76-78). Una spiegazione può essere ritrovata nella scansione cronologica che la raccolta vaticana, con gli accorgimenti strutturali di cui si è detto, sembra sostanzialmente seguire (cfr. Appendice 2). Fra i primi 26 testi, infatti, 15 erano già stati pubblicati nel 1538 o nel 1539, mentre altri 8 sarebbero stati editi a breve, nel 1542 (fra i sonetti già andati in stampa nel 1538-1539 vi sono poi solo il XXXII e il mariano XCV, accuratamente posto in coda alla silloge). Il manoscritto per Michelangelo, insomma, «comincia dove finiscono le stampe apparse entro il 1540»46. La maggior parte dei componimenti (93) comparve poi – nuovamente o per la prima volta – nell’edizione Valgrisi del 1546. Nove dei dieci sonetti mancanti – XXVII, XXXVIII, XLV, XLVI, XLVII, LV, LVI – sarebbero venuti alla luce solo nel 1900, quando Tordi scoprì il codice L47, risalente al 1540. Infine, il sonetto XXXIX, trasmesso unicamente da V2, rimase inedito fino al contributo di Carusi. Nella raccolta vaticana, questi dieci testi paiono raggruppati in tre brevi serie (ad esclusione del XXVII, che rimane isolato), che sono forse indizio dell’unità di ispirazione e della simultaneità di stesura: XXVIII-XXXIX, XLV-XLVI, LV-LVI. 4. La datazione Per quanto riguarda la datazione del manoscritto, il primo elemento da tenere in considerazione è la citata lettera di Michelangelo del 7 marzo 1551. Da qui si apprende che la raccolta era pervenuta nelle mani dell’artista da circa dieci anni, e comunque prima che la Colonna si trasferisse a Viterbo (settembre 1541), poiché da lì giunsero poi altri 40 sonetti. Dunque la Marchesa potrebbe aver inviato il manoscritto da Roma (in cui abitò certamente dall’ottobre 1538 al marzo 1541), da Orvieto (dove soggiornò tra il marzo e il giugno del 1541) o al massimo da Bagnoregio (luglio-agosto 1541). L’unico elemento interno che possa costituire un signi Dionisotti 1981, p. 282. Tordi 1900a; cfr. Bullock 1982, pp. 473, 484 e 499. Di queste nove rime, solo la VIII (S2:32) e la IX (S2:22) circolarono in altri manoscritti e stampe.

46 47


xx

La raccolta di rime per Michelangelo

ficativo terminus ante quem è contenuto nel sonetto XCIX, in cui Margaret Pole, che morì il 27 maggio 1541, è presentata come ancora viva («vive prigion», v. 2); il novembre del 1538, quando la madre del cardinale venne imprigionata, rappresenta invece il terminus post quem della composizione del sonetto. Un secondo e più debole indizio proviene dal sonetto XCVIII rivolto a Pietro Bembo. Ai vv. 1213 la Colonna gli rivolge queste parole: «Bembo mio chiaro, or ch’è venuto il giorno / ch’avete solo a Dio rivolto il core». Se si interpreta correttamente, la Marchesa si riferisce al cardinalato, conferito ufficialmente a Bembo il 19 marzo 1539: il testo potrebbe essere stato composto per quella occasione (or che…). Un ultimo elemento, ancora più indeterminato nel tempo, è presente nel sonetto LXIII, in cui la poetessa afferma che «si rinverde la gioiosa speme» di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme. Si sa che il breve papale che le concesse l’autorizzazione a compiere il viaggio è del 13 marzo 1537 e che il 6 dicembre 1538 la Colonna scriveva che questo suo intento era durato due d’anni prima di svanire48. Indizi più significativi provengono dall’analisi delle varianti49. Il codice L è molto vicino a V2, come dimostrano le numerosissime lezioni tra loro concordanti contro 46V50. Allo stesso tempo, L e V2 (eventualmente anche 46V) presentano lezioni concordanti contro 38-39, e sono dunque rielaborazioni successive alla stampa. Vi sono alcuni casi, però, in cui le lezioni di L coincidono con quelle di 46V contro V2. III 6: in modo V2] in guisa L 46V XV 12: onde V2] perché L 46V; cede] crede L 46V; 13: anzi V2] onde L 46V XXXVIII 5: lode V2] lodi L 46V L 6: velo virginal sua V2] vel virgineo tuo L 46V; 10: bel sempre V2] sempre bel L 46V LI 11: larghi V2] erti L 46V LIII 4: col velo virginal sua luce pura V2] col vel virgineo tuo Sua luce pura L 46V; 12: nel bel sempre] nel sempre bel L 46V LXI 5: Qui V2] Ivi L 46V

Si tratta, per lo più, di microcorrezioni. Ma vi sono altri passi in cui L rappresenta una fase intermedia tra V2 e 46V: III 11: mi mostra or dentro al suo bel V2] sentir mi face nel suo L, sembiar mi face col Suo 46V V 13: l’immortal glorie, e coi bei raggi V2] l’immortal glorie, et a bei raggi L, l’eterne glorie, ed a’ bei raggi 46V VI 10: lui brami ed ami e prenda solo V2] ami dunque colui e prenda L, ami solo pur Lui, sol prenda 46V XVI 6: da la luce eterna V2] delle luci chiare L, da la luce chiara 46V LI 9-10. conviene andar coi stretti umani / termini a misurar V2] convien con li stretti humani / termini misurar L, convien con gli imperfetti umani / termini misurar 46V Copello 2017f. Si veda Toscano 2017. 50 Alcuni testi di L presentano lezioni sicuramente anteriori a V2 poiché il compilatore di L attinse alcune rime dalle stampe 38-39 (per es. i diffusi e famosi sonetti I e XCV). 48

49


Introduzione

xxi

Dunque L e V2 furono compilati certamente in un arco temporale ravvicinato, e V2 precede L nel percorso correttorio che condurrà a 46V. Visto che L è datato 1540 e fu di certo copiato entro l’agosto di quell’anno, bisognerà supporre che anche V2 sia stato allestito prima dell’agosto 1540 e dopo il novembre del 1538, quando Lady Salisbury venne imprigionata; forse dopo il marzo 1539, quando Bembo fu creato cardinale. 5. La poetica spirituale di Vittoria Colonna Quasi nulla si conosce della produzione in versi della Colonna prima della morte del marito Francesco Ferrante d’Avalos, avvenuta il 3 dicembre 1525. Di certo, però, dopo il 1530 la sua fama di poetessa si diffuse rapidamente: già nel 1532 Ariosto ne cantava le lodi nell’ultima edizione del Furioso51, mentre nel 1535 un suo sonetto veniva incluso nella seconda edizione delle Rime di Bembo52. Tuttavia, la Marchesa dovette presto accorgersi della natura effimera degli onori mondani garantiti dalla notorietà letteraria e, come testimoniano le rime che Bernardo Tasso le indirizzava prima del 153453, finì per sospendere la scrittura poetica poiché un «nuovo desire» (A2, l 13) aveva conquistato il suo spirito; Vittoria aveva ormai volto il pensiero al cielo, «ov’è tranquillo eterno giorno» (lviii 3). I due aspetti non sono evidentemente slegati: l’attrattiva suscitata dai beni eterni comportava quasi necessariamente il venir meno del fascino esercitato dai successi mondani. Non dovette poi passare molto tempo perché la Marchesa trovasse il modo di far convivere le proprie aspirazioni, quella poetica e quella spirituale, ponendo i propri versi al servizio di Dio. L’abbandono netto della tematica amorosa in favore di quella sacra venne subito notata dai contemporanei, come testimonia la lettera di Gualteruzzi a Cosimo Gheri del 12 giugno 1536, nella quale si legge che «la Signora Marchesa di Peschara ha rivolto il suo stile a Dio et non scrive d’altra materia»54. Un anno più tardi, il 4 novembre 1537, Aretino confermava, scrivendo alla Colonna: «Havete cambiato lettionee, trasformando i libri poetici ne i volumi prophetici, studiate Christo, Paolo, Agostino, Girolamo e l’altre squille de la religione»55. Ma, soprattutto, lo attesta il ms V3, datato ottobre 1536, che già contiene alcuni sonetti spirituali. La poesia – come esplicita il sonetto I, in cui la Colonna dichiara i presupposti della nuova operazione letteraria (vv. 1-4; cfr. CII 5-8) – si lascia alle spalle il desiderio di fama e la materia amorosa per «parlar de l’invisibil cose» di Dio (LIX 2). Tuttavia, il passaggio dalle rime amorose a quelle spirituali Orl. fur., XXXVII 16-18, per il quale si veda in particolare Ordine 1991. A1: 71, diretto allo stesso Bembo, che le rispose per le rime con il sonetto di Rime, CXXV. Sul noviziato poetico della Colonna si vedano Ranieri 1985; Scala 1990; De Maio 1997; De Vivo 2001; Toscano 1998; Toscano 2000b e 2000c; Ranieri 2010. 53 B. Tasso, A2, XXXVII, XLIX-LIII, LVIII-LXIII. Cfr. Ferroni 2016, pp. 267-268. 54 Moroni 1984, p. 65. 55 Carteggio, LXXXVII. 51

