Meditazioni sul Vangelo di Matteo. Capitoli 19-25

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Divo Barsotti

Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 19-25 a cura di p. Martino Massa



Divo Barsotti

Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 19-25 a cura di p. Martino Massa

Società

Editrice Fiorentina


© 2021 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-620-1 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Studio Grafico Norfini, Firenze L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte con i quali non sia stato possibile mettersi in contatto


Indice

7 Prefazione 17 Nota

Meditazioni sul Vangelo di Matteo 21

Questione sul divorzio e celibato

33

Gesù e i bambini

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Il giovane ricco e il pericolo delle ricchezze

47

Ricompensa promessa alla rinunzia

59

Parabola degli operai nella vigna

69

Terzo annunzio della passione – domanda dei figli di Zebedeo – i due ciechi di Gerico

81

L’ingresso messianico a Gerusalemme

89

I venditori cacciati dal tempio

98

Il fico sterile – fede e preghiera

106 La domanda sull’autorità di Gesù 114

Parabola dei due figli

118

Parabola dei vignaioli omicidi

124

Parabola del banchetto nuziale


132

Il tributo a Cesare – la resurrezione dei morti – il comandamento più grande – Cristo figlio di Davide

146

Discorso contro gli scribi e i farisei

159

Discorso escatologico: l’inizio dei dolori

172

La grande tribolazione

179

Il ritorno del figlio dell’uomo

186

Parabola del fico – il giorno e l’ora

193

La venuta del figlio dell’uomo

199

Esortazione alla vigilanza e alla fedeltà

204 La parabola delle dieci vergini 211

Parabola dei talenti

219

Il giudizio finale


Prefazione

Le meditazioni di questo quarto volume riguardano la penultima parte del vangelo di Matteo, che ha per tema l’avvento prossimo del Regno dei cieli e precede immediatamente la narrazione della passione, morte e resurrezione di Cristo. Vi è una corposa sezione narrativa (cc. 19-23) in cui Gesù affronta importanti questioni, insegna ancora con parabole, annuncia per la terza volta la sua passione e termina con severe invettive contro gli scribi e i farisei. Ad essa segue l’ultimo grande discorso di Gesù, il cosiddetto discorso escatologico (cc. 2425) con le parabole del maggiordomo, delle dieci vergini e dei talenti e la scena grandiosa del giudizio finale. Gesù lascia definitivamente la Galilea e va in Giudea ove porterà a compimento la sua missione. Quello che colpisce il Barsotti è il nuovo procedimento dell’evangelista che ora presenta la figura e l’insegnamento del Cristo non più in relazione all’Esodo e a Mosè ma alla Genesi e ad Adamo. Non si tratta più di presentare Gesù soltanto come il Messia che adempie la Legge antica ma di mostrare che egli è il Nuovo Adamo che rinnova tutta quanta la creazione riportandola all’innocenza originaria secondo il disegno di Dio fin dal principio. Ciò risulta particolarmente evidente già nell’esordio di questa sezione del vangelo, laddove Gesù risponde alle provocazioni dei farisei circa il divorzio e ai suoi discepoli spiega la continenza volontaria per il Regno dei cieli (c. 19). Secondo Barsotti nelle parole di Gesù circa l’unità e indissolubilità del matrimonio così come le riporta Matteo già si svela anche se ancora implicitamente il senso profondo dell’unione dell’uomo e della donna, una unione che non è fine a se stessa ma significa quel mistero infinitamente più grande di 7


cui esplicitamente parlerà san Paolo in Ef 5 e che è abbastanza manifesto già nel vangelo di Giovanni: l’unione tra gli sposi nel sacramento fa presente il mistero dell’unione di Cristo sposo con la Chiesa sposa. In tal modo matrimonio e verginità si congiungono nell’essere proiettati verso lo stesso fine. Barsotti non esita ad affermare che «Il matrimonio cristiano dunque non è un’altra via dalla verginità: è anzi un cammino alla verginità, è un cammino a quella unione immediata con Dio che è poi la condizione futura e definitiva dell’uomo». Anche se si tratta di due vocazioni diverse e solo alcuni sono chiamati alla verginità perfetta, matrimonio e verginità non possono essere tuttavia concepiti come due cammini paralleli; la meta infatti rimane la stessa in tal modo che chi vive nel matrimonio non rinuncia alla verginità come chi vive nella verginità non rinuncia al matrimonio. Ancora più esplicitamente riguardo il matrimonio Barsotti afferma: «Il matrimonio, sì, è un cammino di ascesa: è un cammino verso la verginità. Non vi sono due vie. È sbagliata la concezione di due vie per giungere alla salvezza. Non vi è che un cammino e il cammino termina per tutti gli uomini nella verginità, perché nel mondo futuro “né si sposano né si sposeranno, ma saranno come gli angeli di Dio” (cfr. Mt 22,30) – anche chi è stato sposo, anche chi è stata sposa; e per molti tutto questo avviene anche prima della morte». L’unica differenza se si vuole sta nel fatto che mentre nel matrimonio gli sposi vivono la res significata dal sacramento – la comunione con Dio, l’unione sponsale dell’anima con Cristo – attraverso il segno, chi si consacra nella verginità vive già in anticipo in qualche modo quella res al di là del segno. Tutti comunque siamo proiettati verso gli «escata», verso le realtà ultime, verso una vita eterna che è già cominciata. Così se per tutti la meta è identica – la comunione con Dio – ne consegue che per tutti si impongono quei consigli evangelici che esigono il distacco dalle cose, la povertà per il Regno dei cieli. Vengono in mente le parole di san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: «il tempo ormai si è fatto breve» e «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,29-31). 8


