«La nostra comune patria». Uomini, letterati e luoghi di cultura del Seicento aretino

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Giovanni Bianchini

«La nostra comune patria» Uomini, letterati e luoghi di cultura del Seicento aretino studi 44



studi 44



Giovanni Bianchini

«La nostra comune patria» Uomini, letterati e luoghi di cultura del Seicento aretino

Società

Editrice Fiorentina


© 2021 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-612-6 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte con i quali non sia stato possibile mettersi in contatto


Il libro è dedicato alla memoria di mia moglie, Marcella Da Prato, deceduta il 13 marzo 2020. Costituisce un piccolo ringraziamento per tutto ciò che ha rappresentato la Sua vita, per me e per i miei figli (Francesco, Giorgio e Nicola), racchiuso nei due versetti del Salmo 4: Hai messo più gioia nei nostri cuori di quando abbondano vino e frumento. In Sua memoria ho voluto raccogliere alcuni saggi, come si fa in genere per “un maestro”, di vita e di pensiero, che negli allievi e per gli allievi ha aperto “le strade dei saperi”. E Lei, moglie, madre, insegnante, ha davvero donato e trasmesso tanto.



Indice

ix Premessa di Quinto Marini

xiii Introduzione

xvii

Note ai testi

xxi

Tavola delle abbreviazioni

xxiii

Tabula gratulatoria

scritture teatrali

3

Scipione Francucci, “principe” dell’Accademia dei Discordi

13

Pietro Guadagni e l’Accademia aretina degli Oscuri

19

Antonio Paccinelli, un prolifico autore di teatro del Seicento

27

Bernardino degli Azzi, tra impegni civili e scritture teatrali

35

La “metamorfosi” di Giuseppe Gherardi da Casole

accademie e teatro

43

Accademie in Arezzo nel Seicento tra ritualità e cultura

61

Il Salone delle Commedie nelle logge vasariane: dibattito e rappresentazioni in Arezzo nel secolo XVII

81

Pietro Gherardi e l’Accademia degli Sbalzati nei secoli XVI e XVII

95

Accademie e teatro in Arezzo tra i secoli XVI e XVIII


personaggi

111

Federigo Nomi. «Una delle nobili penne del nostro secolo»

129

Sui rapporti tra Federigo Nomi (1633-1705) e Bernardino Ramazzini (1633-1714)

137

Faustina degli Azzi e Arezzo

147

Tommaso Salviati (1638-1671)

159

Alessandro Strozzi (1677-1682)

corrispondenze

169

Carteggi di eruditi della Valtiberina nella seconda metà del XVII secolo

191

Corrispondenti dall’Aretino di Antonio Magliabechi

207

Arezzo agli inizi del XVIII secolo: dal Diario del fiorentino Gio. Batta Fagiuoli

223

Indice dei nomi


Premessa

Ci sono vari modi di amare la propria terra. Giovanni Bianchini l’ha amata facendo l’insegnante, il dirigente scolastico, il docente universitario, ma soprattutto lo studioso, anzi l’erudito. Uso un termine che oggi non va per la maggiore e che ha addirittura assunto una connotazione negativa nell’attuale cultura del “presto e subito”, ma che credo sia il più appropriato per chi ha speso la propria vita, spesso sacrificando il riposo dall’attività professionale, sulle carte degli archivi, seguendo con operosa pazienza le tracce di personaggi, di accademie, di avvenimenti storici e culturali trasmessi dal vivo di carteggi e documenti. Un materiale primario che richiede perizia, passione, tenacia, tempo, ma che racconta la storia nella sua verità minuziosa, a volte difficile da interpretare tanto è lontana quell’antica forma di comunicazione dalla nostra scrittura, spesso affidata a labili social, e che il lungo lavoro di Bianchini ha saputo riportare alla luce nei diciassette saggi riuniti in questo volume intorno a un secolo affatto sconosciuto per Arezzo e per il suo territorio: il Seicento, compreso tra le propaggini del glorioso Rinascimento tosco-fiorentino, con cui Cosimo I aveva prepotentemente connotato la città, e i primordi del secolo dei Lumi, sul quale si affacciano gli ultimi saggi del libro. Ne esce un quadro – lo dico subito come rilievo non critico, ma positivo – tutt’altro che omogeneo e definito, anzi articolato in molteplici sfaccettature, che ha però il merito di infrangere obsoleti luoghi comuni su Arezzo nel XVII secolo, il provincialismo, l’emarginazione, la decadenza, l’immobilismo, la passiva sudditanza alla Dominante. La mole di documenti, specialmente epistolari, che Bianchini ha compulsato ci rivela invece letterati e intellettuali attivissimi nel seguire i processi culturali del tempo, che tengono decorosamente i contatti con i grandi centri toscani, Firenze, Pisa, Siena innanzitutto, ma anche con Roma (e poi con circoli dotti napoletani, veneziani, emiliani, perugini, nonché con alcuni grandi novatores europei) e che cercano di porta-


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re ad Arezzo, e nei borghi della Valtiberina, un’interpretazione identitaria delle novità culturali, innanzitutto tramite le aggregazioni intellettuali più tipiche di quell’età, le accademie. Se volessimo infatti trovare il filo conduttore del complesso reticolo dei saggi di Bianchini, dovremmo sicuramente partire da questi fondamentali laboratori di idee e di scritture, dove le adunanze su questioni che oggi possono apparirci futili o lontanissime, passano dalla minuta filologia alla letteratura, dagli allora scottanti problemi religiosi alla storia, dalla filosofia alla scienza e ai suoi contrasti tra innovatori galileiani e conservatori aristotelici; il tutto però mai confinato nel perimetro della città, ma spesso in fruttuoso scambio con la capitale medicea o con altri centri culturali, non ultima quella curia romana ben presente nella vita non solo religiosa di Arezzo. E i protagonisti della cultura aretina del Seicento li incontriamo quasi tutti nelle accademie. La prima e più longeva è quella dei Discordi, fondata nel 1623 dall’abate domenicano Scipione Francucci e strettamente vincolata all’importante Fraternita dei Laici, con l’impresa della lira a dieci corde, simbolo delle arti, e con il motto «Discordia concors», che – come spiega il versatile medico-filosofo Emilio Vezzosi – è una «moltitudine et adunanza di uomini giudiziosi e saggi, di più e discordanti professioni; che congregati in un luogo destinato ad esercitare in studi, quivi ciascuno di cose alla sua professione spettanti, parla et ragiona et di se stesso dà bonissimo saggio in lingua toscana o latina». Lì si discute sull’ozio dannoso e su quello umanisticamente contrapposto ai negotia, come attività del pensiero e «fomento della virtù»; lì lo stesso Vezzosi tratta non solo di medicina o di pandemia pestilenziale, ma della formazione dei giovani, della funzione pedagogica del teatro, della natura degli uomini e delle donne, nonché di alta politica con un Discorso in lode della Monarchia o Principato; lì Antonio Nardi porta il dibattito sulla scienza galileiana, legato sia a Francesco Redi (il più noto degli aretini finito alla corte medicea e alla Studio fiorentino), sia ai galileiani di seconda generazione tra Lincei e Cimento. E tra i Discordi a metà secolo arriva Federigo Nomi, sacerdote di Anghiari, per undici anni insegnante nella «Scuola di humanità» di Arezzo e oratore richiestissimo nelle chiese come in Accademia, dove si acquista fama e prestigio tali da esser chiamato al Collegio della Sapienza di Pisa, coi buoni uffici del Redi e del grande Antonio Magliabechi. Con la partenza del Nomi nel 1670, i Discordi declinano per lasciar spazio agli Oscuri – la loro impresa è una massa di gemme «tormentate dal giro di gran ruota» col motto «Attritu splendescunt» – guidati da Pietro Guadagni in una breve stagione, la cui traccia più nota è la grandiosa settimana di cortei, fiaccolate, banchetti, torneo cavalleresco e spettacolo teatrale, tra la fine degli anni Settanta e i primi degli Ottanta, quando nascerà la terza importante accademia aretina, quella dei Forzati. Favorita dal Redi e diretta dal savinese Gio. Batta Capalli, decano della cattedrale aretina e cantore di vescovi, avrà tra i suoi membri una donna talentuosissima, Faustina degli Azzi nei Forti. Au-