52


xxii

La raccolta di rime per Michelangelo

risulta piuttosto fluido, dal punto di vista sia tematico che formale, sia cronologico che editoriale, tanto che a volte non è possibile etichettare i sonetti in un modo o nell’altro56. Sin dalle rime amorose, «lo schema petrarchesco nel quale la vicenda liricobiografica si dispiegava nei suoi punti fissi della battaglia d’amore, della morte e apoteosi di Madonna e finalmente dell’ultima conversione in Dio»57 viene modificato. Non solo nella Colonna la prospettiva è mutata tutta al femminile58, e i testi sono quasi tutti ‘in morte’, ma la svolta tematica che conduce alle rime spirituali è esente dal pentimento che invece caratterizzava i canzonieri di Petrarca e di molti petrarchisti: nulla vi era di peccaminoso nel suo amore, che era un amore coniugale. Così, in virtù dell’inconsueta posizione di vedova, la Marchesa non nega la propria vicenda personale; ella, piuttosto, vive l’amore per il Signore come inveramento di quella prima fiamma che le aveva scaldato il cuore (S1:146). La sua nuova passione è sincera e coerente, così distante dall’operazione in senso lato parodica di Girolamo Malipiero (Petrarca Spirituale, 1536), che prevedeva l’eliminazione sistematica degli elementi biografici e il «travestimento spirituale» dell’esperienza amorosa in nome di un pentimento assoluto. Nelle rime sacre il D’Avalos brilla ancora («ancor mi luce», S1:146, 6) e continua a essere ricordato come un sol (v. 6), quale era nei testi d’amore59; il suo ruolo è solo ridimensionato: accanto a lui è sorto un gran Sol (v. 1) che lo fa apparire picciol (v. 6). Tale accostamento fra astri di diverso splendore è la condizione per cui, nella prospettiva dell’eterno, l’affetto per il marito possa non venire meno60: «la lirica religiosa della Colonna nasceva» – ha scritto infatti Giorgio Forni – «non più allontanando l’umano nell’orbita luminosa dei cieli, bensì offrendo “albergo” in sé al divino»61. Nei testi della raccolta inviata a Michelangelo, però, non vi è alcuna allusione diretta al marito. Solamente, nel sonetto d’apertura, la poetessa riferisce del suo amor (I 1), che fu casto (perché coniugale) e di conseguenza non condannabile. Il topico pentimento proemiale concerne, come si è visto, il desiderio di fama, a cui si desidera ora sostituire una scrittura che risponda a un’indicazione e a un’ispirazione divina; a quest’ultima la poetessa ha scelto di obbedire umilmente (LIX 5-6; CII 5-8; S1:2, 9-14), cosciente della limitatezza degli strumenti poetici a disposizione (LXXII 12-14; LXXIII 9-11). La poesia diventa quindi uno strumento nelle mani del Signore, che non è solamente il nuovo Apollo (S1:2, 1-6; I 9-11), ma è la stessa mate Per esempio, A2:41 e S1:146 evidenziano entrambi il ruolo del marito nel cammino verso Dio. Cfr. Rabitti 1984, pp. 232-233; Fragnito 1990, p. 163; Fedi 1992, pp. 54-55; Bardazzi 2001, p. 74; Fragnito 2005, p. 100; Crivelli 2013, pp. 120-122; Chemello 2014, p. 79; Bardazzi 2016, p. 25; Crivelli 2016a, p. 89. 57 Baldacci 1974, p. 203. 58 Cfr. Sapegno 2003. 59 Cfr. S1:147, 1-4: «Se ’l commun Padre, or del Suo Cielo avaro, / m’asconde voi, miei lumi, e lui, mio sole, / l’Altro immortal, cui l’alma adora e cole, / scorge ella più che mai lucente e chiaro». 60 La Colonna, infatti, continua a desiderare di rivederlo: «tirami omai tanto al Tuo regno dentro / ch’almen lontan mi scaldi il Tuo gran sole, / e poi vicin il picciol mio riveggia» (S1:88, 12-14). 61 Forni 2005, p. 32.

56


Introduzione

xxiii

ria scrittoria – penna, inchiostro e carta (I 5-7) –, quasi a dire che ogni aspetto delle nuove rime sarà intriso di Cristo. È «lui, che move il pensier» (LIX 12), è suo il foco che infiamma l’intelletto facendone fuoriuscire versi come faville (CII 9-11). Nelle rime spirituali rimane dunque intatto l’autobiografismo, ma la vicenda amorosa viene sostituita dall’itinerarium in Deum, dal cammino di fede della poetessa, che rielabora riflessioni, dubbi e certezze, preghiere e invocazioni, meditazioni e lodi. L’esperienza religiosa dell’autrice acquista, inevitabilmente, un valore esemplare e può muovere i lettori all’imitazione. Emerge così l’intento ‘missionario’ di versi dalla natura di per sé intima e riflessiva, che si aprono ora all’interazione con il lettore e, innanzitutto, con il destinatario. Il dialogo è reso esplicito tanto in apertura quanto in chiusura del libro: il sonetto incipitario dichiara che fine della nuova poesia è «ch’io scriva ad altrui quel ch’ei [Cristo] sostenne» (I 8; cfr. par. Le varianti), mentre il penultimo testo registra come destinatario ideale un lettore dal gentile core (CII 12). Tale dimensione è ancora più evidente nei testi di corrispondenza, come i sonetti indirizzati a Bembo (XCVIII) e a Pole (XCIX), oltre che nei due che replicano puntualmente a due rime di Michelangelo (XXXV e XXXIX)62. Nel comporre questa nuova poesia spirituale, alla Colonna, che aveva imparato a scrivere poesie in un contesto (quello napoletano) in cui la lezione petrarchista era stata assimilata prima e in parallelo rispetto alla proposta bembiana, fu necessario attuare una specifica strategia: la risemantizzazione delle tessere petrarchesche in funzione cristiana63. L’espressione petrarchesca viene inserita in un contesto molto differente e riempita di un nuovo significato: conservata intatta la forma, il contenuto è reinventato grazie al recupero di passi evangelici o di preghiere comuni64. Conservando il linguaggio appreso sui versi di Petrarca a fondamento della nuova scrittura a tema religioso65, la Colonna eleva la poesia sacra – che da sempre aveva accompagnato la storia della lirica volgare in Italia (da san Francesco a Iacopone da Todi, da Petrarca a Lorenzo il Magnifico) – a una «dignità» inaudita. Così infatti scriveva Gabriele Fiamma, dedicando le proprie Rime spirituali a Marcantonio Colonna: è «noto a ciascuno, che l’Illustr. Signora Vittoria Colonna, Marchesa di Pescara, è stata la prima, c’ha cominciato a scrivere con dignità in Ri-

