Musei di Anatomia Patologica "Andrea Vesalio"

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MUSEO DI ANATOMIA PATOLOGICA “Andrea Vesalio”



MUSEO DI ANATOMIA PATOLOGICA “Andrea Vesalio”


SCUOLA GRANDE DI SAN MARCO


Il Museo è stato progettato, nella nuova sede dell’ex-Scuola di Santa Maria della Pace, e restaurato dall’equipe del Dipartimento di Pianificazione dell’Azienda Ulss 12 Veneziana, condotta da Mario Po’, e da Ezio Fulcheri, Barbara Cafferata e Luca Pellegrino delle Università di Genova e Torino. Commissione scientifica del Museo di Anatomia patologica: Dr. Pietro Maria Donisi | DIRETTORE DI ANATOMIA PATOLOGICA DELL’OSPEDALE SS. GIOVANNI E PAOLO DI VENEZIA Prof. Ezio Fulcheri | PROFESSORE ASSOCIATO DI ANATOMIA PATOLOGICA DIPARTIMENTO DISC, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA, PROFESSORE INCARICATO DI PALEOPATOLOGIA, DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA E BIOLOGIA DEI SISTEMI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

Dr. Giovanni Capitanio | MEDICO SPECIALISTA DI ANATOMIA PATOLOGICA DELL’OSPEDALE SS. GIOVANNI E PAOLO DI VENEZIA, PROFESSORE A CONTRATTO DI ANATOMIA UMANA NORMALE DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA Prof. Rosa Boano | RICERCATORE IN ANTROPOLOGIA FISICA, DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA E BIOLOGIA DEI SISTEMI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

Dr. Luca Pellegrino | LAUREATO IN SCIENZE NATURALI, FREQUENTATORE DEL LABORATORIO DI ANTROPOLOGIA MORFOLOGICA DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA VITA E BIOLOGIA DEI SISTEMI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO

Dr. Barbara Cafferata | MEDICO CHIRURGO, FREQUENTATORE SEZIONE DI ANATOMIA PATOLOGICA, DIPARTIMENTO DISC, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA



Presentazione Il Museo di Anatomia Patologica dell’Ospedale Ss. Giovanni e Paolo, dopo un’importante restauro della sua raccolta curata dal team del prof. Ezio Fulcheri dell’Università di Genova, entrando a far parte del patrimonio storico della Scuola Grande di San Marco, arricchisce in modo coerente la sua già importante offerta scientifica e culturale. La raccolta del Museo è strettamente legata alla storia della medicina veneziana e, particolarmente, alla dedizione documentaristica di alcuni valenti specialisti dell’Ospedale Civile, come si apprende anche dalla serie completa dei registri autoptici e dei prelievi anatomici. Tra questi specialisti eccelle Giuseppe Jona, che con la sua statura morale e la sua figura di medico e studioso di anatomia ha connotato per alcuni decenni l’attività ospedaliera nella prima parte del secolo scorso. Si accede al Museo, dedicato ad Andrea Vesalio, fondatore dell’anatomia e partecipe della medicina veneziana, dal portale inferiore della maestosa facciata della Scuola Grande di San Marco. In realtà, sino al 1806 da qui si accedeva alla sede di un’altra Scuola, quella di Santa Maria della Pace, chiamata a custodire l’icona della Vergine dipinta, secondo la tradizione, dall’evangelista Luca. Prima di essere immessi nel locale del Museo, si attraversa la Farmacia Storica, che è un’altra preziosa testimonianza che si era dispersa nel tempo e che è stata qui riportata nel suo allestimento ottocentesco. Abbiamo così costituito a Venezia un organico e raro sistema di conoscenza sanitaria formato, nel compendio della Scuola di San Marco, da due Musei (quello degli strumenti chirurgici e quello di anatomia patologica), la Biblioteca scientifica e di tavole anatomiche, l’Archivio dei documenti degli antichi ospedali veneziani dal 1190, la Farmacia Storica, la soluzione digitale virtuale delle raccolte culturali costituenti un’innovativa applicazione di eMuseum. È un tesoro culturale che ha al suo centro l’amore per la persona, che abbiamo ereditato dalla antica Regola della Scuola Grande di San Marco e che, in tutta la sua attualità etica e civile, è anche l’orientamento ispirativo per questa realizzazione. IL DIRETTORE GENERALE

Dott. Giuseppe Dal Ben


1. Metodi di preparazione 2. Una figura esemplare di patologo: la storia di Jona 3. Calcoli e concrezioni Patologia cardiaca 4. Etilismo e cirrosi Patologia cardiaca

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Patologia polmonare La tubercolosi Femori, traumi, infezioni dell’osso Collezione di calvariae Preparazione anatomica in tassidermia


PRESENTAZIONE DEL MUSEO DI ANATOMIA PATOLOGICA Ospedale Ss. Giovanni e Paolo di Venezia I.

Introduzione • L’Anatomia Umana Normale a Venezia • L’Anatomia Patologica a Venezia • I musei di Anatomia Patologica, glorie passate e valorizzazione attuale • I musei di Anatomia Patologica come fonte di materiale di comparazione per la Paleopatologia.

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II. Il Museo di Anatomia Patologica della Scuola Grande di San Marco a Venezia

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III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia tra i percorsi museali della Cattedra Unesco “Antropologia della salute - biosfera e sistemi di cura”

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IV. Il percorso museale 1. Le vetrine con preparati anatomici in liquido di dimora • Caratteristiche e storia dei liquidi di dimora • Le vetrine: memorie scientifiche legate all’arte del vetro a Venezia I. Vetrina 1: Le collezioni del Museo, varie tipologie di preparazioni II. Vetrina 2: Una figura esemplare di patologo: La storia di Jona III. Vetrina 3: Esempi di patologia tematica e didattica – Calcoli e concrezioni della colecisti – Calcoli e concrezioni delle vie urinarie – Patologia cardiaca neoplastica, ischemica IV. Vetrina 4: Esempi di patologia tematica e didattica – L’etilismo e la cirrosi epatica – Patologia cardiaca infettiva V. Vetrina 5: Patologia polmonare – Il polmone dei soffiatori di vetro e i tumori polmonari VI. Vetrina 6: La tubercolosi

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2. Le vetrine con preparati a secco • Le preparazioni delle calotte craniche • Le preparazioni di osso disseccato I. Vetrina 7 – Esempi di patologia ossea infettiva e traumatica – I femori e l’antropologia fisica II. Vetrina 8: La collezione di calvaria

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3. La teca 9 con preparazione anatomica in tassidermia • Il caso clinico • La tecnica di preparazione in tassidermia

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MUSEO DI ANATOMIA PATOLOGICA Ospedale Ss. Giovanni e Paolo di Venezia

La fondazione del museo Nel 1871 venne stabilmente creato il posto di dissettore anatomico che fu ricoperto da Luigi Paganuzzi (1843-1902) che sviluppò e organizzò questo vitale e importante settore dell’ospedale. Nelle istruzioni interne per l’esecuzione del Regolamento Organico dell’Ospedale Civile Generale di Venezia del 1874, fra i compiti del dissettore, oltre alle autopsie e alla responsabilità della sala anatomica, era contemplato anche l’obbligo della conservazione di reperti anatomopatologici ritenuti interessanti in una specie di museo che veniva arricchito in continuazione di nuovi preparati “a secco o in alcole” opportunamente registrati e illustrati dalle osservazioni dei vari primari. Anatomopatologi direttori e primari dell’Ospedale di Venezia Paganuzzi Luigi Cavagnis Vittorio Jona Giuseppe Cagnetto Giovanni Franco Enrico Emilio Fabris Angiolo Nazari Giovanni Bortolozzi Menenio Giampalmo Antonio Ferrari Enrico Nadin Corrado Stracca Pansa Vincenzo Donisi Pietro Maria Consistenza delle raccolte Preparazioni in liquido di dimora Preparazioni osteologiche “scheletropea” Preparazioni anatomiche a secco La struttura museale Sezione espositiva: Deposito museale e laboratorio conservazione e restauro:

n°304 n°480 n°4

Castello 6777 Castello 6777


CONSERVATORE DEL MUSEO Dr. Pietro Maria Donisi

Direttore di Anatomia Patologica dell’Ospedale Ss. Giovanni e Paolo di Venezia

RESPONSABILI SCIENTIFICI Prof. Ezio Fulcheri

Dr. Giovanni Capitanio

Prof. Rosa Boano

Professore associato di Anatomia Patologica, Dipartimento DISC, Università degli Studi di Genova, Professore incaricato di Paleopatologia, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, Università degli Studi di Torino Medico specialista di Anatomia Patologica dell’Ospedale Ss. Giovanni e Paolo di Venezia, Professore a contratto di Anatomia Umana Normale dell’Università degli Studi di Padova Ricercatore in Antropologia Fisica, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, Università degli Studi di Torino

RICERCATORI DEL MUSEO Dr. Luca Pellegrino

Dr. Barbara Cafferata

Laureato in Scienze Naturali, Frequentatore del Laboratorio di Antropologia Morfologica del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, Università degli Studi di Torino Medico Chirurgo, Frequentatore Sezione di Anatomia Patologica, Dipartimento DISC, Università degli Studi di Genova



I. Introduzione

L’anatomia umana normale a Venezia Anche se l’anatomia si praticava “ab immemorabili” nel 1325 la serenissima Repubblica chiamava il Mondino o Raimondino Dei Liucci (Bologna 12701326) ad insegnare l’anatomia sezionando cadaveri, “sebbene il popolo aborrisse quasi rei di violata religione questi uomini coraggiosi che ad ogni costo volevano scrutare nelle fibre dei morti il grande problema della vita”. L’esercizio dell’anatomia si praticava in luoghi sacri come chiese, cappelle e conventi per la loro vicinanza ad un cimitero, per legittimare l’atto scientifico che violava la morte per cogliere i segreti della vita, e nei casi di malattie contagiose per adottare misure di protezione. Uno dei primi luminari della “Veneta Anatomia” fu Nicolò Massa, nato a Venezia nel 1485, che si addottorò nel collegio medico di Venezia. “Egli infatti fu il primo anche per il giudizio dell’Haller, che sezionando molti cadaveri, abbia estratto dal corpo umano il peritoneo intero e chiuso, e studiata la struttura e l’uso di quell'involucro de’ visceri addominali. Asserì essere le ossa assolutamente insensibili, e parlò delle papille renali, se non prima di Berengario certamente prima di Eustachio, come ne

prova Morgagni; descrisse il tramezzo dello scroto, e i muscoli piramidali avanti del Falloppio. Considerò pure la differente posizione che ha il ventricolo vuoto e pieno, nonché quella della vescica nelle medesime circostanze”. Diventando pubblico incisore nel collegio medico e chirurgico, fece una pubblica e solenne dissezione nel convento dei Padri Carmelitani e nel 1536 scrisse “liber introductionis anatomiae” stampato a Venezia. Nel 1537 venne a Venezia, invitato dal Senato, il fiammingo Andrea Vesalio (1514-1564). Conseguita la laurea in medicina subito dopo gli fu affidata la cattedra di Chirurgia con annesso l’incarco dell’insegnamento dell’anatomia contrariamente alla prassi affermata sin dal medioevo. Vesalio scende dalla cattedra e prende in mano il coltello per compiere lui stesso la dissezione, per vedere direttamente nei visceri e acquisire le sensazioni visive e tattili. A Venezia ebbe contatti con il mondo artistico, scientifico ed editoriale. Incontrò Jan Stephan van Calcar, suo connazionale ed allievo di Tiziano, con il quale pubblicò, nel 1538, Tabulae Anatomicae Sex, un gruppo di sei xilografie, le più grandi per formato tra quelle usate a Venezia per 11


I. Introduzione

un lavoro a stampa. Con Van Calcar e Tiziano, Vesalio elaborò a Venezia l’opera De humani corporis fabrica libri septem, pubblicata a Basilea nel 1543, opera innovativa non solo nel testo, ma soprattutto nelle immagini che lo illustravano, alta espressione di arte grafica, come veicolo di informazione. Mentre la Scuola Padovana emergeva sopra ogni altra per il succedersi di quei nomi gloriosi come Vesalio, Falloppio, Colombo e Acquapendente, a Venezia, una volta deceduto Nicolò Massa nel 1569, le pubbliche dissezioni si eseguirono sempre meno di frequente. Nel 1618 fu chiamato da Padova ad esercitare l’anatomia per un mese a Venezia il celebre Adriano Spigelio (1578-1625). Un altro grande Anatomico della serenissima è stato Giandomenico Santorini (1681-1737); quando Morgagni venne a Venezia dal 1707 al 1709, al suo maestro ed amico Valsalva scrisse: “sento le erudite lezioni anatomiche del signor Grandi Giuseppe, e le ostensioni di questo giovane ma diligente ed ingegnoso incisore il Signor dottor Santorini”. La descrizione dei muscoli della faccia, la scoperta delle cartilagini piramidali del laringe, delle vene comunicanti tra il pericranio e i seni cerebrali, e la descrizione

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della natura ghiandolare della prostata, lo pongono tra i grandi maestri dell’anatomia. Nell’anatomia patologica avrebbe certamente condiviso la gloria del Morgagni se la morte non lo avesse colpito nella piena maturità del suo genio. Morgagni che gli fu discepolo ed amico lo cita numerose volte nelle sue Adversaria anatomica, nelle sue Epistole e nell’opera monumentale De sedibus et de causis morborum. Dopo Santorini, l’anatomico Francesco Aglietti (1759-1836), nato a Brescia, ripromosse gli studi anatomopatologici e clinici sulle malattie delle arterie e fu l’ultimo professore di anatomia a Venezia. Dopo l’incendio dell’8 gennaio 1800, che distrusse il teatro anatomico, inaugurato l’11 febbraio 1671 in quel campiello che ancora oggi si chiama Corte dell’Anatomia, la parte teorica dello studio medico si concentrò nella vicina Università di Padova. Le ricerche continuarono però nell’Ospedale Civico istituito nel 1819. Qui Paolo Zannini con Aglietti, suo maestro dal 1804 al 1819, concentrò nella sala anatomica, allora “gretta e informe”, tutte le autopsie che potessero, o per morti improvvise o per altri motivi interessare le autorità.


