Vivere vicino ai tigli

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AJAR VIVERE VICINO AI TIGLI Romanzo



AJAR

Vivere vicino ai tigli di Esther Montandon Romanzo

traduzione di Enrico Monti in collaborazione con Irene Amodeo, Anita Elisse, Chiara Froldi, Greta Gabrieli, Roberta Grillo, Inès Kieffer, Marta Nicolosi, Camilla Predieri, Elisabetta Sabattini, Chiara Zanderigo, Khalil Zantou

Società

Editrice Fiorentina


Con il sostegno dell’Institut de recherche en Langues et Littératures Européennes dell’Université de Haute-Alsace (ILLE UR 4363)

Vivre près des tilleuls © 2016 Flammarion, Paris © 2021 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice instagram account @sef_editrice isbn 978-88-6032-585-3 ebook isbn 978-88-6032-596-9 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Immagine di copertina Claire NICOLE, estampe japonaise 10/14, 2010. Bois de tilleul gravé sur Bonkoshi, 90x64,5cm, unique (per gentile concessione) Copertina a cura di Studio Grafico Norfini (Firenze)


Paola Codazzi

Un personaggio, molti autori

«Ancora una volta nella mia solitudine! A forza di trovarmici male, riesco a trovarmici bene; da qui a molto tempo non chiedo nient’altro». Flaubert è l’esempio per eccellenza dello scrittore che non si affida all’ispirazione del momento, per il quale la prima versione non è mai quella definitiva. È l’artista per cui l’opera è più importante della vita: essa richiede sacrificio, impegno, mesi di lavoro nel più completo isolamento, con la corrispondenza – da cui è tratta la citazione precedente – quale unico contatto con il mondo. La sua solitudine è sia una scelta sofferta, nata dall’esigenza di fuggire una società di cui non si condividono i valori, sia una necessità interiore, e per questo ricercata e rivendicata con orgoglio. Un atteggiamento che i fratelli Goncourt, suoi contemporanei, non potevano fino in fondo capire, intendendo la scrittura in modo molto diverso, ovvero come dialogo, scambio, incontro. Sebbene non siano stati i primi, il loro nome è quello che oggi più spesso viene evocato quando si parla di opere realizzate a quattro mani. Al di là dei loro romanzi, è il Diario che incuriosisce e affascina, perché scardina le regole del genere, tradizionalmente espressione del singolo. Con i v


Goncourt, la scrittura dell’io diventa scrittura del noi. Nella coppia le combinazioni possono essere diverse. Tra gli autori può esserci un legame di parentela – si veda il caso appena citato – o anche di semplice amicizia, come per i due alsaziani Émile Erckmann e Alexandre Chatrian. Amicizia che si è rotta proprio a causa di tensioni riguardo i ruoli rispettivamente occupati e la conseguente divisione dei meriti. Delle questioni che, alle soglie del XX secolo, sono di grande attualità. È ben noto il caso di Henry Gauthier-Villars, che ha pubblicato con il proprio soprannome, Willy, i primi romanzi della moglie Colette. Quest’ultima, dopo il divorzio e il raggiungimento di una solida notorietà, ha accusato il marito di aver sfruttato il suo talento, alterando i testi in questione senza il suo consenso, accusa estesa anche ad alcuni libri usciti a firma di “Colette Willy”. Tra realtà dei fatti e mito letterario, la vicenda spinge a interrogarsi sulle forme e i modi della collaborazione, sull’equilibrio su cui essa riposa. E cosa succede quando le mani non sono più quattro ma molte di più? Si pensi al Surrealismo e agli altri movimenti di avanguardia, per i cui membri lo scrivere “insieme”, nelle sue diverse declinazioni, riveste un’importanza fondamentale. Ricordiamo qui il celebre cadavre exquis, che prevede che ogni partecipante scriva un pezzo di frase su un foglio, ignorando ciò che è già stato scritto dagli altri. Sempre in Francia, quarant’anni dopo, si afferma sulla scena letteraria l’Oulipo (Ouvroir de littérature povi


