Rrose n. 2

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Rrose. 02 La creativitĂ , di volta in volta

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riccardo falcinelli franco arminio gabriele basilico achille bonito oliva maria luisa spaziani osvaldo pieroni mauro cicarè maurizio maggiani mimmo paladino massimo de nardo musica nuda angelo simone elisa savi ovadia fabio palombo carmina campus matteo pericoli riccardo giacconi chiara gabrielli rrose robert mapplethorpe angelo trani paolo rinaldi

bimestrale anno 2 numero 2 maggio 2012 â‚Ź 4,00


www.castagnari.com


«Ci sono cose (…) che un uomo non è in grado di concepire finché a un altro non viene la bizzarra idea di farle. Ma una volta fatta, quella cosa, buona o cattiva che sia, diventa patrimonio dell'umanità. Utilizzabile, riproducibile, e addirittura superabile.» fred vargas Un luogo incerto, Einaudi, 2009

{indice} copertina 1a » {mimmo paladino} 2a » Sponsor a 3 » Colophon Promozione Ebook a Sponsor 4 »

Blow up-Gesto, 2006 Castagnari Ogni tanto fatela suonare Banca Marche

interno 1» I mutamenti della giovane Rrose 2 › 3 » Gli autori di Rrose n. 2 4 › 7 » {riccardo falcinelli} Fare i libri di Rrose 8 › 9 » {franco arminio} I piedi in Terracarne di Rrose 10 › 17 » {gabriele basilico} Tra catastrofe e saggezza sistemica di Achille Bonito Oliva 18 › 21 » {maria luisa spaziani} Chi ha lottato con l’angelo resta fosforescente di Riccardo Giacconi 22 › 23 » Il paesaggio cancellato di Osvaldo Pieroni 24 › 25 » Metropoli di Mauro Cicarè 26 › 27 » La luna sulla mia patria vallata di Maurizio Maggiani 28 › 33 » {mimmo paladino} Ogni arte provoca altra arte di Massimo De Nardo 34 › 35 » {musica nuda} L’uomo col cane di Angelo Simone 36 › 37 » {robert mapplethorpe} Niente di contestabile di Elisa Savi Ovadia 38 › 39 » Traindogs di Fabio Palombo 40 › 43 » La moda etica: creare senza distruggere di Carmina Campus 44 › 48 » {matteo pericoli} Riuscire a trovare quella voce capace di dire il più possibile col minimo indispensabile di Chiara Gabrielli Rrose ringrazia Francesco Cardinali per la preziosa e amichevole collaborazione. hanno partecipato al primo numero di rrose: Gillo Dorfles, Bruno Ceccobelli, Mimmo Jodice, Germano Celant, Margherita Palli, Maurizio Ferraris, Annamaria Testa, Lorenzo Fonda, Fabrizio Ottaviucci, Enzo Mari,Vittorio Zincone, Mauro Cicarè, Angelo Ferracuti, Elisa Savi Ovadia, Pasquale Barbella, Dem, Mauro Bubbico, Monica Randi, Barbara Garlaschelli, Luciano Romano, Gian Mario Bandera, Claudio Casanova, Fabrica, Piero Feliciotti, Paolo Rinaldi, Chiara Gabrielli, Massimo De Nardo

i mutamenti della giovane rrose Rrose 2. Un nome accompagnato da un numero. Il primo resterà uguale, da qui a chissà (lunga vita a Rrose); il secondo è in progress (lunga vita ai numeri). Gli autori di Rrose 2 sono straordinari, come lo sono stati quelli di Rrose 1. E a loro vanno tutti i nostri sogni (si accontenteranno?). Alcune cose sono cambiate, soltanto quelle che riguardano la “materia” di Rrose, o, per dirla diversamente, quelle che hanno a che fare con la realtà commerciale e che ci hanno costretti al calcolo. In breve: da free press a 4 euro. Chi non ha conosciuto Rrose 1 non sa che il nostro primo numero lo abbiamo regalato, spese di spedizione comprese. Abbiamo rotto parecchi salvadanai. È stato magnifico averlo fatto. Un regalo anche a noi stessi. Nella redazione di Rrose c’è una cartolina rossa con su scritto, in bianco: Qualcuno ha un martello a portata di mano? Firmato: Subcomandante Marcos. Non sappiamo a cosa si riferisse, sta di fatto che il martello lo abbiamo preso e utilizzato (simbologie di una utopia sgangherata, però utili). Rrose 1 ha viaggiato con le Poste (qualche volta si è pure smarrita), adesso è il distributore Joo a consegnare un po’ di copie di Rrose 2 a 52 librerie, da nord a sud. L’ultimo cambiamento riguarda la “linea di condotta”: da qui in poi ogni numero avrà un tema, che occuperà più o meno la metà delle pagine; l’altra metà resta liberissima di saltellare sul “vario” della creatività. Il tema di Rrose 2 è il paesaggio, facile accorgersene. Da vari punti di vista. Creativamente. Passate in libreria e passate parola. Grazie.

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{gli autori di rrose n. 2} riccardo falcinelli

achille bonito oliva

osvaldo pieroni

Grafico editoriale. Ha progettato libri e collane per vari editori italiani, tra cui Einaudi Stile libero, minimum fax, Laterza, Eleuthera, Newton Compton. Ha pubblicato Guardare, pensare, progettare (Stampa alternativa & Graffiti, 2011) e Fare i libri (minimum fax, 2011) sui problemi del graphic design in ottica scientifica e culturale. È autore dei graphic novel Cardiaferrania (minimum fax, 2001), L’allegra fattoria (minimum fax, 2007) e Grafogrifo (Einaudi, 2004). Da gennaio 2012 è codirettore della rivista dell’Aiap Progetto Grafico. Insegna Comunicazione visiva presso la Facoltà di Disegno industriale dell’Università La Sapienza di Roma. www.falcinelliand.co

Critico d’arte, insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Assertore di una funzione attiva del critico a fianco dell’artista, è stato il teorico del movimento artistico Transavanguardia. Curatore generale della Biennale di Venezia del 1993, ha promosso l’arte contemporanea con centinaia di mostre ed eventi. Ha pubblicato, fra gli altri: Il territorio magico (1971); L’ideologia del traditore: arte, maniera, manierismo (1976); L’arte fino al 2000 (1991); Le nuove generazioni (2002); Autocritico/automobile (2002); Lezione di boxe. Dieci round sull’arte contemporanea (2004).

Sociologo, apprezzato fotografo e fotoreporter (attività che gli è valsa numerosi riconoscimenti anche di carattere internazionale), pittore, scrittore, esponente di punta del movimento ambientalista e pacifista meridionale, protagonista di innumerevoli lotte in difesa dell’ambiente, per la valorizzazione delle risorse dei territori e la riscoperta del senso dei luoghi, contro tutte le mafie o ingiustizie e per la pace. Unisce l’impegno militante a quello accademico come professore ordinario di sociologia dell’ambiente presso l’Università della Calabria. www.osvaldopieroni.circolofotografico.eu

maria luisa spaziani

mauro cicarè

Vive a Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente, dove è nato. Di mestiere, dice lui, fa il paesologo. È anche poeta, scrittore e documentarista. Tra le sue pubblicazioni: Nevica e ho le prove (Laterza, 2009), Cartoline dai morti (Nottetempo, 2010), Oratorio Bizantino (Ediesse, 2011), Terracarne (Mondadori, 2011). Collabora con il manifesto, Il Mattino, il Corriere del Mezzogiorno e altre testate nazionali e locali. Nel 2010 il regista Andrea D’Ambrosio ha realizzato un documentario sul suo lavoro di paesologo. www.francoarminio.it

Formatasi nel clima postermetico di ascendenza montaliana (la sua prima raccolta, Le acque del sabato, è del 1954), studiosa di letteratura francese, traduttrice. Nel 1981 ha fondato a Roma il Centro internazionale Eugenio Montale, tra le cui attività annuali figura un premio internazionale di poesia. È presente nelle più autorevoli antologie italiane e straniere del secondo Novecento; suoi interventi, poesie e saggi sono apparsi sulle più prestigiose riviste di critica e letteratura. Tutte le sue raccolte poetiche sono state pubblicate nel 2012 nella collana I Meridiani (Mondadori).

Disegnatore di fumetti, illustratore e pittore. Sue opere sono apparse su riviste e quotidiani, in Italia e all’estero. Ha collaborato con importanti case editrici tra cui Feltrinelli, Einaudi, Utet Librerie. Con lo scrittore Angelo Ferracuti ha recentemente realizzato la graphic novel L’Angelo Nero, pubblicata sul settimanale Alias. www.maurocicare.it

gabriele basilico

riccardo giacconi

Laureato in architettura, si è dedicato alla fotografia, privilegiando il paesaggio industrializzato e le visioni urbane, senza ignorare i temi sociali. Molte le esposizioni personali e collettive; numerose le pubblicazioni fotografiche (fra cui: Milano, ritratti di fabbriche, 1981; Porti di mare, 1990; Paesaggi di viaggio, 1994; Cityscapes, 1999; Scattered city, 2005; Appunti di un viaggio 1969-2006, 2006; Vertiginous Moscow: Stalin’s city today, 2009); importanti i premi ottenuti (tra cui, nel 1996, l’Osella d’oro per la fotografia di architettura contemporanea alla VI mostra di architettura della Biennale di Venezia). Le sue opere sono presenti in collezioni e musei pubblici e privati.