I. Introduzione

L’anatomia patologica a Venezia Nel 1871 venne stabilmente creato il posto di dissettore anatomico che fu ricoperto da Luigi Paganuzzi (1843-1902) che sviluppò e organizzò questo vitale e importante settore dell’ospedale. Nel 1885, durante il settorato di Vittorio Cavagnis, venne costruita una nuova sala incisoria “ampia e bene illuminata” dove si praticavano dalle 800 alle 900 autopsie all’anno, e addirittura 1102 nel 1914 quando era direttore Giovanni Cagnetto. A Giuseppe Jona, grande esempio di medico e uomo, che divenne primario nel 1902, si deve l’ampliamento del Museo di Anatomia Patologica fino al 1912. Con Cagnetto un’altra tradizione si rinnovò, quella del passaggio di anatomo pa-

tologi di Venezia allo studio di Padova, così come in passato anatomici veneziani rinunciavano al seggio archiginnasiale per insegnare a Venezia. A Cagnetto seguirono Enrico Emilio Franco, Angiolo Fabris e Giovanni Nazari prima della seconda guerra mondiale, e successivamente Menenio Bortolozzi, Antonio Giampalmo, Enrico Ferrari e Corrado Nadin. Vincenzo Stracca Pansa ha contribuito a tener viva la tradizione scientifica e didattica del servizio di anatomia patologica dell’Ospedale Civile con le più aggiornate tecniche diagnostiche, continuando così ad onorare l’altissima fama che negli studi dell’anatomia ebbe Venezia.

I musei di anatomia patologica: glorie passate e valorizzazione attuale La museologia scientifica raccoglie e documenta la realtà per poter conservare e mostrare a fine divulgativo-didattico e di ricerca ciò che si studia nei libri di testo. L’oggetto di studio della medicina è l’uomo con le malattie che lo accompagnano durante la sua esistenza. Senza voler sminuire l’importanza dei senti-

menti che la malattia accompagnano, a scopo principalmente didattico, essendo l’uomo l’oggetto di studio, è stato necessario raccogliere ogni alterazione o anomalia patologica di esso. Da questa necessità sono sorti i musei di anatomia patologica dove i patologi raccoglievano e conservavano casi rari e didattici per aiu13


I. Introduzione

tare a comprendere la materia oggetto di studio. Se è nota la corrispondenza tra l’occhio umano e la camera fotografica può essere intuitivo il parallelo che ha portato nel tempo a sostituire l’oggetto, il reperto, con la immagine di esso. Questo processo risulta però riduttivo in quanto si perde la possibilità di allenare sensi diversi dalla vista sostituendo le percezioni con una mera ispezione fotografica. Prima dell’esistenza dei computer e delle simulazioni virtuali delle lesioni, l’unico modo che avevano gli studenti e gli specializzandi dell’area medica per capire a pieno l’espressione patofenica delle malattie era vederle e toccarle con mano. L’avvento delle nuove tecnologie e la possibilità di ottenere immagini perfette ha sovvertito le impostazioni museali. La riflessione sulle possibilità che offrono le nuove tecnologie spiega quindi perchè oggi i musei siano stati in parte abbandonati, se non addirittura distrutti per riutilizzare i locali. La spiegazione non è però una giustificazione: i musei di anatomia patologia testimoniano, al pari dei prodotti dell’uomo, le civiltà passate. Dipingono un’epoca, una realtà e aiutando a comprendere le malattie che accompagnavano l’uomo permettono di capire l’uomo stesso e l’ambiente 14

da cui è stato modificato o che lui stesso ha modificato. L’unicità di questi musei e dei reperti che li compongo è anche rappresentata dalla mancanza, ad oggi, di pratiche diagnostiche che continuino a conservare e tramandare i reperti. La ragione di ciò risiede nel declino delle autopsie che erano fonte di materiale e l’occasione per raccogliere i preparati esposti nei musei. Un tempo era naturale per il clinico effettuare, con il patologo, l’autopsia. Questa era vista come l’ultima visita al paziente, dove cercare la spiegazione di ciò che aveva palpato, auscultato e visto. Oggi i clinici spesso credono che gli esami laboratoristici e la diagnostica per immagini siano sufficienti per capire le patologie che affliggono i loro pazienti ritenendo le autopsie superate. La diagnostica macroscopica infine è stata soppiantata, dopo la seconda guerra mondiale, dalla microscopica e conseguentemente le tecniche e le procedure diagnostiche e terapeutiche sempre meno prevedono l’ispezione degli organi mentre frequentemente intervengono le biopsie mirate. Salvare il Museo, che è storia della cultura e della scienza al tempo stesso, è in definitiva un modo per raccontare la storia del pensiero dei patologi che lo costrui-


I. Introduzione

rono, capire un’epoca e offrirla in lettura non solo ai medici ma anche agli storici che verranno. È quindi in definitiva sal-

vaguardare un importante Bene Culturale del nostro Paese.

I musei di anatomia patologica come fonte di materiale di comparazione per la paleopatologia Le collezioni di anatomia patologica rivestono un ruolo centrale nella formazione dei futuri medici chirurghi. Cionondimeno, queste raccolte sono di grande stimolo anche per gli studiosi di una particolare branca condivisa della scienza medica e dell’antropologia fisica, una disciplina le cui origini si possono far risalire al 1774, con la descrizione di un tumore localizzato sul femore di un orso ad opera di Johann Friedrich Esper (1732-1781): la paleopatologia. Nel 1913 Sir Marc Armand Ruffer (18591917), eminente studioso di reperti umani egizi, definì la paleopatologia come “la scienza delle malattie delle quali può essere dimostrata l’esistenza sui resti umani e animali dei tempi antichi”. Decenni dopo, il patologo scozzese Andrew Tawse Sandison (1923-1982) affermerà: “non si può conoscere interamente una popolazione se non si tiene conto della malattie che l’afflissero”. La paleopatologia concorre dunque alla

ricostruzione delle antiche vicende umane, al pari di tutte le altre discipline scientifiche coinvolte in questo genere di ricerche (antropologia, etnologia, archeologia, storia, botanica, zoologia, chimica). L’indagine paleopatologica si basa prima di tutto sulla descrizione del reperto, sia esso scheletrico (nella gran parte dei casi il paleopatologo lavora su soggetti inumati scheletrizzati) o mummificato: tipicamente è assai arduo andare oltre, giacché spesso i resti umani antichi si presentano incompleti, alterati dalle condizioni chimiche, fisiche e biologiche dei luoghi in cui hanno dimorato per secoli. La diagnosi delle malattie, che i medici conducono valutando la storia clinica e personale del paziente (anamnesi), i sintomi e i segni della malattia (semeiotica), le indagini di laboratorio biomedico e la diagnostica anatomo-patologica, diventa una vera e propria sfida per chi si occupa dei resti degli uomini vissuti nelle epoche passate. I metodi di indagine, anche i più 15


I. Introduzione

raffinati e moderni della paleopatologia (analisi istologiche, ultrastrutturali e biochimiche), non consentiranno mai di pervenire a un inquadramento definitivo della lesione: il tempo procede implacabile, rimuovendo una traccia dopo l’altra. Una grande sventura, certamente, ma al tempo stesso uno stimolo per elaborare nuovi strumenti di ricerca. Un’ulteriore problematica è rappresentata dalle differenti manifestazioni assunte da una malattia nel corso dei secoli: per definire questo aspetto, nel 1962 il patologo genovese A. Giampalmo (1912-1998) utilizzò il termine di “patomorfosi”. È dunque lecito attendersi che nei secoli passati quella stessa malattia che oggi si presenta con sintomi e segni di un determinato tipo, ne abbia mostrati altri: ciò sulla base dei differenti approcci chirurgici e farmacologici (si pensi al ruolo rivoluzionario svolto dagli antibiotici), o delle diverse condizioni ambientali (alimentazione, condizioni igieniche ecc.). Si prenda come esempio l’osteomielite: oggigiorno, se diagnosticata in tempo utile può essere guarita e in ogni caso il suo decorso può essere attenuato, ma un tempo, tale patologia poteva modificare in maniera drammatica i distretti anatomici colpiti e portare a morte il paziente. 16

Il museo di anatomia patologica diventa allora un luogo privilegiato per chi si occupa dello studio dei segni lasciati dalle malattie sui reperti umani antichi: qui è possibile effettuare dei confronti fra reperti patologici provenienti da epoche diverse, supportati da diagnosi quasi sempre certe e ben documentate. Nei musei di anatomia patologica sono generalmente esposti reperti risalenti all’era pre-antibiotica o comunque privi di sostanziali modificazioni indotte dalle terapie: le lesioni che si riscontrano sono dunque molto simili a quelle di cui si occupa la paleopatologia e ciò può contribuire in maniera notevole allo studio della patomorfosi, di cui abbiamo parlato in precedenza. Va ricordato che non solo i reperti anatomici, ma anche i testi di anatomia patologica risalenti all’era pre-antibiotica, spesso dimenticati nelle biblioteche mediche e scarsamente valorizzati, costituiscono dei validissimi riferimenti per il paleopatologo. L’anatomia patologica e la paleopatologia sono discipline che si completano vicendevolmente. A entrambe spetta il dovere di tramandare alle future generazioni di ricercatori e curiosus naturae i beni scientifici e culturali che costituiscono il nucleo delle loro indagini.


II. Il Museo di Anatomia Patologica “Andrea Vesalio” della Scuola Grande di San Marco

Queste raccolte sono espressione di una consolidata tendenza che si radica e progredisce a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, vale a dire la tendenza a documentare le malattie e l’espressione patofenica di esse mediante i reperti anatomici abbandonando definitivamente le cere, i calchi e le preparazioni anatomiche specifiche ritenute appannaggio degli anatomici che devono dimostrare ed esemplificare e non documentare e portare evidenza di processi morbosi. Nel 1871 venne stabilmente creato il posto di dissettore anatomico che fu ricoperto da Luigi Paganuzzi (1843-1902) che sviluppò e organizzò questo vitale e importante settore dell’ospedale. Nelle istruzioni interne per l’esecuzione del Regolamento Organico dell’Ospedale Civile Generale di Venezia del 1874, fra i compiti del dissettore, oltre alle autopsie e alla responsabilità della sala anatomica, era contemplato anche l’obbligo della conservazione di reperti anatomopatologici ritenuti interessanti in una specie di museo che veniva arricchito in continuazione di nuovi preparati “a secco o in alcole” opportunamente registrati e illustrati dalle osservazioni dei vari primari. Tutti i reparti contribuivano ad incrementare il museo, talvolta anche su espressa

sollecitazione dei Regolamenti come quello della Scuola di Ostetricia che imponeva al professore di raccogliere nel corso delle “sezioni cadaveriche... i pezzi patologici degni di osservazione onde arricchire il gabinetto patologico dello stabilimento”. Il museo anatomico continuò ad essere arricchito di reperti e preparati fino al 900 inoltrato, suscitando così il grande favore delle attività scientifiche e didattiche ad esso connesse. Sotto la direzione del primario Angiolo Fabris, già assistente di Cagnetto, il museo ebbe un importante sviluppo fra le varie attività dell’istituto. Fino agli anni ’70 il museo è stato curato ed ulteriormente arricchito di reperti e preparati in particolar modo dal professor Enrico Ferrari, primario e docente di anatomia patologica dal 1956 al 1980. Da allora fino al 1991 il museo è rimasto in un locale adiacente ai laboratori di anatomia del secondo piano della palazzina laboratori. Dal 1991 il museo è stato trasferito in una stanza a pian terreno nella palazzina laboratori e comprende 8 armadi in legno con vetrine che contengono all’incirca 300 pezzi anatomici risalenti al massimo ai primi decenni del Novecento, conservati in vasi di vetro. Erano inoltre presenti 17


