Haiti dalle macerie

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Fotografie di Carlo Cerchioli Testo di Roberto Di Caro

H a|t| dalle macerie



introduzione

di Carlo Cerchioli




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Arrivo a Port-au-Prince al tramonto di un giorno di fine marzo 2010, quasi tre mesi dopo il terremoto. L’aereo non sorvola la città, non vedo le macerie che mi aspettavo, solo le macchie blu di qualche tenda e il color ruggine dei container allineati alle spalle del porto. Mezz’ora per il controllo del passaporto, poi fuori il buio già profondo è rischiarato unicamente dai fari delle automobili, perché l’illuminazione stradale non c’è, il rumore del traffico e delle voci è molto forte, l’aria è pesante, l’odore del gasolio degli scarichi di camion e pick-up prende alla gola. Devo cercare volti e luoghi, raccogliere un reportage per il progetto Danone per Haiti, mi accompagnano gli operatori della Fondazione Francesca Rava che da anni opera nell’isola. Me ne accorgo presto: quella sottile linea di confine che dopo una catastrofe naturale, sia un’alluvione o un terremoto, segna il prima e il dopo, qui non è facilmente individuabile. Sì, c’è il Palais National afflosciato su se stesso, altri edifici del centro sono totalmente distrutti, ma per le strade le persone hanno ripreso i loro piccoli commerci, tutti trasportano qualche cosa, sulla testa o in spalla, con una meta precisa. Per loro sembra che le macerie non esistano, che siano ormai diventate parte del paesaggio di sempre. La povertà del paese è così diffusa che non si capisce qual è quella di prima e qual è quella nuova, provocata dal sisma. Istintivamente il mio lavoro di ripresa quasi tralascia le macerie per concentrarsi sulla vita quotidiana delle persone. Evitare le immagini spettacolari e scioccanti, quelle che ti fanno girar pagina rapidamente e ti danno un senso di fastidio a guardarle troppo a lungo, diventa


poi, in questo libro, una scelta ragionata; è un invito a osservare questi frammenti di quotidianità, per recuperare quelle informazioni che si sono perse nell’emozione dell’emergenza. Il testo di Roberto Di Caro, inviato dell’Espresso che è stato più volte ad Haiti prima e dopo il terremoto, fornisce altre informazioni che, ripercorrendo le tappe della storia recente del paese, aiutano a contestualizzare le immagini. Con Roberto ho lavorato per anni in perfetta sintonia e anche in questo caso è stato un bel lavorare. Il contributo di Danone Italia e l’aiuto della Fondazione Francesca Rava – N.P.H. Italia Onlus hanno reso possibile questo libro. Per l’avventura umana devo ringraziare Simone Ceruti, direttore delle relazioni esterne di Danone Italia, al quale sono legato da amicizia, stima e molti progetti realizzati insieme. Grazie a Danja Giacomin e Laura Grimaldi, insostituibili punti di riferimento in Danone. Silvia Valigi e Chiara Del Miglio della Fondazione Francesca Rava e Rosaline Paul dello staff di padre Rick Frechette della missione Nuestros Pequeños Hermanos. Ringrazio inoltre l’editore Luca Formenton che ha creduto nella mia idea. Alessandro Cunietti, Paola Sala, Marica Fasoli, Marianna Albini e Mattia Garofalo che al Saggiatore hanno seguito le varie fasi del lavoro. La mia riconoscenza a due cari amici: Bruno Rainaldi, che ha generosamente ospitato la mostra fotografica nella sua galleria entratalibera, ed Elena Ceratti, la curatrice, la mia preziosa consigliera nella scelta delle immagini.

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dalle macerie

di Roberto Di Caro




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«Loudine, Mathieu, Joseph, Mirline, Jean-Jacques, Cherlande, Sheelove…» È una lista di vivi, non di morti. Marceline scandisce i nomi sulle dita, muovendo il capo pettinato con cura a treccine. Sono suoi fratelli, cugini, figli di vicini di casa rimasti orfani quel martedì 12 gennaio 2010 quando alle 16.53, per trentacinque secondi, la terra è come impazzita. Quindici bambini, dai sette ai quattordici anni: ora vivono tutti con lei e con sua zia Marie José Jean Baptiste, l’unica adulta rimasta a prendersi cura di loro. Ha quarantacinque anni Marie José, il corpo curvo, il volto scavato come se ne avesse venti di più. Ma non è stato il terremoto a invecchiarla all’improvviso. Non sempre le macerie sono quelle che ti appaiono come tali: cataste di pietre, mattoni, travi e lamiere, resti di giocattoli, mobili, quaderni e fotografie, vite passate di corpi rimasti sottoterra. Macerie sono la vita di Marie José. Macerie sono quel che resta di un popolo che da sempre vive nella più assoluta aleatorietà, sottoposto all’arbitrio del caso e del potere, dei dittatori, dei tifoni, delle gang e del risiko geopolitico centroamericano. Macerie sono l’Aids che contagia il 7 per cento della popolazione. Gli stupri abituali. E, al tempo del mio primo viaggio ad Haiti per le elezioni presidenziali del 2006, quella ragazzina neanche quattordicenne che impacciata ti si offriva nella scuola di Belair trasformata in ufficio elettorale centrale, là dove l’unica percepibile parvenza di Stato distribuiva i documenti d’identità per votare. Macerie erano, già allora, i centocinquanta rapimenti al mese, della religiosa come del cadavere del bambino al funerale, della signora della bourgeoisie per 250mila dollari di riscatto e della verduraia