Ha studiato arti visive all’Università IUAV di Venezia, alla UWE di Bristol e alla New York University. Ha presentato i suoi film in diversi festival, fra cui il Torino Film Festival (2011) e il FID Marseille International Film Festival (2011); recentemente è stato “artista in residenza” presso Viafarini, Milano. Nel 2007 ha co-fondato il collettivo artistico Blauer Hase, con cui cura la pubblicazione periodica Paesaggio. Realizza spesso delle interviste e segue Rrose da vicino, sin dall’inizio.

franco arminio

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maurizio maggiani Ha esordito nel 1989 con il romanzo, a sfondo autobiografico, Màuri, Màuri. Ha ottenuto i premi Viareggio e Campiello con Il coraggio del pettirosso (1995), opera caratterizzata da un complesso intreccio di piani spazio-temporali che si ritrova anche nei successivi La regina disadorna (1998) e Il viaggiatore notturno (2005), vincitore del premio Strega. Nel 2007 ha pubblicato il libro fotografico Mi sono perso a Genova (2007). Nel 2010 è tornato alla scrittura con il romanzo Meccanica celeste. Collabora con i quotidiani Il secolo XIX e La Stampa. www.mauriziomaggiani.it

mimmo paladino Protagonista assoluto della Transavanguardia, è un artista poliedrico che si muove con raffinata naturalezza utilizzando diversi


linguaggi: dalla pittura al teatro, dalla scultura alle sperimentazioni cinematografiche. Il suo è un segno potente, di rara intensità evocativa, costruito spesso su figure di archetipi lontani: cavalli, corpi di cavalieri, maschere, segni alchemici e cabalistici. Fonde con disinvoltura e vivacità cromatica elementi figurativi ispirati all’arte egizia, etrusca o paleocristiana. Le sue opere sono collocate in permanenza in alcuni dei principali musei internazionali.

musica nuda Nel 2003 Petra Magoni e Ferruccio Spinetti si incrociano per la prima volta: Petra canta e Ferruccio è il contrabbassista degli Avion Travel (lo è stato dal 1990 al 2006). Da allora formano il duo Musica Nuda: una voce (quella di Petra) che si fa interprete di emozioni, un contrabbasso (quello di Ferruccio) che si fa orchestra. Il loro ultimo album, Complici (Blue Note/Emi Music Italy, 2011), contiene quattordici brani inediti. www.musicanuda.it

angelo simone Vive e lavora a Roma. Affianca all’attività di sceneggiatore quella di responsabile ufficio stampa per aziende nazionali e internazionali. Si occupa anche di critica cinematografica e teatrale. Ha esordito nella narrativa con una serie di racconti brevi su Extra, allegato de il manifesto. Ha pubblicato i romanzi Il mare in uno stagno (Ediesse, 1997) e L’uomo a una stella (Flaccovio, 2010) ed è tra gli autori dell’antologia noir Omicidi all’italiana (Colorado, 2007). www.angelosimonecopywriter.wordpress.com

angelo trani Da qualche anno si dedica esclusivamente alla fotografia di spettacolo (musica, teatro e cinema), perché ha sempre trovato interessanti le persone che cercano (o spesso hanno bisogno) di comunicare non solo con le parole, ma anche con i suoni, con il corpo o con le immagini. Si occupa di fotografia commerciale e di ritratti

editoriali; collabora con riviste di moda e di costume. Alcune sue foto sono state scelte come copertine di libri e di dischi. www.angelotrani.com

elisa savi ovadia Stilista di moda e costumista teatrale, video maker e collaboratrice di Moni Ovadia, suo compagno di vita da molti anni. Da sempre interessata alla storia del costume e della moda, colleziona cappelli di tutto il mondo e di tutte le epoche, in particolare degli anni Venti e Trenta. Nel 2008 ha creato – insieme ad Elena Masut, amica di sempre – il marchio “Capplé, cappelli fatti a mano in Italia”. www.capple.it

fabio palombo Genovese, intraprende studi matematici e chimici, lunghi e approfonditi. Poi, un giorno, senza alcuna logica, si trasferisce a Milano e inizia a fare il copywriter. E lo fa da vent’anni. Da due scrive Traindogs, ogni giorno su facebook. La sua pagina ha avuto un milione e mezzo di visite, diventando, soprattutto, un posto dove la gente si scambia emozioni. Nel frattempo Traindogs è diventato mostra, spettacolo, trasmissione radiofonica, banco di prova per attori. E chissà cos’altro. www.traindogs.it

Ha esposto i suoi lavori in gallerie e musei europei e statunitensi. I suoi libri sono stati pubblicati negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Italia, in Corea del Sud, in Cina. La sua ultima pubblicazione è “London Unfurled” (Picador UK, 2011). In luglio uscirà la versione dello stesso per bambini intitolata “London for Children” (Macmillan Children’s Books UK). www.matteopericoli.it

paolo rinaldi Giovane progettista grafico, si è diplomato al Centro sperimentale design di Ancona. È il fantasista e l’impaginatore di questo numero di Rrose (come lo è stato per il numero 1), dalla prima pagina all’ultima, copertina compresa. Ha un debole (che poi sarebbe la sua forza) per l’elaborazione o la completa trasformazione grafica dei font.

chiara gabrielli Ama la razionalità della procedura penale, materia in cui svolge la sua attività di ricerca universitaria, e la creatività delle arti, del teatro e della letteratura, che occupano gran parte del suo tempo libero. Preziosissima, in redazione: corregge, suggerisce, trova. E puoi chiederle di tutto: ha una memoria impressionante che non puoi certo dimenticare.

ilaria venturini fendi (Carmina Campus) È l’ideatrice di Carmina Campus. Figlia di Anna Fendi, ha lavorato a lungo nell’azienda di famiglia come direttore creativo accessori per Fendissime e Shoe designer per Fendi. Poi è diventata imprenditrice agricola di un’azienda convertita al biologico. Da quella esperienza, nel 2006 è nato il progetto Carmina Campus, con la voglia di riprendere l’attività di designer. www.carminacampus.it

matteo pericoli Architetto, disegnatore, insegnante. I suoi disegni sono stati pubblicati, tra gli altri, su The NewYork Times,The Observer, NewYorker, La Stampa.

massimo de nardo Nel primo numero di Rrose si è presentato come un copywriter un po’ stanco del linguaggio banalotto e volgare della pubblicità contemporanea. Non ha cambiato idea. Ma questa è una variante del tutto personale, che non c’entra nulla con Rrose. Assieme alla redazione di Rrose (la parola “redazione” ha un sapore buonissimo) ha in mente non solo il numero 3 (nel quale crede fortemente) ma altre specialità della casa (editrice). Si cercano volenterosi volontari. Qualcuno anche in veste di inserzionista. www.massimodenardo.it

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{riccardo falcinelli} Riccardo Falcinelli è un art director. Si occupa di molte cose, ma tutte in qualche modo riguardano la comunicazione. Fa un bel mestiere, di quelli che un tempo (e ancora oggi?) si definivano “creativi”. Falcinelli ha un ottimo rapporto con i suoi clienti. Tra questi, minimum fax. L’ottimo rapporto è dimostrato dalle centinaia di copertine che ha realizzato per la casa editrice romana. La loro prima copertina l’ha disegnata una decina di anni fa, come suggerisce il titolo del libro che Riccardo Falcinelli ha curato: Fare i libri. Dieci anni di grafica in casa editrice. In quarta di copertina scrivi che «Le copertine devono assomigliare a tre cose: al libro che racchiudono, all’editore che lo pubblica, al lettore che lo compra». È una visione ottimistica della realtà riuscire a mettere insieme queste tre condizioni o è un puro dato di fatto legato al progetto? Se io, come lettore, dovessi assomigliare per il mio 1/3 a certi editori forse non comprerei quel libro, che invece acquisterei per la storia o per l’autore. Che ne pensi? Un libro lo si può raccontare in vari modi, non esiste la copertina perfetta ma molte e diverse a seconda del Paese in cui si pubblica, del momento storico, delle mode. La copertina deve ovviamente avere un legame col contenuto del libro ma questo è il dato meno importante, quello che conta davvero è come quel libro è percepito dai lettori, ovvero Delitto e Castigo è in parte un libro diverso se esce in una collana costosa con traduzioni di eccellenza e se esce in un’edizione tascabile popolare ed economica, quello che cambia è il lettore e i lettori sono di tanti tipi: studenti costretti a leggere, appassionati eruditi, lettori da ombrellone (esagero ma avrete capito il concetto). L’editore propone il libro e il suo design tenendo conto di queste cose: il libro deve somigliare al lettore non semplicemente sul piano culturale o

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psicologico, ma soprattutto su quello dell’uso: che cosa ci faranno con questo libro? Perché vogliono comprarlo? Quanto sono disposti a spendere? Quanto conterà per la loro vita interiore? Ho realizzato le copertine per tutti i romanzi di Fitzgerald per minimum fax e per i classici Newton Compton, come ho realizzato D. F. Wallace per minimum fax e per Einaudi: copertine ogni volta diverse, quello che cambia è l’editore, ma soprattutto i lettori. Siamo abituati a leggere il testo giustificato, sui giornali (diviso a colonne) e sui libri. Perché hai scelto il testo a bandiera in Fare i libri? Il testo giustificato è di norma più leggibile sui testi lunghi e negli impaginati classici. Ma su testi brevi è meno elegante e si sposa meno bene con le illustrazioni, specie quando la composizione di testi e immagini è molto libera. In questo caso la giustificazione sarebbe stata un’incoerenza rispetto all’andamento cinematografico dello sfogliar pagina. Poi il testo sbandierato mantiene costante lo spazio tra le lettere, mentre la giustificazione falsa un po’ questi rapporti, tanto che i designer più rigorosi difendono a spada tratta i testi sbandierati. In generale, vale una sola regola: leggiamo meglio quello che leggiamo di più: quindi per i romanzi meglio la giustificazione, nei testi corti meglio la bandiera. Ma senza prendere le regole troppo alla lettera. Molte copertine che hai disegnato per i libri di Davide Foster Wallace sono come la copertina di questo tuo libro. Vicinanza al personaggio? Molto più semplicemente abbiamo voluto dare al libro lo stile dell’ultima collana che abbiamo progettato, tanto più che in entrambi i casi il metalinguaggio è parte dell’opera.