Premessa   xi

tenticamente aretina per circa un decennio (nel 1683 dovrà fronteggiare l’insediamento del Collegio dei Gesuiti nelle Scuole Maggiori, riuscendo a imporre docenti cittadini accanto ai religiosi), nel 1691 l’accademia diventerà una colonia della grande Arcadia del Crescimbeni con orgoglio dei «compastori» aretini, ora Forzati-Arcadi, che potranno mandare le loro composizioni al «bosco parrasio» romano e che vedranno tra i successori del Capalli il nipote prediletto del Redi, Gregorio, già membro di altre accademie toscane, prolifico scrittore, traduttore, verseggiatore. Bastano questi scarni cenni sulle accademie aretine (ma chi avrà la pazienza di immergersi nel libro di Bianchini scoprirà altri nobili consessi, a Poppi, a Castiglion Fiorentino, ad Anghiari, a Monte San Savino, a Sansepolcro, dove, tra gli Sbalzati emerge un altro poliedrico personaggio, Pietro Gherardi) per mettere in discussione la cosiddetta marginalità culturale del Seicento aretino. A contrastare l’obsoleto pregiudizio c’è anche l’ampia parte di studi dedicata al teatro e concentrata su quello straordinario gioiello architettonico delle Logge vasariane, entro le quali era stato allestito un apposito Salone delle Commedie. Qui per tutto il secolo, non solo in occasione delle visite dei granduchi (nel 1593 Ferdinando I, nel 1612 Cosimo II), ma anche per ricorrenze civili e religiose, gli aretini poterono godere grandiosi spettacoli e soprattutto una drammaturgia di qualità e d’ultima moda come il dramma in musica o melodramma; qui, accanto alle opere dei locali Girolamo Turini, Scipione Francucci, Pietro Guadagni, Antonio Paccinelli, Bernardino degli Azzi, Giuseppe Gherardi da Casole, andarono in scena anche testi di Giacinto Andrea Cicognini e, a Settecento inoltrato, un capolavoro come la Didone abbandonata di Metastasio. Un’attività così significativa, questa del Salone delle Commedie, che non mancò di alimentare in Arezzo il dibattito sulla funzione educativa e politica del teatro pubblico, ma anche sui suoi pericoli, dietro gli attacchi polemici dei Gesuiti, che pure coltivavano un loro teatro. Tanti personaggi si sono evocati nel tentativo di dare un assaggio di questa miscellanea di studi, e altri ne potrà ancora scoprire il lettore curioso. Dal buio degli archivi storici e soprattutto dai faldoni polverosi delle corrispondenze epistolari dell’Aretino – tutta l’ultima parte del libro è dedicata a specifici carteggi di eruditi, in primis a quello magliabechiano – compulsati nei più reconditi o fatiscenti depositi di chiese, parrocchie, monasteri e remote badie, Giovanni Bianchini ha riportato alla luce chi, prima di lui, ha amato e onorato questa terra con opere di pensiero e di penna, quando non era facile difendere un’identità culturale nella morsa egemonica di Firenze, o, a tratti, persino di Roma, mentre la miseria imperversava nelle campagne e l’economia cittadina (lo dicono le oscillazioni demografiche e i registri dei conti di artigiani e di nobili) subiva le interferenze e i balzelli della condizione di sudditanza politica. Ma tra i tanti illustri protagonisti di questo libro alcuni ritornano con insistenza e spicco particolare. Federigo Nomi, innanzitutto, l’autore del gustoso campanilistico Catorcio di Anghiari, delle Canzoni spirituali, del Santuario, e


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dell’ambiziosa prova epica La Buda liberata: la sua riscoperta e il suo posto nella letteratura italiana devono tutto agli studi di Bianchini, dalla prima monografia del 1984, allo specifico Federigo Nomi e Monterchi (1999), al grande convegno organizzato nel 2005 per il terzo centenario della morte, i cui atti costituiscono una pietra miliare per il panorama culturale aretino del Seicento. E poi il maestro del Nomi, il pluricitato Francesco Redi, fuggito troppo presto dalla città dietro il suo destino di scienziato e protomedico mediceo, ma sempre attento alle vicende culturali di Arezzo e pronto a dare una mano ai suoi ingegni migliori (è sua la frase del titolo, «la nostra comune patria», rivolta a Faustina degli Azzi). E poi ancora lo straordinario e onnipresente Antonio Magliabechi, il maggiore bibliofilo e bibliotecario d’ogni tempo, che per amore dei libri si era ridotto a vivere come un pezzente nella sfarzosa Firenze granducale e la cui capillare e quasi incalcolabile corrispondenza aveva steso una rete culturale che univa i dotti dei maggiori centri librari a quelli dei borghi sperduti d’Italia, anche aretini, ovunque vi fossero libri e custodi di libri. Accanto a questi grandi vi fu però la folta schiera di “minori” che popolano questo volume e che costituirono l’autentico sale culturale della terra aretina, impedendone il degrado morale e civile in quel «secolo di ferro» aspro e difficile che fu il Seicento. A costoro Giovanni Bianchini ha restituito il giusto merito, nell’auspicio che l’amore per lo studio e per la bellezza del passato (Arezzo è davvero una bella città, nella bella terra toscana) possa ancora aiutarci. Quinto Marini


Introduzione

Le ricerche che presentiamo spaziano da fine ’500 agli inizi del ’700 e cercano di connotare un territorio aretino, culturalmente vivace e propositivo, per nulla appartato, in contatto con i circuiti nazionali e “oltramontani” grazie alla presenza di Accademie, Monasteri, Badie, Archivi, Scuole, Teatro, Fraternita dei Laici. Con lo scavo in particolare dei carteggi, da quelli domestici a quelli eruditi, emergono piccoli e grandi personaggi di lettere, di scienza, di scritture teatrali, «enciclopedici» ante litteram, sospesi tra una scrittura a volte celebrativa, rituale, poco impegnata e una scrittura di notevole significato letterario, poetico e storico. Al centro Antonio Magliabechi che tesse un reticolato di relazioni e scambi, enorme, con l’«Europa dei saperi». E il bizzarro e spregiudicato bibliotecario fiorentino entra a pieno titolo anche nelle corrispondenze dell’Aretino: quasi 600 lettere a lui indirizzate in via della Scala sia da corrispondenti abitudinari che occasionali, residenti o di passaggio (magari sacerdoti quaresimalisti che predicano nelle lontane Sestino e Pratovecchio). Con le sue lettere di presentazione, si aprono gli archivi, sia della cattedrale che monastici, specie per i dotti viaggiatori europei, alla ricerca di fonti autentiche, per riscrivere le storie, non più legate a leggendari, tradizioni, martirologi, calendari: così al volgere del ’600 sono presenti, tra i tanti, i Maurini Jean Mabillon e Michel Germain, il belga Daniel Papebroek e trent’anni dopo Ludovico Antonio Muratori. Magliabechi quindi, «organizzatore» della cultura, «segretario perpetuo dell’erudizione europea», invisibile e presente nello stesso tempo («destinatario senza parola», «misantropo tra i libri»), che ha bisogno degli Attestati di religione, moralità e dottrina anche di alcuni amici aretini, contro le aspre critiche rivoltegli da alcuni libelli infamatori. Presenza non meno significativa quella di Francesco Redi, aretino di nascita ma fiorentino di adozione, medico, scienziato, letterato, uomo di corte presso la famiglia Medici, che passa con disinvoltura dallo scrittoio al labora-