Così vediamo come tutta questa parte del vangelo è protesa verso il discorso escatologico, lo annuncia e lo prepara. Si esige innanzitutto la povertà, certo, e tuttavia essa rimane solo una condizione, mai sulla bocca di Gesù assurge a valore di fine. «Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi» dice Gesù. Nelle parole del giovane ricco si avverte certo la lodevolissima disposizione a fare sul serio, a voler fare qualcosa di buono, l’impegno umano che vuole realizzare sì il massimo ma come qualcosa che è sempre limitato perché risponde a una norma da adempiere, mentre le parole di Gesù vanno ben oltre il precetto, sono un invito a un trascendimento continuo – perché siamo su un piano «divino» non su un piano morale – un invito a divenire quello che Dio è in sé: l’Unico Buono di cui parla Gesù non esclude affatto che l’uomo non debba fare il bene, tutt’altro anzi, e nel modo più eminente, perché l’ uomo è chiamato a realizzare la propria perfezione nel divenire perfetto come Dio partecipando della stessa vita divina. Pertanto se hanno valore la rinunzia, il distacco e in generale ogni forma di ascesi è perché l’uomo attraverso il distacco e l’ascesi possa finalmente liberarsi dalla schiavitù delle cose e torni davvero a esercitare la sua regalità sulla creazione così come era al principio del mondo, a possedere le cose senza essere posseduto da esse. Ma c’è di più, perché a questo punto don Divo ci fa fare voli vertiginosi trasportandoci su un piano altissimo: l’uomo è chiamato a vivere quello che vive il Figlio di Dio dinanzi al Padre, non solo come uomo ma anche come Dio, come Verbo generato dal Padre, cioè un essere e un vivere solo ed esclusivamente per il Padre, un eclissarsi eterno per essere la lode del Padre, per rivelare solo la sua santità, quell’umiltà e quella kenosi che il Verbo di Dio vive all’interno della Trinità stessa dall’eternità. «L’umiltà di Dio! Si direbbe che l’umiltà è una virtù che Dio non può conoscere, perché l’umiltà è il riconoscimento del proprio nulla; ma Dio è Dio, e tuttavia, nelle sue divine Persone è infinita umiltà. È la più meravigliosa manifestazione del mistero trinitario quella che ci danno i testi 9


evangelici…. “Nessuno è buono tranne Dio”. Basterebbero queste parole a dire che Gesù è veramente Dio, perché di questa umiltà è capace soltanto Dio stesso. Ed è precisamente in questo che Egli afferma la sua divinità: nel riconoscere la bontà assoluta del Padre, nell’essere la lode del Padre». A questo punto viene spontaneo chiedersi se si può ancora parlare in termini di ricompensa. Che cosa dire infatti riguardo al premio o ricompensa per chi, come i discepoli, ha lasciato tutto per seguire Gesù? Si tratta di avere il centuplo come possesso? Può avere l’uomo come suo fine il conseguire il possesso di qualcosa? È piuttosto l’avere che ordinato all’essere, non viceversa! È un tema questo che si approfondisce via via nelle parabole, soprattutto quella degli operai nella vigna. La norma della vita cristiana sono gli apostoli che hanno abbandonato ogni cosa per seguire Gesù. L’ascesi e la rinuncia non sono più qualcosa di mortificante ma divengono espressione di libertà e di gioia per chi ha risposto all’invito di Gesù, perché di invito si tratta. Così è stato per gli apostoli, così per san Francesco, così per tutti i santi: «Se vuoi essere perfetto…». Non si obbedisce a una legge, ma si risponde a un invito di Colui che ci dona la vita vera, la libertà e la gioia. Lo spiega bene Barsotti. «L’ascesi, la rinunzia, in quanto è mortificante, in quanto è dolorosa e penosa, è soltanto una condizione per seguire Gesù, ma nella misura che lo segui, l’ascesi stessa si trasforma; non è più pena, diviene l’espressione stessa di una tua libertà, di una tua intima gioia, di una purezza del tuo amore che ti fa veramente gustare, vivere tutta la gioia che può derivare e dall’amore e dalla bellezza di tutto». Il centuplo quaggiù è sempre ben misero ma il premio nel mondo futuro che Gesù promette è legato a un giudizio e a una palingenesi di tutte le cose perché in Cristo Signore ogni uomo si trova al centro della nuova creazione che risplende della gloria di Dio. Così commenta Barsotti in particolare riguardo a quel giudizio escatologico di cui saranno partecipi gli apostoli insieme al Signore: «Il giudizio dell’uomo è il giudizio di Dio: un giudizio che Egli ha dato al principio e ripe10


terà al termine dei giorni. “Et vidit Deus quod erat bonum – E vide che tutto era bene” (Gen 1, 12 ss.), e vide che tutto era sommamente buono, quando ebbe creato l’uomo (Gen 1, 31). Ecco il giudizio: l’uomo giudicherà la terra, perché la dichiarerà, la riconoscerà, realizzerà anzi il valore suo supremo di bontà, di bellezza, di verità, di grandezza, nell’unione che stabilirà di tutte le cose con Dio nel Verbo incarnato». Ancora qualcosa riguardo alla ricompensa e al giudizio divino su ogni uomo. Dio non giudica le opere dell’uomo, ma l’uomo, perché in definitiva non sono le opere che hanno valore davanti a Dio, ma l’uomo. «Perché il giudizio è rimandato a domani soltanto? Perché, effettivamente, Dio non giudica le opere, ma l’uomo – ed è già questa una cosa che differenzia l’idea della ricompensa nell’ebraismo da quella nel cristianesimo. Le opere buone in tanto valgono, per il cristianesimo, in quanto ti formano, ti maturano, ti rendono più simile a Dio, non in quanto sono un capitale che può crescere giorno per giorno col moltiplicarsi di esse». E proprio perché Dio non giudica le opere ma l’uomo il giudizio divino va oltre tutto ciò che è dovuto e trascende i limiti della stretta giustizia. Il vero premio è Dio stesso e la gratuità del suo amore divino va al di là di ogni nostro merito. Se pensiamo di poter fondare la nostra salvezza su un criterio di giustizia più che sulla fiducia nella sua misericordia siamo completamente fuori strada. Nel commento alla parabola degli operai nella vigna quasi provocatoriamente Barsotti ci addita l’esempio del buon ladrone : «Il buon ladrone diviene norma per il cristiano. Può essere un po’ seccante per noi che siamo sempre un po’ tentati di certe concezioni giuridiche, tuttavia rimane vero, è un fatto, che è il buon ladrone che inizia la storia dei santi. Dio è per l’anima quello che l’anima avrà voluto. Gli operai della prima ora volevano il “denaro”, e l’hanno ricevuto, gli ultimi non hanno voluto il denaro e hanno ottenuto l’amore». Ma per entrare nella logica dell’amore di Dio ci vuole il miracolo di una grazia speciale, altrimenti si ripete per noi oggi quell’incomprensione e quella ottusità dei figli di Zebe11