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per mille. O il corpo di quel ladruncolo ammazzato la mattina alle nove dalla polizia con un colpo alla testa perché colto a rubare, che alle sei di sera ho visto ancora lì, in una pozza di sangue, senza neanche un lenzuolo addosso, scavalcato dai passanti nel caotico viavai in faccia al dedalo di bottegucce di quadri naïf e armamentari vudù del Marché en fer, un tempo meta obbligata dei turisti. Finché la sera, con lo scemare del traffico, la Croce Rossa non è passata a raccogliere morti e feriti, così come si fa pulizia alla fine di un mercato. Questa era l’isola che il terremoto ha devastato. Solo così si comprende ciò che è avvenuto dopo, nei giorni immediatamente successivi al sisma e nei mesi seguenti. Soprattutto ciò che doveva essere e non è stato: una ricostruzione annunciata e mai davvero cominciata, benché finanziata con miliardi di dollari: due raccolti dalle sole organizzazioni umanitarie internazionali, undici promessi dai paesi donatori riuniti a marzo nella Conferenza di New York. Le macerie che vedi e tocchi, le lamiere contorte e i blocchi di cemento che tranciano il cammino sono ancora lì perché insistono sulle macerie di un’anima haitiana segnata dalla fragilità dell’esistenza. E quanto più vaga è la vita, indisponibile all’umana volontà, tanto più i destini appaiono insondabili ma già decisi, indipendenti dalle scelte del singolo, scritti una volta per tutte da quel “Dieu vivant”, “Jésus seul maître”, “L’Eternel tout-puissant” che leggi come insegna di qualunque attività, la parrucchiera, il banco dei pegni, il negozio d’alimentari, e sui coloratissimi camion, autobus, tap-tap dove la gente sale e scende freneticamente per poche gourde, la moneta locale.


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In copertina Ragazzi nella bidonville CitĂŠ Soleil, Port-au-Prince.

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Traffico dopo le otto di sera, Tabarre.

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Passante di fronte ai resti della cattedrale di Notre-Dame de l’Assomption, nel cuore di Port-au-Prince.

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Ammainabandiera al Palais National, Port-au-Prince.

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Donna con bambino in una tendopoli.

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Tende e cartelloni pubblicitari.


Toilette, lavanderia e provviste d’acqua a una fontanella pubblica.

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Donna cucina il cibo che vende lungo una strada, Tabarre.

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Mercato coperto ai margini di Cité Soleil.

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Donne al mercato di strada lungo la recinzione del distrutto Marché en fer.

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Ricostruzione del muro di cinta dell’ospedale Saint Damien, Tabarre.

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Bambini alla tendopoli Delmas 2.

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Giovane donna lungo rue Tecine.

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Passanti lungo rue Tecine.

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Tap-tap, il principale mezzo di trasporto pubblico haitiano.

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Militare della Minustah, missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti, di pattuglia nella capitale.

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Venditore di canna da zucchero; sullo sfondo il MarchĂŠ en fer.

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Tendopoli di fronte alla cattedrale di Notre-Dame de l’Assomption.


Tende e case distrutte dal terremoto viste da avenue John Brown, PĂŠtionville.

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Distribuzione gratuita di riso organizzata dai volontari della Fondazione Francesca Rava – N.P.H. Italia Onlus nella tendopoli Delmas 75.

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Chiamata nominale per la distribuzione del riso.

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Il riso, un sacco per famiglia, scaricato dai camion.

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Due ragazzi portano il riso nella loro tenda.

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Donne trasportano nel modo tradizionale il riso ricevuto.

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La tendopoli Delmas 2.

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Madre e figlio all’ospedale Saint Damien di Tabarre, l’unica clinica pediatrica di Haiti.

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Padre con figli in attesa all’ospedale Saint Damien. Sul muro di cinta, l’immagine di Toussaint Louverture, l’eroe della rivoluzione haitiana.

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Bambino alla scuola di Angels of Light, il programma della Fondazione Francesca Rava che segue i bambini dopo il terremoto, Tabarre.

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Bambina nell’ambulatorio dell’ospedale Saint Damien, Tabarre.


Fisioterapista volontaria aiuta una bambina a riprendere la mobilità di un ginocchio a Francisville, Tabarre.

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Bambino in attesa della visita al laboratorio protesi della Casa dei Piccoli Angeli, centro di riabilitazione per bambini con handicap fisici e psichici della Fondazione Rava, Tabarre.

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Ogni due settimane padre Rick Frechette, fondatore di Nos petits frères et sœurs ad Haiti, dà sepoltura ai corpi senza nome abbandonati nelle strade, Titanyen.

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Medico volontario culla un neonato al reparto bambini abbandonati dell’ospedale Saint Damien, Tabarre.

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Piccolo paziente dell’ospedale Saint Damien, Tabarre.

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