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torio, alle sedute accademiche del Cimento, che da Firenze tiene rapporti con le istituzioni pubbliche, religiose e culturali della città e del territorio, con i tanti corrispondenti aretini che a lui si rivolgono per consigli, consulti medici, «censure» (sul piano della lingua, per esempio), per raccomandazioni per aprire le porte nei non facili apparati dell’amministrazione della Dominante o accedere allo Studio pisano e ai suoi Collegi; il suo interessamento, molto apprezzato in Arezzo, è sempre discreto, senza apparente troppo coinvolgimento, dissimulato. È dalle corrispondenze di questi due personaggi, tra loro diversissimi per estrazione sociale, interessi, sbocchi professionali, ma forse accomunati dalla stessa ansia di «stupire» ed emergere e che si rifanno, per strade diverse, a quel «laboratorio di esperienze», in ogni campo del sapere, che connota la res pubblica litterarum fiorentina della seconda metà del ’600, che emergono uomini dotti e luoghi di erudizione e di cultura. Poeti, letterati, insegnanti, laici e religiosi, come l’anghiarese Federigo Nomi, definito da Redi «una delle nobili penne del nostro secolo» e da Magliabechi, «nostris temporibus Iuvenalem renatum»; il canonico Gio. Batta Capalli, «cantore» dei vescovi del tempo, autore di epigrammi e di discorsi sacri per le tante monache presenti nei monasteri femminili della città, la poetessa Faustina degli Azzi nei Forti che in una società fortemente misogina, rivendica con forza, il ruolo, l’impegno, la scelta di campo della donna a favore della scrittura e delle lettere («desio dello studio») e l’appartenenza all’Accademia (prima donna aretina e per molto tempo ancora, l’unica). Dai carteggi emergono le Accademie, «ritrovi» elitari, di svago e di «civil conversatione», «adunanza di uomini giudiziosi e saggi», sedi private e pubbliche per declamare componimenti poetici, per fare impegnativi discorsi e lanciare proposte. Con i loro «emblemi» di identità e i loro nomi curiosi e autodenigranti, ecco nascere e svilupparsi l’Accademia dei Discordi, degli Oscuri, dei Forzati e Forzati-Arcadi, legate alla stessa nascita del Teatro al chiuso (dallo Stanzone delle Commedie nelle Logge Vasariane al Teatro nuovo del 1740) e l’affermarsi di un gruppo di intellettuali che si diverte a scrivere di teatro (Girolamo Turini, Bernardino degli Azzi, Pietro Guadagni, Antonio Paccinelli, Giuseppe Gherardi da Casole), dopo aver ricoperto importanti incarichi fuori di Arezzo, nella Roma dei «cardinali nepoti» di fine ’500, alla corte dei Papi Paolo V e Urbano VIII (Scipione Francucci e Pietro Gherardi). All’interno dell’Accademia dei Discordi, la più longeva tra le Accademie aretine secentesche, molti i riferimenti a Emilio Vezzosi, medico, insegnante, «devotissimo» alla Dominante, intellettuale poliedrico che incide profondamente nella vita pubblica e culturale aretina di inizio ’600, pur in un periodo tormentato da calamità, dalla peste, dalle difficoltà economiche. E ancora le corrispondenze e il Diario del brillante fiorentino Gio. Batta Fagiuoli fanno emergere una città viva, impegnata a coltivare le proprie tradizioni e pronta al nuovo che sta incombendo (siamo a inizio del ’700), la commistione dei generi letterari e di interessi, lo studio dei classici e il profondo


Introduzione   xv

sapere che circola, produce, qualche anno prima, un interessante rapporto tra Federigo Nomi e il medico e scienziato ravennate Bernardino Ramazzini. Il piacere di comunicare direttamente con le fonti (e la lettera è il primo strumento della ricerca) ci sta aprendo un versante nuovo (non per gli studiosi del settore), quella «strada del sapere» che coinvolge i Monasteri e le Badie aretine: nel silenzio operoso di questi luoghi si avvia l’opera di raccolta delle fonti, si riordina e si cataloga il patrimonio bibliografico, si stendono Matricula, Ricordanze, Memorie, Ricordi, Vacchette, che fanno emergere interessi letterari, filosofici, agiografici e storici, di primo piano. All’interno di queste strutture, che accolgono anche i viaggiatori europei nel loro Iter italicum, il sapere, specie in ambito agiografico, viene arricchito, rielaborato, per tornare nella società civile e religiosa. Complessivamente i diciassette saggi che raccogliamo in questo volume costituiscono degli «appunti» di un «viaggio» di ricerca, fatto negli anni, avendo come denominatore comune l’indagine attraverso la forma di comunicazione per eccellenza proprio del ’600, ovvero la lettera: lettere «domestiche», familiari, confidenziali e colloquiali, lettere «erudite» per «ragguagliare minutamente» sul versante che più interessa (i libri, per esempio o la salute con i Consulti), di tipo «diplomatico-cortigiano» per aspetti amministrativi (impieghi, mediazioni). Lettere come desiderio di informazione, di comunicazione, di appartenere a un circuito culturale, a una societas dei virtuosi, per sfuggire alla «lontananza dalla metropoli» e sentirsi parte attiva, se pur marginale e lontana, di un progetto. I saggi, ai quali abbiamo voluto dare come titolo generale La nostra comune patria (mutuando l’espressione di Redi a Faustina degli Azzi nei Forti) e con il sottotitolo esplicativo Uomini, letterati e luoghi di cultura del Seicento aretino, costituiscono degli appunti di un «viaggio» culturale fatto negli anni, che ha cercato – non so se in modo convincente – di superare certi stereotipi in ambito storiografico sia riguardanti il territorio Aretino che il Seicento in genere: provincialismo esasperato, auto-commiserazione da una parte, declino, crisi, decadenza, immobilismo dall’altra. Arezzo, nel XVII e inizio XVIII secolo è al centro di un reticolato di relazioni sorprendenti, un ponte aperto verso la stessa Europa erudita, grazie ai suoi «figli» più dotti, tanto da costruirsi una precisa identità culturale, pronta a inserirsi nei processi di innovazione che annunciano il secolo dei Lumi. Se il Seicento letterario resta ancora uno «sconfinato arcipelago» di ricerca (Martino Capucci), probabilmente si converrà che minori sono «Le zone mal note o affatto inesplorate». Credo che questo si possa dire anche per il Seicento aretino, nel suo complesso. Gennaio 2021 Giovanni Bianchini



Note ai testi

La maggior parte dei saggi raccolti in questo volume è stata scritta e pubblicata fra il 2004 e il 2018, mentre quelli sui vescovi Tommaso Salviati e Alessandro Strozzi sono inediti. Tutti, comunque, fanno parte di un disegno unitario, che mira a definire i caratteri della cultura aretina tra la fine del XVI e l’inizio del XVIII secolo, con interessanti rapporti con gli ambienti toscani soprattutto, ma anche romani e umbri. I saggi sono stati suddivisi in quattro raggruppamenti tematici e vengono riproposti (a parte i due inediti) senza alcuna modifica, salvo qualche correzione dovuta a svista e qualche occasionale precisazione, senza comunque alterare il senso e il contenuto del testo: documenti fedeli delle varie fasi di una ricerca che si è andata ampliando e precisando nel tempo. La loro riproposizione, all’interno dei quattro raggruppamenti, segue l’ordine cronologico della loro stesura e pubblicazione. Da annotare che non vengono riportati, in questo volume, alcuni saggi pubblicati nello stesso arco temporale (2004-2018) apparsi in «Studi secenteschi», lii, 2011, pp. 349-381 (Gio. Batta Capalli [1623-1695] e le lettere a Francesco Redi e Antonio Magliabechi); lix, 2018, pp. 97-114 (Emilio Vezzosi [1563-1637], filosofo, medico, insegnante, accademico, “devotissimo” alla famiglia Medici). Dopo il 2018 sono apparsi: Il Castro nella poesia accademica del XVII secolo, in Il fiume e la città. Il Castro e Arezzo dall’antichità ad oggi, Atti del Convegno, Arezzo, 18-19 dicembre 2017, a cura di Giulio Firpo, Arezzo, Accademia Petrarca di Arezzo, 2020, pp. 205-2013; Appunti sui vescovi aretini Salviati e Strozzi e Chiesa e comunità al tempo del vescovo Salviati, rispettivamente in «Notizie di Storia», xxii, 43, giugno 2020, pp. 15-17 e 44, dicembre 2020, pp. 34 e 43. Di imminente pubblicazione: Le “strade del sapere” in Arezzo tra la fine del ’600 e prima metà del ’700, in «Studi secenteschi»; Il monastero delle SS. Flora e Lucilla in Arezzo a cavallo tra i secoli XVII e XVIII, in «Benedictina»; Le Accademie nella città di Piero e Luca, a cura del Centro Studi «Mario Pancrazi» di


xviii    «La nostra comune patria»