deo che non vedono altro che se stessi e brancoliamo anche noi nelle tenebre come quei due ciechi di Gerico che Gesù guarisce. Ancor più diventa incomprensibile la passione e la morte di croce che Gesù volontariamente subisce per inabissarsi nel cuore di questo mondo ed esserne il salvatore, e anche il nostro cuore si può indurire in un rifiuto radicale e irriducibile come quello dei farisei un giorno. Emblematico il fatto che solo i fanciulli sanno accogliere e acclamare Gesù che entra nel tempio di Gerusalemme non solo come profeta sacerdote e re ma come Dio stesso mentre i farisei si trincerano dietro una falsa religiosità che vuol far servire Dio ai propri piani e rimangono aridi e sterili come il fico che Gesù maledice. Ed ecco a questo punto la magnifica esortazione di Barsotti a divenire quei fanciulli di cui, come dice Gesù, è il Regno dei cieli: «Fanciulli! Che tutto quello che hanno lo hanno soltanto per un dono di amore. Il cristiano è così: non è nulla in sé, non possiede nulla, Dio è tutto per lui. Fanciulli: come ha visto i cristiani Clemente Alessandrino. Ed è ben questo il carattere proprio dell’anima cristiana: la debolezza, la povertà, l’innocenza del bambino che si abbandona tutto a Dio, che si lascia portare da Lui, e loda». Contro i farisei di tutti i luoghi e tempi non rimangono che le terribili invettive di Gesù, quei guai che si contrappongono alle beatitudini e che altro sono non solo che l’espressione di un amore offeso e sdegnato. Che cos’è in fondo che provoca lo sdegno di Dio se non il rifiuto del suo amore? Amore chiede amore e Dio si fa mendicante di amore nei nostri confronti. La parabola della festa di nozze apre spiragli anche per la comprensione della realtà dell’inferno: «L’inferno è creazione dell’amore divino. L’amore ha creato l’inferno! Un amore che non è una benevolenza buddhista impersonale, ma è violenza di passione implacata. Dio ama e amando soffre – soffre una passione di amore. Dice Origene: “Egli ama e il suo amore si esprime nella morte di croce”. Questo divino infinito amore non può essere indifferente alla risposta dell’uomo, non può essere indifferente al suo rifiuto di voler essere amato da Dio». 12


Una risposta d’amore che Dio chiede a noi ora e qui mentre viviamo le lotte e le tribolazioni di questa breve esistenza. Barsotti sottolinea il carattere drammatico e ambiguo della condizione presente: « Carattere ambiguo del tempo fra le due parusie: non vi è soltanto un progresso in senso positivo verso il Regno, un progresso continuo di evangelizzazione, di sviluppo della Chiesa e della santità; vi è uno sviluppo continuo anche di malvagità, di rovina, di morte. La santità e il male progrediscono insieme, come il grano e il loglio nel campo. E tu non puoi separare l’una dall’altro finché non giunga il Signore». Tutto questo nella consapevolezza che per noi cristiani, come dice san Paolo, è già arrivata la fine dei tempi ( 1 Cor 10,11). Così leggiamo ancora: «Non c’è un’epoca cristiana nella storia: col cristianesimo s’inizia la fine del mondo. Se nel Cristo veramente si compiono le promesse di Dio, è chiaro che l’economia cristiana non può essere che un’economia il cui contenuto è un contenuto escatologico». Non è senza significato nemmeno il fatto che Matteo sembri confondere la fine di Gerusalemme con la fine del mondo. A noi può sembrare un errore dell’evangelista o comunque un’incongruenza accidentale che si è verificata durante la redazione del vangelo, ma se a noi il testo è giunto così com’è bisogna riconoscere, secondo Barsotti, che c’è l’ispirazione dello Spirito Santo anche qui, e pertanto anche questo dato ha un valore nell’economia del vangelo. Ora, se tutto l’agire di Dio nella storia della salvezza passa sempre attraverso la mediazione del popolo eletto così che il rapporto tra Dio e gli altri popoli non è mai diretto ma passa attraverso Israele, anche in questo caso la fine che viene annunciata per tutti i popoli, quindi la fine del mondo, viene vista come la conseguenza naturale di quella fine che si è compiuta per Israele con la distruzione della città santa, Gerusalemme. «La distruzione, la fine di tutto il mondo non sarà, dunque, nella concezione dell’evangelista, e prima ancora nella concezione di Gesù, che il compimento della distruzione di Gerusalemme. Non sono due avvenimenti separati – è lo stesso avvenimento. È una 13