Ma il dialogo può svolgersi anche indirettamente, con i testi più che con i loro autori: è il caso delle rime XXX, LIX e XCVII, che instaurano una conversazione a distanza rispettivamente con Bembo (Rime, XXXIX) e Petrarca (Rvf, CCXLVII e CLXXXIX). 63 Per meglio comprendere i tratti del petrarchismo spirituale si segnalano i contributi di Vecce 1992; Bardazzi 2001; Bardazzi 2004; Casapullo 2003; Scarpati 2005; Forni 2005; Copello 2014. 64 Per esempio il petrarchesco «et breve guerra per eterna pace» (Rvf, CCXC 1-4), ripreso più volte dalla Colonna (cfr. A1:48, 11; A2:52, 10-11), viene risemantizzato tramite l’evangelica «pax» data «hominibus bonae voluntatis» (Lc 2,14): «cantavan ch’era vinta l’aspra guerra, / e data ai buoni al mondo eterna pace» (XLVII 13-14). Ancora, a XX 8 «secco umor» è sintagma petrarchesco (Rvf, CCCXXIII 56-57: «mirando le frondi a terra sparse, / e ’l troncon rotto, et quel vivo humor secco»), che traduce però il verbo arescet del passo giovanneo su cui si impernia il sonetto (Gv 15,6). 65 Cfr. Sanson 2016. 62


xxiv

La raccolta di rime per Michelangelo

me le cose spirituali»66. La Colonna si lascia alle spalle l’imitatio rigorosa e imbocca una strada nuova, innestando nella lingua e negli stilemi del Canzoniere la linfa dei testi sacri. Nasce così un petrarchismo spirituale, un classicismo sacro, dove si rinuncia al recupero degli autori latini (essenziale invece nella poetica dei grandi petrarchisti, da Bembo a Sannazaro, da Bernardo Tasso ai poeti farnesiani). Piuttosto, è una poesia che prende le mosse dal Petrarca morale e che, saccheggiando il Dante del Paradiso, getta le sue nuove fondamenta attraverso un ritorno alle Sacre Scritture, alle laude e ai testi liturgici. Talvolta, l’ordito dei sonetti colonnesi è addirittura costituito dal lessico e dalla struttura retorica dei testi sacri (con una certa preferenza accordata ai Vangeli, alle Lettere degli Apostoli e ai Salmi, vale a dire i libri più adoperati dalla liturgia e che potevano quindi riemergere con maggiore probabilità nella memoria della poetessa). Di ciò bisognerà tenere conto leggendo i versi della Marchesa, così da non cadere nel tranello delle reminiscenze petrarchesche. L’enfasi eccessiva sul petrarchismo della Marchesa conduce a interpretazioni parziali se non addirittura fuorvianti: se si rimandasse unicamente al Canzoniere si conferirebbe alla religiosità della Colonna una coloritura prettamente letteraria, mentre individuandone l’origine scritturale (ma può essere anche innografica o laudistica) si permette l’affiorare di un livello più devozionale. Le rime sembrano acquisire lo spessore di una preghiera reale, e non si limitano a essere frutto di dotta maniera. Non bisogna dimenticare, infatti, che la Colonna scelse di trascorrere molti anni della sua vita in monastero, e che dentro le mura conventuali non si limitava ad alloggiare, ma seguiva la vita liturgica delle monache, scandita dalla recita delle ore canoniche e dell’ufficio quotidiano67. È in questi ambienti che con ogni probabilità la poetessa assimilò tradizioni diverse, che, da una parte, donano nuova vita al linguaggio ormai topico della lirica amorosa, operandone talvolta una risemantizzazione in direzione religiosa; dall’altra, costituiscono un bacino d’ispirazione poetica per temi, immagini, lessico e struttura retorica. Per il nuovo genere spirituale la Colonna elesse unicamente la forma del sonetto. Oltre a essere lo schema metrico più diffuso, il sonetto presentava un livello di artificio strettamente funzionale all’intimità e insieme alla gravitas della materia, poiché vi erano banditi tanto la libera flessuosità del madrigale quanto la complessità retorica della canzone, la sua solennità e la sua proclamata autorevolezza. La dimensione contenuta, inoltre, risultava perfettamente congeniale alla poetessa, che in ogni componimento riversava un singolo passo del proprio cammino di fede. Fiamma 1570, c. 4r. Della sua consuetudine con la liturgia delle Ore restano almeno due testimonianze: il portoghese Francisco de Holanda racconta di aver potuto dare avvio al dialogo con la Marchesa e i suoi ospiti soltanto una volta «terminata la predica e le lodi» (De Holanda 1993, p. 43); la stessa Colonna, poi, così scriveva a Michelangelo dal monastero di domenicane in cui viveva: «Se voi et io continuamo il scrivere secondo il mio obligo et la vostra cortesia, bisognarà che io lassi qui la cappella de S.ta Catarina [di Viterbo] senza trovarmi alle hore ordinate in compagnia di queste sorelle» (Carteggio, CLVII).

66 67


Introduzione

xxv

Come le rime amorose si inserivano ancora nell’orizzonte stilistico del petrarchismo ortodosso (ricerca di naturalezza e di armonia, che genera versi ordinati, volentieri bipartiti o tripartiti, dittologie in clausola, rari enjambement, periodi brevi e che tendenzialmente non travalicano le partizioni metriche del sonetto), così accade anche per le prime rime spirituali. Tuttavia, a mano a mano che la Colonna si inoltra nel nuovo terreno della lirica a tema sacro, scavando nell’«abisso immenso e puro» di Dio (IV 1), il suo linguaggio si complica, si infittisce, i periodi si allungano e superano i confini versali con frequenti inarcature; l’ordo delle parole si fa sempre più artificialis, inframmezzato com’è da continue invocazioni, parentetiche, relative, oltre che complicato da iperbati e inversioni. Nelle rime spirituali traspare dunque l’arduo tentativo di narrare un’esperienza di fede tanto profonda quanto ineffabile. La versificazione «esibisce tutta la sua difficoltà […] del districarsi. La Colonna, al proposito, parla spesso di “errore” [CII 14] o di “duri nodi” da spezzare “a la sua lingua” [LIX 13-14]»: il linguaggio «si attorce e si annoda […] nella difficoltà della propria elevazione»68. I concetti sono a tal punto complessi da costringere la poetessa a uno sforzo espressivo non comune, che chiama in causa lessico, sintassi e struttura metrica per tessere «una trama di pensiero scorciata fin sulla soglia dell’oscurità»69. Pare insomma anticipato di qualche decennio quell’allontanamento dalla medietas formale e dalla chiarezza espositiva di stampo petrarchista che porterà, nell’ultimo Cinquecento, a una gravitas sia stilistica che concettuale, traduzione in versi di una dimensione interiore travagliata (e insieme sintomo di una realtà storica inquieta – quella del Concilio e dei suoi esiti – nelle cui vicende proemiali la Colonna era stata reale protagonista)70. Non si rinviene più la ricerca assidua di una bembiana piacevolezza: la Marchesa è assai meno attenta al lavoro di lima ed è consapevole di lasciare la propria poesia rozza e incolta (CII 1 e 4). Lo attestano, ad esempio, le numerose ripetizioni lessicali prive di un’intenzione stilistica o di una funzione strutturale-argomentativa, impensabili in Bembo: varietas ed equilibrio formale non rappresentano più le priorità. Si è accennato a tre aspetti chiave: lessico, sintassi e struttura metrica. Per quanto riguarda il lessico, rifondato – come si è detto – attraverso la letteratura sacra in senso lato, alla Colonna talora riesce una «cattura verbale risoluta e repentina», aspetto peculiare di uno stile «che conosce subitanee strette linguistiche, che opera improvvise condensazioni, dando prova di una perizia e incisione elocutiva che raramente le è stata riconosciuta»71. Si pensi al «piombo de l’error» (XCI 10), o agli ossimorici «lampo eterno» (XXIII 2) e «tugurio felice» (XLIX 3). In quest’ottica si comprende facilmente anche il predominare della metafora sulla similitudine, breve e concisa la prima, dispersiva e ornamentale la 70 71 68

69

Binni 2008, p. 77. Alfano-Gigante-Russo 2016, p. 216. Per definizione ed esempi di gravitas si rimanda ad Afribo 2001. Scarpati 2005, p. 136.