Sansepolcro; Filippo Iacopo Felicini (sec. XVII) “musico, grammatico, poeta”, in «Notizie di Storia». Questi i testi che vengono ripresentati e la loro originaria collocazione: Scipione Francucci, ‘principe’ dell’Accademia dei Discordi, in «Notizie di Storia», xii, 23, giugno 2010, pp. 9-12, 15. Pietro Guadagni e l’Accademia degli Oscuri, in «Notizie di Storia», xii, 24, dicembre 2010, pp. 13-15. Antonio Paccinelli, un prolifico autore di teatro del ’600, in «Notizie di Storia», xiv, 27, giugno 2012, pp. 17-19, 26. Bernardino degli Azzi, tra impegni civili e scritture teatrali, in «Notizie di Storia», xvi, 32, dicembre 2014, pp. 10-12, 20. La ‘metamorfosi’ di Giuseppe Gherardi da Casole, in «Notizie di Storia», xvii, 34, dicembre 2015, pp. 10-11, 17. Accademie in Arezzo nel Seicento tra ritualità e cultura, in «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», lxvi, 2004, pp. 5-26. Il Salone delle commedie nelle Logge Vasariane: dibattito e rappresentazioni in Arezzo nel secolo XVII, in «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», lxxiv, 2012, pp. 5-38. Pietro Gherardi e l’Accademia degli Sbalzati nei secoli XVI e XVII, in L’Umanesimo nell’Alta Valtiberina. Arte, letteratura, matematiche, vita civile, a cura di Andrea Czortek e Matteo Martelli, Umbertide, Digital Editor, 2015, pp. 407-424. Accademie e teatro in Arezzo tra i secoli XVI e XVIII, in Arezzo in età moderna, a cura di Irene Fosi, Renzo Sabbatini, Giulio Firpo, Roma, Giorgio Bretschneider, 2018, pp. 135-142. Federigo Nomi, “una delle nobili penne del nostro secolo”, in Federigo Nomi. La sua terra e il suo tempo nel terzo centenario della morte (1705-2005), a cura di Walter Bernardi e Giovanni Bianchini, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 61-81. Sui rapporti tra Federigo Nomi (1633-1705) e Bernardino Ramazzini (1633-1714), in «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», lxxxvi, 2014, pp. 151-158. Faustina degli Azzi e Arezzo, in Arezzo in età moderna, a cura di Irene Fosi, Renzo Sabbatini, Giulio Firpo, Roma, Giorgio Bretcheneir, 2018, pp. 247-251. Tommaso Salviati (1638-1671) e Alessandro Strozzi (1678-1682), inediti. Carteggi di eruditi della Valtiberina nella seconda metà del XVIII secolo, in La Nostra Storia. Lezioni sulla storia di Sansepolcro. Età moderna, a cura di Andrea Czortek, Sansepolcro, Gruppo Graficonsul editore, 2011, pp. 177-204. Corrispondenti dall’Aretino di Antonio Magliabechi, in Arezzo nel Seicento. Una


Note ai testi   xix

città nella Toscana dei Medici, a cura di Luca Berti e Giovanni Bianchini, San Giovanni Valdarno, Industria Grafica Valdarnese, 2012, pp. 219-237. Arezzo agli inizi del XVIII secolo: dal Diario di Gio. Batta Fagiuoli, in «Annali Aretini», xxiii, 2015, pp. 241-255. *** Ringrazio di vero cuore chi mi ha sostenuto, in vari modi, in questo lavoro: Luca Berti, presidente della Società Storica Aretina, Quinto Marini, per l’incoraggiamento e la Premessa, i tanti addetti alle biblioteche e archivi che mi sono venuti incontro nella ricerca, i direttori delle case editrici e delle varie riviste che hanno concesso la liberatoria per la pubblicazione, gli Enti che mi hanno sostenuto con generosità, come appare nella Tabula Gratulatoria, la Società Editrice Fiorentina (dottori Massimo Ciani e Francesco Sensoli) per i consigli e la pazienza. E non ultimi i miei figli e i tanti amici di Marcella. Per l’editig e l’impaginazione Claudia Bassi.



Tavola delle abbreviazioni

AFL (Archivio Fraternita dei Laici di Arezzo) AMAP (Atti e Memorie Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo) APA (Accademia Petrarca di Arezzo) ASA (Archivio di Stato di Arezzo) ASCAn (Archivio Storico Comunale di Anghiari) ASF (Archivio di Stato di Firenze) AVS (Archivio Vescovile di Sansepolcro) ACV (Archivio Casa Vasari di Arezzo) ADCA (Archivio Diocesano e Capitolare di Arezzo) BCA (Biblioteca “Città di Arezzo”) BCS (Biblioteca Comunale di Sansepolcro) BMF (Biblioteca Marucelliana di Firenze) BML (Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze) BNCF (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) BNCF, Magl., (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, fondo Magliabechi) BNCF, N.A. (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Nuovi Acquisti) BNCF, Palat. (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, fondo Palatino) BRF (Biblioteca Riccardiana di Firenze) Bianchini 1984 = Giovanni Bianchini, Federigo Nomi un letterato del ’600. Profilo e fonti manoscritte, Firenze, Olschki, 1984. Bianchini 1987 = Giovanni Bianchini, Sui rapporti tra Federigo Nomi e Antonio Magliabechi 1670-1705 con lettere inedite del Nomi, in «Studi Secenteschi», xxviii, 1987, pp. 227-293. Bianchini 1990 = Giovanni Bianchini, Francesco Redi e Federigo Nomi con 40 lettere inedite del Nomi, in «Studi Secenteschi», xxxi, 1990, pp. 205-277. Bianchini 1999 = Giovanni Bianchini, Federigo Nomi e Monterchi 1682-1705. Nuove ricerche, Firenze, Olschki, 1999.


xxii    «La nostra comune patria»

DBI = Dizionario Biografico degli Italiani. Gazzola Stacchini – Bianchini = Vanna Gazzola Stacchini, Giovanni Bianchini, Le Accademie dell’Aretino del XVII e XVIII secolo, Firenze, Olschki, 1978. Bernardi – Bianchini = Federigo Nomi. La sua terra e il suo tempo nel terzo centenario della morte 1705-2005, a cura di Walter Bernardi, Giovanni Bianchini, Milano, Franco Angeli, 2008. Bernardi – Guerrini = Francesco Redi. Un protagonista della scienza moderna. Documenti, esperimenti, immagini, a cura di Walter Bernardi, Luigi Guerrini, Firenze, Olschki, 1999. Berti – Bianchini = Arezzo nel Seicento. Una città nella Toscana dei Medici, a cura di Luca Berti, Giovanni Bianchini, San Giovanni Valdarno, Industria Grafica Valdarnese, 2012. Cristelli 1982 = Franco Cristelli, Storia civile e religiosa in Arezzo in età medicea 1500-1737, Arezzo, Badiali, 1982. Cristelli 2003 = Arezzo e la Toscana tra i Medici e i Lorena 1670-1765, a cura di Franco Cristelli, Città di Castello, Edimond, 2003. Czortek = La nostra storia. Lezioni sulla storia di Sansepolcro. Età moderna, a cura di Andrea Czortek, Sansepolcro, Gruppo Graficonsul, 2011. Fasano Guarini = Il Principato mediceo, iii, in Storia della civiltà toscana, a cura di Elena Fasano Guarini, Firenze, Le Monnier, 2003. Fosi – Sabbatini – Firpo = Arezzo in età moderna, a cura di Irene Fosi, Renzo Sabbatini, Giulio Firpo, Roma, Giorgio Bretschneider 2018. Mangani – Martini = Francesco Redi Aretino, a cura di Lorella Mangani, Giuseppe Martini, Montepulciano, Le Balze editrice, 1999. Tafi = Angelo Tafi, I Vescovi di Arezzo, Cortona, Calosci, 1986.