distruzione “a scoppio ritardato” quella del mondo, ma si è iniziata già con Gerusalemme». Ma come viviamo noi cristiani il rapporto con la morte e le realtà ultime? Se il pensiero della fine di questa nostra vita quaggiù e della fine del mondo dovesse generare solo angoscia e terrore saremmo ancora come dei pagani che non hanno conosciuto Cristo. Quale fosse l’inquietudine e l’angoscia che opprimeva l’uomo nel mondo pagano dinnanzi al pensiero della morte e dissoluzione del mondo lo si può intuire da alcuni versi del De rerum natura del poeta latino Lucrezio: «per violento insorgere di terremoti tutte le cose in poco tempo vedrai sconvolte. Ma lontano da noi volga questo la fortuna reggitrice, e la ragione piuttosto che il fatto stesso ci persuada che l’universo può inabissarsi vinto, in un fragore di suono orrendo»*. Da fedele seguace di Epicuro (ma non del tutto convinto) Lucrezio cercava di fugare con la ragione i turbamenti dell’animo dinnanzi alla catastrofe che incombe sull’edificio del mondo. Ma la ragione non persuade, non ha persuaso nemmeno lui che è morto suicida. Che cosa rimane a un uomo se non crede in Dio? Una visione di sorte ineluttabile e di angoscia senza fine in un mondo dove tutto è casuale e può rovinare da un momento all’altro. Si cerca di non pensare, di esorcizzare il pensiero della morte e della rovina di tutte le cose, come l’angoscia e il dolore che accompagneranno la fine di questo mondo, ma invano. Hai voglia a dire e a cercare di convincerci che tutto è naturale e che finché ci siamo noi non c’è la morte e quando ci sarà la morte non ci saremo più noi… si invoca una sorte che possa allontanare da noi la visione di uno spettacolo di rovina e di morte e una ragione che possa placare gli sconvolgimenti dell’animo al presentimento che possa essere imminente ciò che si presenterà con fragore orrendo. *

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Cfr. Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, v, 91: «forsitan et graviter terrarum motibus ortis / omnia conquassari in parvo tempore cernes. / quod procul a nobis flectat fortuna gubernans, / et ratio potius quam res persuadeat ipsa / succidere horrisono posse omnia victa fragore».


Ben diversa la visione cristiana della fine del mondo. Veramente la luce del Verbo incarnato qui risplende nelle tenebre di questo mondo, perché chi veramente crede sa che in un oggi dominato dal male purtuttavia, come dice l’apostolo Giovanni, «le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende» ( 1Gv 2,8). Ecco quanto scrive Barsotti: «Siamo noi che non viviamo la verità, noi che crediamo che la fine del mondo sia rimandata a un domani lontano. Oggi e qui noi viviamo la fine: la fine in una nostra condanna se noi apparteniamo a questo mondo, la nostra salvezza e la nostra redenzione se noi a questo mondo ci sottraiamo già per appartenere a Dio, per vivere nella sua intimità, per essere suoi. Allora anche noi, come dice Gesù nel discorso escatologico, leviamo la testa, perché i segni non ci parlano di rovina, ma ci parlano di una redenzione che ci salverà, di una redenzione che ci libererà da ogni angustia, angoscia, agonia di questo mondo che perisce». Ancora più efficace quanto scrive a proposito della seconda venuta di Cristo. È uno dei temi ricorrenti nella sua predicazione: più che di seconda venuta don Divo preferisce parlare di manifestazione di un mistero che è già presente. La Realtà è Cristo ed è già presente, anzi Lui è la Presenza stessa che domani non può essere diversa da quella che è oggi; solo, domani si manifesterà pienamente, quando cadrà il sipario di questo mondo, quella gloria che ora è nascosta. «Noi abbiamo forse considerato la fine del mondo in un modo teatrale, di spettacolo: il cielo si apre e quest’Uomo viene giù sulle nubi del cielo... Ma la manifestazione della gloria del Figlio dell’uomo è la manifestazione di quello che noi siamo. Si spezza l’argilla delle anfore e appare la luce – vedi Gedeone (Gdc 7, 20) – si spezza questo involucro di mortalità, di umiltà e di impotenza, che è proprio della nostra vita cristiana, e si manifesta la gloria che già è nostra ma rimane nascosta, che già noi possediamo ma non vediamo ancora. “Mortui enim estis, et vita vestra est abscondita cum Christo in Deo; cum Christus apparuerit et gloria vestra, tunc et vos apparebitis cum ipso in gloria” (Col 3, 3-4). La gloria del Cri15


sto è la nostra gloria». Come concepire la vita cristiana? Ecco: non l’attesa della fine, ma l’attesa di Cristo che viene incontro a te oggi e qui. « Tutta la vita cristiana è questa attesa: un’attesa che non è mai delusa perché Egli continuamente viene. Non pensare alla venuta del Cristo soltanto nel giorno della tua morte, come non devi pensare la seconda venuta gloriosa del Cristo per tutta l’umanità alla fine dei tempi. Rimandare la venuta del Cristo alla fine vuol dire non vivere già ora nell’attesa. Perché poi in fondo nessuno che viva vive nell’attesa imminente della morte; ma ciascuno invece deve viver nell’attesa imminente del Cristo. Così ogni epoca, così ogni anima». Padre Martino Massa CFD

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Nota

Purtroppo nelle meditazioni di Barsotti quasi mai sono riportati per esteso i brani del Vangelo. Pertanto è difficile stabilire quale traduzione del Vangelo egli ha utilizzato. Sembra che egli si sia servito di diverse traduzioni scegliendo liberamente di volta in volta ora l’una ora l’altra. Tra queste solo una è facilmente individuabile: è quella che sicuramente Barsotti ha preso dall’edizione italiana del commento a Matteo di Josef Schmid, autore consultato e citato varie volte nelle sue meditazioni su Matteo. Dalle citazioni risulta che egli ha utilizzato la seguente edizione: J. Schmid, L’evangelo secondo Matteo, Brescia, Morcelliana, 1957. Sulle altre versioni da lui usate si possono fare solo congetture a motivo della lacunosità del testo. Dovendo comunque scegliere per questioni di uniformità una sola tra le tante traduzioni italiane esistenti abbiamo optato per l’ultima versione CEI che si trova nella Bibbia di Gerusalemme.