TSELLER vete arto teriore o altro). nostro 7) n classico. o, proporlo i classici ennio,

di Rrose «Tutte le grandi letture finiscono per confondersi con le copertine dei libri» ha detto lo scrittore Orhan Pamuk (premio Nobel nel 2006). È davvero così? Beh sì, ma questo non c’entra col valore o con la bellezza delle copertine. In generale, i libri che più abbiamo amato diventano tutt’uno con l’edizione in cui li abbiamo letti (e magari scritti o annotati). Le copertine da una parte sono il packaging pensato dall’editore, dall’altra diventano tutt’uno col libro. Più di una volta mi hanno scritto dei lettori dicendo che la copertina non li aveva convinti al momento dell’acquisto, ma dopo la lettura la reputavano perfetta. Ci sono dei libri che sono stati molto importanti nella mia vita e posso rileggerli solo nella copia in cui li ho letti la prima volta, che non riesco a prestare a nessuno. Certo, forse io ho un’ipersensibilità per queste cose, ma non sono un caso così isolato. La querelle sull’ebook è noiosa soprattutto per un aspetto: i libri non sono nuvole senza forma, i libri sono anche delle cose. Nelle edizioni My Penguin, le etichette con titolo, autore e richiami pubblicitari vanno via togliendo la cellofanatura; il lettore è invitato a disegnare la sua copertina. Le copertine sono poi esposte nella Galleria Allineati sullo scaffalep. 72 gli uni accanto agli altri i libri minimum fax sono allegramente variopinti, anche perché tra online della casa editrice Penguin. Ci ho visto i modelli culturali, oltre ai progetti editoriali storici, ci sono anche i fumetti e i cartoni animati. qualcosa che ti assomiglia, in questo modo di Ci sono poi altri giochi altrettanto sofisticati, ma fatti per essere scoperti da tutti (o quasi). Uno è quello inventato “manipolare il libro”. Mi sbaglio? per La ragazza dai capelli strani di Wallace: in copertina feci entrare tutto il testo del libro in corpo 2 su interlinea Il fatto di disegnarsi la copertina da soli2; quasi invisibile a occhio nudo, è invece visibilissimo con un lentino pp. 60-61. Il testo insomma tappezza tutta la copertina mi(bandelle sembra più che altro un gioco, o un comprese) creando un pattern fittissimo. Mi sembrava un espediente di che meglio di altri potesse illustrare l’elemento come espediente marketing; può funzionare metanarrativo della scrittura di Wallace. A occhio nudo appare una tessitura, e in pochi si sono accorti del trucco, eppure evento occasionale, ma non è un modo di in bandella c’è una didascalia molto chiara: «In copertina: tutto il libro che state per leggere». Elitario? Snob? Ce lo rimproverano raccontare i libri. La copertina per il lettore di continuo. Ma non si può accontentare tutti. A tanti lettori la cacciaper al tesoro perché questo gioco (anche meè piaciuta, comeanche lettore) è uno strumento continuo sta lì a rassicurarli che l’editore è attento ai dettagli più minuti, che è sempreper pronto a sorprenderli, a offrirgli di orientamento, capire in cosa si sta qualcosa che non troveranno da nessun’altra parte: come la grafica che fa le capriole. avventurando.

LE QUATTRO VITE DI UN BESTSELLER Mentre va in stampa il libro che avete in mano, stiamo preparando il quarto progetto per presentare in una ulteriore veste i titoli di Wallace (non a caso graficamente rimandano l’uno all’altro). È uno degli autori più longevi del nostro catalogo (lo pubblichiamo dal 1997) e sembra destinato a diventare un classico. Per questo è editorialmente giusto, e commercialmente opportuno, riproporlo e riconfezionarlo con periodicità: i classici parlano ogni anno, e poi ogni decennio, a generazioni di lettori diversi.

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Allineati sullo scaffalep. 72 gli uni accanto agli altri i libri minimum fax sono allegramente variopinti, anche perché tra i modelli culturali, oltre ai progetti editoriali storici, ci sono anche i fumetti e i cartoni animati. Ci sono poi altri giochi altrettanto sofisticati, ma fatti per essere scoperti da tutti (o quasi). Uno è quello inventato per La ragazza dai capelli strani di Wallace: in copertina feci entrare tutto il testo del libro in corpo 2 su interlinea 2; quasi invisibile a occhio nudo, è invece visibilissimo con un lentinopp. 60-61. Il testo insomma tappezza tutta la copertina (bandelle comprese) creando un pattern fittissimo. Mi sembrava un espediente che meglio di altri potesse illustrare l’elemento metanarrativo della scrittura di Wallace. A occhio nudo appare una tessitura, e in pochi si sono accorti del trucco, eppure in bandella c’è una didascalia molto chiara: «In copertina: tutto il libro che state per leggere». Elitario? Snob? Ce lo rimproverano di continuo. Ma non si può accontentare tutti. A tanti lettori la caccia al tesoro è piaciuta, anche perché questo gioco continuo sta lì a rassicurarli che l’editore è attento ai dettagli più minuti, che è sempre pronto a sorprenderli, a offrirgli qualcosa che non troveranno da nessun’altra parte: come la grafica che fa le capriole.

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Scala 1 : 3

DOPPIO TURNO Così come ci sono editor che scrivono libri (due dei nostri lo fanno), o tipografi che diventano editori (il nostro lo fa), capita che anche gli art director facciano, a volte, gli illustratori. Il nostro lo fa. Nel 2008, non sapendo decidere quale dei nostri abituali collaboratori fosse più adatto a illustrare la copertina per un romanzo di Giuseppe Genna Mn, finimmo col chiederlo a Riccardo Falcinelli. Che fu «costretto» a concedere il bis due anni dopo, per un nuovo titolo dello stesso autore Mo.

Mn

Mo

Le pagine del tuo Fare i libri sono disseminate di “strumenti-oggetti del mestiere” che lì per lì creano un sapore d’altri tempi (compassi, forbici, rocchetti di filo colorato, temperamatite, riccioli di matite temperate, pellicole fotografiche, gomme rosso-blu*, boccettine d’inchiostro, righelli di legno, tubetti di colore, una Lettera 22 e tanto altro). Ma Illustrator e Indesign non li hanno confinati nella scatola dei ricordi? Li usi ancora questi “oggetti”? (* quel tipo di gomme che io, da studente, odiavo, perché finivo con lo strappare sempre il foglio da disegno). I software permettono di finalizzare il lavoro e sono oggi lo standard produttivo, ma i procedimenti, diciamo così, “analogici” sono la spina dorsale dell’arte: se non disegni a mano, se non schizzi, se non prendi appunti non vai da nessuna parte. Lavorare manualmente fa venire idee nuove, ti aiuta a ragionare. La stessa postura del disegnare, o dipingere, l’uso del corpo attivano modi diversi di pensare: il cervello è in relazione con la corporeità, e se stai solo davanti a un monitor col mouse in mano finisci per ragionare come il peggior impiegato. Infatti, quelli che lavorano solo al computer li smascheri subito, fanno sempre le stesse cose. Detto questo, gli oggetti che compaiono in Fare i libri sono volutamente fuori dal tempo, fanno parte di una collezione di cancelleria retrò, e questi no, ovviamente non li uso: però simboleggiano bene una mentalità artigianale che rimane fondamentale. In verità sono un appassionato cultore della penna bic e dei pennarelli: lo si capisce dagli schizzi che si vedono nel libro: ne faccio a tonnellate quando devo inventare una nuova collana. Quale font avresti voluto disegnare? E perché? Ho provato a disegnare delle font, ma non fa per me. Sono molto rigoroso, però non ho quel tipo di rigore, di precisione per i dettagli. In ogni caso: per la chiarezza il Simoncini, per l’eleganza il Big Caslon.

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{riccardo falcinelli}

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Se dico “piombo” tu pensi agli “anni di…” o alla tipografia? Tutte e due e altre mille, per fare questo lavoro bisogna essere bravi con le analogie. Fare i libri si legge tutto d’un fiato, poi si ritorna di nuovo a certi capitoli per ricordarsi meglio di una tecnica grafica, di un procedimento di stampa, di come è fatta una gabbia per l’impaginazione. E anche per rivedere “le figure”. Fare i libri è pieno zeppo di immagini (non poteva non esserlo), sembra un libro illustrato e se lo sfogli veloce assomiglia a un libro per bambini. Che rapporto hai con la tua infanzia? E cioè: il bambino Riccardo che leggeva un libro era scontento della sua copertina tanto da volerla ridisegnare? Molti pensano che nelle cose artistiche l’infanzia sia molto presente, però questo è un po’ uno stereotipo e dobbiamo intenderci. Per esempio ho deciso verso i sette anni che avrei fatto un mestiere in cui si disegnava, mi sembrava che altrimenti la vita non avrebbe avuto senso. Alcuni sono in pace col mondo, io invece ero un bambino entusiasta ma cupo, e solo quando disegnavo o andavo al cinema mi rasserenavo. Immaginavo il lavorare e il disegnare come la stessa cosa e quindi non vedevo l’ora di iniziare a lavorare, cioè a sette anni era molto presente l’immagine del Riccardo-grande. Tutto quello che so del mio mestiere l’ho imparato anzitutto per salvarmi. Quindi per me l’infanzia non è qualcosa che ha a che fare con la “poesia” ma con l’intransigenza, soprattutto quella di non aver mollato quando troppi adulti volevano dissuadermi. La grafica editoriale invece l’ho scoperta verso i vent’anni, da piccolo le uniche copertine che contavano non erano quelle dei libri, ma quelle di Topolino.#

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I piedi in Terracarne 8 | Rrose.


di Rrose

{franco arminio} Franco Arminio si definisce (o viene definito?) paesologo. Dice: «Sono molti anni che esco quasi ogni giorno e vado in giro in posti dove non va più nessuno. Vado a vedere come stanno le cose, vado a vedere da vicino». E le cose stanno nel modo che possiamo facilmente immaginare. “Giù la piazza non c’è nessuno” (ci è venuto in mente uno splendido libro di Dolores Prato, che tra l’altro era di Treia, un paese vicino a dove siano noi di Rrose). Come stanno le cose Franco Arminio non solo lo scrive magnificamente nel suo libro Terracarne (Mondadori, 2011), ma te lo racconta in un documentario, dove il narratore Arminio si ferma a parlare con quei pochi che sono rimasti in paese, chiedendo loro di tutto, con naturalezza: dal lavoro che facevano alla paura della morte. E scopri cose che già immagini se vivi in un piccolo centro. Però Arminio sa raccontartele, e allora lo segui mentre, a piedi, si inerpica per i vicoli, accarezzando gli intonaci rugosi di certe case che o sono abbandonate o si sono spaccate (lacerate) con la scossa assassina di un terremoto. Quello di Franco Arminio è un corpo a corpo con il paese che attraversa. «La paesologia è una strada sul crinale, a metà tra una nuova forma di impegno e una cerimonia religiosa, a metà tra poesia e etnologia, sempre però ben lontani dalle paesanologia e dalle sue sagre. Se c’è una sagra che mi interessa è quella del futuro.» Il futuro, già. Che in quei paesi che vai a vedere proprio non c’è. Saranno i nostri occhi chiusi o anche a spalancarli il futuro non abita lì? Cosa risponde Arminio? Il futuro non c’è adesso, ma arriverà. Ci vuole pazienza. I paesi hanno assimilato la modernità nei suoi aspetti più incivili. Ho l’impressione che si stanno preparando le condizioni per immaginare che nei paesi si possa costruire

un nuovo umanesimo, quello che io chiamo umanesimo delle montagne. Detto altrimenti: sul tempo breve il tempo dei paesi è ancora un tempo di pena, ma sui tempi lunghi sono molto fiducioso. Accadrà qualcosa di imprevedibilmente positivo e accadrà nei paesi.