tentielle), gruppo animato da una solida volontà di confronto, il cui funzionamento interno è basato su una totale condivisione delle scelte. È a queste esperienze che si richiama, anche se in maniera indiretta, l’AJAR, associazione creata nel 2012 da una ventina di giovani autori svizzeri francofoni. Nell’anno della loro nascita, non a caso, si sono cimentati nella realizzazione di una serie di cartoline riportanti sul dorso delle “definizioni squisite”, a imitazione dei loro illustri predecessori. Ma il nome che si sono dati invita a guardare anche in un’altra direzione. AJAR è un acronimo – Association de Jeunes Auteur.e.s Romand.e.s – e al contempo un chiaro omaggio alla geniale personalità dell’autore della Vita davanti a sé, ovvero Romain Gary/Émile Ajar. Questo suggerisce un desiderio di riflettere sulla nozione d’autore per scuoterla nelle sue radici, frammentarla e poi ricomporla in infinite varianti. Più in generale, appare evidente un certo gusto per la contraddizione, il paradosso, che si traduce nel non credere all’idea di collettivo pur essendone uno. È quanto si può leggere sulla pagina web dell’AJAR, la cui produzione artistica – non solo scrittura, ma anche performance, lettura collettiva, improvvisazione – si intreccia con una riflessione teorica e programmatica in forma di manifesto. Qui troviamo anche la lista dei membri del gruppo, affini per età e provenienza geografica. La questione dell’identità, being Ajar, per riprendere il titolo di una raccolta di testi pubblicata nel 2014, si declina su almeno due livelli. Consideranvii


do la letteratura non solo come una missione, ma come una professione, si tratta di far sentire una nuova voce, quella di una generazione di scrittori in cerca di affermazione e, più in generale, quella di una letteratura svizzera francofona in equilibrio tra tradizione e innovazione. Oltre a Romain Gary, vanno menzionate almeno altre due figure di spicco del Novecento, Nicolas Bouvier e S. Corinna Bille, originari di Ginevra e Losanna. Senza dimenticare Blaise Cendrars, cui il gruppo ha dedicato la realizzazione di un testo a tema ferroviario scritto su carta ripiegata a fisarmonica, come la celebre Prosa della Transiberiana. A partire da queste considerazioni, non vi sono molti dubbi sul fatto che l’AJAR sia un “hapax” nel paesaggio letterario elvetico, come ha scritto il settimanale L’Hebdo. Lo è diventato sapendo sfruttare al massimo le risorse che Internet ha offerto per alimentare le dinamiche tra autori e ridisegnare le regole della scrittura a più mani. La loro produzione evolve rapidamente, attraverso il ricorso a diversi generi e tecniche, come dimostra la recente creazione dell’opera teatrale N-O-U-X (2019). Al pubblico italiano non può sfuggire il possibile paragone tra questa esperienza e quella del collettivo Wu Ming, attivo a partire dai primi anni duemila. In comune hanno soprattutto il fatto di «non essere mai al completo», per citare il programma dell’AJAR. Entrambi i gruppi si espandono, vivono di collaborazioni letterarie ed extra-letterarie, e sono aperti, il che significa che i loro membri si costruiscono, individualmente o in compagini più ridotte, la propria viii