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Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 19-25



Questione sul divorzio e celibato

Mt 19, 1-12 Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, al di là del Giordano. 2E lo seguì molta folla e colà egli guarì i malati. 3 Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: 5Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? 6Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi». 7Gli obiettarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via?». 8Rispose loro Gesù: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. 9Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio». 10 Gli dissero i discepoli: «Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». 11Egli rispose loro: «Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. 12Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli. Chi può capire, capisca». 19, 1

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Il rinnovamento della creazione nell’ultima fase della vita di Gesù Inizia con il capitolo 19 l’ultima parte del Vangelo di Matteo. L’epilogo di tutta questa avventura divina è per terminare. Il Vangelo non è più che il racconto di quest’ultimo viaggio che ha per termine la morte. Gesù lascia definitivamente la Galilea ed entra nella Giudea. Quello che dice e quello che opera ha un significato preciso e particolare; definitivo è il suo insegnamento e implica non solo un adempimento perfetto della Legge, non solo l’adempimento delle promesse fatte da Dio al popolo d’Israele, ma un ritorno di tutta l’umanità all’innocenza primordiale, un rinnovamento di tutta la creazione divina. È questo quello che Gesù propone, che Gesù realizza. Di qui l’importanza che hanno le parole con cui si inizia il capitolo: Gesù lascia definitivamente la Galilea. Questo lasciare è come un addio definitivo di Gesù anche alla sua predicazione, ai suoi miracoli; è l’entrare nella fase decisiva e ultima di questa sua avventura terrestre che dovrà portarlo alla morte. Non si capisce chiaramente che cosa voglia dire Matteo quando dice che Gesù va nel territorio della Giudea, al di là del Giordano. Al di là del Giordano non sembra che vi sia la Giudea: forse l’evangelista vuol dire che Gesù evita di passare attraverso il territorio della Samaria. Dalla Galilea passa nella Perea e poi attraverso Gerico, come del resto dirà anche il Vangelo di san Luca, sale verso Gerusalemme, nella città dove Egli dovrà subire la morte. Questa fase ultima della vita di Gesù non è più un rinnovamento soltanto dell’Esodo: è un rinnovamento della creazione. Gesù ripudia anche Mosè, lo sorpassa, lo trascende. E come la vita dell’uomo, l’inizio della storia umana si realizza nella Genesi, nella creazione di Adamo e di Eva e nel comando dato da Dio di una loro unione, così Gesù inizia, si può dire, questa fase ultima col riportare l’umanità a quanto aveva voluto Dio fin dall’inizio. Il libello del ripudio non vale più. Gesù chiarissimamente vede e insegna come la Legge, come 22


l’economia profetica sia una parentesi nella storia dell’umanità – una parentesi che deve essere superata. Non è soltanto questo, ma è anche questo. Non solo perché Gesù nel suo insegnamento deve superare la relativa perfezione propria della Legge mosaica, ma perché nel compimento della sua missione Egli non dovrà più stringere in alleanza un popolo con Dio, ma dovrà ristabilire un’alleanza di tutta quanta l’umanità col Signore. Non Abramo, non Mosè, ma Adamo diviene tipo del Cristo. Finora l’evangelista l’ha contemplato nuovo Mosè, ora lo contempla nuovo Adamo. E Gesù, come tale si vuole presentare. Più che ristabilire la Legge data da Dio per mano di Mosè al popolo d’Israele, Egli si presenta come Colui che rinnova la creazione. Egli vuole l’adempimento perfetto di una legge più santa di quella data sul Sinai, di una legge data direttamente da Dio, data a tutti gli uomini, data prima che l’uomo avesse peccato. Questo riportarsi all’innocenza primordiale dell’uomo per Gesù significa prima di tutto una santificazione del rapporto dell’uomo con la donna. La santificazione del rapporto uomo-donna e il mistero della Chiesa Certo, i capitoli della Genesi che parlano della creazione dell’uomo e della donna hanno un significato estremamente misterioso, un valore veramente eccezionale: anche se non comprendiamo tutto, sembrano comunque contenere in sé il mistero di tutto il disegno divino che poi si dovrà compiere nel Cristo. Unione dell’uomo con la donna: non è in questa unione il tipo di un’altra unione? Barth* vede nei primi capitoli della Genesi una parabola che vuole insegnare il mistero futuro della Chiesa – non sono parabole i primi capitoli della Genesi. La Chiesa cattolica insegna in un * Karl Barth (1886-1968), pastore e teologo riformato svizzero.