In parte ho già risposto in precedenza. Il comunismo è morto. Il capitalismo pure. Più che parlare della morte dei paesi, bisognerebbe parlare della morte del pianeta. La civiltà della decrescita mi pare l’unica soluzione possibile. Si tratta di una via da approfondire, ma non credo ce ne siano altre.

Eravamo ad Ancona, alla presentazione di Terracarne, in una sala dell’ex mattatoio (qualcosa di familiare con il titolo del libro, per il gioco delle combinazioni), e hai detto che hai deciso di lasciare un po’ la paesologia per dedicarti ad una scrittura che narra di finestre, di serrature, di portoni. Ci spieghi meglio cos’è questa nuova storia? Voglio dire semplicemente che a volte i paesi più vivi sono quelli più vuoti. Come se la presenza umana svuotasse i paesi piuttosto che riempirli. Nel video che sto realizzando il paesaggio non è considerato lo sfondo della narrazione, ma il protagonista. L’emozione può venire da una faccia, ma anche da un lampione, da un muro.

Per te la paesologia è anche svelare la bellezza di ciò che gli altri ci fanno credere brutto, insignificante. Bene. Da dove iniziamo per esercitarci? Dai luoghi in cui viviamo, dai dintorni. L’idea che il viaggio deve essere un allontanamento va accompagnata all’idea del viaggio come avvicinamento.Viaggiare per vedere meglio quello che vediamo ogni giorno.Viaggiare nel già visto che non riusciamo più a vedere.

Nel numero 1 di Rrose, uscito tra dicembre 2011 e gennaio 2012, Mauro Bubbico (docente di comunicazione e grafico) cita una tua battuta: “Bisogna vedere le cose all’altezza del cane”. Bello. Ti va di allargare l’argomento? Questo punto non è facile da affrontare in poche righe. Mi pare una questione di postura. Andare nei paesi con una postura rigida, una postura piena di pregiudizi, non ti fa vedere niente. Il mio è uno sguardo che raccoglie dettagli, che rifugge dalle astrazioni, tipiche dei grandi pensatori della questione meridionale.Volendo restare sul cane mi piacerebbe avere la fedeltà al paesaggio che il cane porta al suo padrone. Tu scrivi che siamo passati «dalla civiltà contadina, a volte crudele, perfino spietata, a questa cosa oscena che chiamo modernità civile.» Da una parte una civiltà spietata, dall’altra una realtà oscena. Siamo messi proprio male. Come se ne esce? Che facciamo, inventiamo una terza civiltà?

Franco Arminio quando presenta i suoi libri non sta seduto dietro a un tavolo, cammina invece tra le persone, come se stessimo tutti nella piazzetta di un paese in salita a fare le chiacchiere della domenica (per lo meno in quella serata ad Ancona è andata così). È lui che poi ti fa le domande, dopo che tu gliene hai fatta una, o anche nessuna. Ti chiede un pezzetto della tua vita, vuole sapere che fai, dove abiti, perché sei venuto fin lì, cosa pensi – come fa con gli abitanti “sopravvissuti” dei paesi che descrive. Arminio legge solo alcune frasi del suo Terracarne, che sono degli aforismi davvero belli. Il camminatore paesologo scrive benissimo (non è un complimento, è proprio vero). E sa raccontare. Terracarne è un libro di trecento e passa pagine, e in qualche modo è un susseguirsi di somiglianze. Non lo avremmo letto fino alla fine, e con grande gusto, se non fosse un libro straordinario. Anche nel senso del fuori dall’ordinario. Arminio lo inviteremo presto a mangiare un panino (il suo “piatto” preferito mentre cammina) dalle nostre parti. Pane fresco e ciauscolo.#

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Mosca, 2007

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di Achille Bonito Oliva

{gabriele basilico}

l’opus di gabriele basilico tra catastrofe e saggezza sistemica

«figura», dal latino figura, affine a fingere, modellare (nella creta): forma esteriore dei corpi, volto o persona dell’uomo, immagine dipinta o scolpita: la figura principale del quadro; la mezza figura, persona rappresentata dalla cintola in su; parte della pittura che studia di ritrarre le sembianze umane. «forma»: aspetto, effigie, volto, immagine, corporatura, allegoria, abombrazione, emblema, ritratto, sembianza, profilo, simulacro, prospettiva, con–torno, linea, schema; abombrare, incarnare, configurare, raffigurare, delineare, contraffare, risaltare spiccare, sfigurare, trasfigurare, rappresentare. (F. Palazzi, Nuovissimo dizionario della Lingua Italiana). L’archi-figura (l’architettura figurata) è il punto focale dell’opera fotografica di Gabriele Basilico, detiene la centralità del suo linguaggio, in quanto portatrice dell’intenzione e del desiderio di potenza di un immaginario teso sempre ad un intervento formalizzante e necessariamente costruttivo. Tale desiderio si traveste mediante abbigliamenti vari, indossa i panni della circostanza legata alla necessità espressiva. Dunque, le figure della fotografia sono svariate e cangianti, adottano molti materiali e tecniche diverse per presentarsi sotto lo sguardo dello spettatore. In ogni caso

sono portatrici di seduzione e abbaglio. Perché la fotografia non trattiene il suo linguaggio sul piano della comunicazione comune, non parla attraverso maschere che appartengono al quotidiano, bensì assume sempre stati di forma originali e imprevedibili. La seduzione nasce dal bisogno di creare un varco e un lampo nel pratico inerte del quotidiano, uno stupore che lacera l’orizzontale impermeabilità attraversante lo scambio sociale. La figura è l’assunzione eccentrica di una apparenza particolare che regge la pulsione dell’arte e della fotografia. Questo fonda il suo particolare erotismo, il desiderio di costruirsi un’arma che riesca a sconfiggere la volgarità contemplativa dell’uomo, gettato in un universo retto da un sistema di ben altre figure che non fingono ma dichiarano il bisogno di consumo, portato verso la grande immagine dell’economia. L’arte di G. B. paventa un’altra economia, sostenuta da un immaginario che svolge una funzione erompente, quella di bloccare nella sosta lunga dello stupore, nella posa stupefatta della contemplazione, l’occhio estremo dello spettatore. La figura delle diverse architetture fotografate serve proprio a marcare questa soglia, il solco naturale che separa l’apparizione dell’arte da altre apparizioni. La qualità specifica, la sua connotazione, risiede nel suo essere esplicitamente apparenza. Un’apparenza che indossa continuamente diverse figure, particolari travestimenti, che inducono lo sguardo a rimanere sbarrato e attraversato da un lampo silenzioso. La sua forza risiede nel suo presentarsi senza sforzo nello sfarzo di un abbigliamento che non denuncia mai difficoltà, semmai un naturale abbandono.

«L’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce» (G. Bateson, Stile, grazia e informazione). L’estasi prende innanzitutto l’artista, quello stato particolare e necessario affinché egli possa portare il travestimento dell’immagine nella condizione della epifania. Allora, anche l’occhio esterno, quello contemplatore, è attraversato da uno stato estatico che lo mette nella possibilità di una nuova informazione sul mondo. L’archi-figura è portatrice, dunque, da una parte di uno scompenso tra la propria immagine e le immagini esterne ad essa, dall’altra produce successivamente, dopo l’esibizione della propria differenza, uno stato di integrazione attraverso l’estasi che modifica la relazione dell’uomo con la realtà. L’arte possiede una sua interna natura correttiva che la porta a correggere il gesto prorompente della sua apparizione iniziale e a stabilire un rapporto socializzante nel momento della contemplazione. L’archi-figura è il tramite di questa correzione di rotta, il sintomo di una particolare inclinazione, quella di operare tra bisogno della catastrofe e la “saggezza sistemica”, tra la produzione di una rottura e la spinta a

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{gabriele basilico} destinarla al corpo sociale. Esiste una inerzia iniziale contro cui l’arte si arma, una «serenità» della comunicazione che essa tende a alterare mediante l’introduzione di uno stato di «turbolenza». L’archi-figura è lo strumento di allargamento tra le due strozzature, tra le due polarità che ostruiscono il rapporto di comunicazione. La turbolenza è data dalla epifania dell’immagine che rompe le aspettative e introduce, mediante l’irruzione di un linguaggio piegato a esigenze di particolare espressività, un elemento allarmante. L’archi-figura, dunque, è il perturbante, ciò che determina il segnale di un allarme che attraversa tutto il linguaggio e l’immaginario sociale. Nello stesso tempo, il desiderio di profonda relazione con il mondo prende il sopravvento nell’arte, sostenuta da una saggezza sistemica che tende a spingerla verso una correzione della rottura iniziale, a riparare alla radicale e solitaria violenza dell’immaginario individuale. L’archi-figura serve a produrre un cuneo, un varco, tra la serenità della comunicazione sociale e la turbolenza del gesto artistico, in maniera da favorire un’apparizione che trovi ammirazione e non incomprensione o paura. Il travestimento che l’archi-figura assume può passare attraverso varie maschere, che alcune volte incutono anche terrore. Ma il fine è sempre quello di introdurre un’attesa, una sospensione di difese del gusto, che permettano poi la grande entrata nel mondo, sotto occhi attenti e ammirati, pronti a cogliere la differenza. L’arte non sopporta l’indifferenza, la distrazione di uno sguardo che si pone in una condizione inerte. Perciò la figura introduce sempre la bellezza che, come dice Leon Battista Alberti, è una forma di difesa. Difesa dall’inerzia del quotidiano e dalla possibilità di scacco da parte di sguardi indifferenti che non restano abbagliati alla sua apparizione abbacinante. La sorpresa, la proverbiale eccentricità dell’arte, sono movimenti tattici di una strategia rivolta a consolidare la differenza dell’immagine artistica dalle altre immagini. «Io domando all’arte di farmi sfuggire dalla società degli uomini per introdurmi in un’altra società». (C. Lévi-Strauss). Questo non è un desiderio di evasione in G.B. non è un tentativo dì sfuggire la realtà, bensì il tentativo di introdursi in un altro spazio, di allargare un varco che normalmente sembra precluso. L’arte corregge la vista corta e introduce una guardata non più frontale, ma lunga e differenziata, la guardata curva. Così può aggirare l’invalicabile frontalità delle cose e anche prenderle alle spalle. G.B. dunque, opera per aprire tali varchi, per spostare la vista verso un incurvamento che significa anche possibilità di affondo, oltre che di aggiramento. L’arte è la pratica di questo movimento mediante il deterrente di molte figure, che costituiscono l’arsenale tattico attraverso cui l’artista esercita il suo rapporto con il mondo. Un rapporto certamente mosso da pulsioni ambivalenti, da desideri che lo portano verso uno stato d’animo, all’incrocio di oscillazioni sentimentali ed emotive che ne costituiscono l’identità e la probabilità esistenziale. «Sei tu fra quelli che guardano o quelli che mettono le mani in pasta?» (Friedrich Nietzsche). A questa domanda, G.B. risponde affermativamente: nel senso di esibire le mani in pasta, magari ancora calde del lavoro, propedeutico alla messa in opera delle figure, di quelle macchine della rappresentazione che fondano la presenza dell’arte. Naturalmente, la distruzione non avviene in maniera lineare, può comportare anche momenti oscuri e cancellazioni. La macchina della rappresentazione è costituita da molte parti: alcune sfuggono all’attenzione stessa dell’artista, che si trova spesso nella condizione di dover accettare elementi indipendenti dalla concentrazione o dal suo controllo, emergenti per una sorta di crescita spontanea che può prendere alle spalle l’artista stesso. L’archi-figura è il risultato di una concitazione creativa che