xxvi

La raccolta di rime per Michelangelo

seconda, incompatibile con il nuovo stile meditativo, solenne e asciutto. Tale concisione, però, è anche capace di evocare dolci sensazioni paradisiache o di esprimere i dogmi della fede con grande tenerezza. Il secondo elemento da cui traspare lo sforzo espressivo della Colonna è appunto la sintassi. Una buona parte delle poesie rinascimentali a tema religioso aveva sfruttato l’andamento popolare della ballata e della lauda, dominato da linguaggio semplice, sintassi paratattica, ordo naturalis, monotonia ritmica e facilità rimica. Si pensi alle laude di Lorenzo de’ Medici, di Savonarola e Benivieni, alle canzoni di Chariteo, alle Egloghe Sacre e ai Salmi di Alamanni, che spesso procedono affastellando invocazioni tradizionali e traduzioni fedeli di testi sacri e liturgici, in modo illustrativo e paratattico. Del tutto differente è il ritmo solenne e serratamente argomentativo della Colonna, che non assume un andamento narrativo nemmeno quando racconta le vite dei santi o gli episodi evangelici; in questi casi, l’esposizione dei fatti occupa solitamente pochissimi versi, per lasciare spazio alla riflessione personale. Nemmeno il tono sostenuto del De Partu Virginis costituisce quindi un reale precedente, mancando del tutto nel poema sannazariano la dimensione dell’io. La Marchesa è intensamente coinvolta con l’argomento religioso: ne deriva un dettato in cui la profondità della meditazione si traduce anche in complessità argomentativa, talvolta didascalica (e quindi lontana dalla drammaticità michelangiolesca). Si avverte infatti nella Colonna l’esigenza di una continua amplificazione sintattica finalizzata a dispiegare, precisare, dimostrare. La struttura subordinativa è rafforzata dalla presenza assidua di nessi logici, in particolare l’avversativa ma e la consecutiva onde. Spesso un nesso avversativo (ma, e pur…) introduce la nota dolente che chiude il sonetto, staccando nettamente – dal punto di vista sia metrico che concettuale e sintattico – le meravigliose opere di misericordia compiute dal Signore dall’ingratitudine e dalla fragilità delle sue creature72. Tale predilezione per la collocazione del mutamento prospettico o tonale nell’ultima terzina si inserisce nell’alveo di una tendenza rinascimentale, già individuata da Marco Praloran73 e qui rifunzionalizzata in senso spirituale. Questo cambio di prospettiva, da umano a divino, si rivela una delle chiavi della spiritualità della poetessa, che avverte potentemente la distanza fra la pochezza dell’uomo e l’immensa misericordia di Dio. Passando alla sintassi e alla sua relazione con il metro, un sintomo subito evidente dell’impegno elocutivo della Colonna è l’uso frequente dell’enjambement. Accanto a inarcature con fini evidentemente espressivi (come XXXIX 5-6 e 7-8), vi sono per lo più enjambement discorsivi, utili a costruire un ragionamento fluido e unitario, non costretto entro gli angusti confini della metrica. Il pensiero travalica i limiti versali e la poetessa ne segue gli sviluppi. Così i versi, separati da forti inarcature sintagmatiche, risultano a volte crudi, quasi violenti. Non vi è alcun intento di mettere in evidenza le parole coinvolte nell’enjambement, ma di XI 13-14; LI 13-14; LXVI 12-14; LXIX 13-14; LXXIX 12-14; XCIV 12-14. Praloran 2011, p. 54. Cfr. Juri 2017, p. 136.

72 73


Introduzione

xxvii

assecondare un «periodo lungo», spesso complesso, costellato di coordinate e subordinate. Nella maggior parte dei casi, l’argomentazione procede ordinatamente e si serve della struttura intrinseca del sonetto (quartine e terzine, fronte e sirma), messa in rilievo da anafore (XXV; XXXVIII; LXXVI; CIII), congiunzioni, avverbi o pronomi (XLVI; LXVI; LXVII)74. Così, per esempio, a XXXI le quartine mostrano la condizione terrena e le terzine quella paradisiaca; a LI la fronte presenta l’eccezionale allattamento della Vergine e la sirma la constatazione dei limiti della comprensione umana; a XXIX le quartine descrivono le cause del timore della morte, mentre le terzine propongono una soluzione. Concludendo, la Colonna concede una dimensione totalizzante e autonoma al soggetto sacro, già presente in modo marginale in Petrarca e nei petrarchisti75, e riprende dal Bembo più grave la tendenza a strutturare il sonetto seguendo linee sintattico-metrico-argomentative complesse, anticipando alcuni esperimenti stilistici che negli anni a lei immediatamente successivi avranno in Della Casa il loro miglior rappresentante. Questa struttura ordinata e razionale rivela l’impresa talvolta paradossale di rinchiudere in categorie logiche un intenso sentimento religioso, uno slancio emotivo che si manifesta anche in invocazioni, esclamazioni e domande. Ne scaturiscono rime spesso austere e severe, in cui la tensione ragionativa prevale sugli slanci della passione, si trattasse anche di passione mistica. 6. L’esperienza religiosa nelle rime spirituali Si è cercato più volte di rinvenire all’interno delle rime della Marchesa le tracce del suo personale cammino di fede. Al riguardo, bisogna innanzitutto constatare che le diverse forme di spiritualità incontrate durante l’arco della sua esistenza abbiamo trovato in lei un terreno fertile, da sempre abituato alla riflessione e all’interiorizzazione76. La familiarità con il silenzio e la meditazione consentì presto alla poetessa di andare oltre quel sostrato neoplatonico che risulta evidente sin dalle liriche amorose77. Se vivaci e aggiornatissime discussioni dottrinali erano già presenti nel circolo ischitano78, i primi a influenzare profondamente la religiosità della Marchesa furono i cappuccini. Grazie alla sua particolare «devotion […] al glorioso san In particolare, ma apre una delle terzine a XXXVII, XXXIX, XLV, LI, LIV, LVIII, LXIV, LXVI, LXVII, LXXV, LXXIX, LXXX, LXXVI, LXXXVII, XC, XCII, XCVIII, CI, CII; onde a XVII, XXVIII, XXXIX, XLI, XLVI, XLVII, XVLIII, LIII, LVI, LVII, LX, LXI, LXXIII, LXXIV, LXXVII, LXXVIII, LXXXVII, LXXXVIII. 75 Quondam 2005, p. 172. 76 Cfr. Fragnito 2016, p. 203. 77 Sul neoplatonismo della Colonna si vedano McAuliffe 1986; Ranieri 2000; Pisacane 2007; Mazzoncini 2018. 78 Ranieri 1996; Toscano 2018b, pp. 201-203. 74


xxviii

La raccolta di rime per Michelangelo

Francesco»79, in realtà, nell’educazione spirituale della Colonna dovevano aver già svolto un ruolo essenziale gli ideali francescani80, che la poetessa vedeva rifiorire nel carisma cappuccino al punto di non risparmiare energie e denari per sostenerlo e difenderlo per almeno un decennio81. La predilezione per i cappuccini raggiunse il suo apice nell’affetto filiale nutrito per Bernardino Ochino, che la Colonna seguì assiduamente per mezza Italia per ascoltarne le ardenti parole82; per partecipare alla predicazione anche laddove non poteva giungere di persona, la Marchesa si procurava delle reportationes83. «Sembra quasi», ha scritto Costanzo Cargnoni, «che tutto l’ardore femminilmente appassionato che la marchesa ha avuto nel difendere la riforma cappuccina, ora lo trasfonda nell’esaltare e difendere la persona dell’Ochino, che in quegli anni […] poteva rappresentare agli occhi del grande pubblico, ma anche delle élites colte, l’espressione più significativa e la sintesi più feconda ed efficace del francescanesimo rinnovato dei cappuccini»84. La strettissima familiarità con i frati probabilmente condusse la Colonna anche alla conoscenza di un’opera che ebbe grande influsso sulla spiritualità dei primi cappuccini85. Si tratta del Dyalogo della unione spirituale di Dio con l’anima del francescano osservante Bartolomeo Cordoni. L’opera – un dialogo tra Anima, Ragione e Amore (cioè Cristo, Sposo dell’anima) – circolava manoscritta fra i cappuccini già a metà degli anni Trenta86 e fu pubblicata nel 1538 a Perugia; venne poi riedita a Milano e a Napoli nel 153987 per iniziativa del cappuccino Girolamo da Molfetta, intimo di Ochino (che avrebbe seguito nella fuga)88. Nelle prediche dello stesso Ochino è ben ravvisabile l’influenza del Dyalogo, un’opera in cui Cordoni operava il «magnifico intreccio di temi paolini, suggestioni begarde e tensione cristocentrica» che caratterizzava appunto il «nucleo della spiritualità cappuccina primitiva»89, e vi «condensava in una sintesi originale il succo più radicale dello spiritualismo francescano, delineando una concezione illuminativa e intimistica della vita cristiana che […] presentava notevoli affinità con la spiritualità alumbrado-valdesiana»90. Se non si può affermare con certezza che la Carteggio, LXXI. L’Itinerarium mentis in Deum e la Legenda Maior di Bonaventura dovettero costituire letture obbligate per la Marchesa. 81 Fontana 1886; Tacchi-Venturi 1931; Ranieri 1994; Copello 2017d; Liguori 2017; Camaioni 2018. 82 Sull’influenza non solo tematica, ma lessicale e talvolta sintattica delle parole ochiniane si veda Bardazzi 2001. 83 Così sembra che avvenne per le prediche di Ochino a Perugia e Napoli del 1536: cfr. Carteggio, LXXXIII. Cfr. Fragnito 1988; Bardazzi 2001; Camaioni 2016; Camaioni 2018. 84 Cargnoni 1988-1993, vol. II, p. 187. Sul rapporto con Ochino, oltre a Camaioni 2018 si veda anche Bardazzi 2001. 85 Cargnoni 1978; Simoncelli 1978; Camaioni 2012. 86 Camaioni 2012, p. 304. 87 L’edizione napoletana uscì per i torchi di Giovanni Sultzbach, che aveva appena pubblicato le Costituzioni Cappuccine (1537) e che era vicino agli ambienti letterari frequentati dalla Colonna. 88 Se ne è trovata una copia anche nella biblioteca di Bembo: Danzi 2005, p. 314. 89 Camaioni 2012, p. 351. 90 Camaioni 2018, p. 388. 79