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modo preciso che il valore letterale di questi capitoli, almeno nell’insegnamento di una creazione immediata dell’uomo da Dio, almeno nell’insegnamento di un peccato dell’uomo e in altre cose – altri dati poi per la Chiesa cattolica hanno un valore storico preciso in questi capitoli – non esclude che Adamo ed Eva vogliono significare qualche cosa di più grande di loro. D’altra parte, l’insegnamento di Gesù anche qui nel Vangelo, non esclude ugualmente che, richiamando i farisei alla lettura dei primi capitoli della Genesi, e volendo rinnovare la legge divina che esclude il divorzio e la poligamia, non voglia insinuare, in questo primo entrare nella fase decisiva del ministero di Gesù, il mistero dell’unione di Dio con gli uomini, il mistero della Chiesa, sotto il velo, sotto anche il segno sacramentale dell’unione dell’uomo con la donna. Che questo mistero sia esplicitamente veduto, o almeno veduto con una chiara trasparenza, nel Vangelo di san Giovanni, è ovvio: quando ai piedi della croce c’è Maria, la Donna – Mulier (Gv 19, 26) – e sulla croce c’è l’Uomo – Ecce Homo (Gv 19, 5). L’Uomo e la Donna: il mistero della croce è contemplato da san Giovanni come una unione nuziale; “l’ora” di Dio, l’ora del compimento dei disegni divini è anche l’ora delle nozze. Che san Giovanni veda trasparentemente questo mistero dell’unione dell’uomo con Dio nel mistero della croce ci sembra ovvio; ma non direi nemmeno che è escluso che san Matteo stesso, all’inizio di questa ultima fase della predicazione di Gesù, contempli questo mistero, perché dà tanta importanza a questo richiamo alla santificazione del matrimonio come primo atto della predicazione di Gesù in quanto questa predicazione non più adempie soltanto la Legge, ma la supera, la trascende, in quanto non più Gesù è il nuovo Mosè, ma in quanto diviene il nuovo Adamo, anzi Colui che riprende la creazione e la rinnova.

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Il sacramento del matrimonio come cammino alla verginità E più importante ancora di questo ci sembra quello che segue: l’insegnamento di una nuova santificazione del matrimonio con l’insegnamento della verginità. I discepoli, atterriti dalle esigenze della Legge che Gesù rinnova di una unità, di una indissolubilità del matrimonio, dicono sconcertati: «Se è così, meglio è non sposarsi». Gesù accetta queste parole anche se dette con un certo dispetto o con una certa superficialità – le accetta in pieno. Certo, è meglio non sposarsi. Tuttavia le parole di Gesù non sono una condanna del matrimonio; sono anzi una esplicita conferma della sua santità, perché la verginità, quantunque sia dichiarata da Gesù, nelle parole che seguono, un bene migliore, è proposta soltanto per coloro che possono capire. Il matrimonio viene riconfermato nella legge della santità primitiva, la verginità viene proposta come consiglio. Vivi nel matrimonio? Devi vivere secondo quella legge: se non stai a questa legge puoi tendere più su e vivere nella pura verginità, ma non se ne fa un comando. Mi sembra che la pericope evangelica dica con una grande chiarezza quella che è la condizione dell’uomo nell’economia cristiana. L’economia cristiana è un’economia sacramentale, ma il segno ha valore soltanto per quello che significa; l’uomo, però, può vivere anche al di là del segno, può anche cercar di trascendere l’economia del segno vivendo o cercando di vivere nella verità la condizione dell’uomo futuro, dell’uomo redento. Noi viviamo in un’economia instabile: pur vivendo nel mondo siamo sollecitati sempre a superarlo, pur vivendo nel tempo siamo continuamente mossi a trascendere il tempo per vivere nella pura eternità il nostro rapporto con Dio. Il matrimonio non è escluso, ma il matrimonio non ha più altro senso che quello di una significazione del mistero. Proprio per questo diviene quasi impossibile all’uomo di viverlo. «Se è così, meglio è non sposarsi», dicono gli apostoli. Ed è così, il matrimonio non ti fa riposare: nelle condizioni, nella legge, nella norma che lo struttura, che lo realizza, divie25


ne per l’uomo un impossibile riposo. «Meglio è per l’uomo non sposarsi». Non è detto che sia meglio non sposarsi: le parole degli apostoli sono dette in un momento di dispetto; non è detto che siano vere. Ma è detto però che il matrimonio, così come il Signore lo vuole, per l’uomo che vuole abbandonarsi agli istinti, che vuol riposare nella natura, che vuol trovare un senso alla sua vita terrestre, questo matrimonio diviene impossibile viverlo: esso implica una rinuncia, implica un superamento, non concede nulla, si direbbe, alla natura umana, o almeno non le concede tanto da poter riposarsi, sentirsi a suo agio. Proprio attraverso la legge di questa santità nuova, l’uomo è sospinto ad andare oltre: anche il matrimonio diviene per l’uomo un’ascesi, un impegno di superamento, di rinunzia, un cammino di trascendenza. Sacramento: segno di qualche altra cosa – il sacramento è sempre questo, e troppo spesso gli uomini lo dimenticano, troppo spesso cioè i cattolici vedono nel matrimonio soltanto la santificazione di un istinto naturale. No! Per il fatto che è sacramento, il matrimonio non è più soltanto la santificazione di un istinto naturale, dice qualche cosa di più di quel che è puro contratto, puro istituto: è segno di qualche cos’altro a cui ti spinge, a cui ti porta. Tanto vale non sposare se tu ne sei capace, se tu puoi andare oltre senza questo mezzo, perché in fondo tutto il valore del matrimonio è nel vivere precisamente quello che la verginità immediatamente ti concede: un tuo rapporto con Dio, una tua comunione con Dio. Il matrimonio cristiano dunque non è un’altra via dalla verginità: è anzi un cammino alla verginità, è un cammino a quella unione immediata con Dio che è poi la condizione futura e definitiva dell’uomo. Perché i matrimoni troppo spesso finiscono male se non precisamente per questo? E fra i cristiani forse più che fra gli altri? È chiaro, per esempio, che l’ebraismo anche oggi ha un senso della famiglia più grande di quello che non abbiano i cristiani. È giusto che sia così, perché il matrimonio come l’ha voluto Gesù è quasi una cosa impossibile: o il matri26