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attraversa il campo fantastico dell’artista e lo mette nella condizione di poterne divenire il tramite. L’archi-figura in G.B. è esempio splendente di una nostalgia, quella dell’unità: che spesso l’artista stesso non vuole raggiungere. L’unità è una sorta di procedimento obbligato, la finzione assunta dal processo creativo per mettersi in movimento e tendere in tal modo verso una meta. L’arte adotta l’astuzia biologica di crearsi una intenzionalità per meglio distendersi nella sua azione. In realtà, adotta il modello demiurgico della creazione, mediante cui sembra svolgere un progetto consapevole e uniforme. «Il fingere alcune cose ovvero aggiungere alcune altre e frammentarne alcune di propria invenzione, è degno di lode» (G. Comanini). L’archi-figura è l’effetto di questa manipolazione, di un lavoro che procede a balzi attraverso l’incontro di vari elementi e condizioni, non tutte promosse dall’artista e dalla sua strategia creativa. Altri fattori entrano nella creazione, solcano l’attività e la sua messa in opera, che rappresenta il punto di coagulo della tensione artistica, il luogo dell’appuntamento dove si incontrano i frammenti dell’immaginario. L’estasi è lo stato che consente all’artista di amalgamare e portare a compimento l’archifigura, il cuore espressivo dell’opera. Dallo stupore nasce la possibilità di non fare resistenze, di accettare tra le mani elementi e frammenti che provengono da recessi luminosi e oscuri. La tecnica è intanto la condizione di abbandono indispensabile per sopportare l’apparizione della figura, che compare agli occhi dell’artista mediante la combinazione e la simultaneità di molte provenienze. L’archi-figura non è mai ripetibile, perché non è ripetibile il movimento che porta alla sua definizione. È possibile riconoscere la cifra che accompagna i suoi travestimenti, ma soltanto per indicare la fonte da cui proviene il suo


Milano, 1980

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{gabriele basilico} passaggio. L’artista può aggiungere un margine di finzione, una partecipazione tecnica utile alla definizione dell’immagine, ma non può supplire e riempire da solo, con la sola perizia, lo spazio che intercorre tra i vari frammenti che costituiscono l’opera. I frammenti costituiscono le tracce che allontanano il principio di unità costitutivo; al contrario segnano un percorso irregolare che non permette mai di risalire nello spazio e nel tempo. La conoscenza diventa uno strumento vano, essa può soltanto fermarsi sulla superficie dei segni, sul simulacro, sulla figura assunta dall’opera, ma non può spingersi oltre perché non possiede la vista lunga, la guardata curva necessaria per spiare sotto la pelle dell’arte. L’artista dunque non è il terminale di partenza, ma il terminale di transito di una figura che trova il proprio fondamento e la propria fondazione altrove. Esiste una metafisica dell’archi-figura che non lascia transitare oltre un certo confine la conoscenza di G.B. che può al massimo stazionare nell’ambito di una semiotica della grazia, del potere dello sguardo di scorrere sulle superfici lisce della figura. Qui, l’occhio assedia l’immagine, ne corteggia le fattezze, ma senza poter entrare in contatto con il movimento, quel movimento interiore che ne ha fondato la presenza. «Non sono riusciti a formare altri simili a sé, perché le loro qualità non erano dovute alla scienza. Se le loro azioni non erano dunque dovute alla scienza (epistéme), non resta se non che le abbiano compiute per opinione retta (orthé dòxa). Indovini e vati pronunciano molte verità, solo che nulla sanno di quello che dicono. E allora, Menone, non è forse giusto chiamare divini tali uomini che, pur non avendo intelletto, con successo riescono in molte e grandi cose, mediante l’azione o la parola? E con ragione chiameremo divini quei tali che or ora dicevamo indovini e vati, come tutti i poeti, poiché ispirati e posseduti dalle divinità, allorché riescono a dire e fare grandi

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cose, senza nulla sapere di quello che afferma» (Platone, Menone, 99, XLI, d). La verità dell’arte è la figura, intesa come presenza lampante e irrefutabile, tangibilmente ostentata allo sguardo esterno dell’arte ed anche a quello interno dell’artista. L’archifigura, dunque, non è effetto di una perizia semplicemente mentale, di un sapere razionale e trasmissibile all’infinito, ma è il risultato di una catena di associazioni. G.B. non può trasmettere conoscenze sui modi che lo hanno portato all’archi-figura, perché essa è la conseguenza di fattori accertabili e di altri imponderabili. Il non sapere gli permette di mettere in condizione la sua tecnica di non fare resistenza, di accogliere con naturalezza l’elaborazione che porta al risultato. L’affermazione dell’opera non è l’affermazione dell’artista, è l’ulteriore spostamento verso un livello, la figura, in cui si perde la memoria del lavoro effettuato. La perdita della memoria coincide con la perdita della consapevolezza, della proverbiale lucidità che accompagna l’uomo comune e le sue azioni. Per questo, l’azione creativa è irripetibile, in quanto affidata ad una tensione che, nel suo esprimersi, perde la memoria del suo prodursi. Ora, la presenza dell’archi-figura riempie tutta la scena della contemplazione, oscura la richiesta di ogni motivazione, perché non esiste un tempo fuori dalla fascinazione dell’opera, fuori dell’abbaglio procurato dall’apparizione della turbolenza. L’archi-figura è sempre il segno di un movimento precedente, perché, come dice Nietzsche, il movimento è il segno di un movimento interiore, così come il pensiero è il segno del pensiero. Dunque, è l’unica possibilità per l’arte di produrre il movimento della propria turbolenza, il tramite che la materializza e che fonda lo stato della sua evidenza inoppugnabile. Attraverso questa presenza e a partire da questa presenza, imprescindibile, è possibile accedere al momento dell’estasi, di un

impatto estatico con l’opera. I simulacri dell’archi-figura fondano l’esistenza dell’arte, producono la sfuggente identità dell’artista, che ha accettato di farsi tramite con quel movimento interiore che altrimenti resterebbe precluso allo sguardo del mondo. Dunque, all’artista spetta il compito di questa mediazione, attraverso il suo mettere e tenere le mani in pasta, che non significa certamente riduzione a un puro lavoro esecutivo, ma attivazione di un processo di condensazione e di abbreviazione che porta poi alla elaborazione finale della figura. L’arte di G.B. ha portato l’archi-figura soprattutto nella direzione della turbolenza, dell’alterazione e della destrutturazione della comunicazione, nella speranza di una apparizione capace di modificare lo stato di passività dello sguardo sociale. Nell’impossibilità di tale trasformazione, in una condizione storica in cui non è possibile scorgere direzioni, linee di rinnovamento o prospettive, in un periodo di transizione che si muove fuori da qualsiasi progetto storico, è subentrato un altro atteggiamento. G.B. ha preso atto della catastrofe semantica dei linguaggi dell’arte e delle relative ideologie e ha spostato la figura in un rapporto tra turbolenza e serenità, in una condizione di maggior apertura e libertà espressiva, fuori da qualsiasi inibizione e progetto. Ora l’arte di G.B. lascia viaggiare l’archi-figura fuori da qualsiasi interrogazione, circa la sua provenienza o direzione, secondo derive di piacere che ristabiliscono anche il primato dell’intensità dell’opera su quello della tecnica. L’opulenza della fotografia introduce la possibilità di tenere l’arte ancorata alla sua saggezza sistemica, al suo istinto di relazione, assecondato dalla ricerca di uno stato di grazia che la figura assicura come presenza irrefutabile. L’archi-figura è portatrice di grazia, in quanto sostenuta dal bisogno dell’arte di assicurarsi lo spazio dell’apparizione e quello


della sua contemplazione. Ora è possibile stazionare intorno, prendere d’assedio e corteggiare la figura secondo i dettami di una guardata curva che effettua il suo periplo intorno all’opera. Da Beirut a Milano, Napoli e Caserta, Roma e Bilbao, Valencia e Palermo, Buenos Aires, Parigi e Istambul, nell’opus di Gabriele Basilico l’occhio è il ministro della fotografia capace di essere nello stesso tempo testimone a carico e storico dell’istante. Ministro plenipotenziario, dunque, che sottrae alla meccanicità del mezzo fotografico ogni possibile neutralità, impersonalità e falsa oggettività capace di mantenere costantemente quello che Bergson chiama “il ricordo del presente”. Qui l’occhio torna ad essere eternamente fisiologico, rigorosamente reattivo al caso intelligente di un incontro con la realtà che va affrontata sul doppio versante del guardare e del riguardare. Un doppio tempo operativo sostiene la produzione fotografica di Basilico. Uno spirito di osservazione fatto di un assedio visivo, sistematico, prolungato e silenzioso come si conviene ad un artista impregnato di studi umanistici e scientifici nello stesso tempo. Se da una parte, per formazione, prevale il gusto metafisico di un “togliere” minimalista a contrappunto di una riconosciuta complessità del reale (De Chirico, Savinio e Aldo Rossi) dall’altra l’archi-figura si carica della memoria concettuale e catalogatoria di Berndt e Hilla Becher, del realismo trasparente di Walker Evans e del pragmatismo creativo di Alvaro Siza. La sapiente cultura visivo-architettonica di G.B. è felicemente contaminata, forse anche a sua insaputa, da uno spirito zen che si vaporizza dentro le sue immagini. Una serena accettazione del dato fotografato, frontale architettonico o maceria di guerra, osservato con occhio lucido e mente sgombra, la consapevolezza di un tempo incerto che tende al massacro, anche delle forme abitabili, la città, centro o periferia.