80


Introduzione

xxix

Colonna abbia letto il Dyalogo, se ne può però constatare l’evidente consonanza con i temi e le immagini della raccolta vaticana (cfr. oltre)91. Intanto Vittoria continuava ad aprirsi a ogni carisma religioso che le apparisse autentico e profondo, conversando con chiunque delle «cose de Dio»92: nel 1537 incontrò i primi gesuiti, il cui Ordine nacque davanti ai suoi occhi e la accompagnò fino agli ultimi anni di vita; nel 1538 ascoltò il nicodemita François Richardot nell’eterodossa Ferrara93 e nel 1539 il campione dell’ortodossia Ambrogio Catarino Politi nel cuore di Roma94. Nel fervore religioso e nell’anelito di riforma che contraddistinsero la fine degli anni Trenta (è il momento in cui nella penisola italiana prendevano vigore i dibattiti sul libero arbitrio e la predestinazione, sulla fede e le opere, e in cui veniva istituito il Consilium de emendanda ecclesia), punti di riferimento della Colonna furono il radicalismo ascetico di Ochino e l’evangelismo di Contarini. Poi, con il fallimento di Ratisbona e l’esperienza dell’Ecclesia Viterbiensis (1541-1543), la vita religiosa della Marchesa conobbe per sua stessa ammissione una svolta decisiva, che vide – con e attraverso Reginald Pole – l’allontanamento dall’evangelismo di Contarini e l’avvicinamento allo spiritualismo valdesiano95. Si può anche ipotizzare che la Colonna avesse letto opere vicine alla spiritualità di Cordoni, come quelle di Margherita Porete, di Ugo Panziera (la cui Opera spirituale devotissima fu edita a Genova nel 1535) o di Battista da Crema. 92 Vittoria e fra Lodovico da Fossombrone, tenuto quasi prigioniero a Marino, «tutto il giorno raggionavano insieme delle cose de Dio» (Bernardino da Colpetrazzo 1937-1941, vol. I, p. 377); la Colonna «venne al detto luogo di Narni et longamente rascionò con esso lui [frate Antonio da Monte Sicardo] delle cose di Dio» (Bernardino da Colpetrazzo 1937-1941, vol. II, p. 235; cfr. anche Paolo da Foligno 1955, pp. 520-521); Reginald Pole «havea spesso ragionamenti con quella signora et in Roma et in Viterbo et sempre, credo, delle cose di Dio, perché l’uno e l’altro se delettava più di questo che di niun altro subietto» (Firpo-Marcatto 1998-2000, vol. II, tomo I, p. 430); e così si chiude una lettera della Marchesa a Michelangelo, «pregando quel S.re, del quale con tanto ardente et humil core mi parlaste al mio partir da Roma» (Carteggio, CLVII). Anche la mattina del giorno in cui morì ella «ragionò con Mr Luigi et Sr. Marc’Antonio Flaminio con sì sano senso delle cose di Dio, dell’Evangelio et S. Paulo esponendo essa proprio alcuni passi» (Lorenzo Bonorio ad Ascanio Colonna, Roma, 25 febbraio 1547, in Colonna 1887, p. 16). 93 Bretschneider 1836, p. 496. 94 Negli anni Trenta Politi compose il De praescientia et providentia Dei, il De praedestinatione Dei, il De eximia praedestinatione Christi, il De lapsu hominis et peccato originali. 95 «A differenza che in Francia, dove il magistero di Lefèvre si rivelò dominante e dove si può parlare di evangelismo fin dai primi anni della rivolta luterana, in Italia esso fu un inestricabile intreccio di influenze disparate, di molteplici esperienze religiose e culturali, come l’erasmismo, il savonarolismo, il luteranesimo, lo spiritualismo francescano-cappuccino, la tradizione benedettina e quella agostiniana, il fabrismo e, in qualche misura, anche il valdesianesimo. Dopo aver convissuto e talora collaborato negli anni trenta e poco oltre, quelle diverse sensibilità religiose si separarono, presero strade diverse anche in relazione al rapido mutare delle cose con l’istituzione del Sant’Ufficio romano e le prime convocazioni tridentine. Per il prestigio politico dei suoi membri, che a differenza dei predecessori divennero il riferimento in curia del partito imperiale e poterono perciò godere del forte appoggio politico di Carlo V, e per la capacità attrattiva della sua opera di proselitismo, il gruppo degli spirituali guidato da Pole e da Morone ne ereditò, ancora per una brevissima stagione, le principali istanze, e accolse nel proprio grembo molti di coloro che ne avevano fatto parte, a riprova di un’evidente continuità di uomini, idee, dottrine, prospettive. Di quella confluenza dell’evangelismo verso lo spiritualismo valdesiano il Beneficio di Cristo fu la testimonianza più chiara e di maggior successo» (Alonge 2017, p. XVIII). Cfr. anche Simoncelli 1978, Simoncelli 1979, Firpo 1988, Pagano-Ranieri 1989, Fragnito 1990, Ranieri 1996, Fragnito 2005, Fragnito 2016. La bi91


xxx

La raccolta di rime per Michelangelo

Grazie alle frequentazioni degli anni Trenta, la Colonna potrebbe facilmente aver letto il Sommario della Sacra Scrittura96 e l’Imitazione di Cristo (opera tanto cara agli Spirituali)97, oltre naturalmente agli scritti dei protagonisti di quei dibattiti: Contarini98, Fregoso99, Flaminio100, Valdés101, e naturalmente di Pole102, che prese gradualmente il posto di Ochino come guida spirituale della poetessa103. Sia a Roma che a Viterbo, la Marchesa si inserì discretamente ma costantemente fra coloro che, dotti e aggiornatissimi, si riunivano a discutere di religione e di tutto quanto si pensava e scriveva di qua e di là delle Alpi. Circa i dibattiti che si tenevano nell’Urbe, Pier Paolo Vergerio, dalla Francia, rivolgendosi alla Colonna parlava addirittura di una «scuola della Eccellentia Vostra et de’ reverendissimi miei Cardinali Contareno, Polo, Bembo, Fregoso, che era tutt’uno»104. Per il gruppo di Viterbo, Pole racconta a Contarini: «Quanto al loco di S. Bernardo notato da V. S. Reverendissima dove parla così explicitamente de la justitia di Christo l’havemo trovato et letto insieme con questi nostri amici, con grandissima satisfacion di tutti»105. A sua volta, Contarini scriveva a Pole: «Officio mo serà de V. S. R.ma et della sua sancta et docta compagnia, includendovi la S.a Marchesa nel suo ocio et cum li peregrini loro ingegni, di examinare et ponderare bene il tutto, corrigendo dove li paresse ch’io havessi errato»106. La raccolta per Michelangelo, composta prima della cesura segnata dal 1541, risente di tutti questi influssi, benché rifletta solo alcuni dei punti dottrinali più dibattuti107. I sonetti risentono di tale milieu spirituale, e la Colonna doveva essere bliografia, però, tende a soffermarsi sugli anni ’40, enfatizzando così eccessivamente – complice l’ottica inquisitoriale di alcuni documenti – il ruolo di Pole (cfr. Fragnito 1990, pp. 163-164). 96 Ed. da Peyronel Rambaldi 1997. Il Sommario, traduzione di un libretto olandese, già condannato in Olanda nel 1524 (p. 4), fu composto da un erasmiano che vi immise anche citazioni da Lutero; circolava in Italia almeno dal 1533-1534 (p. 59), anche fra gli Spirituali (Giberti lo usava a Verona; p. 60). La prima edizione è a Genova, forse nel 1534 (p. 69). Nel 1537, a Modena viene già messo al bando come eretico (p. 143). 97 Overell 2012. 98 In particolare, le lettere De poenitentia (1542; in Dittrich 1881, pp. 353-361); De justificatione (1541, da Ratisbona; in Monumenta Beccadelli 1797-1804, II.1, pp. 150-162; «La lettera di S. Signora Reverendissima [Contarini] a messer Agnolo di Mantoa piacque extremamente al stesso Reverendissimo Fregoso […]. La Signora Marchesa l’hebbe anch’essa carissima», in Simoncelli 1979, p. 112); sulla predestinazione, a Tolomei (1537; in Stella 1961); De libero arbitrio, alla Colonna (1536; in Contarini 1558, pp. 57-76; Supplemento, pp. 441-454). Sul rapporto della Colonna con Contarini si vedano Poppi 1993 e Bowd 2016. 99 Alonge 2017. 100 Come la parafrasi ai salmi, composta nel 1538 per esortazione di Bembo (1533) e di Pole (1537); più tardi, negli anni di Viterbo, sicuramente lesse il Beneficio di Cristo già nella sua versione in fieri, prima della stampa. 101 Cfr. Carteggio, CXLII; Donghi 1953; Ossola 1985; Firpo 1968; Firpo 1990; Aubert 1992; Toscano 1999; Sánchez Arsenal 2012. 102 Jedin 1947; Jedin 1966; Dyer 1985; Pagano-Ranieri 1989; Gui 1998; Targoff 2018, pp. 227-251. 103 Si rimanda all’introduzione al sonetto XCIX. 104 Carteggio, CXV. 105 Pole a Contarini, da Viterbo, 1° maggio 1542 (Pole 1744-1757, III, p. 49). 106 Simoncelli 1979, p. 127. 107 Più in generale, «le rime e le meditazioni in prosa composte dalla marchesa di Pescara costituiscono