carriera letteraria. Aude Seigne, Bruno Pellegrino e Daniel Vuataz lavorano alla serie a puntate Stand-by, che aspira a far incontrare un genere letterario di ieri (il feuilleton) con la cultura pop di oggi, quella delle serie-tv americane. Ciascuno di loro ha all’attivo almeno un libro che ne ha fatto conoscere il nome nel mondo francofono. Tutti e tre hanno partecipato, con più di quindici altri autori, all’elaborazione di quello che è, a oggi, il solo romanzo dell’AJAR, Vivre près des tilleuls, la cui pubblicazione per la casa editrice francese Flammarion, nel 2016, è stata accolta come un evento. Un aspetto su cui è giusto mettere l’accento, soprattutto in un caso come questo, dove l’autore è uno e tanti, dove l’opera nasce dopo la creazione del personaggio principale, che è anche colui che dovrebbe averla scritta. Per capire bene il senso di queste parole è però necessario fare un passo indietro. Nel 2014, l’AJAR partecipa al festival Québec en toutes lettres con un progetto alquanto singolare: l’idea è di raccontare, attraverso una mostra, del successo ottenuto in Svizzera con la pubblicazione, a nome del collettivo, di un romanzo inedito della scrittrice francofona Esther Montandon. Niente di più falso, ovviamente, un gioco di pura fantasia. Solo alla fine del festival l’AJAR avrebbe confessato la verità, ovvero che non solo il libro in questione non è mai esistito, ma che Esther Montandon stessa è una loro invenzione. Stabilito questo piano, si tratta di fare quanto necessario per rendere la storia credibile. I membri del gruppo non perdono tempo: inventano una biografia dell’autriix


ce, una lista di opere da lei scritte, producono false recensioni di quest’ultime. Su Internet, compare una pagina Wikipedia completa. Non basta, però, il pubblico non si lascia ingannare con così poco. Resta allora una sola soluzione: scrivere davvero il romanzo inedito di Esther Montandon. Ed è così che nasce Vivre près des tilleuls, frutto di un’intensa notte di lavoro in campagna prima della partenza per il Québec. L’episodio è descritto in dettaglio nella postfazione del libro, che racconta del silenzio che ha preceduto il momento in cui ciascuno ha cominciato a muovere le dita sul proprio computer, di come in quelle poche ore è diventato evidente che «la finzione non è assolutamente il contrario della realtà». Si può comprendere facilmente come questa vicenda abbia suscitato la curiosità della critica giornalistica, tanto da distogliere parzialmente l’attenzione dal libro stesso. Anche perché, contrariamente al progetto iniziale, è stato solo con la pubblicazione presso Flammarion che l’arcano è stato svelato, e l’AJAR, prendendosi la copertina, ha assunto apertamente il proprio ruolo. Conoscere le particolari condizioni di elaborazione dell’opera, l’inganno che ne fonda l’esistenza, sono i presupposti essenziali di una lettura consapevole. Si deve però poi passare al testo, apprezzarne la scrittura perfettamente misurata, equilibrata, in cui ogni parola evoca con precisione le emozioni della protagonista, facendo sentire il peso del suo dolore senza mai perdere in delicatezza. Il “romanzo ritrovato” di Esther Montandon è un lamento per la morte della figlia, evento che x


ha lasciato la scrittrice senza parole per dieci anni. Unica traccia di questo lungo periodo, una manciata di pagine, rimaste per caso in una cartella insieme a delle vecchie fatture, prima che il curatore dei suoi archivi le trovasse, decidesse di metterle in ordine e poi di darle alle stampe, così che anche noi potessimo leggerle. In Vivre près des tilleuls, Esther ci parla, racconta la sua sofferenza, l’impossibilità di superare la tragedia e al contempo la forza con cui il quotidiano ci invade, riprendendosi i propri diritti. L’espediente dei fogli sparsi è portato all’estremo: la loro lunghezza è ineguale, qualche parola risulta illeggibile, degli strappi testimoniano del lavoro di autocensura compiuto dalla stessa Esther. Il concatenarsi di queste brevi sequenze mostra come il dramma raccontato sia al contempo quello di una madre e di una scrittrice, che con la morte di Louise ha perso una parte di sé. Sottratti all’oblio per uno strano caso del destino, i piccoli quadri di vita che compongono il romanzo trascinano il lettore nella casa della protagonista, centro del suo mondo, fin dentro la sua anima. Esther è talmente reale che la domanda che si pone il curatore appare più che legittima: sarebbe stata contenta di vedere queste pagine pubblicate, e in questo ordine, con questa forma? Certo è che puntare su un’estetica del frammento è funzionale a mascherare gli eventuali scarti di una scrittura a più mani. La coerenza stilistica è uno scoglio non sempre facile da superare per un gruppo, sia che si lavori in sincronia o, per così dire, “a staffetta”. Può capitare infatti che alla lettura emergano xi