Lo sguardo chirurgico di G.B. non è armato da indifferenza, piuttosto dalla consapevolezza del taglio fotografico, l’inquadratura, portato a sviluppare sul piano linguistico il genere della natura morta. Storicamente nella pittura la natura morta era la rappresentazione di un dettaglio organico sottratto all’insieme organico della natura ed esibito nell’inquadratura del quadro. Qui G.B. seziona dall’integrità urbana o dai resti di città violentate dalla guerra una parte, sottraendola dall’insieme del contesto. Tale operazione è anche il frutto di una filosofia di vita, di una coscienza culturale di quanto l’arte, anche la fotografia sia pratica dello strappo della realtà, una sottrazione doverosa e indispensabile sul piano linguistico che non vuole cancellare le cose, semmai accelerare un processo di conoscenza e riconoscimento. Lo sguardo, forse involontariamente, zen di G.B. consiste nell’accettare l’identità del linguaggio, come produttore di una paradossale natura morta che parte dal cadavere del dettaglio per prolungare e ravvivare la nostalgia della vita, che è sempre uno stato di insieme. L’archi-figura nell’opera di G.B. è frutto di un ossimoro, di uno sguardo che sembra adottare il latino festina lente, una accelerazione rallentata della sensibilità verso un mondo che si può vedere nel dettaglio e sospettare nel suo insieme. Ma, nel caso di G. B., sempre con stoico rigore. Indubbiamente G.B. è consapevole che la civiltà occidentale poggia sulla trasformazione della natura in storia. La città è l’emblema visivamente macroscopico di una volontà di potenza della nostra cultura che vuole dominare la geografia naturale dei luoghi col costruito. G.B. comunque non fa differenza tra centro e periferia. Sembra aver adottato, prima di Koolhas, un’ottica fotografica giustamente indifferenziata verso il concetto di identità territoriale e compreso nella sua visione una pietas che non è mai puro-visibilista ma sempre accompagnata da un principio di accettazione, la coesistenza delle differenze.

Una sorta di pragmatismo confuciano e nello stesso tempo un estraniato sguardo da nuova oggettività tedesca sostengono il mondo fotografico di G.B. che è diventato sempre più una iconopoli, una vera e propria città pellicolare di archi-figure capaci di rappresentare la propria condizione urbana e nello stesso tempo di occultare qualsiasi stato psicologico. Se poi G.B. accetta di diventare anche un inviato speciale nella realtà, eccoci di fronte ad immagini miracolosamente popolate da giovani e vecchie coppie di ballerini in discoteche e piste da ballo in Emilia Romagna. Eppure non cambia molto il risultato. I soggetti, che sembrano sbucare dal buio e venire incontro con meraviglia verso l’obiettivo fotografico, mostrano una laconicità, uno stato di stupefatto riserbo che ritroviamo anche nelle quinte architettoniche di cui è disseminata l’opera di G.B. Se la fotografia, che documenta i divertimenti della costiera romagnola, è abitata dal buio squarciato dall’artificio della luce del flash, quella invece sulle periferie urbane e sulle architetture dei porti è sempre sostenuta da una sorta di effetto notte, la notte americana di uno sguardo che non batte ciglio e seziona alla luce dell’inquadratura un dettaglio duraturo di città. G.B. non fa differenza tra centro e periferia, accetta le rapide trasformazioni della megalopoli. Tutta la discrezione del proprio sguardo silenzioso nel rumore urbano dove gli abitanti non si incontrano mai e forse sono soltanto presenze transeunti. Contro l’entropia è dunque l’operato fotografico di G.B., contro la perdita di significato che sembra cancellare ogni differenza nel vissuto della città moderna. Un atto di resistenza visiva e morale nello stesso tempo che cerca di restituire alle cose uno statuto di realtà durevole contro l’attimo fuggente del simulacro.#

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San Francisco, 2007

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Beirut, 1991

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{maria luisa spaziani} Su cosa sta lavorando in questo momento? Guardi, devo subito premettere che io non lavoro mai. Ho avuto la grande fortuna di divertirmi enormemente in tutte le cose che ho fatto, anche in quelle che la vita mi ha costretto a fare – in vita mia ho svolto tanti mestieri. Ad esempio, ero campione internazionale di stenografia, e questo mi ha portato a viaggiare molto; ero spesso chiamata da grandi ditte e organizzazioni internazionali. Poi per almeno trent’anni ho fatto la giornalista e l’inviata speciale per giornali e riviste. Ho inoltre tradotto più di trenta libri. Tutte queste cose non hanno però contrassegnato una parte della mia vita, in quanto erano sovrapponibili, intercambiabili. Mentre insegnavo Lingua e Letteratura Francese all’Università di Messina, ad esempio, l’editore Garzanti mi affidò la traduzione delle tragedie di Racine, che mai erano state tradotte in rima. Mi ricordo che di sera, stanca morta dopo dieci ore di discussioni di lauree, l’unico modo per riprendere fiato era tradurre due o tre pagine di Racine. Tutto quello che ho fatto in vita mia mi è piaciuto molto. Ho perfino cantato, ai tempi in cui avevo ancora la voce! Adesso se n’è andata, ma alla mia età è giusto che qualche penna si perda per la strada.

Nel 1992 è uscito un suo libro di interviste immaginarie a venti poetesse vissute fra Ottocento e Novecento: Donne in poesia. Anche lei è una “donna in poesia”. Qualche anno fa, il Corriere mi ha chiesto di rispondere alle domande del celebre “questionario di Proust”. Una delle domande era: “Che cosa cambierebbe nel suo fisico?”. E io ho risposto: “Il sesso, naturalmente!”. Il sogno di ogni donna creativa è stato quello di essere nata uomo, perché avrebbe avuto molte meno difficoltà. Per quanto mi riguarda, però, devo dire di essere stata molto fortunata. Quand’ero alle scuole elementari, costruivo dei piccoli libretti, e ci scrivevo sopra “Editore Mondadori”: quelle parole erano già un mito per me. Dopo aver messo insieme le mie prime poesie, a venti o ventun’anni decisi di provare a farmi respingere dalla Mondadori. Spedii le mie poesie, senza raccomandata e senza lettera di accompagnamento, a “La Collana dello Specchio, Editore Mondadori, Milano”. Dopo qualche tempo – io ero a Parigi con la mia prima borsa di studio – mi rimandano la posta da Torino, e dentro c’era il contratto di Mondadori per “Lo Specchio”! Incredibile che io – femmina, inedita e giovane – sia uscita fra Cardarelli e Ungaretti.

Nel 1982 Calvino ha scritto un saggio che ha chiamato Tradurre è il vero modo di leggere un testo. Lei ha svolto un lavoro importantissimo nel campo delle traduzioni. Può parlarmi dell’esperienza della traduzione nella sua vita, e di qual è stata la traduzione che più le è piaciuto svolgere? Devo dire che la galoppata nelle tragedie di Racine è stata meravigliosa, ma altrettanto mi piace tradurre la prosa, tant’è vero che sono stata scelta dalla Marguerite Yourcenar per tradurre tre dei suoi libri. E pensi che sono stata scelta quando non eravamo in buoni rapporti, avevamo appena litigato: vuol dire che mi dava fiducia. Ho tradotto Il colpo di grazia, uno dei suoi primi libri, un vero capolavoro. Ho inoltre tradotto un libro di una difficoltà enorme, uno dei più difficili del mondo: Madame Bovary. Ci ho messo tre anni a tradurlo. Per entrare in un testo ci sono molti sistemi: quello più adottato, e più disgraziato, è quello di leggerlo in fretta per sapere come va a finire. Ma un libro vero dovrebbe essere letto, come suggerisce Leo Spitzer, tre volte: la prima per averne un’idea generale; la seconda per approfondire alcune cose; la terza per centellinare la lettura, come a farne una traduzione.

Diceva di avere la fortuna di non lavorare mai. Di cosa si sta occupando adesso, quindi? Nonostante abbia scritto poesia, prosa, aforismi e testi teatrali, io non mi appresto mai a fare niente. Anzi, certe volte mi dico: “Non ho niente da fare!”. E poi, arriva quello che io chiamo l’angelo, che all’improvviso mi prende per la mano: alle dieci del mattino circa, io entro in un’altra dimensione. Per moltissimo tempo, l’angelo ogni giorno mi ha dettato quattro o cinque poesie, pronte per essere stampate. Da un anno a questa parte, l’angelo ha raddoppiato, perché ne ho scritte anche dieci al giorno. Perciò ho una produzione inedita enorme; alla Mondadori sono disperati, mi dicono sempre: “Signora, lavori meno per carità!”.

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di Riccardo Giacconi L’angelo arriva sempre alle dieci del mattino? Pressappoco. È un’aria magica, quella, per cui non do appuntamenti a quell’ora. Se l’angelo arriva quando c’è altra gente, se ne va. Non aspetta, non ha pazienza. Vorrei chiederle di leggere Canzonetta, una sua poesia dalla raccolta La stella del libero arbitrio (1986). Nessun sentiero inganna, nessun presagio mente. Chi ha lottato con l’angelo resta fosforescente. È così, è così. Chi ha frequentato la poesia è diverso dagli altri, perché ha intuito, anche per poco tempo, qualcosa che è al di fuori della visuale comune (dare per certo che la materia ci sia, che i sentimenti esistano preordinati, che le cose che cerchiamo siano proprio quelle…). È come se, per chi ha frequentato la poesia, le cose e le persone avessero un’aureola intorno. Essere poeti vuol dire vedere le cose – anche una matita, una pietra, una caffettiera – con un’aureola intorno. Perciò una cosa che si dice, stupidamente, impoetica diventa poesia se viene investita dalla poesia. Cioè, diventa fosforescente. Nella sua serie di interviste immaginarie Donne in poesia (1992), lei fa dire alla poetessa Marina Cvetaeva che “i grandissimi poeti sono quelli che devono sempre lottare con l’angelo, cioè con le strettoie e le ambiguità della lingua”. L’angelo è quindi la lingua, il logos? Non esattamente, perché non si sa in che lingua parli. Nella mia Giovanna d’Arco (1990), ad esempio, non sapevo come far parlare l’angelo che si rivolge a Giovanna per annunciarle il suo destino. Il francese antico era troppo letterario, quello moderno troppo confidenziale, il latino non funzionava: ho quindi provato con delle parole senza senso. Ed erano quelle giuste, perché l’angelo non si esprime in una lingua identificabile, in cui io possa riconoscere il congiuntivo. Eppure parla, come dice Giovanna, con “non umana chiarezza”. Cioè una chiarezza che non corrisponde alla lingua. L’angelo è l’ispirazione, semplicemente.