monio ci educa, ci porta oltre, ci spinge verso qualcosa di più grande, quello che l’istituto significa, di cui l’istituto è simbolo e segno, oppure l’uomo si trova come costretto in forme che non possono dargli un suo riposo, una sua pace. La verginità come pienezza del matrimonio Ora, colui che rinunzia al matrimonio, non rinunzia per questo alla res significata nel matrimonio, cioè all’unione dell’anima con Dio: la vive indipendentemente dal segno, oltre il segno, così come ciascun’anima deve vivere questa res significata, questa comunione con Dio senza segno al di là del segno, nella vita futura. Ecco perché, in fondo, la verginità, secondo l’insegnamento di Gesù nel Vangelo di san Luca, è propria dei figli della resurrezione (Lc 20, 36). Nel matrimonio viviamo, come si vive nell’eucaristia attraverso le specie del pane e del vino, una comunione con Dio, come ce la fanno vivere tutti i sacramenti donandoci una grazia, diversa, ma essenzialmente la stessa, che è sempre una comunione dell’anima con Dio, attraverso il segno. Ed è proprio questa la condizione dell’anima quaggiù: il vivere questa comunione, la realtà e il contenuto della vita cristiana. Se non fosse questo il contenuto della vita cristiana, il cristianesimo stesso avrebbe fallito, perché il cristianesimo si presenta come l’era messianica, come l’era in cui le promesse di Dio si realizzano, in cui effettivamente Dio realizza una sua alleanza con l’uomo e l’uomo vive questa alleanza con Dio. Attraverso i sacramenti noi viviamo una comunione con Dio, e il viverla attraverso i sacramenti è proprio della condizione terrestre. Quello che è essenziale alla condizione dell’uomo cristiano è che viva in questa comunione – una comunione attraverso il segno, nel segno: segno che però tende a scomparire, perché nella vita futura il segno scompare, il sacramento vien meno, e tu vivi nella pura realtà e nella pura verità questa comunione con Dio, immediata e diretta. 27


«Pochi intendono queste parole» dice Gesù. «Però pochi le intendono», aveva detto già in un’altra parte del Vangelo a proposito di alcuni che non gusteranno la morte senza prima vedere il Regno di Dio (Mt 16, 28). Vi sono gli uomini che anticipano, nella vita presente, la vita futura: un’anticipazione più o meno perfetta. Ma questa anticipazione in che cosa consiste se non precisamente nel vivere al di là del segno? Nel superamento, per quanto possibile oggi all’uomo, dell’economia sacramentale? La verginità è dunque la res significata del matrimonio. Il vergine non rinuncia al matrimonio: vive il matrimonio nel senso più pieno, vive il vero matrimonio che è proprio di ogni uomo, che è proprio nella unione per la quale tutti noi siamo nati. L’unione dell’uomo e della donna nell’A.T. e il sacramento del matrimonio nel cristianesimo Il rapporto dell’uomo con la donna è simbolo, è segno di un’altra unione. Tutto l’Antico Testamento non è che questo insegnamento. L’alleanza dell’uomo con Dio è sempre simboleggiata attraverso il segno dell’amore dell’uomo con la donna – lì il matrimonio è puro simbolo. Il matrimonio, nel cristianesimo, riportato alla santità delle origini, diventa invece sacramento, non simbolo soltanto: segno che realizza, segno che contiene la cosa significata, cioè l’unione con Dio. Nel matrimonio tu vivi già questa unione con Dio attraverso un’ascesi che ti porta ad andare oltre il segno stesso, a vivere una comunione con Dio attraverso il rapporto con la donna, o con l’uomo. Proprio per questo, vivere il matrimonio diviene difficile all’uomo. E non soltanto difficile: può nascere nell’uomo il fastidio di sottoporsi a leggi che gli impediscono di vivere secondo gli istinti, secondo una natura che vuole trovare soltanto in sé stessa il suo riposo. «Meglio non sposarci» dicono gli apostoli. Ed è vero; ma chi ce la fa? Il comando divino qui non interviene. Il Signore 28


apre soltanto la porta: «Se tu vuoi». Il Signore invita soltanto, o piuttosto accenna alla possibilità di vivere già ora questo superamento del segno, una pura comunione. Perché la verginità – l’evirazione – qui nel Vangelo è giustificata per il Regno dei cieli. È dunque nel Regno dei cieli che la verginità è vissuta. Ma il Regno dei cieli la rende possibile già ora: chi vive già nel Regno dei cieli soltanto può vivere già ora anche la verginità, può vivere già ora al di là del segno del matrimonio. Non so se ho chiarito sufficientemente il mio pensiero; mi sembra che comunque sia questo l’insegnamento che ci viene da questa pagina: un richiamo alla Genesi che importa un rinnovamento della creazione, che importa un superamento della legge mosaica, che importa un’alleanza non più di Israele con Dio, ma di tutta quanta l’umanità con Dio, che importa la santificazione dell’istituto del matrimonio non più soltanto come simbolo di un’alleanza futura, come simbolo profetico di una comunione che Dio nell’era messianica vivrà con l’uomo, ma che importa il sacramento di questa medesima comunione, già realizzata, già vissuta dall’uomo. Tu vivi nel matrimonio un’altra cosa. A differenza dell’ebraismo, tu vivi nel matrimonio cristiano la res significata dal segno che è appunto qualche altra cosa che l’unione dell’uomo con la donna – se non fosse questo, il matrimonio non sarebbe più sacramento. Il matrimonio è sacramento in quanto dona la grazia, in quanto attraverso l’unione dell’uomo con la donna l’uomo e la donna vivono un altro rapporto che è il vero contenuto del matrimonio, cioè l’unione con Dio, la grazia divina. Il contenuto vero è questo, la res significata è la grazia. Tu non vivi dunque nel matrimonio il matrimonio, tu vivi qualche altra cosa; il matrimonio ti porta oltre sé – tanto vale che tu vada oltre il segno, per vivere la res significata.