Introduzione

xxxi

ben cosciente delle consonanze fra le sue rime e i testi di ciò che oggi chiamiamo Evangelismo, di cui però non esibì i termini chiave: la sua poesia risulta discreta, sfumata, forse perché si presenta come più intima che dogmatica, più personale che didascalica (e con intenti più divulgativi di un trattato teologico in latino); forse per evitare che tali termini potessero precludere il dialogo con le diverse correnti che animavano la vita della Chiesa. In fondo, la silloge vaticana si colloca cronologicamente alla vigilia di Ratisbona, quando gli Spirituali ebbero l’occasione di far trionfare una posizione moderata all’interno del dibattito curiale circa l’atteggiamento da tenere nei confronti della Riforma. In queste rime, la riflessione religiosa prende avvio da due aree semantiche: il pensiero e lo sguardo. Il pensiero «generally represents the subjective sphere of meditation, but also points to the dimensions of memory and imagination, in which truth is not subject to the constrictions of reality»108. È una dimensione in cui «la vista della poetessa [viene] innalzata e fissata nella contemplazione della realtà celeste»109: Quando in se stesso il pensier nostro riede e poi sopra di sé s’erge la mente, sì che d’altra virtù fatta possente vivo ne l’aspra croce il Signor vede (S1:41, 1-4)

È quindi un’operazione dell’intelletto («veggio […] con la mente», S1:156, 4-5), ma di cui si mette subito in luce la pochezza: condizione primaria è che il pensiero, meditando, permetta alla mente di superare i propri confini; ma è solamente grazie a un’altra virtù che la mente diviene possente ed è in grado di vedere il Signore in croce. In cosa consista tale virtù si deduce dalla seconda quartina: è la fede (S1:41, 8) che permette alla mente di vedere e addirittura sentire i tormenti di Cristo, quasi facendosene compartecipe. Grazie alle ali della fede (LIX 5-8; S1:66, 1-2), la mente può arrivare dove al corpo ancora non è concesso: «Deh! potess’io veder per viva fede» (S1:15, 1). La meditazione diventa allora strumento privilegiato per contemplare le realtà eterne che la poetessa attende con trepidazione (LXXXI 1-3; LXXIII), e gli occhi della mente diventano gli occhi della fede, in grado di ampliare la capacità visiva oltre i limiti della ragione (V 1-3; LXII 1-8; LXIX; LXXXVIII 1-8; S1:90, 1-8; S1:172, 1-4). Il sintagma viva fede appena citato non era neutro, nella percezione di quegli anni. Da Lefèvre e seguaci, sin dagli anni Venti110, era passata in Italia anche l’insiun’espressione tra le più eloquenti della spiritualità evangelico-valdesiana e della singolare commistione di temi neoplatonici e libero-spirituali, dottrine paolino-agostiniane e volontà di affermazione dello statuto letterario della lingua volgare» (Camaioni 2016, p. 127). 108 Sapegno 2016c, p. 167. 109 Cinquini 1999, p. 682; cfr. Pisacane 2007, pp. 576-581. 110 Cfr. Garnier 2009; Alonge 2017, pp. 299-301.


xxxii

La raccolta di rime per Michelangelo

stenza – poi cara a Ochino e al Beneficio di Cristo – sulla «fede viva» o «fede vera» che sola garantisce la felicità all’uomo e lo induce a compiere le buone opere, le quali appaiono come un riflesso esterno della fede interiore, benché restino prive di meriti per la salvezza111. In questo modo, il concetto di fede viva si avvicinava molto alla sola fides luterana112, e i contemporanei più acuti, come Ambrogio Caterino Politi e Girolamo Muzio, ne avvertirono l’ambiguità113. Tale espressione, nel linguaggio cauto e sfuggente di questi anni, era spia di un’intima adesione alla dottrina della giustificazione per sola fede, ma anche della ricerca – soprattutto da parte di prelati e predicatori molto vicini alla Colonna e chiamati a responsabilità pastorali (quali Contarini, Giberti e lo stesso Ochino) – di modalità di diffusione di tale messaggio che fossero in grado di eludere il rischio di una ricezione distorta, da parte del “popolo dei semplici”, dell’affermazione dell’inutilità delle opere ai fini della salvezza, talora pericolosamente interpretata come un’implicita legittimazione del lassismo morale e della scarsa operosità sociale114. Tuttavia, l’opposizione tra fede e opere (e il problema del libero arbitrio ad essa correlato) non assumono un valore rilevante all’interno della silloge115. Secondo la Colonna, la fede cresce grazie a due strumenti, che il sonetto S1:165 identifica nelle «sacre carte» (v. 3) e nel «libro de la croce» (v. 6). La riflessione sugli episodi biblici, innanzitutto, porta la poetessa a immaginare nel dettaglio le situazioni, spinta da un’urgenza di compenetrazione con le parole, i La «fede viva» era contrapposta alla «fede istorica» nell’incarnazione di Cristo, non sufficiente per ottenere la salvezza (Alonge 2017, pp. 299-301); cfr. i versi IV 10; V 2; VII 11; XXXIV 4; XXXIX 11; LXIV 11; S1:15, 1; S1:41, 8. 112 Fliege 2020b. 113 Fliege 2020b, che rimanda a Politi 1544, c. 28r («Ma costor dicono noi non parliamo di quella fede, ma de la viva, il che è cosa ridicola, et è come dire, che a la fede, et a la charita insieme, ne conseguitano l’opere, […] et pare che dichino chiaramente, che la fede giustifica, et l’opere non giustificano. Et l’inganno di costoro […] consiste in questo, che non voglion distinguere, ma confundere, et ingannare») e a Muzio 1551, cc. 62v-63r: «l’Ochino mente che Dio sposi l’anima in eterno per sola fede. […] Egli dice che ad unirsi con Christo, non bisogna altro che viva fede […] altro è fede, et altro è viva fede. Et l’Ochino vuole ingannare il popolo Christiano. […] Che viva fede è quella, alla quale è congiunta la charità, et questa è quella, che bene operando nella gratia di Christo, ci giustifica») e cc. 53v-54r («[Bernardino Ochino] aggiunge che furono sforzati à magnificarle [scilicet le opere] come necessarie in quelli, che hanno viva fede. Che Proteo? Che nuovo mostro è questo? Se come egli dice nella terza predica la viva fede fa gli huomini perfetti pieni di ogni virtù, et gli fa operar cose mirabili, non è mestiero di magnificar le opere per loro. […] Né voglio passar con silentio quello, che da lui vien detto, le opere esser doni di Dio, che ci confermano in fede. Che se la fede ci giustifica et le opere in fede ci confermano, non so come possa dire che elle non concorrano alla giustificatione»). 114 Camaioni 2016, pp. 139-140. 115 L’espressione sola fede vi compare infatti due volte, nei sonetti XX 1-4 e XXXIV 13; la prima occorrenza, però, nell’autorevole silloge vaticana presenta una variante sostanziale, e in luogo dell’esplicito solo per fede di 46V presenta un innocuo seco per fede (cfr. par. Le varianti). Nelle altre rime, poi, si trovano indizi contrastanti, e la situazione è complicata dall’impossibilità di stabilire un’esatta cronologia dei testi: alle opere è attribuito un valore ora negativo (S1:45, 9-14; S1:41, 9-14; S2: 18, 1-3; S1: 176, 12-14) ora positivo (S1:87, 5-8; S1:158, 9-11), con una certa attenzione alla corrispondenza fra il dentro (il cuore, la fede) e il fuori (l’apparenza, le opere): (XXXIV 1-4; cfr. anche S1:162, 1-4; S1:177; S1:161, 5-6). Al riguardo del libero arbitrio, si rimanda al commento del sonetto III, oltre ai testi XIV, XXIX, XXXIV, XXXVI. 111