Potrei chiederle di leggere uno dei passi dell’angelo? Abraca cos mané, amì savul. Benedìcite te, alba Jeannette, micovalen saddéte e multa ardentes trafologar senìndete gloriosa. Marò mivalla univallentes pria cresciò bundantia crivellò carene, multa de Dio convene arcisaviota marlinevelle adasto. Lunsitoni, gronsilampe sarrete ultravalente microlombat antares unisarfiota crenalantoni crivellò carene, unisarfiota ter unisarfiota. Pensi che alcuni recensori mi hanno fatto i complimenti per la mia grande conoscenza del latino medievale o del francese dei trovatori: tutte cose che non hanno niente a che fare con queste parole in libertà, dove ho mescolato insieme parole di lorenese, di tedesco, di romanesco (“soreta”, ad esempio). Mi ha colpito anche l’ultima ottava del libro, che mi sembra molto rilevante rispetto al tema dell’angelo. Sì, perché Giovanna confonde l’intuizione del fuoco con le ali dell’angelo. L’angelo e il fuoco sono molto vicini nell’immaginario poetico. Tu chiamavi piumaggio queste luci che alle spalle mi spuntano, Giovanna. Devi sapere: sono pura fiamma e in cima al tuo destino ti aspettavano. Quando riapro questo libro mi commuovo sempre un po’. Non si dovrebbe: l’autore dovrebbe essere distaccato. Ma la Giovanna d’Arco è proprio il cuore del mio cuore.

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{maria luisa spaziani} L’angelo parla una lingua che non è in realtà una lingua. C’è qualcosa che spinge dal di fuori del linguaggio, qualcosa che bisogna ascoltare, cogliere, aspettare. L’ispirazione arriva sempre da una zona limitrofa del linguaggio? Il linguaggio è una delle manifestazioni dello spirito, ma non è l’unica. Tant’è vero che ci sono molti santi che non hanno scritto o letto, eppure avevano dei contatti straordinari con le massime essenze. La sua poesia In forma di croce (da Poesie dalla mano sinistra, 2002), termina in questo modo: “dal cozzo nascono scintille / – sono i capolavori –. / Il genio umano si proietta in forma / di croce”. Come si produce questo cozzo, in lei? Si produce in forma di poesia. Non c’è una sola mia poesia che sia solamente orizzontale o verticale: se fosse tutta verticale si vanificherebbe, come il vapore; se fosse tutta orizzontale sarebbe il linguaggio della prosa quotidiana, dei giornali o delle nostre conversazioni. La poesia arriva soltanto quando c’è l’intersezione dell’orizzontale col verticale. E rispetto allo scontro fra intimo e politico? Sempre in Donne in poesia, lei fa dire a Marcelline Desbordes-Valmore: “La poesia è sempre politica”. I governi sono sempre stati contrari alla poesia, perché la poesia porta lontano dall’idea della forza e del potere. La poesia non chiede niente. È una magia, se si vuole definirla così, ma è in realtà molto superiore, perché la magia chiede sempre qualcosa in cambio (che mia madre guarisca, che il mio amore mi contraccambi, che io diventi ricco…). La poesia invece non chiede niente, è puro disinteresse. È puro spirito, che naturalmente si deve vestire del linguaggio corrente, di certi argomenti. Io posso fare una grande poesia anche cantando le barricate (come ha fatto certe volte Majakovskij): cosa c’è di più volgarmente pratico di qualcuno che salta su una barricata e si mette a sparare? Se però queste cose le rivesto della forma della poesia, allora diventano necessarie e magiche, e non sono più un articolo di giornale.

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Dove situerebbe la distinzione fra poesia e prosa? Naturalmente nel ritmo e negli accenti. Certe volte, come una sorgente d’acqua dolce che si perde in mare, succede che nella prosa rimangano degli accenti e dei ritmi della poesia, senza che l’autore se ne accorga. Qualcuno ad esempio ha fatto uno studio su tutti gli endecasillabi che ci sono nei Promessi Sposi. Il ritmo è una musica che si insinua fra le parole, in forma di accenti. Se Dante avesse deciso di mettere gli accenti giusti sempre negli stessi posti, il risultato sarebbe stato di far addormentare i suoi lettori. Il ritmo è la sferzata che deve arrivare a ogni verso per catapultare il lettore nel verso seguente. Nel mezzo (2); mi ritrovai (4); ché (1). Qual è il suo rapporto con la musica? Io amo molto la musica, vivo di musica. Ho studiato malamente il pianoforte e ho poi studiato un po’ il canto con Montale che, non cantando più, voleva trovare un’allieva di canto. Però è una cosa che costa anni di attenzione e di fatica. Per me, il Concerto in re minore per pianoforte e orchestra K 466 di Mozart è il vertice più alto che abbia raggiunto l’ingegno umano: un assoluto, una meraviglia totale. A proposito della musica, leggerebbe L’arte della fuga, un’altra poesia da Poesie dalla mano sinistra? Arte di morte è l’arte della fuga. Su per scale di suoni e di vertigine ci trascina in foreste senza uscita. Rami intricati, abissi, vuoti d’aria. Bach, Piranesi, deliranti esiti verso cieli virtuali. Un affannoso anelito di vita, gabbia assurda dove febbrile abbracci le tue braccia. Lei ha detto che l’amore è stata una forza molto importante nella sua poesia. Nella mia vita, anche. Come giustamente dice Proust, l’amore è esattamente una malattia, come prendersi l’influenza. Ti fa preferire l’uomo brutto, povero e antipatico a quello bello, giovane e ricco. Quando si è innamorati non si riesce a fare un’analisi perché, come dice sempre Proust, innamorarsi significa porre l’idea dell’assoluto in un relativo. In quel momento quella persona, per quanto brutta, antipatica, vecchia, diventa tutta la tua vita. Guardi che è una bella spaventosa trappola, eh! Però è impossibile evitarlo; lo evitano solo quelli totalmente privi d’immaginazione.


Un’altra sua poesia del 2002, riferita alla Sinfonia n. 8 di Schubert, si chiama L’incompiuta. Anch’io lascerò la mia “Incompiuta”. Sarà semplicemente la mia vita. Lascerò nel senso che rimanga. Lascerò nel senso che la perda. Ogni uomo, ogni donna morendo lascia da fare il più. La morte a tradimento ci sorprende in un punto inatteso. Gabbiani per sempre feriti, colonne spezzate. Sta registrando, qualcuno, il “non scritto”? Speranze ancora vive, libri da finire, corrente che singhiozza. Soprattutto i figli, destini a noi per sempre ignoti.

Pablo Picasso, ritratto di Maria Luisa Spaziani, 1955 (tra i libri della poetessa, a casa sua)

Quali sono i suoi progetti incompiuti? Non ho progetti incompiuti, perché vivo alla giornata. Però mi piacerebbe mettere insieme un grosso romanzo che ho scritto a pezzi, e che poi è stato ritrovato qua e là, perfino dentro sacchi di juta. Una volta mi trovavo nella mia casa di campagna vicino Viterbo, sola e senza più carta. Scrivevo allora su dei fogli sparsi, presi da un vecchio catalogo, e li mettevo in un sacco di juta, dicendomi che un giorno li avrei rimessi a posto, cosa che non è più stata fatta per quindici anni. Un giorno, un mio segretario ha deciso di rimettere finalmente insieme questa storia. Dovrebbe essere ordinata e pubblicata, ma ancora non l’ho proposta a nessuno. Ha già il titolo? Sì: Malinconia del boia. Chissà se verrà pubblicata, magari lo troveranno quando non sarò più qua. Se dovessi pubblicare tutto quello che ho scritto, andrei avanti altri quindici o vent’anni. In cosa ha fiducia? Ho fiducia nella vitalità della gente. Anche se la politica tocca tempi bassi e disperanti, ho fiducia che poi ci si riprenda. Se studiamo la storia del Medioevo, apprendiamo che sono passati secoli in cui non succedeva niente, in cui la gente moriva di fame. C’è una vitalità di fondo che ogni tanto emerge, come cellule di un corpo morto che ogni tanto tirino fuori un boccio nuovo. Grazie davvero.#

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solidarietà Recita il dizionario: “Rapporto di comunanza tra i membri di una collettività pronti a collaborare tra loro e ad assistersi a vicenda”. Il termine sta ad indicare un atteggiamento di benevolenza e comprensione, ma soprattutto di sforzo attivo e gratuito, atto a venire incontro alle esigenze e ai disagi di chi ha bisogno di un aiuto. Essere solidali vuol dire presupporre una unità sociale che nella realtà pratica non è qualcosa di dato, ma qualcosa da costruire. “Solidarietà sociale” inoltre è riferimento ad attività che le istituzioni dovrebbero svolgere per sollevare persone costrette ai margini della società a causa di problemi economici - disoccupati, sottostipendiati, pensionati etc.- o di altro genere come malati, invalidi, stranieri, immigrati etc. Solidarietà vuol dire anche responsabilità, individuale e collettiva, ed attuazione dei diritti umani e sociali per ogni essere vivente. L’educazione alla solidarietà è l’educazione civica del futuro. Essa crea le basi per la formazione di cittadini responsabili, consapevoli dei diritti e dei doveri di ciascuno e impegnati per la loro tutela. Una tutela che riguarda non solo noi esseri viventi, ma anche l’ambiente nel quale viviamo. L’educazione alla solidarietà non si limita all’insegnamento dei valori e dei principi, ma è orientata all’azione ed alla partecipazione.

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di Osvaldo Pieroni

il paesaggio cancellato Oggi il tema della solidarietà richiama non solo il mutuo aiuto, ma anche la responsabilità, di fronte ad un paese inondato, che sta crollando, che travolge vite umane, che distrugge un paesaggio secolare. Che cancella, assieme alla vita, cultura e identità. Intervenire sul paesaggio è oggi azione concreta, progettazione e pratica, ma è soprattutto iniziativa culturale. È per questo che insieme al discorso sul paesaggio occorre sviluppare un discorso e una iniziativa sulla identità. Termine controverso, quest’ultimo, che tuttavia in breve indica riconoscimento intersoggettivo, solidarietà, narrazione di sé in rapporto a quanto gli altri narrano di noi, collegamento tra passato e futuro e – inoltre – riferimento a contesti spaziali di appartenenza, ovvero a luoghi. È il preambolo della Convenzione europea sul paesaggio che richiama in più passi la relazione tra paesaggi ed identità (plurale): “il paesaggio concorre all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea.” Con più forza l’art. 5 della medesima Convenzione sancisce che le parti firmatarie si impegnano a “riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità.” Se dunque il paesaggio viene considerato “componente essenziale del contesto di vita” e fondamento della identità locale, esso è – al pari delle prassi comunicative quotidiane e del senso comune – sfondo essenziale dei mondi vitali (nel senso della lebenswelt habermasiana). Per contro, e purtroppo, la distruzione, la deformazione, la mercificazione del paesaggio procedono parallelamente alla colonizzazione dei mondi vitali. Il paesaggio come “identità etico-estetica del luogo” non può essere separato da chi lo ha abitato, da chi lo abita e da chi si propone di abitarlo in futuro attribuendo ad esso un valore significativo, un senso profondo.