Tabula gratulatoria

Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze Banca di Anghiari e Stia Romolo Bianchini, amico della famiglia e nativo di Palazzo del Pero Biblioteca Città di Arezzo Centro Studi “Mario Pancrazi” Fraternità dei laici, Arezzo Società Storica Aretina Università della terza età e dell’età libera

Società Storica Aretina



Scritture teatrali



Scipione Francucci, “principe” dell’Accademia dei Discordi*

Fondatore e primo “principe” dell’Accademia dei Discordi, Scipione Francucci, vissuto fra Arezzo e Roma, è autore di numerose opere che ben riflettono le inquietudini letterarie del primo Seicento. Le poche notizie sulla vita di Scipione Francucci, aretino («Fr. Dominicus Francuccius Dominicanus theologiae peritus, antequam religionem ingrederetur Scipio dictus»), sono desunte dalle sue numerose opere a stampa. La sua vita sembra trascorrere tra la corte romana dei cardinali Scipione Borghese (1576-1633), nipote di Paolo V (al secolo Camillo Borghese, papa dal 1605 al 1621), Benedetto Giustiniani (1554-1621) e Francesco Barberini (1597-1679), nipote di papa Urbano VIII (al secolo Maffeo Barberini, papa dal 1623 al 1644) e la natia Arezzo, dove lo troviamo a recitare un impegnativo Discorso […] fatto nell’ingresso suo in Fraternita l’anno 16231, che di fatto costituisce l’atto fondante dell’Accademia dei Discordi di Arezzo, della quale Francucci è il primo “principe”. La morte “immatura” è da collocare prima del 1647, anno nel quale il fratello Felice, cavaliere e canonico, per ricordare Scipione, pubblica alcuni poemetti e La Galleria del […] cardinale Borghese, composta a Roma nel 16132: certo è che, per quanto è nelle nostre conoscenze, l’ultima notizia è rappresentata dal poema La caccia etrusca, datata Arezzo, luglio 16243. * Con questo scritto intendo celebrare il secondo centenario dell’Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze, ricordandone le radici secentesche e soprattutto il suo primo “principe”. 1 BCA, ms. 38, cc. 58-65. La lunga argomentazione è stata pubblicata on line dall’Istituto Storico Germanico di Roma con il titolo Discorso sopra la musica come arte enciclopedica. 2 Come fa fede il manoscritto presente nell’Archivio Segreto Vaticano, Fondo Borghese, serie iv, 102. Altro manoscritto in Venezia, Biblioteca del Museo Correr, busta Cicogna 986 (devo quest’ultima segnalazione a Maria Chiara Milighetti, che ringrazio). 3 Errata, quindi, la notizia della morte «verso il 1660» riportata da Ubaldo Pasqui, Ugo Viviani, Arezzo e dintorni. Guida illustrata storica e artistica, Arezzo, Viviani, 1925, rist. an., Roma, Multigrafica, 1981, p. 57. Inutili le ricerche sulla data della morte nell’Archivio della Curia Vescovile di Arezzo, Necrologio della santa Chiesa Cattedrale Aretina dell’anno 1500 e seguenti (ms. n.n.): sono


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*** Una vita spesa nell’esercizio poetico4, espresso in più generi (poemi, panegirici, tragedie), all’ombra del mecenatismo di corte romano soprattutto, ma si accenna anche alla «benigna e generosa protezione» di Antonio Corvini di Città di Castello, generale della cavalleria di Bologna, del cardinale Carlo dei Medici (1596-1666), figlio di Ferdinando I, granduca di Toscana dal 1587 al 1609, oltre che alla nobiltà locale (le famiglie Albergotti e Dal Borro); protezioni che gli permettono di pubblicare presso importanti tipografie di Viterbo, Roma, Firenze, Venezia, Messina, per un pubblico colto e per lo più secolare5. Poesia e componimenti per lo più didascalici, celebrativi ed encomiastici, devozionali e moraleggianti, che riflettono il clima culturale degli inizi del XVII secolo, sospeso tra innovazione (rappresentata soprattutto da Giovan Battista Marino, che rivoluziona i canoni estetici della poetica) e tradizione (l’Ariosto, ma soprattutto il Tasso), mentre riprendono con vigore gli studi e l’imitazione dei classici e in campo religioso vi è la piena applicazione dei decreta del Concilio di Trento. Il circuito culturale specifico romano è quello che ruota intorno alle corti dei papi Paolo V e Urbano VIII e dei «cardinali nepoti», che fanno a gara per costruire e adornare palazzi (la nascente Galleria Borghese da una parte, Palazzo Giustiniani e Palazzo Barberini dall’altra), dar vita a circoli di artisti e letterati, che si affiancano a Gallerie, Biblioteche, Seminari, Collegi, Accademie, creando di fatto movimenti di opinione. Esigenze di rappresentanza pubblica e privata per le nobili famiglie, sfacciata personalizzazione del potere politico certamente (tanto da suscitare l’ira di Pasquino), ma anche interesse, talora sfrenato, per il collezionismo e l’arte antica, in un momento in cui Roma sembra assurgere al ruolo di capitale della Riforma cattolica, grazie soprattutto ai Gesuiti e ai loro Collegi. Da ricordare che sotto Paolo V i teologi del Sant’Uffizio, nel febbraio 1616, condannano la «teoria copernicana» e nel 1632, durante il papato di Urbano VIII, ha luogo la condanna, sempre da parte del Sant’Uffizio, del Dialogo dei massimi sistemi di Galileo, nonostante l’amicizia di vecchia data tra lo scienziato e il papa, a cui aveva dedicato, all’indomani della sua elezione, Il Saggiatore. annotate le morti di Giuseppe di Girolamo Francucci (21 ottobre 1620), Gregorio di Niccolò Francucci (11 settembre 1655) e Felice (fratello del nostro, 26 maggio 1656), tutti e tre canonici del Duomo, sepolti in Cattedrale «nel sepolcro de’ canonici». Nell’AFL, 916 (Vacchette de’ morti, marzo 1624 – febbraio 1647), sono riportate le morti di Marc’Aurelio di Francesco Francucci (29 aprile 1624), di Bernardo e Antonio figli di Gio. Francucci (31 marzo 1631) e di Caterina, moglie di Girolamo Francucci (4 febbraio 1632): tutti sepolti in Duomo. Scipione muore quindi fuori Arezzo. 4 Antonio Albergotti in Notizie istoriche di più uomini celebri per virtù e talento della città di Arezzo e suo Comitato, t. iii, cc. 555-557, conservato presso l’ASA, definisce il Francucci «poeta insigne». 5 Il fratello Felice si serve in Arezzo della tipografia di Mariotto Catalani che, per quanto è nelle nostre conoscenze, stampa solo le opere del Francucci e qualche bando per l’autorità comunale.


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È grazie comunque al mecenatismo dei due papi – che amano il lusso, la letteratura e l’arte e che si circondano a corte, specie il secondo, di poeti e dotti, di dignitari dell’aristocrazia e di alti prelati della Curia, che proteggono e ricompensano lautamente (ricordiamo Francesco Bracciolini, segretario del futuro Urbano VIII, autore nel 1617 de Lo scherno degli Dei e ancora Gian Lorenzo Bernini e Giovanni Ciampoli e, per certi versi, anche Guido Reni, il Domenichino e Pietro da Cortona) – che nascono le “gallerie”. Luoghi simbolo dell’otium studiosum o literatum, arredati con oggetti e opere d’arte, suddivisi, non sempre, per generi, dove si celebra il culto delle Muse, una specie di “giostra” eccitante per l’occhio e lo spirito, i cui comuni denominatori sembrano la meraviglia, lo stupire, l’ornamento, aventi come fine l’ostentazione della ricchezza, del potere, della rappresentanza. La Galleria diventa il luogo (per certi versi come l’Accademia) del Parnaso, del monte degli “eletti” delle lettere, luogo ideale di rifugio, per pochi. Con Urbano VIII poi, nutrito dall’umanesimo letterario dei Gesuiti, esperto in epigrammi latini e poeta egli stesso (pubblica Poemata nel 1620, più volte ristampato, tra cui un’edizione in Anversa nel 1634, decorata da un’antiporta del Rubens), Roma, già capitale della Riforma cattolica, sembra diventare anche la capitale della Repubblica delle lettere e delle arti, in un misto di fede, di sacro, di ripresa dei temi e delle forme dell’antichità, soprattutto “augustea” (Omero, Virgilio, Orazio) e dei padri della Chiesa. Una poetica, per certi versi, che coniuga temi e metri neo-classici e cristiani insieme, lontana e purificata dai sensi e dalla «sensualità pagana», di cui sono pervasi il Marino e i suoi seguaci, considerati «corruttori di anime» e di giovani, falsi «Febi contemporanei», mentre il «nuovo Apollo cristiano» (Urbano VIII) trasferisce in Vaticano la poesia e il Parnaso e ne detta persino le regole con Poesis probis et piis ornata documentis primaevo decori restituenda del 1631. Eppure, al di là dei proclami e degli scritti, il Vaticano e la corte Barberini non sono insensibili alle scorribande “moderniste” del Marino e dei suoi seguaci, agli esperimenti barocchi e «concettisti», alla poetica della «meraviglia», alle audacie «lincee», in una sorta di abbraccio tra rigore e raffinata sensualità, tra mondo classico e modernità. In Giovanni Ciampoli per esempio, allievo di Galileo, tra i Lincei di Federico Cesi e poi segretario di Urbano VIII, convivono, pur in presenza di una solida cultura scientifica, classicismo e moderato barocco, in una sorta di «meraviglia cristiana» che sembra anche attenuare, per certi versi, la contrapposizione tra fede e scienza, in un connubio tra classicità e fede (ma è interessante nel fiorentino anche il rapporto, a volte velato, tra giustizia e potere). Contaminazioni e intrecci, quindi, tra innovazioni e tradizione, tra teorie scaturite dall’Accademia dei Lincei (lo stesso Galileo ne è affiliato nel 1611) e quella degli Umoristi (con simpatie rivolte a Guarini, Tassoni e poi Marino e uno dei suoi membri è anche il futuro Urbano VIII) e il potente Collegio romano dei Gesuiti, che teorizza una poesia «ben regolata», sull’esempio del Tasso, nutrita del culto dei classici (con la ripresa di «Petrarca