contraddittorietà, ripetizioni, o altri possibili indizi della genesi plurale del testo. Nessun meccanismo è perfetto, ma si può dire che l’AJAR sia riuscito, attraverso un lavoro attento e preciso, che è durato certamente più di una notte, nel trovare un’espressione vera, sincera, ai sentimenti d’Esther. Questa ricerca di autenticità emerge anche nella traduzione qui presentata, traduzione che non poteva che essere collettiva. Essa è il frutto del lavoro di un gruppo di studenti appartenenti a un programma di eccellenza binazionale che coinvolge l’Université de Haute-Alsace (Mulhouse) e l’Università di Bologna. Durante il loro semestre di mobilità in Francia, dieci studenti italofoni, insieme a una collega francofona, si sono cimentati in un progetto che a tratti è diventato una vera impresa, considerando quanto l’anno 2020 ci ha costretto a ripensare le modalità di incontro e di scambio. Perché di questo si è trattato soprattutto, di discutere le diverse interpretazioni, di prendere decisioni senza focalizzarsi sul “chi ha fatto cosa”, in vista di un risultato in cui tutti si possano riconoscere. Per raggiungerlo con successo, fondamentale è stata la guida di Enrico Monti, docente dell’Université de Haute-Alsace, traduttore ed esperto di traduzione, soprattutto nella sua dimensione collaborativa. A lui è spettato il compito di dirigere e coordinare gli sforzi, nonché di assicurare la coerenza del prodotto finale. La sua qualità sorprende e spinge a ripensare non solo l’immagine dello scrittore tradizionalmente chino nel silenzio al suo tavolo di lavoro, immagine che, come abbiamo xii


visto, è in gran parte superata, ma anche a riflettere, per citare Jérôme Meizoz, sulla postura del traduttore, che non si riduce al mero rapporto con il testo. Il romanzo prova come la letteratura «liberata dal suo predicato più tenace» – «scriverai da solo», afferma l’AJAR, «tradurrai da solo», aggiungiamo noi – «conserva un potere che ci supera».

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Enrico Monti

Riscrivere al plurale

L’idea di tradurre collettivamente l’opera dell’AJAR è nata sulla scia degli studi di letteratura svizzera nel nostro ateneo, l’Université de Haute-Alsace, a Mulhouse. Alle colleghe della sezione di italiano e agli incontri annuali del ciclo di letteratura svizzera devo la scoperta di questo romanzo. Al romanzo e alla sua lettura devo l’emozione che ha innescato la pulsione traduttiva. E l’origine plurale del romanzo ha suggerito, fin da subito, l’idea di tradurlo a più mani. L’occasione si è presentata grazie alla presenza a Mulhouse di una decina di studenti italiani dell’Università di Bologna, nell’ambito di un programma di scambio di doppio diploma di laurea in Culture letterarie europee. Il pubblico ideale con cui tentare un progetto del genere, approfittando di un corso annuale di traduzione da e verso il francese e della dinamica particolarmente positiva che si era innescata fin dai primi corsi con il gruppo. Il seminario di traduzione con pubblicazione del risultato è una pratica non nuova nei corsi universitari di traduzione, ma in questo caso il progetto aveva la particolarità di riprodurre in un certo senso le condizioni di produzione, insolite, dell’opera xv