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Pedagogia del matrimonio e verginità come anticipo della vita futura Ecco quello che il Signore allora ci suggerisce in ultimo. Lo suggerisce soltanto: lascia a te di volerlo o non volerlo. Ma comunque mi sembra che sia questa una delle pagine più importanti per la comprensione e della vita cristiana e di quello che è il matrimonio nella vita cristiana: un mezzo pedagogico che ci prepara a vivere la nostra unione con Dio. È un mezzo divinamente efficace a raggiungere questa purezza di rapporto attraverso l’indissolubilità, attraverso l’unità del matrimonio, attraverso leggi così dure per la nostra natura umana. Ti impegna a trasformare un rapporto che prima poteva essere soltanto istintivo, passionale, in un’amicizia, a trasformarlo in qualcosa di più spirituale; ti impone un superamento dei tuoi istinti, ti impone un severo controllo di te, ti impone, sì, un viaggio, un cammino. Pedagogia è il matrimonio, come è pedagogia tutta l’azione di Dio attraverso i sacramenti. Il matrimonio ti impegna a prepararti, poi, a uno stato in cui già tutto quello che è contenuto umano del matrimonio vien meno. Poi, in fondo, gli sposi, invecchiando, se non trasformano il loro rapporto che cosa vivono? Se il loro rapporto non diviene amicizia spirituale, conformità nel tendere a qualche cosa che rimane oltre quello che i sensi possono dare, che cosa può essere il contenuto di questa vita in comune? Di questa vita in due? Il matrimonio non è che una verginità incipiente nel cristianesimo. Dio prende l’uomo com’è – non lo sforza. Sembra che tutto rimanga immutato e invece tutto muta. Con l’elevare a sacramento, col riportare alla santità primitiva questo istituto, Gesù toglie l’uomo a una pura natura, lo strappa a un abbandonarsi alla propria natura, lo spinge in un cammino che lo porta a questo superamento, onde egli possa domani superare ogni segno per vivere la sua unione con Dio pura, immediata, diretta. Quando è questo domani? Dopo la morte per tutti, avanti la morte per alcuni che già vivono nella vita presente la vita stessa del cielo in una certa anticipazione 30


profetica. Certo, questa anticipazione profetica implica per sé un’ascesi ancor più dura di quella del matrimonio, perché l’uomo rimane un uomo di terra, legato alla condizione terrestre, implica cioè una morte: non per nulla la verginità nei Padri viene paragonata alla morte. È una morte vissuta. Effettivamente non si può vivere la vita del cielo che oltre la morte. Se tu l’anticipi quaggiù questa vita celeste, non l’anticipi che in una continua morte, non l’anticipi che vivendo una tua estraneità continua al mondo, pur essendo nel mondo, che vivendo una continua rinunzia a tutte quelle che sono le condizioni proprie di un uomo che vive quaggiù. Per viverla, questa anticipazione, bisogna che continuamente ti sradichi e rimanga uno sradicato; ma, in fondo, già il matrimonio ti sradica, perché ti ordina ad altro: esso è sacramento, un segno. Il matrimonio non ha altro significato – sia quello di Adamo ed Eva all’inizio, come quello che Dio santifica con Cristo – non ha altro contenuto che di essere il segno sensibile dell’alleanza dell’uomo con Dio. In ogni matrimonio cristiano questa è la res significata: non un simbolo che rimanda ad altro, ma la realtà vera – sacramentum. Un unico cammino che termina per tutti nella verginità Come siamo ancora lontani dal capire tutto questo! Si pensa soltanto a una santificazione di un istituto naturale. Ma che cosa vuol dire santificazione di un istituto naturale? La natura non è santificata che in quanto è trascesa. Se Dio riconsacra tutta la creazione – come si vede in questa fase ultima della vita di Gesù – questa santificazione della creazione è possibile soltanto in quanto la creazione non è più chiusa alla grazia, non più ha una sua autosufficienza per la quale si difende contro Dio, ma in quanto essa diviene il puro segno di una rivelazione divina, di una divina presenza. Ed ecco la grande pagina, allora, della lettera di san Paolo agli Efesini: l’uomo che ama la sposa è Cristo che ama la Chie31


sa, la donna che ama lo sposo è la Chiesa che ama il Cristo (Ef 5, 32). Non vi è altro contenuto. «Dove due sono insieme in mio nome, io sono in mezzo a loro». Gli sposi non vivono più che questa unità, l’unità dell’anima con Dio nel Cristo, l’unità di Dio con l’anima in Cristo. Di Dio con l’anima – lo sposo con la sposa; dell’anima con Dio – la sposa con lo sposo. Null’altro. La grazia non ti radica nella natura; la grazia non santifica la natura per lasciarla com’è: la eleva, ma per elevarla la strappa a sé stessa, la solleva oltre sé. ll matrimonio, sì, è un cammino di ascesa: è un cammino verso la verginità. Non vi sono due vie. È sbagliata la concezione di due vie per giungere alla salvezza. Non vi è che un cammino e il cammino termina per tutti gli uomini nella verginità, perché nel mondo futuro «né si sposano né si sposeranno, ma saranno come gli angeli di Dio» (cfr. Mt 22,30) – anche chi è stato sposo, anche chi è stata sposa; e per molti tutto questo avviene anche prima della morte. Tutto è cammino verso la verginità. Nella verginità è veramente l’adempimento dell’era messianica, cioè l’alleanza dell’uomo con Dio: pura, semplice, assoluta, immediata, sempre. Non l’unione di una creatura con un’altra creatura: nel mondo futuro non c’è questa unione. Noi saremo legati fra noi attraverso Dio, ma l’unione che l’anima vive è con Lui. Ed è in Lui e per Lui che saremo uniti a tutte le cose, che la nostra comunione sarà universale. È in Lui che troveremo quell’amore che ci renderà veramente possibile una comunione fraterna e una comunione cosmica col tutto.

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