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redivivus») e di devozione, quasi liturgica, che deve prodesse, docere, prima del delectare6. È in questo clima culturale che nascono le opere del Francucci, anche se, come appare dal loro catalogo, l’aretino sembra decisamente orientato verso la tradizione e il Tasso e verso quegli intellettuali (Gasparo Murtola, per esempio) che si oppongono alle emergenti teorie del Marino; ma l’ospitalità nelle sue opere di componimenti di Pierfrancesco Paoli, Agazio Di Somma e Scipione Errico conferma, per certi versi, un timido interesse verso il nuovo, una contaminazione, per certi versi, di opinioni e scuole. *** Se la tradizione e quindi la fama del Francucci risiedono ne La Galleria e nelle opere a stampa7, i manoscritti presenti nella Biblioteca «Città di Arezzo» completano un quadro decisamente interessante intorno a questo erudito aretino degli inizi del XVII secolo che, come altri, trova fortuna e onori lontano dalla sua città, soprattutto nell’ambiente cortigiano romano, per poi tornare in Arezzo, carico di esperienze e idee. La fondazione dell’Accademia dei Discordi poi costituisce per la città un importante evento associativo, luogo fecondo di dibattiti, di querelles, insomma di erudizione e di cultura, capace di influenzare gran parte delle vicende (aretine e non solo) di quel secolo sorprendente che è il Seicento. E per lo stesso Francucci, un merito di assoluto rilievo. Le opere a stampa La Galleria dell’Ill.mo e Rev.mo Sig. cardinale Scipione Borghese (con lettera dedicatoria da Roma, 16 luglio 1613 e pubblicata in Arezzo da Mariotto Cata6 Per una bibliografia essenziale sull’ambiente romano cfr.: Carmine Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, in Storia letteraria d’Italia, Milano, Vallardi, 1986 (3a edizione), pp. 264 e seguenti; Marc Fumaroli, La scuola del silenzio. Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995; L’anima in Barocco. Testi del Seicento italiano, a cura di Carlo Ossola, Torino, Scriptorium, 1995; Giacomo Jori, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista» tra classicismo e barocco, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, x (La fine del Cinquecento e il Seicento. L’età barocca), Milano, Il Sole 24 ore, 2005, pp. 653 e seguenti; Riccardo Merolla, Lo stato della Chiesa, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, vii (L’età moderna, la storia, gli autori), Torino, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2007, pp. 379 e seguenti. 7 Tra i repertori secenteschi e settecenteschi che accennano alle opere del Francucci ricordiamo: Io. Baptistae Lauri Perusini, Dialogus de viris sui aevi doctrina illustribus Roma MDCXVIII, Romae, Typis Andreae Phaei anno sacro MDCXXV, pp. 71-72; Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia, Milano, Francesco Agnelli, iii (1744), p. 83; Leone Allacci, Drammaturgia accresciuta e continuata fino all’anno 1755, Venezia, Pasquali 1755 (rist. an. Torino, 1966), pp. 141 e 621.


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lani, 1647, ad opera del fratello Felice Francucci, dedicata a mons. Francesco Albergotti governatore di Camerino). È definita da Scipione «vaghezza poetica […] dove si descrivono molte meraviglie, le quali […] potevano arrivare in sino al diletto, il quale è mezzo, non fine della poesia». Otto canti, in ottava rima, in un «poema eroico» che celebra «quella Galleria, che par fatta il Teatro dell’Universo, il compendio delle meraviglie e la vaghezza dello sguardo umano». Così il Francucci descrive per la prima volta il palazzo con i suoi marmi, la raccolta di dipinti (tra i quali Tiziano, Raffaello, Caravaggio) e sculture antiche del cardinale Scipione, collezionista d’arte, figlio di Ortensia Borghese e nipote di papa Paolo V; la raccolta, l’anno successivo, sarebbe stata ospitata nella nascente Villa Borghese. Significativo, in calce ai canti, un sonetto dedicato al Francucci di Agazio Di Somma (1591-1671) che, all’indomani dell’uscita dell’Adone del Marino, credette di provare per exempla la superiorità del Marino sul Tasso, suscitando dibattito e non poche polemiche anche nell’ambiente romano. Il Trionfo celeste. Panegirico nella morte d’Antonio Corvini Generale della cavalleria di Bologna, Ferrara e Romagna. All’Illstriss. e Reverendiss. Sig. Cardinale Giustiniano, Viterbo, Pietro e Paolo Discepoli, 1616. Si lodano le vittorie del «valoroso Corvino (a cui devo non poco)», precisa il Francucci: la «Dedica», datata in Roma 27 novembre 1616, è per il cardinale Giustiniano (ovvero Benedetto Giustiniani, legato pontificio a Bologna dal 1606 al 1611, promotore a Roma delle arti, collezionista, decisivo nell’affermazione del Caravaggio nella capitale), del quale ricorda, per molti anni, «la benigna e generosa protezione». Inseriti madrigali, sonetti, epigrammi di Pierfrancesco Paoli (pesarese, autore di madrigali e vicino al Marino), Francesca Bufalini (poetessa di Città di Castello, 1554-1641), Andrea Fanciolli, Ottavio Tronfarelli, Niccolò Negri (autore di una Favola boscareccia, pubblicata a Venezia nel 1609), Gio. Battista Gurna, Piergirolamo Gentile (autore di Della corona di Apollo…, Venezia, 1605) e Camillo Zancagni8. Il Pentimento di Maria Maddalena. Poema drammatico in ottava rima (Roma, Guglielmo Franciotto, 1615; Firenze, Sermartelli, 1616; Roma-Viterbo, Discepoli, 1622): ben tre edizioni, con «Dedica», la prima a Flaminia Sozzifanta Corvina, moglie del generale Antonio Corvino; la seconda a Fabrizio Marmorai, gentiluomo fiorentino; la terza a Maria Maddalena, arciduchessa d’Austria, moglie di Cosimo II. Con sonetti ed epigrammi di Tommaso Ricciardi, Gasparo Murtola, Francesco Della Valle, Ambrogio Nuti, Camillo Zancagni, Matteo Rossi, Domeni8 Dell’edizione di Viterbo, esiste una trascrizione del 1810 presso la BCA, ms. 166, fatta da Pietro Guadagnoli, maestro di retorica nel Seminario di Arezzo e autore di poesie, padre del più noto Antonio Guadagnoli.