II. Il Museo di Anatomia Patologica della Scuola Grande di San Marco a Venezia

diversi reperti osteologici e una raccolta di calcoli biliari e urinari anche di notevoli dimensioni, alcune preparazioni anatomiche di inizio secolo disseccate e colorate e una preparazione anatomica in tassidermia. Una parte dei reperti restaurati sono oggi collocati nella nuova sede museale dell’ex- Scuola di Santa Maria della Pace, nella parte storica dell’ospedale, mentre la maggior parte dei reperti sono conservati e catalogati in una sala denominata “deposito-laboratorio museale”. Il Museo di Anatomia Patologica si integra bene in un percorso espositivo completo e culturalmente articolato che collega i reperti con le teche della collezione del Museo di Storia della Medicina presenti nella Sala Capitolare della adiacente Scuola Grande di San Marco. Il Museo di Anatomia Patologica oggi, oltre a conservare materiale anatomico esemplificativo come strumento didattico per studenti e specializzandi, o per anatomopatologi appassionati e studiosi di malattie e patologie del passato, diventa uno strumento utile per gli studiosi di alcune discipline medico-biologiche, in particolare di paleopatologia, scienza che studia le malattie delle popolazioni antiche con riferimenti storici, etnici e geografici. Il paleopatologo si affianca 18

all’antropologo, all’etnologo, all’archeologo, al chimico, al geologo, al botanico, allo zoologo ed allo storico in uno studio multidisciplinare per concatenare tutti i dati ambientali, fisici, culturali, economici ed etnografici al fine di studiare globalmente una popolazione. I reperti anatomopatologici diventano importanti per valutare la patomorfosi, ossia studiare come variano nel tempo le malattie e il loro manifestarsi, ad esempio a causa delle modificazioni indotte dalla terapia antibiotica, oppure dalle diverse condizioni ambientali, tipo di vita, abitudini alimentari, oltre che da variazioni e mutazioni degli stessi agenti eziologici nel caso di malattie infettive o parassitarie. Il Museo di Anatomia Patologica può descrivere pertanto un ponte tra passato e futuro attraverso un percorso di continuità temporale e che diviene anche percorso della continuità biologica con lo studio del rapporto uomo-ambiente, in particolare nell’ecosistema lagunare. Il Museo di Anatomia diventa quindi “archivio biologico” e centro di cultura per ricerche mirate e specialistiche, e di conseguenza un bene culturale, intendendo con questo termine “tutto ciò che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà” e pertanto degno di essere salvaguardato.


III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia tra i percorsi museali della cattedra Unesco “Antropologia della salute – biosfera e sistemi di cura” La Cattedra UNESCO presso l’Università di Genova (Responsabile del progetto Prof Antonio Guerci) nasce da una esigenza culturale e da una realtà patrimoniale. L’esigenza culturale tiene conto delle tendenze contemporanee della ricerca di tipo interdisciplinare attorno al tema dei luoghi, delle forme e delle modalità di cura, dove appare un nesso tra le idee di salute, di ambiente e di medicina. Questo approccio supera la tradizionale separazione tra campi della conoscenza – scienza, cultura, natura – verso un sistema nuovo e integrato. Il concetto di salute e i metodi di cura non hanno valore universale: universale è invece la qualità scientifica dell’indagine. La realtà patrimoniale è il Museo di Etnomedicina A. Scarpa dell’Università degli Studi di Genova. Il Museo alimentato in 50 anni di ricerche nei 5 continenti, raccoglie oltre 1500 pezzi e rappresenta oggi un unicum nel panorama museale mondiale di questo genere. Alcuni ricercatori di differenti discipline hanno formato un gruppo di ricerca attorno al tema dei luoghi, delle forme e delle modalità di salute, cura e guarigione.

La Cattedra “Antropologia della salute – biosfera e sistemi di cura” persegue le seguenti finalità: 1. Conoscere, promuovere e proteggere i luoghi naturali e i sistemi culturali che consentono alle società tradizionali di perpetuarsi e di curare; 2. Proteggere la biosfera e l’etnosfera come laboratorio naturale dei rimedi e nozioni terapeutiche dei popoli indigeni; preservare i luoghi, gli spazi, le architetture e i paesaggi della guarigione intesi come ripristino armonico tra le comunità umane nell’ambiente di insediamento. 3. Fornire un luogo di incontro tra i saperi di culture tradizionali e le conoscenze scientifiche della medicina occidentale contemporanea, in un contesto di pari dignità e scientificamente documentabile. 4. Aprire una nuova modalità cognitiva al concetto di salute e di cura e al suo immaginario; ricercare le condizioni e i criteri necessari al mantenimento della salute, considerando etnomedicina, pianificazione spaziale e territoriale come aspetti della medesima attività. 5. Aprire la ricerca scientifica verso altre concezioni della realtà e dell’immaginario, riconoscendone identità e valore, generando un sapere multidi19


III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia tra i percorsi museali della cattedra Unesco “Antropologia della salute – biosfera e sistemi di cura”

sciplinare, culturale e cognitivo, ma unico nel linguaggio. 6. Mettere in rete i Musei Etnomedici ed Etnografici esistenti, i Musei di Science Naturali e i Giardini Botanici. 7. Perseguire l’attività didattica con lauree, dottorati, scambi tra terapeuti e tra docenti e studenti di altre Università nonché insegnamenti post-laurea, borse di studio, sviluppo delle istituzioni locali, divulgazione, rafforzamento delle capacità, trasferimento delle conoscenze e sostenibilità. 8. Agire in accordo con le altre Cattedre Unesco condividendo obbiettivi e finalità all’interno della rete UNITWIN. La Cattedra prende in esame il vasto contesto in cui si sviluppano le ricerche medico-antropologiche nell’area della salute e del benessere. Nelle finalità viene espressa la volontà di rafforzare i legami tra le Università, gli Istituti di ricerca di istruzione superiore per favorire le capacità di trasferimento delle conoscenze in un ambito unitario. Il progetto articola attorno al Museo di Etnomedicina dell’Università di Genova e a più ricerche sul campo. Queste le aree d’indagine, dirette da specialisti disciplinari: e) Antropologia: sistemi di cura, immaginario della salute, luoghi sacri, etno20

musicologia f) Architettura: centri cerimoniali e spazi di guarigione g) Botanica : policulture e linguaggi delle piante h) Ecologia: equilibrio dinamico della rete biotica, biosfera ed etnosfera i) Etnomedicina: documentazione e indagini sul funzionamento di rimedi e cure j) Geofisica: geomorfologia, idrologia e struttura del paesaggio k) Medicina: determinanti e promozione della salute globale l) Pianificazione territoriale: topos di armonia ambientale e paesaggi oracolari In questo contesto la medicina occidentale contemporanea diviene elemento di confronto di dialogo con i sistemi di cura propri di civiltà ed etnie differenti. Il minimo comun denominatore tuttavia resta sempre la malattia vissuta e curata in diverse maniere e con differenti approcci. Per quanto riguarda la specialistica disciplinare di Antropologia-Anatomia Patolgica e Paleopatologia (Prof Ezio Fulcheri), il tema a noi più vicino resta tuttavia quello delle malattie in sè, a prescindere dai sistemi di cura, studiate nella patofenia e nel modo di essere individuate, osservate, capite e diagnosticate. Per questa operazione sono necessari due approcci


III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia tra i percorsi museali della cattedra Unesco “Antropologia della salute – biosfera e sistemi di cura”

quello della museologia classica anatomo patologica e quello della paleopatologia. L’anatomia patologica è disciplina medica fondata sull’esigenza di individuare la sede e la causa delle malattie, laddove per sede si intenda il substrato anatomico (di organo o apparato), istologico (isto architetturale dei vari tessuti) e citologico (cellulare microscopico o sub microscopico - ultrastrutturale). Nella ricerca delle cause, l’anatomia patologica, estende le proprie indagini nella ampia sfera della virologia e della microbiologia, della genetica, della biochimica, delle alterazioni del metabolismo, negli studi di oncogenesi ed ancora nelle anomalie di prima formazione dell’embrione e del feto, di crescita e di sviluppo come nelle alterazioni proprie della senilità. In tutti i campi, e sopra tutti, domina sempre l’imperativo categorico di documentare e, come un tempo si diceva, di “mostrare e di dimostrare”. Si delinea dunque un approccio estremamente rigido della disciplina che non ipotizza o suppone nulla ma cerca evidenze della malattie, ne descrive le caratteristiche ed il modo di apparire, delinea i processi evolutivi ed i quadri terminali. Per questi motivi costituisce la base del-

l’iter diagnostico e terapeutico, insegna ai medici il valore non solo speculativo ma, e molto più, clinico dell’evidenza delle malattie e nel contempo, oltre ad insegnare a riconoscerle, ad impostare diagnosi differenziali analizzando analogie e differenze tra i vari quadri morbosi. La paleopatologia è una scienza che si avvale di contributi multidisciplinari ma che è fondata sull’Antropologia Fisica e sull’anatomia patologica. Lo studio delle malattie del passato può essere intrapreso con diversi obiettivi; tra questi, un tema particolarmente interessante è quello dell’interazione tra uomo ed ambiente (emergenza delle malattie in ambiente naturale ed artificiale) e dell’uomo con le differenti culture e civiltà (diffusione delle malattie). La Paleopatologia si intreccia pertanto con la storia della cura delle malattie stesse (Storia della Medicina) e con la patomorfosi sia dei processi morbosi che degli agenti patogeni (Storia delle Malattie). La possibilità di studiare reperti provenienti da differenti siti archeologici di varie epoche storiche distribuiti sul territorio nazionale permette di concretizzare ricerche articolate e altamente finalizzate. La possibilità di accedere ad una rete di Musei di Antropologia, di Paleopatologia e di Archeo21


III. Il Museo di Anatomia Patologica a Venezia tra i percorsi museali della cattedra Unesco “Antropologia della salute – biosfera e sistemi di cura”

logia permette poi di sviluppare una didattica articolata (teorico-pratica) di alto livello. Il Museo di Anatomia Patologica dell’Ospedale Civile di Venezia si colloca in pieno nella strategia didattica e di ricerca della Cattedra Unesco. L’ambiente particolare in cui si sviluppa la città impone stili ed abitudini di vita che in un passato non troppo lontano erano del tutto dissimili da qualsiasi altro ambiente antropizzato. L’uomo, nei secoli passati, ha dovuto adattarsi ad una vita di laguna e di città lagunare con tutto ciò che questo comportava in termini di rapporti ambientali con il mare, la terra lagunare, la flora e la fauna; l’ambiente naturale in cui veniva plasmato un ambiente artificiale e l’urbanistica di una realtà complessa. A questo particolare ambiente (forse unico al mondo) deve essere poi accostata un’altra caratteristica del tutto particolare. Venezia, vista come città estremamente aperta al mondo ed al mondo orientale in particolare con scambi non solo culturali

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e commerciali e politici ma anche antropici, ne consegue che il concetto di patocenosi viene ampiamente stravolto a Venezia dal luogo e dagli uomini. Un ponte tra il presente ed il passato. Sappiamo che il limite imposto alla Paleopatolgia era canonicamente fissato alla Rivoluzione Francese e che i secoli successivi non vengono considerati. Più recentemente si è pensato di estendere tale limite all’inizio dell’era industriale, nella consapevolezza che il mutare delle condizioni ambientali (micro ambiente prossimo all’individuo, ambiente artificiale, vale a dire costruito dall’uomo, ed ambiente naturale, seppure influenzato dall’uomo) sono cambiati in modo significativo solo dopo questo momento storico: Ancora potremmo dire oggi che un altro limite potrebbe essere spostato, per la medicina, tra l’era pre e post antibiotica vedendo il momento della messa in commercio della penicillina come il momento iniziale dell’espansione della farmacopea moderna chimica e di sintesi.