Introduzione

xxxiii

gesti e i sentimenti di così grandi accadimenti, in un’intensa ricerca di immedesimazione. Nascono come frutti di una «meditation simplice»116 la Meditazione del Venerdì Santo, l’Orazione sull’Ave Maria, l’epistola a Costanza d’Avalos Piccolomini su santa Maria Maddalena e santa Caterina d’Alessandria117 nonché quella sulla Madonna118, la lettera sopra il vangelo dell’adultera119, i sonetti sulla Madonna, Zaccheo (XIV), san Giovanni Evangelista (XLI), san Giovanni Battista (LXXXIX), Simeone (S1:114-115), etc. Il desiderio di identificazione con la vita e i pensieri della Vergine, per esempio, spinge Vittoria a domandare all’arcangelo Gabriele di poter salire sul palcoscenico dove si inscena l’Annunciazione, certa che il vedere con i propri occhi «il volto e i gesti» della Madonna le permetterebbe di comprendere ciò che da sola non sarebbe in grado di cogliere (LXIV 9-14). Di conseguenza, nelle rime e nelle prose che riflettono su episodi evangelici o sulla vita dei santi tornano spesso verbi come veggio, mi parea, scorgo (XXVI 1-3; XLIV 9-11; S1:26, 1-2; S1:59, 1-5; S1:77, 1; S1:101, 9-11; S1:89, 5-6)120. Dalla meditazione, poi, nascono domande su dettagli taciuti dai testi sacri: che cosa provava la Madonna ad allattare Dio bambino (LI)? Che cosa a vederlo morire in Croce (XLIII)? E ad appoggiarsi sul suo petto (XLI)? Per rispondervi, dalla visione si passa all’immaginazione («nel mio pensier figuro», LXXII 8). La contemplazione si fa ‘attiva’, e i verbi diventano ipotetici: credo che, penso che (XLII 13-14; XLIII 5-6; S2:31, 1-2). Il secondo modo con cui l’uomo può conoscere le «grazie del Ciel» è «alzando del cor le luci chiare / al libro de la croce» (S1:165, 5-6). E se «il segno umil de l’onorata croce» (LXIII 13) è il libro, secondo la lezione francescana cara anche ai cappuccini e a Ochino121, Cristo è il maestro e i fedeli sono i suoi allievi, ardenti di imparare da lui. Così la poetessa, desiderosa di unirsi alla schola Christi, pare decisa a prendere su di sé la «crucem suam» per seguire Gesù (II 1-2). Il rilievo della devozione al Crocifisso emerge dai numerosi sonetti a essa dedicati122, ma anche dalle immagini dipinte di cui la Marchesa fu più volte donatrice o destinataria123. Meditare il Crocifisso (si pensi a quello michelangiolesco) consente un’immedesimazione caldamente desiderata con i supplizi subiti da Gesù, secondo – ancora una volta – la spiritualità francescana (S1:41, 1-8). Due sono gli aspetti più frequenti della meditazione colonnese sulla croce: l’amore di Dio e la coscienza del proCarteggio, CXLIV. Carteggio, CLXX. Carteggio, CLXIX. Carteggio, CXLIV. Nella lettera su santa Maddalena e santa Caterina (Carteggio, CLXX): «vedo regine…» (p. 300); «Vedo che l’una…» (p. 301); «Vedo la convertita donna…» (p. 301); «Vedo l’audace et intrepida vergine…» (p. 301); «lietissime le discerno» (p. 302); «parmi che…» (p. 302). 121 Si vedano per esempio le Costituzioni cappuccine del 1536: «Non portino seco molti libri, accio che piu assiduamente legere possino nel excellentissimo libro dela Croce» (D’Alençon 1928, p. 75). 122 II 1-2; XXV 13-14; XXVIII; XLIII; LV 1-8; LVI 9-11; LXI; LXIII 12-14; LXXVII; LXXXVII; LXXXVIII; S1:6; S1:40, S1:41, 1-8; S1:42; S1:45, 1-8; S1:47; S1:68; S1:136, 9-14; S1:159; S1:165; S1:170, 8. 123 Cfr. Copello 2017d. 119 120 116 117

118


xxxiv

La raccolta di rime per Michelangelo

prio peccato. Ed è contemplando l’immensa carità di Dio, espressa nelle sofferenze che Cristo patì per redimere i peccati dell’uomo, che la contritio cordis risulta ancora più acuta e dolorosa (LV 5-6) e consente di dirigersi verso il Padre del perdono. Se grazie alla croce l’anima «corre certa e veloce» a Dio (S1:165, 14), occorre guardarla e ritornarvi in ogni momento (ognor, S2:38, 8), bisogna continuamente «alzare gli occhi al bel segno» (LV 5)124, che porge all’uomo una luce che «guida al Padre» (S1:45, 1-4). Anzi, sulla scorta di Mt 11,25 e Lc 10,21 e in linea con le posizioni antintellettualistiche di matrice francescano-cappuccina125 (ma presenti anche per esempio nell’Imitazione di Cristo, I i-ii e III 6), la Colonna afferma che «quel ch’avrà in lui le luci fisse, / non quel ch’intese meglio o che più lesse / volumi in terra, in ciel sarà beato» (LXXVIII 9-11): più ancora dello studio e della meditazione sulla Sacra Scrittura, è tenere lo sguardo sul Crocifisso a portare la salvezza (cfr. LXX; S1:136, 12-14 e S1:164, 5-14). Va ricordato, però, che a tale devozione per la croce come simbolo del salvifico beneficio di Cristo (carissimo agli Spirituali) viene riservato uno spazio pari se non inferiore ad altre tematiche fortemente antiluterane come la Madonna, i santi, l’eucarestia126. Cristo crocifisso è, innanzitutto, exemplum di umiltà e di obbedienza127: egli, dalla croce, «in se stesso volse / insegnarne umiltate in tutti i modi» (LXI 13-14). Non sarà un caso dunque che negli scritti colonnesi campeggi l’ideale francescano dell’umiltà, «fundamento de ogni perfectione»128. Vittoria cercò di conformarvisi anche negli aspetti della vita quotidiana: dal vestiario al cibo, dagli alloggi dimessi fino al disinteresse per la pubblicazione delle proprie opere. Nelle rime, poi, emerge più volte il desiderio di essere «ognor più umile» (S1:157, 14; II 9; XI 5) perché Gesù apre il suo tesoro «a chi con umil barca in quel gran fondo / de l’alta sua bontà si lascia andare» (XXII 13-14; III 12). L’umiltà, la povertà e l’obbedienza – secondo un legame caro alla sensibilità francescana – sono il risultato di una scelta consapevole di distacco dai beni materiali e dalle tentazioni mondane, per alleggerire l’anima dai pesi terreni e permetterle di rivolgersi interamente al Padre che è nell’alto dei cieli, là dove si trova il vero tesoro (III 13; XXI 6, XXIX 11, XXXVIII 12, XCI 14 e XCII 10-11). La necessaria rinuncia a sé, alla propria volontà, affinché nell’anima si possa creare lo spazio per accogliere Dio è tema proprio di tutta la tradizione cristiana Anche nel Carteggio: «doveva alzar gli occhi in un altro modo a quel lume» (CLXXII). Per esempio: «Et benche quella infinita divina sapientia sia incomprehensibile et alta, tamen in Christo nostro Salvatore tanto si abasso, che senza altro mezo, con l’ochio puro, simplice, columbino et mundo de la fede, li simplici et idioti la possano intendere, perho si prohibisse a tutti li Frati, che non ardischino legere, ne studiare scientie impertinente et vane, ma le Scripture sacre, imo Christo Iesu sanctissimo, nel quale, secundo Paulo, sono tutti li thesori de la sapientia et scientia di Dio» (Costituzioni cappuccine del 1536, cap. 1.3; in D’Alençon 1928, p. 28). 126 Sulla Madonna vi sono 10 testi, sui santi 12 testi (cfr. Copello 2019c), sull’Eucaristia 6 testi, sulla croce 8 testi, di cui due da una prospettiva mariana. 127 L’umiltà di Cristo in croce è ricordata a XXV 13; XLII 5; LXI 14; LXIII 13; LXXVII 9; la sua obbedienza a LXXVII 9; LXXXVIII 10; S1:40, 2; S1:42. 128 Carteggio, IX. Cfr. anche Carteggio, CXII: «le due più care vertù sue, cioè l’humiltà [… e] la carità». 124 125