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co Vinci da Messina. Presenze significative sono quelle del cosentino Francesco Della Valle, autore di Le nuove fabbriche di Roma sotto Paolo V e soprattutto del genovese Gasparo Murtola (1570-1624), ricordato per le aspre contese, non solo letterarie, contro il Marino (come testimoniano le raccolte poetiche della Marineide e della Murtoleide, che ebbero ampia risonanza al tempo), tanto da dover trovare protezione a Roma al servizio di Paolo V. Il poema di Francucci si colloca nel solco della poesia cristiana, edificante e moraleggiante, nutrita di devozione e di exempla da imitare. Il Belisario. Tragedia dedicata al cardinale Scipione Borghese (datata Roma, 4 luglio, 1620), Venezia, Evangelista Deuchino, 1620; Messina, Gio. Francesco Bianco, 1622 (forse rappresentata a Messina, con l’aggiunta di un prologo di Scipione Errico rivolto al principe Filiberto di Savoia, citata dall’Allacci e dal Quadrio come «dramma bizantino»). L’azione si svolge a Costantinopoli e racconta di Belisario, al quale nulla valse la conquista della sede di Pietro, punito dalla «giusta vendetta» divina. Tragedia «imitata» dal Torrismondo del Tasso, come precisa G. Casati, Dizionario degli scrittori d’Italia, III, Milano, Ghirlanda, 1934, p. 99. Il messinese Scipione Errico, autore fecondo, con molti interessi, risulta tra l’altro difensore dell’Adone, con l’Occhiale appannato (Napoli, 1629). La caccia Etrusca. Poema di Scipione Francucci Arretino. All’Illustriss. E Reverendiss. Signor Cardinale de’ Medici, Firenze, Giunti, 1624. Datato Arezzo, luglio 1624, è dedicato al cardinale Carlo de’ Medici (15961666), figlio di Ferdinando I; è questi «arbitro della pace, appoggio dell’Europa», nonché il cacciatore perfetto di cui si parla «in una nobilissima caccia alla quale [intervennero] i principali principi e baroni di Roma e di Toscana» circa 20 anni prima. Presente un breve madrigale di Pierfrancesco Paoli indirizzato all’autore. L’Armida disperata et il Lesbino ucciso. Poemetti, dedicati ad Alessandro marchese Dal Borro, maestro di campo, generale per «Sua Altezza Serenissima» (Arezzo, Mariotto Catalani, 1647) e L’Arianna tradita da Teseo, la Clorinda disarmata da Tancredi e l’Erminia fugitiva. Poemetti, dedicati a Penelope Fantoni, marchesa Dal Borro (Arezzo, Mariotto Catalani, 1647). L’argomento dei poemetti, precisa il fratello nella lettera di «Dedica» del 24 aprile 1647, è tratto dall’«eroico Poema del Sig. Torquato Tasso», la Gerusalemme Liberata appunto, rispettivamente dai canti xx, ix, xvi, iii e vii: episodi e figure non proprio marginali di quel capolavoro che sta davvero al centro del clima religioso (e civile) dei primi anni della Controriforma, ma soprattutto della storia letteraria di fine XVI secolo.


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Le opere manoscritte Commento e Allegoria di Scipione Francucci Aretino sopra le poesie dell’Ill.mo et Rev.mo Sig. Cardinale Barberini oggi Urbano VIII P.M9. Il fiorentino Maffeo Barberini, nato nel 1568, creato cardinale da Paolo V nel 1606, papa dal 1623 al 1644, è qui lodato per i suoi alti studi umanistici e le sue poesie (nella fattispecie le Odi Latine, apparse con il titolo di Poemata, una prima volta a Parigi nel 1620), che Francucci commenta, traduce e annota «senza lunga ostentazione», consapevole che anche «nella toscana favella de’ sagri e de’ morali soggetti con meraviglia e con diletto cantar si puote». Sollecitato da Torquato Perotti, i dubbi di Francucci sembrano svanire quando gli «pervenne in mano una lettera dello stesso Autore [il cardinale], scritta già ne gl’andati anni al Sig. Francesco Barberini suo nipote, oggi cardinal Barberino, nella quale un’Ode, al medesimo indirizzata, dottissimamente e con meravigliosa erudizione allegorizzata si legge». Scoprì così «che l’allegoria era per lo più il senso letterale de’ suoi sagri e divini componimenti […] e argomentai che gran diletto e gran giovamento al mondo arrecato avrebbe, chi tutte le altri Odi con somigliante commento disvelate avesse». Tutto questo nella premessa «A chi legge», non prima di essersi scagliato contro «gli effeminati poeti» che conducono le Muse «ne’ postriboli […] e nel putrido fango di disoneste scritture»: sono «non pochi rimatori toscani», imitatori di «lirici toscani, Principi appellar si possono», origine di «questo morbo insaziabile» che provoca «il tosco delle anime, la peste de’ costumi, la corruttela della gioventù, l’infamia di Parnaso, le sirene di Cocito, i zimbelli di Plutone, la cetra d’Adsmodeo, l’armonia dell’Inferno, la dissonanza del mondo e il fiato dell’iniquinità». Per questo vanno cacciati «dalla cristiana Repubblica». Vista l’amicizia con Gasparo Murtola, acerrimo nemico del Marino, la frequentazione con gli ambienti della corte romana dei papi Paolo V e Urbano VIII, si ha ragione di ritenere che «gli effeminati poeti» contro i quali si scaglia il Francucci, siano i seguaci del Marino: l’Adone di quest’ultimo viene condannato dalla Congregazione dell’Indice due anni dopo la morte del Marino stesso, avvenuta nel 1625. Discorso di Scipione Francucci o per dir meglio Fra Domenico primo Principe dell’Accademia delli Discordi fatta nell’ingresso suo in Fraternita l’anno 1623. Il discorso costituisce l’atto fondante di quel consesso aretino, dotto ed elitario, al cui centro, tra le altre nove professioni, sta la musica. Da qui la proposta di una Accademia della Musica, dove chi pratica «la Milizia, la Grammatica, la Retorica, la Poetica, la Logica, la Medicina, la Filosofia, l’Astronomia, la Teologia», si esercita insieme con la musica, considerata «mera9 BCA, ms. 447. Il manoscritto, di cc. 93, fu acquistato a Roma nel 1905 e proviene «ex mss. card. Gentili». Presenti, nella BCA, tutte le opere a stampa del Francucci.


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vigliosa, arte del Paradiso, esercitio degli Angeli, delizia de’ mortali e terrore dell’Inferno». D’altra parte la musica è «giovevole» ai guerrieri, ai grammatici (la grammatica «altro non è alla fine che una regolarissima musica»), agli oratori (l’eloquenza è di fatto «una ben regolata melodia»), ai poeti («due cose sonore [sono] i versi de’ cigni di Parnaso: il ritmo e il metro»), è importante nella logica, è necessaria nella medicina (il medico «altro non sia che un affettuoso maestro di Cappella»), nella filosofia (l’uomo è «un armonico misto»), nell’astronomia (nella terra «immobile […] armoniche sono le sue sfere celesti»), nella teologia («il Paradiso è musica beata, come il suo facitore», Dio, musico egli stesso e «correttor della musica del mondo, sovrano e maestro che dà il suono e la voce agl’angeli, ai cieli agl’elementi, a tutti gli altri cantori del Tempio dell’Universo […] armonia di se stesso e dell’universo»). La musica, quindi, per dirla con Platone «abbraccia tutte le altre discipline» e nell’Accademia della Musica tutti avranno la loro parte: i teologi potranno far sentire «le armonie del Paradiso», gli astronomi «la musica del cielo», i filosofi «le consonanze degli elementi», i medici «il concerto degli umori», i logici «la sinfonia degli argomenti», i poeti «il numero dei carmi», i retori «il […] concento dell’eloquenza», i grammatici «le concordanze delle loro voci», i guerrieri «il rimbombo de’ bellici strumenti» e finalmente la musica «le delizie della sua melodia». D’altra parte la musica precede ogni facoltà umana, anche quella più naturale, costituita dal parlare. E gli effetti di tutto questo risultano terapeutici per l’animo umano e utili per il vivere civile: «molce le orecchie, lusinga i cori, rappresenta la mente, frena gl’impeti immoderati, tranquilla le turbolenze de gl’affetti, ravviva gli spiriti, fa obliare i dolori, bando alle noiose cure e fa cento altri effetti». Il lungo discorso, che non disdegna riferimenti a Plinio, a Boezio, come ad alcuni grandi aretini (Tortelli, Bruni, Petrarca, Guittone), accenna brevemente al motto («Discordia concors») e all’impresa dell’Accademia (una cetra con dieci corde, tante quante le professioni), consequenziali comunque e in linea con quanto proposto. Sappiamo, dai Discorsi accademici di Emilio Vezzosi (1563-1637) del 1626 e del 163310, che si discusse molto sul nome, sul motto e l’impresa, ma di fatto, mai appare ufficialmente Accademia della Musica, bensì subito dei Discordi (anche se precisa, in un passaggio, «quest’Accademia fu da principio messa su da musici e poi a quella furono meritamente aggregati et aggiunti teologi, filosofi, astrologi, soldati et altre professioni di altre arti e scienze»). Una sconfitta per certi versi, per il Francucci; lui che a Roma si era nutrito dei primi drammi in musica, dove poesia e musica (Apollo citaredo e ispiratore della poesia) costituivano ormai un tutt’uno e per la stessa città di Arezzo, culla dell’inventore delle note musicali, patria dei vari Girolamo Bartei e Francesco Rasi (proprio nell’anno di nascita di Antonio Cesti, veniva fondata l’Accademia). Se tale può considerarsi, fu comunque solo formale, dal momento che i Discordi, per 60 anni, fino Ivi, cc. 65-69, 69-75, 76-77, 347-354.