IV. Il percorso museale

Le vetrine con preparati anatomici in liquido di dimora Caratteristiche e storia dei liquidi di dimora I patologi nel tempo affrontarono il problema della conservazione dei preparati museali da un particolare punto di vista che li portò ad elaborare una serie di ricette e metodiche assai articolata, originale e caratterizzante i singoli istituti. Dalla semplice raccolta e stoccaggio in alcool o in formalina si passò alla conservazione in liquidi particolari. Si definisce fissazione il processo chimico con cui si arrestano i fisiologici processi trasformativi che seguono l’arresto delle funzioni vitali; tale processo avviene trasformando i colloidi dei tessuti in gel irreversibili. Le soluzioni più utilizzate sono alcool, formalina, soluzioni di sali di metalli pesanti e soluzioni di acidi inorganici ed organici. I fissativi possono essere suddivisi in due classi: fissativi ad uso diagnostico e liquidi di dimora ad uso museale. Tale distinzione è richiesta dal fatto che le caratteristiche di un buon fissativo diagnostico si discostano in parte da quelle dei fissativi ad uso museale il cui scopo principale è infatti l’esposizione del reperto nella forma più fedele alla realtà e non la sola conservazione dello stesso al fine di conservarne le caratteristiche isto23

logiche e molecolari. Nonostante gli svantaggi, sovente queste sostanze sono state utilizzate in ambito museale, dato che molte delle miscele fissative allestite in passato a scopi museali, seppur ottimali, sono oggi in disuso a causa dell’elevato loro costo o dell’elevata tossicità. I liquidi di dimora sono invece soluzioni nelle quali è possibile conservare materiale biologico indefinitamente. Spesso tali miscele derivano dalla diluizione delle miscele fissative. I principali liquidi di dimora per uso museale sono il liquido di Zenker, il liquido di Foà, il liquido di Mueller, il metodo di Nuzzi e quello di Kaiserling. Quello di Kaiserling, in particolare, consiste nell’immersione del pezzo per un periodo variabile da 12 ore a una settimana, a seconda delle sue dimensioni, nel seguente liquido fissatore: formalina, acetato di potassio, nitrato di potassio e acqua. Il reperto deve poi essere lavato in acqua per alcune ore e immerso, per un periodo che può essere protratto sino a 24 ore, in alcool 80 gradi, dove il pezzo riacquista i primitivi colori. Infine si conserva il materiale in acetato di potassio, acqua distillata, glicerina neutra pura, timolo. 23


IV. Il percorso museale

Grazie alle caratteristiche del liquido di dimora il preparato anatomico tende a costituire un sistema chiuso in grado di mantenersi costante: nel tempo si stabilisce infatti un equilibrio chimico-fisico tra il reperto anatomico ed il proprio liquido. Se l’equilibrio tra il liquido e il reperto viene rispettato, non sarà necessaria nel tempo alcuna variazione del sistema. Talvolta però il liquido può andare incontro ad evaporazione per la mancata tenuta del contenitore: il reperto pertanto si altera progressivamente, per l’esposizione all’ambiente circostante. In questi casi l’integrità del reperto può venir compromessa irrimediabilmente e pertanto si rende necessario un intervento di ripristino sul liquido di dimora. Tale intervento deve rispettare però sia l’istanza storica dovuta all’antichità del liquido in quanto testimonianza delle antiche procedure di allestimento dei campioni anatomici che l’equilibrio chimico del microambiente. L’intervento non deve alterare l’equilibrio chimico-fisico instauratosi nel tempo tra il reperto ed il proprio liquido. Il liquido di dimora diventa parte integrante del reperto anatomico storicizzandosi ed autenticandosi con esso. Il restauro di un preparato conservato in fis24

sativo liquido non può consistere nella semplice sostituzione del liquido di dimora ma deve sempre prevedere il restauro del liquido stesso; in caso contrario sarebbe come restaurare un dipinto senza restaurare nel tempo la tela e la base del colore, o ancora peggio cambiando la tela ad ogni operazione di restauro. La conoscenza delle caratteristiche del liquido di dimora e la conservazione degli stessi è quindi presupposto essenziale per la conservazione degli stessi e quindi presupposto essenziale per la conservazione corretta del preparato e la fruizione scientifica del materiale. Il preparato anatomico patologico antico può essere infatti, e solo in tal modo, impiegato con successo per la ricerca storico scientifica sull’evoluzione e la patomorfosi delle malattie.


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IV. Il percorso museale

Nella pagina a sinistra: Vetrina 1

Vetrina 2: Il microscopio di Giuseppe Jona

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Le vetrine: memorie scientifiche legate all’arte del vetro a Venezia I. Vetrina 1: LE COLLEZIONI DEL MUSEO, VARIE TIPOLOGIE DI PREPARAZIONI II. Vetrina 2: UNA FIGURA ESEMPLARE DI PATOLOGO: LA STORIA DI JONA L’interesse degli storici si è spesso rivolto verso la figura di Giuseppe Jona e il museo dedica una parte a questa importante figura di uomo e medico. Nato nel 1866 a Venezia si era laureato a Padova nel 1892 dove rimase presso l’istituto di anatomia patologica. Nel 1895 inizia la sua attività presso l’Ospedale Civile di Venezia. A lui si deve il potenziamento dell’istituto e del museo di anatomia-patologica fino al 1912 quando passa a dirigere la divisione medica II. Si dedica anche alla scuola pratica di medicina e chirurgia che il nosocomio veneziano aveva istituito nel 1863 con corsi tenuti dai primari. Estintasi nel 1882, la scuola era stata riattivata nel 1896 per un lascito del chirurgo Angelo Minich. Giuseppe Jona insegue il sogno di farne un centro di alta cultura per le scienze mediche, caratterizzato da una impostazione scientifica e pratica che la differenzi da quella teorica e di25

dattica dell’ateneo patavino. Nei tragici giorni che seguono Caporetto, offre la sua opera all’autorità militare come ispettore malariologo e consulente medico-legale di tutti gli ospedali militari. Opera anche come membro del comitato di Assistenza Civile e il ministero dell’interno gli riconosce un impegno da “patriota entusiasta di fede incrollabile” che “da tutta la sua opera infaticabile di cittadino alla patria. Vero esempio di attività e di altissimo valore civile”. Entrato a far parte dell’ateneo veneto nel 1901 ed eletto presidente nel 1921, Jona potenzia la diffusione della cultura con la biblioteca circolante e cerca di promuovere due istituti scientifici legati alla tradizione e alla specificità veneziane: la stazione idrobiologica del lido 25


IV. Il percorso museale

? Nella pagina a destra: Vetrina 3: Colecisti

e l’istituto di anatomia patologica dell’Ospedale Civile. Nel ’36, dopo quarant’anni di servizio Jona si congeda dai suoi allievi e nella sua ultima prolusione denuncia con grande amarezza che la sua origine ebraica gli viene rinfacciata come se “l’essere nato fosse una colpa e un delitto il sopravvivere”. Ritiratosi per i sopraggiunti limiti di età, l’anziano maestro evita l’umiliazione di essere cacciato dal suo ospedale, come toccherà agli altri medici ebrei in seguito alle leggi razziali del ’38. Per lui, che non aveva né moglie né figli, l’ospedale aveva rappresentato la sua casa, i suoi affetti, in esso aveva realizzato il senso più profondo della sua esistenza e della sua professione. Ma non gli mancheranno altre umiliazioni. Nel 1938 il ministero dell’educazione nazionale ordina il censimento degli accademici di razza ebraica e poi la loro espulsione, perciò viene radiato dall’istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti e dall’Ateneo Veneto. Nel 1940, come gli altri suoi corregionali, viene depennato dall’albo dei medici e privato della sua professione fra lo sgomento e il rammarico della società civile. Il 16 giugno di quell’anno assume il compito di guidare la comunità israeli26

tica, scegliendo di rimanere a Venezia come riferimento per chi non vuole o non può fuggire. La situazione precipita l’8 settembre 1943. Il giorno dopo l’armistizio i tedeschi occupano Mestre e Venezia e si accingono a realizzare la “soluzione finale”. Per farlo hanno l’esigenza di conoscere la lista degli ebrei rimasti che ormai differiva molto da quella consegnata nel 1938 a Prefettura, Questura e Federazione Fascista. Il presidente Jona aveva quell’elenco e sapeva che gli sarebbe stato imposto di consegnarlo con metodi ai quali sarebbe stato difficile resistere. Allora lo fa nascondere da una persona di sua fiducia nell’armadio della scuola media ebraica (“la scoletta”). Il 14 settembre Jona fa testamento, lascia i suoi libri all’ospedale e pensa anche ai medici e ai malati che gli sopravvivranno perciò destina 240.000 lire in buoni del tesoro al 5%, istituisce 4 premi annuali di 1.000 lire agli infermieri più meritevoli delle divisioni di medicina e chirurgia generale in memoria dei genitori Adele e Moisè, stabilisce altre quattro donazioni annue di uguale importo per quattro malati poveri bisognosi e due borse di studio quadriennali di 8.000 lire per il perfezionamento di due medici assistenti del26


IV. Il percorso museale

Vetrina 3: La cassetta dei calcoli, una raccolta originale

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l’Ospedale Civile in istituti superiori italiani o stranieri. Tre giorni dopo, il 17 settembre, si toglie la vita avvelenandosi. La lista i tedeschi non la ottennero mai, l’aveva nascosta bene. III. Vetrina 3: ESEMPI DI PATOLOGIA TEMATICA E DIDATTICA Calcoli e concrezioni della colecisti Una delle prime descrizioni di calcoli della colecisti rinvenuti in una autopsia risale al 1341 ed è stata fatta proprio nell’università di Padova da un docente dell’università di Bologna (Gentile da Foglino); essa include la descrizione di un calcolo incuneato nel condotto cistico. Contributi importanti sul tema vengono offerti in seguito da A. Beniventi, A. Vesalio e da Morgagni. La calcolosi biliare, di cui abbiamo diversi esempi all’interno della raccolta,

viene oggi suddivisa in calcoli puri e misti. I calcoli puri possono essere di colesterolo, di bilirubinato di calcio e di carbonato di calcio. La conseguenza di una ostruzione cronica da essi causata è visibile nel vaso di forma cilindrica con etichetta originale che riporta la dicitura “idrope della colecisti”. Calcoli e concrezioni delle vie urinarie La formazione di calcoli è possibile anche a tutti i livelli delle vie urinarie ma la maggior parte ha genesi nel rene. Nel corso degli ultimi secoli, con il passaggio all’economia moderna e l’aumentata presenza di carne nella dieta i calcoli vescicali sono scomparsi mentre è aumentata la frequenza dei calcoli renali. All’interno della raccolta vi sono esemplari dei calcoli renali più rappresentati in natura ovvero di ossalato di calcio ri27


IV. Il percorso museale

Vetrina 3: ? Idrofrenosi

conoscibili per la superficie ruvida di colore marrone; esistono inoltre esempi di calcoli di acido urico con superficie liscia e colore marrone e quelli di fosfato di ammonio e magnesio dal colore chiaro bianco e grigio. I calcoli di grandi dimensioni sono di probabile origine vescicale; causando l’ostruzione della vescica inducono trabecolazioni nella parete vescicale che portano al quadro della “vescica a colonne” presente nel vaso cilindrico con etichetta manoscritta. Accompagna infine la cassetta dei calcoli il vaso cilindrico con etichetta manoscritta contenente un caso di idronefrosi che è la dilatazione della pelvi renale dovuta all’ostruzione al deflusso dell’urina. Patologia cardiaca neoplastica e ischemica L’uomo non poteva sottrarsi in passato al fascino di quest’organo che più di ogni altro era collegato al mistero stesso della vita. Tutti i grandi della medicina espressero ipotesi che inizialmente erano molto lontane dalla realtà: Galeno intuì per primo, contrariamente ad Aristotele, che le arterie contenevano sangue; rimase però fedele all’idea platonica che individuava nel fegato il principio delle vene e del sangue in esso contenute. Non esclu28

deva inoltre che il sangue contenuto in arterie e vene si mischiasse all’interno del cuore. Sarà Leonardo, studiando il cuore in maniera accurata attraverso l’esperienza della dissezione compiuta principalmente su animali (quali bue e maiale) piuttosto che sull’uomo, a comprendere la natura muscolare del cuore; ne descrisse inoltre le cavità e i meccanismi di chiusura e apertura delle valvole e il flusso di sangue che lo attraversava (costruì un modello in vetro dell’aorta per compiere gli esperimenti relativi al flusso sanguigno) rimanendo però ancora in parte legato agli schemi della scuola galenica. Lo spartiacque tra passato e presente nell’anatomia di quest’organo venne segnato proprio nell’università di Padova. Qui William Harvey conobbe il grande patrimonio di osservazioni e dati di Vesalio, Cesalpino, Fabrizio d’Acquapendente, essenziali per criticare la concezione ga-