iniziale. Alla ventina di membri dell’AJAR abbiamo affiancato i dieci studenti della nostra laurea triennale, per una riscrittura nel segno della pluralità. Gli studenti erano di madrelingua italiana per la stragrande maggioranza, con una sola studentessa francese, essenziale per la dinamica della traduzione e per cogliere al meglio le sfumature del testo. Tutto il gruppo era aperto al francese come lingua di lavoro (e di vita, per qualche mese) e immerso in quella stessa cultura plurilingue che è propria all’AJAR e alla Svizzera, a pochi chilometri di distanza da noi a Mulhouse. Diversamente da loro, la genesi della traduzione non è avvenuta in una notte di lavoro, ma bensì in un semestre scandito da incontri settimanali di due ore per discutere le scelte fatte e le difficoltà incontrate. Il progetto è stato lanciato alla fine del primo semestre, quando gli studenti hanno ricevuto il testo in lettura. Quindi, alla ripresa dei corsi, abbiamo tradotto tutti, indipendentemente gli uni dagli altri, l’incipit del romanzo, giungendo a una versione più o meno condivisa, che ci ha permesso di gettare le basi per il lavoro a venire. Per il resto del romanzo abbiamo optato per una divisione del lavoro con riletture incrociate, discussioni di gruppo e rilettura finale da parte del coordinatore. Per farlo ci siamo appoggiati su un software di traduzione assistita (Memsource), che ci ha permesso essenzialmente di facilitare la gestione e la divisione del lavoro. Nella mia funzione di coordinatore, attribuivo ogni capitolo a un traduttore e quindi a un revisore diverso, xvi


incrociando ogni volta i ruoli in modo da non creare “coppie” fisse di traduzione-revisione. Il programma utilizzato permetteva di annotare il testo e di registrare automaticamente nella memoria di traduzione ogni frase tradotta, per quanto quest’ultima funzione non si sia avverata particolarmente utile nel caso specifico. Utili sono state però le possibilità di collaborazione efficace a distanza nella seconda fase del lavoro. Un’ultima tappa del flusso di lavoro è consistita nella rilettura e uniformazione dell’insieme. Il fulcro del lavoro risiede nelle ore di discussione sulle difficoltà incontrate dai partecipanti al seminario nella fase di traduzione o revisione della traduzione. Discussioni su toponimi, titoli di romanzi immaginari, stridii, assonanze, che hanno riempito i seminari in presenza nelle aule dell’università, per poi trasferirsi, con l’arrivo dell’epidemia e del lockdown, nelle stanze virtuali delle videoconferenze, creando piccoli spazi di ritrovo nelle giornate di clausura di una primavera assolutamente inedita. La difficoltà maggiore è stata forse quella di staccarsi dal francese, che sentivamo sempre più nostro nel contesto particolare di questa riscrittura, per riscrivere in italiano il dramma, l’amore, la precisione, l’emozione dei frammenti epurati e scarni di Esther Montandon. E ridare una voce unica e forte alla tragedia, senza nome nelle due lingue, di chi sopravvive a un figlio. Al di là di tutto questo, resta la traccia di una bella esperienza umana e di un lavoro collettivo e appassionato intorno alla riscrittura di un testo che ci ha profondamente emozionato. Un ringraziamenxvii


to particolare va a tutti gli studenti per aver esaltato, con le loro diverse sensibilità, la pluralità del testo e per aver saputo mantenere viva la pulsione traduttiva anche durante le settimane di isolamento, senza cedere al disimpegno nella pratica collettiva o alla tentazione della solitudine.

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Vivere vicino ai tigli



Premessa

Quando Esther Montandon mi ha lasciato la responsabilità dei suoi archivi, nel 1997, mi sono trovato di fronte a un cumulo di documenti sparsi: cartoline, documenti amministrativi, lettere, ritagli di giornale... A cui occorre aggiungere il retaggio solito di tutti gli scrittori, su cui gongola la ricerca: appunti sparsi, pagine dattiloscritte con o senza annotazioni autografe e tre taccuini. Riconoscente di questa prova di fiducia, mi sono lanciato nell’impresa con un entusiasmo che non ha smesso di calare di fronte alla vastità del lavoro. Nonostante la morte dell’autrice, l’anno seguente, abbia ravvivato per un po’ l’interesse del pubblico verso i suoi scritti, la sua opera è a poco a poco caduta nell’oblio. Questa produzione impegnativa è stata talvolta considerata troppo esigua: Esther Montandon ha pubblicato in tutta la sua vita solo quattro libri. Del resto la si riduce spesso al solo Piano nel buio (1953), il primo e il più celebre dei suoi testi. Così facendo si sottovalutano le ricchezze che si celano dietro le altre tre opere. Basta rileggere Il braccio di ferro (1959), ritratto acido e giubilante di una Svizzera in bilico fra tradizione e modernità, o Tre grandi scimmie 3