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Scipione Francucci, “principe” dell’Accademia dei Discordi    11

al 1675-1683 (anni della presenza delle nuove Accademie degli Oscuri e dei Forzati, nate sulle ceneri dei Discordi), costituiscono per la città e la sua vita culturale un punto di riferimento importante, una «patente» di erudizione di cui vantarsi anche fuori Arezzo11.

11 Sulle accademie aretine e in particolare sull’Accademia dei Discordi cfr.: Gazzola Stacchini – Bianchini, pp. 14 e seguenti; Roberto Giuliano Salvadori, Accademie Aretine del Seicento. I Discordi e i Forzati, in Arte in terra di Arezzo. Il Seicento, a cura di Alessandra Giannotti, Liletta Fornasari, Firenze, Edifir, 2004, pp. 227-236; Giovanni Bianchini, Accademie in Arezzo tra ritualità e cultura, in «AMAP», lxvi, 2004, pp. 5-26 (cfr. infra, pp. 43-59); Michele Maylender, Storia delle Accademie d’Italia. Bologna, 5 voll., Bologna, Capelli, 1926-1930, ad vocem. Esattamente quarant’anni dopo il Discorso di Francucci, nella stessa Accademia dei Discordi parlerà Federigo Nomi, anche se in una prospettiva diversa: Che più la natura che l’arte giovi nella musica (BCA, ms. 143, cc. 158r-165v).


studi   1. Anton Ranieri Parra, Sei studi in blu. Due mondi letterari (inglese e italiano) a confronto dal Seicento al Novecento, pp. 188, 2007.   2. Gianfranca Lavezzi, Dalla parte dei poeti: da Metastasio a Montale. Dieci saggi di metrica e stilistica tra Settecento e Novecento, pp. 264, 2008.  3. Lettres inédites de la Comtesse d’Albany à ses amis de Sienne, publiées par Léon-G. Pélissier (1797-1802), Ristampa anastatica a cura di Roberta Turchi, pp. xvi-492, 2009.   4. Francesca Savoia, Fra letterati e galantuomini. Notizie e inediti del primo Baretti inglese, pp. 256, 2010.  5. Lettere di Filippo Mazzei a Giovanni Fabbroni (1773-1816), a cura di Silvano Gelli, pp. lxxxvi-226, 2011.   6. Stefano Giovannuzzi, La persistenza della lirica. La poesia italiana nel secondo Novecento da Pavese a Pasolini, pp. xviii-222, 2012.   7. Simone Magherini, Avanguardie storiche a Firenze e altri studi tra Otto e Novecento, pp. x-354, 2012.   8. Gianni Cicali, L’ Inventio crucis nel teatro rinascimentale fiorentino. Una leggenda tra spettacolo, antisemitismo e propaganda, pp. 184, 2012.   9. Massimo Fanfani, Vocabolari e vocabolaristi. Sulla Crusca nell’Ottocento, pp. 124, 2012. 10. Idee su Dante. Esperimenti danteschi 2012, a cura di Carlo Carù, Atti del Convegno, Milano, 9 e 10 maggio 2012, pp. xvi-112, 2013. 11. Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, pp. 148, 2013. 12. Arnaldo Di Benedetto, Con e intorno a Vittorio Alfieri, pp. 216, 2013. 13. Giuseppe Aurelio Costanzo, Gli Eroi della soffitta, a cura di Guido Tossani, pp. lvi96, 2013.

14. Marco Villoresi, Sacrosante parole. Devozione e letteratura nella Toscana del Rinascimento, pp. xxiv-232, 2014. 15. Manuela Manfredini, Oltre la consuetudine. Studi su Gian Pietro Lucini, pp. xii152, 2014. 16. Rosario Vitale, Mario Luzi. Il tessuto dei legami poetici, pp. 172, 2015. 17. La Struzione della Tavola Ritonda, (I Cantari di Lancillotto), a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxiv-134, 2015. 18. Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze. Carteggio (1825-1871), a cura di Irene Gambacorti, pp. xl-204, 2015. 19. Simone Fagioli, La struttura dell’argomentazione nella Retorica di Aristotele, pp. 124, 2016. 20. Francesca Castellano, Montale par luimême, pp. 112, 2016. 21. Luca Degl’Innocenti, «Al suon di questa cetra». Ricerche sulla poesia orale del Rinascimento, pp. 160, 2016. 22. Marco Villoresi, La voce e le parole. Studi sulla letteratura del Medioevo e del Rinascimento, pp. 276, 2016. 23. Marino Biondi, Quadri per un’esposizione e frammenti di estetiche contemporanee, pp. 452, 2017. 24. Donne del Mediterraneo. Saggi interdisciplinari, a cura di Marco Marino, Giovanni Spani, pp. 144, 2017. 25. Peter Mayo, Paolo Vittoria, Saggi di pedagogia critica oltre il neoliberismo, analizzando educatori, lotte e movimenti sociali, pp. 192, 2017. 26. Antonio Pucci, Cantari della «Guerra di Pisa», edizione critica a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxvi-140, 2017. 27. Leggerezze sostenibili. Saggi d’affetto e di Medioevo per Anna Benvenuti, a cura di Simona Cresti, Isabella Gagliardi, pp. 228, 2017. 28. Manuele Marinoni, D’Annunzio lettore


di psicologia sperimentale. Intrecci culturali: da Bayreuth alla Salpêtrière, pp. 140, 2018.

38. Per Franco Contorbia, a cura di Simone Magherini e Pasquale Sabbatino, 2 voll., pp. xviii-1028, 2019.

29. Avventure, itinerari e viaggi letterari. Studi per Roberto Fedi, a cura di Giovanni Capecchi, Toni Marino e Franco Vitelli, pp. x-546, 2018.

39. Ettore Socci, Da Firenze a Digione. Impressioni di un reduce garibaldino, a cura di Giuseppe Pace Asciak, con la collaborazione di Marion Pace Asciak, pp. xl-196, 2019.

30. Mario Pratesi, All’ombra dei cipressi, a cura di Anne Urbancic, pp. lx-100, 2018.

40. Massimo Fanfani, Dizionari del Novecento, pp. 168, 2019.

31. Giulia Claudi, Vivere come la spiga accanto alla spiga. Studi e opere di Carlo Lapucci. Con tre interviste, pp. 168, 2018.

41. Giulia Tellini, L’officina sperimentale di Goldoni. Da «La donna volubile» a «La donna vendicativa», pp. 264, 2020.

32. Marino Biondi, Letteratura giornalismo commenti. Un diario di letture, pp. 512, 2018.

42. Hue de Rotelande, Ipomedon (poema del XII secolo), traduzione e introduzione di Maria Bendinelli Predelli, pp. liv-266, 2021.

33. Scritture dell’intimo. Confessioni, diari, autoanalisi, a cura di Marco Villoresi, pp. viii-136, 2018. 34. Massimo Fanfani, Un dizionario dell’era fascista, pp. 140, 2018. 35. Femminismo e femminismi nella letteratura italiana dall’Ottocento al XXI secolo, a cura di Sandra Parmegiani, Michela Prevedello, pp. xxxiv-302, 2019. 36. Maria Bendinelli Predelli, Storie e cantari medievali, pp. 188, 2019. 37. Valeria Giannantonio, Le autobiografie della Grande guerra: la scrittura del ricordo e della lontananza, pp. 368, 2019.

43. Marco Lettieri, Word and Image in Alfonso d’Aragona’s Manuscript Edition of the «Divina Commedia», pp. 132, 2021. 44. Giovanni Bianchini, «La nostra comune patria». Uomini, letterati e luoghi di cultura del Seicento aretino, pp. xxiv-240, 2021. 45. Ferrante Unframed. Authorship, Reception, and Feminist Praxis in the Works of Elena Ferrante, Edited by Roberta Cauchi-Santoro and Costanza Barchiesi, pp. 144, 2021.


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