IV. Il percorso museale

? Vetrina 3: Metastasi cardiache di melanoma

lenica nella sua opera Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis del 1628 dove spiega la fisiologia cardiaca (individua sistole e diastole) e del movimento sanguigno (evidenziato per la prima volta nella sua caratteristica di moto circolare) come oggi lo conosciamo. Una grande attenzione è stata rivolta a quest’organo dai patologi dell’Ospedale Civile di Venezia: la raccolta in vetro vanta una collezione di trenta cuori tra i quali sono stati selezionati i casi più interessanti per l’esposizione. Assai rare sono le neoplasie primitive e le metastasi interessanti il cuore, presenti in due vasi esposti: un vaso contiene un esempio di tumore primitivo del cuore ovvero un mixoma, il più frequente tra le rare neoplasie cardiache. I mixomi hanno sede preferenziale nell’atrio sinistro come nel caso esposto, e possono essere piccoli ma possono diventare grosse formazioni

che riempiono quasi interamente l’atrio. Un altro vaso in vetro di forma cilindrica con etichetta originale manoscritta “metastasi multiple di un melanoma maligno” mostra invece l’interessamento epicardico da parte di numerose metastasi. L’assenza di terapie antineoplastiche e l’impossibilità di stadiare i melanomi portavano a quadri “estremi” di metastasi anche a livello cardiaco che con gli attuali protocolli terapeutici non sono più visibili al giorno d’oggi. Accanto a questi casi rari numerosi vasi mostrano patologie di più frequente riscontro quali casi di endocardite delle semilunari, panendocardite, ipertrofia cardiaca e vasi contenenti preparazioni che evidenziano la presenza di trombi. IV. Vetrina 4: ESEMPI DI PATOLOGIA TEMATICA E DIDATTICA L’etilismo e la cirrosi epatica Nel De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis Morgagni raccoglie le storie di facchini, barbieri e giovani donne che eccedevano nell’uso del vino. L’autopsia di questi soggetti portò lo stesso Morgagni, ancor prima di Laennec, a descrivere la forma classica di cirrosi che prese il loro nome: la cirrosi epatica di Morgagni-Laennec. 29


IV. Il percorso museale

Vetrina 4: ? Cirrosi atrofica di Morgagni-Laennec

Questa forma di cirrosi, nota anche con i termini di cirrosi volgare, o portale o atrofica o alcoolica, è caratterizzata dal lento decorso, dalla abituale riduzione di volume del fegato, dai fenomeni di stasi portale e dalla comparsa, per lo più tardiva, di segni di insufficienza epatica. Nel vaso esposto con l’etichetta “cirrosi atrofica di Morgagni-Laennec”, è possibile apprezzare l’aspetto granuloso della cirrosi menzionata, per la presenza di noduli rilevati, di dimensioni variabili da pochi millimetri a un centimetro. I noduli sono dovuti alla rigenerazione da parte degli epatociti che rimangono intrappolati all’interno del tessuto fibroso depositato dalle cellule di Ito; i noduli più grandi creano un aspetto “a testa di chiodo” sulla superficie dell’organo. La tendenza ad aumentare il volume dell’organo nella fase iniziale si inverte nelle fasi finali in cui si ha un organo raggrinzito, duro. Il colore del preparato non è apprezzabile ma è verosimile che vi fossero delle aree verdastre a causa della stasi biliare. A livello del lobo destro è possibile infine vedere una massa che potrebbe essere un carcinoma epatocellulare esito finale della rigenerazione incontrollata. Nelle 40.444 autopsie effettuate nell’istituto di anatomia patologica dell’Ospe30

dale Civile di Venezia nel cinquantennio 1906-56 si notò un crescendo impressionante di cirrosi nell’ultimo decennio quale espressione di epatosofferenza legata al passaggio dal periodo carenziato ma sano ed austero della guerra, a quello di insensati abusi e di bevande alcoliche ed in genere di cibi quantitativamente e soprattutto qualitativamente irrazionali. Sempre nello stesso cinquantennio vengono riscontrati nelle autopsie menzionate 120 tumori o “neoplasmi” epatici di cui vi è un esempio all’interno del contenitore cilindrico in vetro chiuso con etichetta originale che riporta indicazioni sulla natura del preparato. La “preparazione tumorale” della cirrosi mostrata nel primo preparato fa trovare al cancro un terreno favorevole al proprio sviluppo. Il carcinoma epatocellulare all’esame macroscopico appare come un nodulo per lo più avvolto da capsula, di


IV. Il percorso museale

? Vetrina 4: Cisticerco nel cuore

colorito bianco-grigiastro, o verdastro se gli epatociti neoplastici conservano la capacità di produrre bile. Patologia cardiaca infettiva In passato, fino al XX secolo, in Italia i commercianti di maiali percorrevano le campagne dell’Italia centrale per comprare dai contadini giovani maiali che una volta acquistati portavano ai caseifici della pianura padana dove venivano ingrassati. Contadini e commercianti sapevano bene che questa patologia infestava la carne facendo comparire “segni bianchi, quasi grane di miglio”. Poichè infestava i muscoli erano spesso ricercati segni della malattia a livello della lingua dei maiali. I veterinari utilizzavano un cisticercoscopio consistente in una lente che aiutava, ingrandendoli, a riconoscere i segni della malattia. La cisticercosi è causata da Tenia solium 31

che può causare due distinte forme di infestazione, a seconda che l’uomo venga interessato dalle forme adulte nell’intestino o, come nel caso mostrato, dalle forme larvali. Gli esseri umani sono gli ospiti definitivi dei cestodi mentre i maiali sono gli ospiti intermedi abituali. Le infestazioni nell’uomo derivano dall’ingestione di carne di maiale parassitate, le carni panicate, poco cotte contenenti cisticerchi. Le infestazioni che causa la cisticercosi umana avviene in seguito a ingestione delle uova di Tenia solium, di solito per stretti contatti con un soggetto portatore di teniasi intestinale. V. Vetrina 5: PATOLOGIA POLMONARE Il polmone dei soffiatori di vetro e i tumori polmonari Nel 1960 venne assegnato il premio “Vitali” degli Ospedali Civili Riuniti di Venezia ad un articolo dal titolo “Enfisema polmonare e professionale in una zona a scarso sviluppo industriale” che si proponeva di indagare il rapporto tra il rapido sviluppo industriale e le patologie polmonari, al fine di favorire la prevenzione di “un importante gruppo di malattie”. Al fine di ricavare dati eziopatogenetici peculiari Venezia si ritenne ideale perchè non industriale, come poche altre città, 31


IV. Il percorso museale

Vetrina 5: ? Neoplasie polmonari

nei riguardi di quelle industrie (minerarie, metallurgiche, chimiche..) che si ritenevano responsabili dell’insorgenza di enfisema polmonare; esisteva a tal riguardo un solo tipo di industria, quella vetraria che si presentava quasi ed esclusivamente sull’isola di Murano. L’assenza di automobili faceva sì che i lavoratori non fossero esposti a inquinanti che avrebbero reso più difficile l’interpretazione dei risultati. Unica eccezione presa in considerazione fu la vicinanza di Venezia con la zona industriale di Porto Marghera. Lo studio condotto su 880 autopsie effettuate tra il 1 gennaio 1959 e il 31 maggio 1960 concluse che l’enfisema era più frequente nei lavoratori manuali, categoria che includeva i lavoratori del vetro. Viene così valutato il quadro del cosiddetto “polmone dei soffiatori di vetro” entrato poi a far parte della letteraura anatomopatologica. Si trova esposto un esempio dell’enfisema da sforzo dei lavoratori del vetro rappresentato da una permanente ed esagerata distensione degli alveoli polmonari con diminuita elasticità del parenchima; l’osservatore potrà notare un organo dalla forma irregolare per la presenza di bolle subpleuriche, il volume risulta aumentato a causa dell’aumento del contenuto aereo che lo rende più soffice e ne sfuma il colore; al tatto dà la sensa32

zione di “lana cardata” e al taglio si osservano aree più o meno ampie di parenchima di aspetto microcistico sino a voluminose bolle. Non ogni lavoro muscolare eccessivo può avere per conseguenza la formazione di enfisema, ma solo quegli sforzi nei quali entrano in azione il torace ed i muscoli respiratori come avviene per gli insufflatori di vetro che hanno bisogno di respirare da prima la maggior quantità di aria possibile per emetterla poi con una espirazione forzata e prolungata. “Uno degli aspetti più interessanti della patologia neoplastica del nostro tempo è l’aumento del numero dei casi di carcinoma polmonare” così inizia un altro articolo della raccolta di pubblicazioni scientifiche degli Ospedali Civili Riuniti di Venezia. All’inizio del secolo il carcinoma polmonare rappresentava un’evenienza rara, se pure non eccezionale; erano casi “da museo”; oggi qualunque settorato può ap32


IV. Il percorso museale

? Vetrina 6: Pneumonite caseosa

prontare statistiche di decine di casi in un anno di questo tumore che è tra le prime cause di morte per neoplasia. Gli studi di stampo anatomo-patologica sul carcinoma bronco-polmonare a Venezia ebbero una lunga tradizione, Fabris ne fu l’iniziatore, segnalando già nel 1930 l’impressionante aumento di frequenza di questa localizzazione tumorale e tornando poi più volte sull’argomento. Venezia, per la scarsità di industrie, strade asfaltate, autoveicoli e inquinamenti atmosferici si supponeva ancora una volta essere luogo ideale per dimostrare la oggi nota correlazione tra fumo e neoplasia polmonare. Il fumo di tabacco ebbe un incremento in Italia a partire dal 1930, anno da cui iniziarono le indagini in tale ambito a Venezia. Queste ricerche nel 1960 dimostrarono che i deceduti per carcinoma bronco-polmonare avevano fumato, in media, notevolmente di più dei soggetti

sani di controllo. Le tipologie di tumore correlate maggiormente al fumo di sigaretta sono il carcinoma squamocellulare e il tumore a piccole cellule. All’interno della raccolta ricordiamo i due esempi più rappresentativi: l’“endotelioma penetrante in un bronco” in cui la neoplasia è posizionata nella sede tipica del carcinoma squamocellulare: vicino a un grosso bronco. Il colore biancastro, la forma ovoidale a margini netti e la consistenza dura sono tipiche di questa neoplasia. Altro esempio è il “polmone maligno ulcerato”: le dimensioni della neoplasia sono tali da sovvertire completamente la struttura polmonare; al taglio si presenta di colore chiaro come il precedente ma la consistenza non è dura e i margini sono più irregolari; la posizione più periferica nel polmone, fa pensare ad un adenocarcinoma anche se le ulcerazioni, tipiche delle neoplasie a rapido turn-over, non escludono che si possa trattare dell’altra neoplasia tipica dei forti fumatori: il tumore a piccole cellule o anaplastico a grandi cellule. VI. Vetrina 6: LA TUBERCOLOSI La tubercolosi, conosciuta da molti con il termine letterario di “tisi”, che letteralmente significa consunzione (dal greco 33


IV. Il percorso museale

Vetrina 6: ? I medici ponevano al volto una maschera che copriva tutto il viso e riempivano il naso di erbe per proteggersi

ϕϑίσις), ampliamente descritta non solo nei testi medici ma anche nella letteratura in particolar modo del 1800. Definita anche “malattia romantica”, oltre ad aver provocato la morte di molti personaggi famosi della letteratura e della storia, come la celeberrima Silvia cantata da Leopardi, ha decimato la popolazione italiana nei secoli scorsi, dilaniando l’Europa con una epidemia iniziata nel 1650 e durata duecento anni conquistandosi così il triste primato tra le cause di morte dell’epoca. Nei secoli dei grandi viaggi e delle grandi scoperte continentali, l’uomo europeo è stato il grande “untore” di tubercolosi nel mondo. È noto, che furono gli emigranti europei a portare la malattia nelle Americhe, e lo stesso si deve dire di altri paesi oggi fortemente colpiti dalla patologia, che in passato, prima dell’arrivo degli europei, ne erano totalmente privi, come per esempio l’Africa subsahariana. L’impatto che ha avuto la tubercolosi sulla città di Venezia è testimoniato dalle parole di Giuseppe Jona (1866-1943) che la definì una “piaga sociale” e “un flagello per la nazione”; egli contribuì a documentare la malattia tubercolare e la sua espressione patofenica mediante i reperti anatomici conservati nei liquidi di dimora. L’agente causale diviene noto nel 1882 grazie agli studi del microbiologo tedesco 34

Robert Koch che, grazie alla scoperta del Mycobacterium tuberculosis, vince il Nobel per la medicina nel 1905. La sezione inerente il tema della tubercolosi comprende una parte in liquido e una parte di preparati a secco che permette di apprezzare l’impatto della patologia sul sistema locomotore. I preparati anatomici permettono di apprezzare l’impatto della tubercolosi sui diversi organi ed apparati: la tubercolosi d’organo può comparire in qualsiasi organo o tessuto infettato per via ematica e può essere l’unica manifestazione della malattia. Gli organi che vengono tipicamente colpiti comprendono le meningi, i reni, le ghiandole surrenali, le ossa e l’apparato genitale maschile e femminile. Negli ospiti immunocompromessi o nei bambini gli organi possono essere intaccati dalla devastante tubercolosi miliare dovuta al passaggio attraverso le vene polmonari al cuore dei microrganismi che, attraverso il sistema arterioso, possono raggiungere tutti gli organi dell’organismo. Due vasi mostrano la diffusione all’interno dello stesso polmone per via endobronchiale e la diffusione per contiguità al dia-


IV. Il percorso museale

framma. Un altro vaso cilindrico con etichetta manoscritta originale mostra la sede prediletta dei tubercoli solitari all’interno del sistema nervoso centrale: il cervelletto. Vari esempi di tubercolosi d’organo mostrano inoltre l’impatto della malattia sull’apparato urogenitale, respiratorio e gastroenterico. La tubercolosi vertebrale, di cui ne esiste un esempio nella raccolta, è stata descritta da Sir Percival Pott, un chirurgo dell’ospedale St Bartholomeus di Londra nel 1779. Da lui ha preso il nome il morbo di Pott o spondilite tubercolare. La colonna vertebrale presenta la lesione

tipica della tubercolosi localizzata su vertebre toraciche che ha causato l’erosione dei corpi vertebrali con probabile collasso della colonna. La calotta infine presenta un’erosione subcircolare di circa 2 centimetri di diametro, in corrispondenza dell’osso frontale sinistro. La localizzazione dei focolai tubercolari nelle ossa del cranio sotto forma di processi osteolitici è confermata dalla presenza di tre ulteriori erosioni interne, di dimensioni minori, due delle quali localizzate sull’osso parietale destro e una sul parietale sinistro.