Introduzione

xxxv

(«Et vita in voluntate eius», Ps 29,6; «fiat mihi secundum verbum tuum», Lc 1,38; «fiat voluntas tua», Mt 6,10; etc.) e soprattutto della tradizione mistica. In particolare, da Margherita Porete e Ugo Panziera la dottrina del nihil, dell’annientamento in Dio della propria volontà, era poi passata anche nel Dyalogo di Cordoni. Lo scrittore francescano, infatti, aveva presentato l’annichilazione come una fra le sei vie dell’unione con Dio129, sostenendo che l’iniziativa e i meriti necessari alla salvezza sono di Dio: all’uomo è chiesta solo la disponibilità all’incontro con la grazia, il sottoporre la propria libertà alla volontà divina. Ma temi e lessico analoghi si ritrovano anche nel cateriniano Dialogo della divina provvidenza130 o nell’Imitazione di Cristo131, un testo che sembra riaffiorare spesso tanto negli scritti dell’Evangelismo quanto nelle rime colonnesi. Il tema dell’abnegazione, insomma, ben si inserisce nel clima dell’Evangelismo italiano degli anni Trenta e Quaranta, con il quale condivide l’enfasi sulla grazia e sui meriti di Cristo da una parte, e sulla vanità delle opere umane dall’altra. Benché nella raccolta vaticana non vi sia traccia dei termini-chiave come beneficio o meriti132, ma nemmeno delle parole annichilarsi, alienarsi o niente, il tema dell’abdicazione di sé e dei desideri mondani per lasciare spazio all’ingresso della grazia è pervasivo133. Infatti, un ruolo decisivo è svolto dal motivo dell’«affidamento alla misericordia divina», che fu ricorrente in molti scritti «di quegli anni tanto da sembrare il tratto distintivo di un’epoca»134. Solo un atteggiamento umile, dunque, può predisporre l’uomo a riconoscere di «esser io niente e in Christo trovar ogni cosa»135 e ad accogliere in sé il «raggio ardente / de la grazia divina» (S1:15, 1-2), proprio come suggeriva già l’Imitazione di Cristo (III xlii)136. L’anima, sgombrata dalle passioni terrene viene re-ingombrata da Dio (X 9-12)137, slegata dal mondo verrà riannodata dall’amore per il Signore Cordoni 1539, cap. XXIV. Edito sin dal 1472; le Lettere e le Orazioni di Caterina furono invece pubblicate nel 1500. 131 Per es. II i 8: «adhuc non es tibi ipsi perfecte mortuus»; II xii; III vii 5: «si seipsum nihil reputet»; III viii 1: «Si autem me vilificavero, et ad nihilum redegero […] erit mihi propitia gratia tua, et vicina cordi meo lux tua, et omnia aestimatio […] in valle nihileitatis meae submergetur»; III xxxvii; III xlii: «Si scires perfecte te annihilare…»; III lxvi 1: «Volo te addiscere perfectam abdicationem tui»). 132 Compare piuttosto il termine valore, con significato analogo; cfr. XIV 14, dove si fa dichiarare a Gesù: «oggi t’ha fatto salva il mio valore». 133 Copello 2020d; cfr. Alonge 2017, p. 291: «La coscienza radicale dell’impotenza dell’uomo e dell’assoluta prevalenza della grazia divina nel processo di salvezza, coniugata tuttavia con una salvaguardia del libero arbitrio, fu dunque un atteggiamento comune all’evangelismo francese e a buona parte di quello italiano». 134 Clario 2008, p. xxviii. 135 Carteggio, CLXI. Affiora qui quel «nuovo sistema dottrinale fondato su un radicale pessimismo antropologico ma anche, allo stesso tempo, su una fiducia incondizionata, non esente da slanci mistici, nella meditazione di Cristo e nell’infinita misericordia divina» (Camaioni 2017, p. 301). 136 «Gratia Spiritus Sancti cor humile quaerit semper. Si scires perfecte te annihilare, atque ab omni creato amore evacuare, tunc deberem in te cum magna gratia emanare» (‘la grazia dello Spirito Santo cerca sempre un cuore umile. Se tu sapessi annientare te stesso, e bandire ogni affetto per la creatura, io mi riterrei obbligato a riversarmi in te con larghissima grazia’). 137 L’immagine non è lontana da quella di Rm 9,23, in cui Paolo parla degli uomini come «vasa misericordiae, quae praeparavit in gloriam». 129 130


xxxvi

La raccolta di rime per Michelangelo

(XV 3-6), e, liberata, verrà riconquistata. Il processo di annichilazione quindi è strettamente funzionale a liberare l’anima affinché possa avere lo spazio necessario per la grazia divina che desidera abitare in lei138. Sembra allora di poter intravedere una doppia direzione: da un lato c’è l’elevazione, l’itinerarium in Deum, la trascendenza, quindi il movimento dell’uomo verso il cielo; dall’altro c’è il movimento discendente di Dio verso l’uomo, che culmina con l’inabitazione, con l’unione dell’anima con il suo Sposo139. Il linguaggio della mistica affettiva e unitiva, di matrice francescana e cappuccina ma che trova notevoli consonanze con il Dialogo di Caterina da Siena, emerge nello struggente desiderio che lo Spirito del Signore possa essere «dulcis hospes animae» (Veni, Sancte Spiritus, v. 6). Esso pervade infatti i versi della Colonna, secondo l’invito paolino di Ef 3,17: «Christum habitare per fidem in cordibus vestri» (cfr. anche Gv 14,23; XIV 5-8; XXIX 1-8; LVIII 1-4). E «la continua invocazione a Dio affinché trovi asilo nella sua anima, la occupi, colmandola di Sé, dopo averne ottenuto lo svuotamento di ogni volontà individuale, la Kènosis della teologia cristiana, non è richiesta di richiamarla alla casa del Padre, bensì un modo per renderlo presente già qui, nell’hic et nunc»140. La profonda dolcezza conferita al cuore dalla presenza del raggio divino induce la poetessa a desiderare che quegli istanti di grazia possano perdurare nel tempo, che quel calore si soffermi dentro di sé indefinitamente: come un lampo eterno (XXIII 1-4)141.

Cfr. Cordoni 1539, c. 112v: «Quando l’anima si converte tutta a Dio, cioè che gli dona tutto il suo volere, all’hora essa è fatta habile et atta a ricevere l’influsso della divina gratia, et lo fuoco del divino amor». 139 «Uno sguardo d’insieme delle Rime spirituali conferma l’assenza […] dell’unio con Dio […] Tuttavia, essa è poetica del desiderio, dell’anelito: struggimento di esperire il contatto con Lui, memore della consapevolezza che è possibile» (Amaduri 2018, p. 5). 140 Amaduri 2018, p. 7. 141 Tale desiderio di eternità è espresso in particolare dagli avverbi o dalle locuzioni avverbiali come ognora (VIII 3; XX 10; LXII 4; LXVII 3; LXXIII 3; XCVII 14); a tutte l’ore (LXXVI 5); in ogni tempo e loco (XXXIII 8 nella lezione di 46V); sempre (II 14; VIII 3; IX 7; XXII 12; XXXIV 1 e 11; XLVII 1; LII 14; LVII 4; LXII 5; LXV 4; LXXIX 6; LXXXIX 13; XC 9). 138


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.