(1970), racconti in cui l’autrice rivendica il suo impegno femminista ritraendo senza compromessi una società patriarcale. Infine il fascio dei suoi ricordi d’infanzia, splendidamente intrecciati nei frammenti di Spille da balia (1980), offre in uno stile essenziale uno spaccato poetico e documentario del Ruanda e della Svizzera degli anni Trenta. Al di là di questo, non resta nulla. Il fondo Esther-Montandon contiene solo il materiale relativo alla sua attività a partire dai primi anni Sessanta. Tutto ciò che precede – quaderni, bozze, manoscritti, progetti in corso, come attesta la sua corrispondenza – è scomparso nell’autodafé che l’autrice ha compiuto in seguito alla morte accidentale di sua figlia Louise, il 3 aprile 1960. Di questa tragedia, che inaugura dieci anni di silenzio editoriale nella sua vita, non si trova traccia né in Tre grandi scimmie, né in Spille da balia. Esther Montandon non ha mai scritto della perdita di sua figlia. O almeno questo è quanto si è creduto a lungo. Come descrivere dunque la mia emozione quando una mattina dell’inverno del 2013, mettendo ordine nelle scatole che mi aveva affidato, scopro una cartella etichettata “fatture” – cartella che ho dovuto maneggiare almeno venti volte senza mai aprirla – contenente un piccolo fascicolo manoscritto. Ed è tutto lì, miracolosamente conservato. Non si tratta di un romanzo, nemmeno di un libro finito, ma di una raccolta di impressioni, fatti, pensieri e ricordi. Una piccola sociologia del lutto. Si potrà criticare la sopravvivenza di questo mano4


scritto. Esther Montandon voleva che mettessimo le mani su questi scritti intimi? In ogni caso, l’analisi dei frammenti mostra che la redazione è probabilmente avvenuta tra l’inizio del 1956 (Louise è nata il 4 ottobre) e i due anni successivi alla sua morte, occorsa il 3 aprile 1960. Siccome i fogli non erano numerati o datati, sono stati distribuiti per la presente edizione in un ordine pensato per facilitarne la lettura. Come di norma, ogni menzione tra parentesi quadra non è dell’autrice. In Vivere vicino ai tigli – il titolo non è stato scelto da Esther Montandon ma viene da un frammento chiave – la narrazione oscilla tra passato e presente, senza che sia possibile stabilire con certezza quali episodi siano stati scritti sul momento e quali a posteriori. Poco importa la precisione della cronologia. Esther sembra del resto attraversare quei momenti come a tastoni tra la nebbia, aprendosi un varco in mezzo a un dedalo di riflessioni personali e di esigenze sociali. C’è forse un modo di accogliere qualcos’altro che non sia il proprio io in una perdita così irreparabile? I rapporti di Esther con Jacques, suo marito, già contrassegnati dalla difficoltà di avere un bambino, saranno minati dal dramma. Eppure, nonostante le divergenze (la coppia si separa negli anni Settanta), il divorzio non sarà mai pronunciato. Il rispetto ha preso il posto dell’amore. All’autrice non è stato risparmiato nulla. Non si deve però per questo trarre la conclusione che la gioia sia assente da queste pagine. Fedele a lei stes5


sa e nonostante la ferita, Esther Montandon modula con pazienza, e ostinazione, un dolore che è soltanto suo. Decisamente tragico e eternamente felice, trasfigurato nella scrittura, il ricordo di Louise s’iscrive ormai a pieno titolo nella letteratura. Vincent König Depositario degli archivi Esther Montandon

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Indice

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Paola Codazzi Un personaggio, molti autori

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Enrico Monti Riscrivere al plurale

Vivere vicino ai tigli

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