Le vetrine con preparati a secco Oltre ai reperti in liquido di dimora, il Museo espone una parte del materiale a secco custodito dal reparto di anatomia patologica dell’Ospedale Civile di Venezia: nelle vetrine si possono osservare i reperti più rappresentativi dell’intera raccolta, costituita da quasi 500 elementi craniali e postcraniali. I femori (10 quelli esposti) e i calvaria (ben 32), caratterizzano la collezione per la loro consistenza e l’eccellente stato di conservazione, offrendo quindi interessanti spunti didattico-divulgativi per l’anatomia patologica, la paleopatologia

e l’antropologia fisica. Ad essi si aggiungono casi importanti di traumi e infezioni ossee e il reperto di un essere umano completo, trattato secondo le tecniche della tassidermia. Le preparazioni delle calotte craniche Nel corso del riscontro diagnostico il cervello viene rimosso, per essere sezionato e analizzato. Per effettuare la rimozione il patologo prepara l’accesso alla parte scheletrica mediante un’incisione trasversale del cuoio capelluto, posteriormente al capo, da un processo mastoideo 35


IV. Il percorso museale

all’altro; il cuoio capelluto con la galea capitis viene quindi sollevato e ribaltato in avanti, esponendo la calotta cranica; a questo punto si procede con l’asportazione del calvarium (costituito dalla porzione superiore dell’osso frontale, delle due ossa parietali e dalla squama dell’osso occipitale) attraverso l’utilizzo di una sega vibrante per tessuti ossei e uno scalpello; recise le meningi ed in particolare la dura madre, vengono esposti gli emisferi cerebrali; successivamente viene inciso il tentorio del cervelletto, liberando così la fossa cranica posteriore. Viene poi reciso il collegamento del cervello con il midollo spinale e l’encefalo rimosso viene posto a fissare in formalina. Dopo adeguata fissazione esso viene sezionato secondo tagli codificati da precise tecniche settorie. Al termine di questa operazione il calvarium, se interessato da particolari lesioni patologiche, può essere sostituito con una struttura di adeguato materiale (più frequentemente legno), modellato così da consentire la ricomposizione della salma e nel contempo permettere di conservare il reperto anatomico costituito dal calvarium. Il metodo utilizzato a Venezia per l’ottenimento dei calvaria è ben descritto dalla seguente immagine (J. Ludwig, Autopsy Practice, 2002): 36

Le preparazioni di osso disseccato Per poter apprezzare pienamente l’anatomia scheletrica normale o patologica è importante rimuovere i residui organici presenti sull’osso. D’altronde, tali residui vanno incontro ai comuni processi di decomposizione, con ovvie e indesiderate conseguenze. Nel corso del XVIII e del XIX secolo, nei gabinetti di anatomia di tutta Europa furono proposti innumerevoli metodi per il disseccamento delle ossa a fini espositivi. In questo campo fu celebre Johann Gottlieb Walter (1734-1818), titolare della cattedra di Anatomia dell’Università di Berlino. In Italia fu particolarmente attiva la scuola anatomica pavese, diretta da Bartolomeo Panizza (17851867). La disciplina che si occupa del trattamento dei reperti scheletrici, umani o di qualsiasi altro vertebrato, è definita scheletropea (dal greco skeletos = sche-


IL BORACE VENEZIANO Il borace1 è un composto di formula Na2B4O7·10H2O che si presenta sottoforma di solido cristallino di colore biancastro. È solubile in acqua e all’aria aperta tende a disidratarsi. Si rinviene nei cosiddetti depositi evaporitici, in aree geografiche, come i laghi interni salati, in cui l’apporto idrico può ridursi per periodi più o meno prolungati, causando l’aumento di concentrazione dei minerali disciolti e dunque la loro precipitazione. Le sue applicazioni sono molteplici: come antisettico, conservante per alimenti, fondente per metalli, detergente e sbiancante, nell’industria del vetro, degli smalti e nell’industria conciaria. La storia dell’industria boracifera è legata alle vicende commerciali di Marco Polo (1254-1324): il borace o tinkal proveniente dai giacimenti del Tibet e del Kashmir venne importato in Italia dal celebre mercante, e l’area veneziana divenne famosa per la sua raffinazione (da cui il nome di borace veneziano). Al tempo veniva impiegato principalmente dagli orefici, per le saldature. 1

Borace è il nome comune di questo composto, ma secondo l’International Union of Pure and Applied Chemistry (IUPAC), organismo incaricato di stabilire le regole standard per la nomenclatura chimica, si tratta di disodio tetraborato decaidrato o tetraborato di disodio decaidrato.

letro e poieo = faccio ? preparare scheletri): vera e propria arte, per ottenere risultati di pregio è necessaria molta pratica e la conoscenza approfondita dell’anatomia scheletrica dell’uomo o dell’animale trattato. Il metodo più applicato per la preparazione dei reperti scheletrici consiste nella macerazione: il reperto anatomico viene

IV. Il percorso museale

posto in un recipiente di dimensioni variabili, ricolmo d’acqua con aggiunta di borace (v. box di approfondimento); l’acqua viene portata e mantenuta a ebollizione per alcune ore, dopodiché si rimuove il reperto e lo si priva dei tessuti molli che circondano l’osso (nel caso di arti in connessione si procede alla disarticolazione); il processo di bollitura va dunque ripetuto, al fine di rimuovere i residui più grossolani ancora presenti sull’osso; a questo punto si procede alla rimozione di cartilagini e legamenti e all’asciugatura; segue infine lo sbiancamento con acqua ossigenata, la sgrassatura e la disidratazione dell’osso mediante l’utilizzo di alcol e xilolo; dopo circa 2448 ore di trattamento chimico, l’osso può essere esposto. I. Vetrina 7 Esempi di patologia ossea infettiva e traumatica Gli agenti infettivi (virus, batteri, funghi) possono coinvolgere anche il tessuto osseo, originando delle lesioni riconducibili a: • INFEZIONI ASPECIFICHE: la reazione ossea non è specie-specifica, non permette dunque di risalire con precisione all’agente eziologico che ha scatenato l’infezione. Le periostiti (in37


IV. Il percorso museale

Vetrina 7: ? Grave osteomielite del femore: le frecce rosse indicano le cloache per il drenaggio del pus

fezioni del periostio, la membrana vascolarizzata che riveste le ossa) si riconoscono per l’aspetto poroticospugnoso assunto dall’osso in corrispondenza della lesione, conseguente all’iperostosi dell’osso sub periosteo. Nelle osteiti ed ancor più nelle osteomieliti, molto più gravi, l’agente infettivo raggiunge parti profonde dell’osso o il midollo osseo. Si formano ampie zone necrotico-purulente stimolando un’apposizione esuberante di osso neoformato, che altera in maniera drammatica la morfologia del distretto scheletrico colpito; si riscontra inoltre la presenza di fori da cui viene drenato il pus (cloache) e necrosi ossee (sequestri). Periostiti e osteomieliti si individuano più frequentemente sugli arti inferiori. • INFEZIONI SPECIFICHE: in questi casi la reazione dell’osso presenta caratteristiche inconfondibili, che permettono di correlarla con certezza a uno specifico agente infettivo. È il caso di alcune malattie note sin dall’antichità, legate alla domesticazione degli animali, alle migrazioni e all’aumento della densità demografica: TUBERCOLOSI (Mycobacterium bovis, M. tubercolosis): nel suo decorso coinvolge i corpi vertebrali a livello toracico e 38

lombare, causando il collasso del corpo vertebrale, che così assume un aspetto incurvato (cifosi). SIFILIDE (Treponema pallidum): se congenita, causa deformazioni ossee a livello degli arti inferiori (tibie incurvate) e riduzione della dimensione degli incisivi, che risultano affusolati e fratturati; se venerea coinvolge anche il cranio, facendogli assumere un aspetto mammellonare. LEBBRA (Mycobacterium leprae): coinvolge soprattutto le ossa dello splancnocranio (tasche alveolari degli incisivi mascellari, ossa nasali); le falangi di mani e piedi vanno incontro a deterioramento osteolitico. BRUCELLOSI (Brucella melitensis, B. abortus bovis, B. abortus sus), coinvolge


IV. Il percorso museale

? Vetrina 7: la calotta affetta dalla “malattia del cappello” (Morbo di Paget)

come la tubercolosi i corpi vertebrali ma in maniera più lieve. Nella vetrina 7, sul primo ripiano, sono esposti alcuni casi di periostite di tibia e fibula, un caso incerto di osteite della tibia e un grave caso di osteomielite del femore. Si segnala inoltre, sul primo ripiano della vetrina 7, la presenza di una calotta affetta da Morbo di Paget (“la malattia del cappello”): un caso molto particolare e dibattuto di patologia ossea, descritta inizialmente da Sir James Paget (18141899), nel 1877 come un’infiammazione cronica dell’osso (osteite deformante). Si tratta di una delle patologie dell’osso più comuni in tarda età, molto diffusa nell’Europa settentrionale. Colpisce preferenzialmente la popolazione maschile.

La causa scatenante non è chiara ma sembrerebbe essere di origine ambientale, forse virale. A fianco alla calotta affetta da Morbo di Paget sono collocati due casi di neoplasia ossea: un mieloma dell’omero (preparato in liquido di dimora) e un osteoma della tibia. Il tessuto osseo è in grado di ricomporre la sua integrità in seguito a un’alterazione traumatica, come nel caso di una sua rottura parziale o completa (frattura). Nella pagina successiva si trova uno schema che descrive le principali tipologie di fratture (da Canci&Minozzi, Archeologia dei resti umani, 2010): È possibile distinguere tra fratture premortali e perimortali: le prime si sono verificate prima della morte del soggetto, dunque osservando l’osso è possibile cogliere i segni lasciati dai processi di riparazione attorno alla zona fratturata; le seconde sono spesso la causa stessa di morte e dunque l’organismo non ha il tempo di ripararle: non si osserva nessuna differenza fra la zona fratturata e la superficie dell’osso che la circonda. Un discorso a parte meritano le lesioni postmortali, molto importanti da riconoscere onde evitare interpretazioni fuorvianti, specialmente quando si studiano i reperti umani antichi: esse sono il risul39


IV. Il percorso museale

TIPOLOGIA FRATTURA

DESCRIZIONE

Frattura chiusa

L’osso è fratturato ma la pelle rimane intatta

Frattura aperta

La pelle è lacerata e l’osso è esposto all’ambiente esterno

Frattura completa

L’intero osso, sia lungo che piatto, è spezzato

Frattura incompleta

La rottura non si estende all’intero osso. Nota anche come “frattura a legno verde”

Frattura trasversa, obliqua, trasversa-obliqua, a spirale

Questi termini indicano le direzioni delle linee di forza che provocano la frattura

Frattura comminuta

L’osso si frantuma in più frammenti a seguito di un trauma particolarmente violento. Poco comune in resti scheletrici di interesse archeologico.

Frattura da impatto

Uno dei frammenti è spinto dentro il frammento opposto a seguito della dinamica del trauma

Frattura da compressione

Causata da forze compressive. Ad esempio lo schiacciamento di una vertebra a seguito di una caduta.

Frattura da trazione/avulsione

Si verifica a seguito di una improvvisa e violenta contrazione muscolare che asporta un frammento d’osso.

tato delle alterazioni indotte dalle caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche dell’ambiente di sepoltura. Per indicare l’insieme di queste trasformazioni si suole utilizzare il termine diagenesi. L’acidità del suolo, i minerali disciolti nelle acque percolanti, la luce solare, la pressione delle radici e la secrezione di sostanze chimiche di origine vegetale, fungina e batterica, l’azione degli invertebrati (insetti e lombrichi), dei roditori, degli ungulati e dei carnivori, il dilava40

mento dei corredi funebri e la predazione, sono tutti fattori diagenetici che possono intervenire sull’osso, compromettendone l’aspetto originario e inducendo la formulazione di diagnosi, quando in realtà si è di fronte a pseudopatologie. Il processo di guarigione del focolaio di frattura determina la formazione di un callo osseo, attraverso le seguenti fasi: • FASE INFIAMMATORIA: in corrispondenza dell’emorragia causata dal trauma, l’osso va incontro a necrosi;


IV. Il percorso museale

l’intervento di leucociti, macrofagi, mastociti e fibroblasti rimuove l’osso necrotico, inducendo un’iniziale processo di consolidamento • FASE DEL CALLO FIBROSO O FIBROCARTILAGINEO: nel callo si verifica la proliferazione di collagene e delle cellule progenitrici dell’osso e della cartilagine (preosteociti, osteoblasti, condroblasti). • FASE DEL CALLO OSSEO PROVVISORIO: il callo va incontro a mineralizzazione (formazione di osso primitivo ancora privo dei sistemi haversiani) • FASE DI RIMODELLAMENTO O CALLO OSSEO DEFINITIVO: gli osteoclasti rimuovono l’osso compatto e mineralizzato. Ne consegue un successivo, ulteriore rimodellamento, grazie all’attività osteoblastica e osteoclastica che inducono la formazione di osso lamellare, composto dalle tipiche strutture haversiane. Il segmento osseo si ricompone così definitivamente. La vetrina 7, nel secondo ripiano, espone alcuni interessanti casi di lesioni traumatiche: fra questi, la frattura di una tibia e la frattura dell’articolazione del gomito. Il femore in antropologia fisica CARATTERISTICHE GENERALI

Il femore è l’osso più lungo e robusto del

corpo. È costituito da una struttura tubulare centrale detta diafisi e da due parti terminali dette epifisi. Prossimalmente, si articola con l’acetabolo dell’anca mentre distalmente trova articolazione con la patella e l’epifisi prossimale della tibia. Al fine di mantenere il baricentro all’interno del piano di appoggio dei piedi, il femore ha un andamento convergente verso l’articolazione del ginocchio. In questo modo il peso del corpo viene scaricato, lungo una linea di trasmissione del carico, dalla testa del femore al condilo laterale. Nell’uomo, il collo del femore è più lungo rispetto ai primati non umani e presenta una struttura interna con maggiore densità in corrispondenza del suo bordo inferiore, ovvero nel punto di maggior carico. LA STORIA EVOLUTIVA

La postura eretta e l’andatura bipede costituiscono due tratti distintivi della specie Homo sapiens, e più in generale della famiglia degli Ominidi (che comprende le specie estinte appartenenti al genere Homo e altre forme strettamente imparentate, come gli australopitechi e i parantropi). Queste due importanti innovazioni anatomiche sono sorte e si sono affermate in Africa, nel Miocene superiore, fra gli 8 e i 5 milioni di anni fa. Fino a quel mo41


IV. Il percorso museale

mento, la deambulazione dei primati, di cui la nostra specie fa parte, prevedeva l’intervento frequente degli arti superiori, in funzione di sostegno: questa caratteristica si può osservare molto bene negli scimpanzé, primati adattati alla vita terricola che solo in particolari situazioni (pericolo, raccolta di cibo) liberano momentaneamente gli arti superiori. Con l’affrancamento definitivo degli arti superiori, questi poterono essere impiegati con maggiore efficienza nella manipolazione

dell’ambiente circostante, un vantaggio notevole, che pose le basi per l’incremento delle facoltà cerebrali, con un meccanismo causa-effetto di cui è impossibile tratteggiare la sequenza cronologica. L’adozione di un nuovo approccio biomeccanico da parte degli ominidi, come testimoniano i celebri resti di Lucy (Australopithecus afarensis), fu possibile grazie alle modificazioni intervenute in diversi distretti scheletrici, fra cui ovviamente il femore.

ANTROPOMORFE

OMINIDI

Cranio

Forame occipitale in posizione posteriore

Forame occipitale in posizione avanzata

Colonna vertebrale

Curvature poco accentuate; la colonna è inclinata e destabilizza l’animale quando si trova in posizione eretta (busto in avanti rispetto al bacino)

Curvature accentuate; le due doppie curvature (due cifosi e due lordosi) permettono di ottimizzare l’allineamento busto-bacino; la superficie dei corpi vertebrali aumenta progressivamente dall’alto verso il basso

Bacino

Lungo e stretto, l’osso iliaco è orientato posteriormente, più lungo che largo; il gluteo svolge una funzione essenzialmente locomotoria

Ampio e svasato, l’osso iliaco è orientato lateralmente, più largo che lungo; il gluteo ha un’importante funzione stabilizzatrice

FEMORE

Più corto dell’omero, ortogonale rispetto al terreno; collo breve

Convergente verso il ginocchio; collo lungo; robusta articolazione del ginocchio, che risulta in linea con le anche

Piede

Privo di arco plantare, è inefficiente nel movimento di spinta; alluce divergente

Arcuato, con articolazioni delle dita in grado di iperestendersi, favorendo il movimento di spinta; alluce allineato

42


IV. Il percorso museale

Nelle scimmie antropomorfe, come gli scimpanzé e i gorilla, gli arti inferiori si mantengono divaricati durante la camminata: il bipedismo risulta dunque molto goffo, poiché ad ogni passo l’animale ruota l’arto attorno al baricentro, dondolando il corpo lateralmente. Ciò è determinato dal particolare assetto del bacino, in particolare dell’osso iliaco (orientato all’indietro) e fa delle antropomorfe delle pessime camminatrici: al contrario, gli ominidi, grazie all’orientamento laterale dell’osso iliaco, a una cavità acetabolare più ampia, a un collo del femore più lungo, e alla presenza di muscoli stabilizzatori come il piccolo gluteo, possono camminare più agevolmente. Soprattutto, la convergenza del femore verso l’articolazione del ginocchio consente di mantenere il baricentro più stabile durante il movimento di avanzata, grazie all’allineamento anca-ginocchio-tibia e al conseguente avvicinamento dei piedi. Confrontando la lunghezza degli arti superiori e degli arti inferiori nelle scimmie antropomorfe e negli ominidi si può comprendere immediatamente l’importanza del femore per l’evoluzione del bipedismo e della statura eretta. Tali differenze sono il riflesso dei rispettivi modi di vita: arboricole-terricole, quadrumani saltuariamente bipedi le an-

tropomorfe; bipedi tout-court gli ominidi. Il femore, nel corso della sua storia evolutiva, è andato incontro a ulteriore modificazioni, ben evidenti dal confronto tra i fossili degli australopitechi e dei primi rappresentanti del genere Homo: l’incremento in lunghezza e diametro ha reso il femore sempre più resistente, dotandolo di più forti inserzioni muscolari, e ha migliorato l’efficienza della falcata (maggiore lunghezza della gamba = minore dispendio di energia per coprire la medesima distanza). Dunque il femore attuale, l’osso più lungo e robusto dell’apparato scheletrico dell’uomo, è il risultato di un lungo processo di modificazioni avvenute nel corso di milioni di anni: ma ben oltre il tempo in cui visse Lucy si dovrebbe risalire per comprenderne l’origine e l’antica funzione, legata alla storia dei Vertebrati. L’evoluzione, stupefacente bricolage biologico, ha sempre fatto i conti con i “materiali” disponibili nelle diverse fasi della storia della vita sulla Terra (v. box di approfondimento): nessuna struttura anatomica è mai stata creata ex-novo, e il femore non fa di certo eccezione. LO STUDIO ANTROPOMETRICO

L’antropometria si occupa di studiare le proporzioni corporee di individui e po43


IV. Il percorso museale

UN PREZZO DA PAGARE... L’acquisizione del bipedismo e della statura eretta comportò notevoli vantaggi per gli ominidi che popolavano le savane africane: primo fra tutti, l’affrancamento degli arti superiori fu cruciale per il potenziamento della capacità di manipolazione dell’ambiente e dunque rappresentò un insospettabile volano del processo di encefalizzazione (chi l’avrebbe mai detto che l’evoluzione del nostro grande cervello sia dipesa anche dal nostro strano modo di deambulare?); secondariamente, essere bipedi in uno spazio aperto come quello di savana può dimostrarsi molto utile per l’individuazione di potenziali prede e predatori, oltre che per fornire una superficie minore ai raggi solari, scongiurando così il riscaldamento eccessivo del corpo. Ma l’evoluzione è un continuo bilancio fra costi e benefici: essa agisce sui materiali disponibili, non disegna a tavolino strutture perfette. Volendo usare una metafora, l’evoluzione è più un aggiustatutto che si procura la materia grezza da un robivecchi, piuttosto che un architetto che progetta qualcosa partendo da un foglio bianco. Una delle migliori dimostrazioni della realtà dei processi evolutivi sta proprio negli inconvenienti che derivano dalle innovazioni morfo-anatomiche: nel nostro caso,“stare in piedi” ha significato anche scaricare un peso medio di circa 70 kg su due punti d’appoggio anziché quattro, sovraccaricando la colonna vertebrale (in particolare la zona lombare), le anche, le ginocchia e le caviglie. Camminando e correndo il sovraccarico aumenta considerevolmente. A questo problema la colonna vertebrale cerca di ovviare con le sue curvature fisiologiche, il femore con la sua inclinazione e le robuste inserzioni muscolari, il piede con l’arco plantare: queste soluzioni dissipano le forze che agiscono sulle articolazioni e le stabilizzano, ma ciò può non essere sufficiente, cosicché le strutture deputate al sostegno del nostro corpo e alla sua locomozione, possono andare incontro a processi di deterioramento.

polazioni umane: ciò può risultare molto utile nelle indagini forensi o nelle ricerche bio-archeologiche. In mancanza di uno scheletro completo, condizione piuttosto frequente nel caso di ritrovamenti fortuiti o scavi archeologici, il femore è un valido indicatore 44

della statura e della costituzione di un individuo. La determinazione della statura e degli indici di robustezza prevede la misurazione di numerosi parametri, fra cui la lunghezza, i diametri della diafisi e della testa, le circonferenze, la larghezza dei


IV. Il percorso museale

condili. Queste operazioni vengono condotte mediante l’utilizzo della tavoletta osteometrica e del compasso scorrevole. LE PATOLOGIE DEGENERATIVE

Le patologie che coinvolgono normalmente il femore sono di tipo degenerativo, imputabili all’avanzare dell’età e agli stress biomeccanici di tipo cronico (causati per esempio da sovrappeso o attività professionali usuranti): • ARTROSI (OSTEOARTROSI O OSTEOARTRITE): patologia di tipo proliferativo, comune sia nelle popolazioni antiche che moderne. Tipicamente legata allo stress biomeccanico a carico delle capsule articolari, con conseguente infiammazione delle membrane sinoviali che rivestono l’articolazione e assottigliamento delle cartilagini: lo spazio articolare si riduce, si innescano fenomeni proliferativi nella zona interessata, con apposizione di osso neoformato (osteofiti), formazioni cistiche e conseguenti alterazioni morfologiche, che possono compromettere sensibilmente la funzionalità dell’arto coinvolto. Il trattamento farmacologico con analgesici può non essere sufficiente e in tal caso è necessario l’intervento di artroprotesi.

OSTEOPOROSI: trattasi della riduzione di densità ossea, che determina un aumentato rischio di frattura; è una tipica patologia senile, ma può essere causata anche da disturbi endocrini (iperparatiroidismo, sindrome di Cushing), neoplasie, patologie infiammatorie croniche (artrite reumatoide), malnutrizione, malassorbimento, menopausa. Alle patologie di tipo degenerativo si aggiungono le patologie infettive (v. “Esempi di patologia ossea infettiva”) e quelle tumorali, più rare. La collezione espone 10 femori, nel ripiano più alto della vetrina 7.

L’ANTROPOLOGIA FISICA Il termine “antropologia” (anthropos = uomo; logos = discorso) si deve ad Aristotele (384-322 a.C.), che nel definire l’uomo un animale razionale seppe coglierne le caratteristiche che lo accomunavano e al tempo stesso lo distinguevano rispetto agli altri animali. Erodoto (484-406 a.C.) e Ippocrate (468377 a.C.) lasciarono testimonianze estremamente interessanti per chi si occupa di antropologia fisica e di paleopatologia: entrambi viaggiatori, descrissero con minuzia i popoli con cui vennero in contatto, ipotizzando che le differenze fra di essi fossero dovute all’influenza eserci-

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IV. Il percorso museale

tata dall’ambiente. Curiose, a questo proposito, le considerazioni di Erodoto nel terzo libro delle sue Storie: qui egli, rammentando una battaglia fra Egiziani e Persiani, ne descrive i crani accumulati al termine dello scontro, notando come i primi fossero estremamente robusti rispetto ai secondi, sottili e fragili. Erodoto ipotizzò che la causa andasse ricercata nelle diverse abitudini di vita dei due popoli: gli Egiziani si rasavano la testa e si esponevano al sole, mentre i Persiani si coprivano e vivevano all’ombra fin da bambini. Nel Medioevo l’interesse per l’uomo dal punto di vista naturalistico è messo in secondo piano. Questa è piuttosto l’epoca delle testimonianze di missionari e commercianti: nel Milione di Marco Polo (1254-1324), per esempio, vengono descritte le caratteristiche dei popoli orientali. Col Rinascimento è la figura di Leonardo da Vinci (1452-1519) a spiccare su tutte: le sue tavole anatomiche sono esempi magnifici dell’importanza rivestita dal corpo umano per gli studiosi del tempo. Edward Tyson (1649-1708), nel 1699, è uno dei primi a studiare l’anatomia comparata di uomini e primati, evidenziando somiglianze che aveva già fatto notare Galeno (129-201 d.C.) più di mille anni 46

prima. L’opera di Carl Nilsson Linnaeus, meglio conosciuto come Linneo (1707-1778), il Systema Naturae (1707), colloca definitivamente l’uomo nel regno animale, fra i Primati. Il naturalista svedese identifica 3 specie appartenenti al genere Homo: H. sylvestris e H. troglodytes (l’orango e lo scimpanzé) e H. sapiens (l’uomo in senso stretto). Non riscontra nulla, dal punto di vista morfo-anatomico, che possa indurlo a istituire un genere diverso per oranghi e scimpanzé: l’idea di una stretta affinità fra uomini e scimmie antropomorfe comincia a farsi strada. Il fondatore del Museo di Storia Naturale di Parigi, Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788), nella sua Histoire naturelle del 1749 contribuisce a impostare lo studio dell’uomo in chiave evoluzionistica, pur con tutti i limiti culturali del suo tempo, sottolineando il ruolo dell’ambiente nella determinazione delle differenze fra gruppi umani. Questo approccio verrà ulteriormente approfondito dal grande evoluzionista Jean Baptiste de Lamarck (1744-1829). Non si può non citare, relativamente a questo periodo, la figura di Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840), considerato il padre dell’antropologia fisica: egli anticiperà future indagini sulla locomozione degli


IV. Il percorso museale

scimpanzé e si occuperà estesamente di craniologia. Sua l’opera del 1775 De generis humanis varietate nativa. Sulla scorta di questi nuovi stimoli, i musei di scienze naturali del XIX secolo cominciano a raccogliere ed esporre sempre più reperti antropologici. Ma è soprattutto grazie alla teoria della selezione naturale di Charles Darwin (1809-1882) che l’antropologia fisica che oggi conosciamo diventa una scienza a tutti gli effetti, libera da qualsiasi speculazione metafisica: l’uomo è il risultato di una lunga serie di modificazioni e per comprenderne pienamente le caratteristiche è necessario studiarne l’origine e l’evoluzione. Ovviamente, l’accettazione di questa teoria non fu immediata: Darwin pubblica On the Origin of Species nel 1859 e The Descent of Man nel 1871. A questi celeberrimi lavori si affianca, nello stesso periodo, il Man’s place in Nature di Thomas Huxley (1825-1895) del 1863, ma perché la comunità scientifica si convinca della bontà del ragionamento darwiniano dovranno passare molti anni. Cruciale, da questo punto di vista, la pubblicazione delle ricerche sull’ereditarietà di Gregor Mendel (1822-1884): risalenti al 1865, verranno prese in considerazione solo nel 1900, fornendo un eccellente supporto

alle teorie di Darwin. Fraintendimenti e strumentalizzazioni ideologiche renderanno difficile il cammino dell’antropologia fisica nella prima parte del XX secolo, ma essa tornerà a stimolare il dibattito scientifico con le scoperte fossili degli ominidi africani nel corso del dopoguerra. L’oggetto delle ricerche dell’antropologia fisica è dunque l’uomo inteso come ente biologico (Homo sapiens). In altre parole l’antropologia fisica si occupa di ricostruire la “storia naturale dell’uomo”, come da definizione di Pierre Paul Broca (1824-1880): la sua origine, la sua evoluzione, la sua variabilità, le sue caratteristiche genetiche, fisiologiche, anatomiche ed eco-etologiche. Per farlo, si avvale di numerose metodologie: dall’osteologia (lo studio dello scheletro) all’antropometria, dalla ricerca molecolare (DNA) a quella paleontologica e paleopatologica, dall’indagine condotta sul singolo individuo, a quella popolazionistica, estesa a interi gruppi umani. In ciò l’antropologia fisica si differenzia, almeno in Italia, dall’antropologia culturale. Va fatto notare, in ogni caso, che le due discipline, seppur utilizzando approcci differenti, si completano e che il loro dialogo è sempre auspicabile. L’antropologia italiana vanta una storia 47


IV. Il percorso museale

Vetrina 8: ? Batricefalia

illustre, che si lega con le dinamiche politiche e culturali innescate dal processo di unificazione nazionale. A Pavia, nel 1860, la cattedra di antropologia è tenuta da Giuseppe Vincenzo Giglioli, cui succede Cesare Lombroso (1835-1909), futuro docente di antropologia criminale a Torino nel 1905. Va di certo annoverata la figura di Filippo De Filippi (1814-1867), allievo del grande anatomista Bartolomeo Panizza e docente di Zoologia presso la Regia Università di Torino: in questa città, la sera dell’11 gennaio 1864, De Filippi tiene una conferenza dal titolo “L’Uomo e le Scimie”, in cui sostiene con forza l’applicabilità delle teorie di Darwin alla specie umana. A lui succede Michele Lessona, che ne raccoglie l’eredità. Figura di spicco nel panorama antropologico italiano è senza ombra di dubbio Paolo Mantegazza (1831-1910), professore di Antropologia presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze dal 1869 al 1910 e fondatore, nel 1871, della Società Italiana di Antropologia ed Etnologia. Vale la pena citare un suo passaggio in Quadri della natura umana (1870): per Mantegazza l’antropologia “non ha altra pretesa che quella di studiare l’uomo con lo stesso criterio sperimentale con cui si studiano le piante, gli animali, le pie48

tre… Non ha altra aspirazione che quella di misurare, di pesare l’uomo e le sue forze senza il giogo di tradizioni religiose, di teorie filosofiche preconcette, senza orgoglio, ma senza paure”. Giuseppe Sergi (1841-1936), professore a Bologna e Roma, è un altro grande esponente dell’antropologia italiana: allievo di Mantegazza, se ne discosta successivamente, segnando così una profonda frattura con l’impostazione olistica della disciplina fino allora fortemente voluta dal suo ex maestro. Nasce con Sergi l’antropologia fisica italiana: è un passaggio importante, perché da adesso in poi i due campi dell’indagine antropologica, quello biologico e culturale, marceranno separatamente. Non vanno dimenticate le figure di Giu-


IV. Il percorso museale

? Vetrina 8: Idrocefalia. Si notino le ossa sovrannumerarie (wormiane)

presentata dall’Associazione Antropologica Italiana, fondata nel 1995. La ricerca antropologica attuale e futura è inevitabilmente legata allo studio delle dinamiche fra uomo e ambiente moderno: la tecnologia, uno straordinario prodotto dell’evoluzione culturale, interessa ormai ogni aspetto della vita umana, dall’alimentazione all’igiene personale, dal lavoro al tempo libero. Quali sono e quali saranno le sue conseguenze su quel bipede dal grande cervello chiamato uomo? stiniano Nicolucci (1819-1905) che insegna a Napoli e vi fonda il Museo di Antropologia ed Etnologia, di Enrico Tedeschi (1869-1931) e Fabio Frassetto (1876-1953), allievi del Sergi e docenti a Padova e Bologna, di Enrico Morselli (1852-1929), autore de L’uomo secondo la teoria dell’evoluzione, e di Rodolfo Livi (1856-1920) autore di Antropometria militare, imponente studio antropometrico condotto su 300.000 soldati di diverse zone del nostro paese. Fino al secondo conflitto mondiale, l’antropologia italiana può contare su centri di ricerca ben consolidati: Bologna, Napoli e Roma per l’antropologia fisica, Padova, Firenze e Torino più incentrate sugli studi di carattere etnologico. L’antropologia fisica in Italia è oggi rap-

II. Vetrina 8: LA COLLEZIONE DI CALVARIA La collezione di calotte del Museo è di indubbio valore. Consiste di 32 calvaria (27 nella vetrina 8), su cui è possibile evidenziare numerose alterazioni patologiche, tuttora in corso di studio. Fra i casi più eclatanti che vale la pena segnalare rientrano senza dubbio i calvaria affetti da batricefalia (emergenza più o meno accentuata della porzione superiore della squama occipitale), plagiocefalia (un grado più o meno notevole di asimmetria delle due metà della volta cranica), macrocefalia-idrocefalia (lo sviluppo abnorme dell’encefalo, spesso accompagnato da raccolta di liquido nei ventricoli cerebrali), iperostosi frontale 49


IV. Il percorso museale

Vetrina 8: ? Iperostosi frantale interna (Sindrome di Morgagni) Il nano ?

interna (o Sindrome di Morgagni-StuartMorel, un ispessimento, normalmente bilaterale, del tavolato interno dell’osso frontale, associata a patologie dismetaboliche come il diabete), e la patologia vascolare endocranica o meningea reattiva.

La teca 9 con preparazione anatomica in tassidermia Fra i reperti a secco esposti nel Museo spicca un essere umano di 49 anni custodito all’interno di una teca, posizionato su un supporto museale di antica fattura. Il caso clinico La statura del soggetto è di 67 cm, la circonferenza cranica di 56 cm e quella toracica di 70 cm. Sono presenti vistose malformazioni scheletriche, fra cui un marcato gibbo, associabili al nanismo. Gli occhi e il cuoio capelluto sono in sede e appaiono disseccati ma in buono stato di conservazione. La cute è lucida, di colore bruno. Aldilà dell’incisione cranica, tipica dell’esame autoptico, la presenza di una doppia incisione, anteriore e posteriore, risulta inusuale a fini 50

strettamente medico-legali: l’ipotesi è che l’individuo sia stato sottoposto ad autopsia e successivamente preparato per un’esposizione museale. A questo proposito venne inizialmente ipotizzato un intervento di tannizzazione, suggerito dalla colorazione innaturale della cute: tale metodica, sviluppata nel 1867 a Padova, da Lodovico Brunetti, consisteva nel dissanguamento, con successivo lavaggio del letto vascolare tramite iniezione di acqua nelle arterie; seguiva dunque una fase di sgrassamento dei tessuti con etere solforico e la tannizzazione con acido tannico diluito con acqua demineralizzata; la preparazione si concludeva con la disidratazione mediante esposizione ad aria calda compressa.


La tecnica di preparazione in tassidermia L’ipotesi della tannizzazione è stata tuttavia sconfessata dall’esame radiografico del soggetto, che ha evidenziato l’assenza degli organi interni, sostituiti da materiale di riempimento: il corpo è stato dunque completamente eviscerato, la cute presumibilmente rimossa, trattata con fissativi come il sapone arsenicale, per scongiurare i processi degenerativi e in seguito disidratata e rimontata sul reperto scheletrico; quest’ultimo è stato invece trattato secondo le tecniche della scheletropea (v.: “Le preparazioni di osso disseccato”). Si è dunque di fronte ad una tipica tecnica tassidermica, utilizzata nei musei di Scienze Naturali per le esposizioni zoologiche: ciò è sicuramente inusuale per

un reperto umano, che in genere viene mummificato artificialmente, lasciando all’interno della mummia almeno una parte degli organi interni, se non addirittura tutti. Tutto ciò depone a favore dell’ipotesi che il preparatore si fosse formato presso il “Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti” di Venezia, nel quale lavorò Enrico Filippo Trois (18381918), specializzato per l’appunto in tassidermia. Tuttavia, l’assenza di un rivestimento in gommalacca, tipico di tutte le preparazioni del Trois, non permette di attribuirgli con certezza la preparazione di questo reperto. Indipendentemente dalla documentazione storica e tecnica relativa alle spoglie di quest’uomo, resta la grande importanza del reperto, un raro caso di tassidermia umana. 51


SCUOLA GRANDE DI SAN MARCO Castello, 6777 - Venezia e-mail: scuolagrandesanmarco@ulss12.ve.it www.scuolagrandesanmarco.it



La Scuola Grande di San Marco è patrimonio culturale dell’Azienda ULSS 12 Veneziana, che la valorizza quale sede del Museo di storia della medicina, Archivio storico, Biblioteca storico-scientifica, Museo di anatomia patologica e Farmacia storica

Venezia, ottobre 2014


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