La catastrofe ecologica in corso rimanda alla caduta o quantomeno al ritardo della sensibilità collettiva nei confronti dell’ambiente e si riflette sulla percezione e sul degrado del paesaggio. Le ragioni della dequalificazione del paesaggio, inoltre, non sono soltanto collegate a scelte formali in termini di “architettura ed urbanistica”, quanto piuttosto ad interessi economici e alle tecniche, culture e politiche che li sostengono. Da qui i modelli brutti e distruttivi di insediamento, di qui le forme architettoniche di pessima fattura e dubbio gusto, le cementificazioni, le deforestazioni, l’abbandono dei contesti agricoli. Da qui il dissesto geologico, le frane, la distruzione. Per contro, la qualità del paesaggio migliora quando si ricompone la relazione tra comunità sociale e sistema ecologico (di cui la comunità stessa è parte) e il paesaggio diviene prodotto dei modi di vita, che oggi debbono necessariamente cambiare. Il degrado può sussistere anche senza essere percepito. È ad esempio il caso degli stessi interventi di mascheramento, di interventi formali che paiono rispettare la fisionomia del paesaggio, di interventi cosiddetti di ri-naturalizzazione che tuttavia comportano materiali, tipologie e tecniche costruttive, essenze stesse estranee al contesto, alla sua evoluzione, all’insieme ecosistemico (talvolta con impatti ed effetti sul contesto globale e non soltanto locale o regionale). Occorre quindi porre l’accento non soltanto sulla relazione tra identità locale (riflessivamente ri-costituita) e qualità estetica del paesaggio, ma sottolineare come la sostenibilità ecologico-ambientale sia fattore imprescindibile per qualsiasi intervento che miri alla riqualificazione del paesaggio, del territorio ed alla rivitalizzazione culturale (e anche economica) delle comunità. Un’ultima osservazione riguarda la relazione tra movimenti sociali, partecipazione ed intervento pubblico in grado di implementare norme e direttive inerenti al paesaggio e alla riqualificazione del territorio. È nostra ipotesi, peraltro verificata anche in altri contesti, che l’azione pubblica possa avere tale capacità nella misura in cui sia stimolata e quindi aperta nei confronti della pressione di movimenti sociali ed accompagnata da ampi processi di partecipazione.#

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di Mauro Cicarè

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la luna sulla mia patria vallata

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Non sono bravo, lo so, come il grande maestro Ansel Adams, ma ho anch’io una piccola patria, e sulla mia patria ho anch’io una piccola luna.

2

E se la mia vista, lo so, non è acuta come la sua, e l’iride dei miei obiettivi non così chiusa, e non c’è gran vastità né certa castità nel mio sguardo, non per questo ho meno luna, non per questo ho meno patria.

fotografia 1: Collina detta “La Carla”, Appennino faentino. fotografia 2: Centrale termoelettrica Eugenio Montale, La Spezia.

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di Maurizio Maggiani A poco più di vent’anni ho visto sulla rivista fotografica Photo 13, una rivista molto trasgressiva, una fotografia di spoglie colline illuminate morbidamente dalla luna. La fotografia aveva la didascalia: “Ansel Adams: la luna sulla mia patria vallata”. E ho subito cercato lavoro come fotografo. Per anni ho fotografato impianti industriali, grandi macchine per la lavorazione del marmo e altre per la stagionatura dei prosciutti. In quegli anni ho fatto anche un sacco di altre cose, come spasimare per la rivoluzione, sposarmi e risposarmi senza tregua, correre in motocicletta, ma non mi è mai nemmeno venuto in mente di andarmi a cercare una patria vallata e una luna. Anche se quella fotografia, quella specifica immagine, è stata la causa soggiacente a tutto quello che ho fatto da lì in poi. Questo è verità. Quello che mi sono ingegnato di fare dal tempo di Photo 13 fino a questo momento, è di trovare abbastanza fierezza, e dolcezza, e dignità, e acutezza, e presenza, per colmare la nostalgia di quella luna, di quella patria vallata. Ora che sono passati tanti anni e tanti mestieri, ora che la vita ha fatto il suo lavoro di rifinitura sui miei piedi e sui miei pensieri, ora è il tempo in cui il mio cuore è abbastanza libero per vedere quello che doveva andare a cercare. Ora io ho quello che ha posseduto Ansel Adams. Ho visto la sua opera omnia, più volte. Possiedo cataloghi e montagne di riviste che la illustrano, ma non ho mai più trovato una fotografia del Grande Maestro Ansel Adams che fosse la stessa di quella rivista e che avesse quel titolo. Adams ha fotografato instancabilmente vallate in ogni stagione e orario, ha un ricco campionario di paesaggi con luna, ma non quella che ricordo, non quella specifica immagine. Immagino che la rivista trasgressiva abbia avuto qualche recondita ragione eversiva per contraffare la mia vita.#

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{mimmo paladino}

Palla futurista-Prezioso, olio su tela, 39,5 x 30 cm, 2006

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ogni arte provoca altra arte

di Massimo De Nardo

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{mimmo paladino} Messa a fuoco-Azione, olio su tela, 55 x 38 cm, 2006 A destra: Città idraulica-Ventoso, olio su tela, 39,5 x 30 cm, 2006

Per Rrose 2 Mimmo Paladino ha scelto Fotogrammi, dipinti armati. Se siete tra quelli che hanno visitato la mostra alla galleria Cardi, di Milano, tra settembre e novembre del 2006, o se vi è capitato di avere tra le mani il libro di Demetrio Paparoni, dedicato a quella mostra, sapete già di cosa stiamo parlando. Altrimenti, benvenuti in queste pagine di Rrose. Mimmo Paladino a noi piace molto, e da tempo. Il suo mosaico all’Ara Pacis, per esempio, ha fatto da sfondo alle nostre foto famigliari, qualche anno fa. E una stampa formato cartolina del bellissimo cavallo con

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il muso imbrigliato da una maschera dorata (dell’Hortus Conclusus) è appesa alla parete di una stanza della redazione di Rrose. «Ogni arte provoca altra arte», dice Paladino. E questo riguarda tutto. C’è, dunque, una base da cui partire: la storia, la memoria, il passato. È un concetto semplice, che diventa complesso – non però complicato – quando hai a che fare con l’arte (nel senso più strambo del suo essere) e con un artista che non lascia indifferenti come Paladino. Ci faremo guidare da Demetrio Paparoni nella comprensione di Fotogrammi, dipinti armati. Qualche volta


seguiremo una personale intuizione. Entriamo nella galleria e vediamo «un’installazione formata da 34 piccole pitture concepite come fotogrammi di un film». Ecco, ora il titolo dell’opera è diventato facile, senza tuttavia aver perso ciò che forse faceva pensare ad altro. Fotogrammi è parola che suggerisce movimento, sequenza dopo sequenza, e anche pellicola per il cinema (che, tra l’altro, Paladino ha sperimentato con il suo Quijote, realizzato nel 2006, in occasione del quattrocentenario del romanzo di Cervantes. «Uno dei film italiani più belli e più inclassificabili degli ultimi anni», ha scritto Emiliano Morreale su Domenica - Il Sole 24 Ore, il 18 marzo 2012. Tra gli attori, c’erano Lucio Dalla, Peppe Servillo, Edoardo Sanguineti e Enzo Cucchi). I dipinti armati saranno allusioni alle guerre d’ogni secolo? È da scoprire. «I soggetti delle tele, di tre diverse dimensioni – 30x40, 19x27 e 38x55 cm – sono paesaggi, ritratti e nature morte, disposti secondo un ordine che l’artista non considera vincolante». Rivediamo (o riscopriamo) alcune immagini che subito fanno riconoscere lo “stile” dell’artista: un viso modellato con pochi tratti grafici, una mano staccata dal corpo (non nel senso della smembratura) e comunque lasciata là dove sarebbe stata nella posa del gesto, una figura umana disegnata come sagoma di cartone, un profilo risolto con velocità. Stile cercato e voluto e sperimentato al tempo della Transavanguardia. Oggi, è una “impronta” che anche il Paladino più distante dal sétransavanguardia non può abbandonare o cancellare. E perché mai dovrebbe farlo? Dopo trent’anni dalla “invenzione” di Achille Bonito Oliva, la Transavanguardia è ormai una corrente di fine Novecento, storicizzata nei musei importanti, in Italia e nel mondo. Dal 10 novembre 2011 al 22 aprile 2012, i cinque protagonisti della Transavanguardia (Mimmo Paladino, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Nicola

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Rivoluzione-A camera spenta, olio su tela, 55 x 38 cm, 2006 Veglia-Attesa, olio su tela, 46 x 33 cm, 2006

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De Maria e Francesco Clemente) sono stati riproposti negli spazi “nobili” del Palazzo Reale, a Milano. Verrebbe da dire che “quel” palazzo è divenuto luogo nobilitato da quando hanno iniziato ad allestirvi mostre d’arte. «Le sale di Mimmo Paladino», ha scritto Lea Mattarella, su la Repubblica del 4 dicembre 2011, «hanno (…) qualcosa di antico, di primordiale. Figure stilizzate, croci, elementi scultorei che fanno parte del quadro formano grandi palcoscenici in cui far viaggiare l’occhio. C’è una scultura di cera che pare arrivare da chissà quale scavo archeologico. Ma tutto in Paladino fa pensare a un universo ancestrale che emerge dal profondo. Sembra quasi che riesca ad afferrare il côté inconscio, segreto, nascosto della pittura e della scultura. Si comporta come fosse un raffinato, modernissimo primitivo». Sintesi e analisi impeccabili. È così che noi abbiamo guardato Paladino, a quel suo essere un raffinato primitivo che lo ha fatto ammirare e piacere. Ora, lo ritroviamo nelle “stanze” di Rrose – concediamoci questo lusso. Stanze dallo spazio limitato, per ovvie ragioni, e che costringono ad una selezione: questo dipinto piuttosto che un altro, e non tutti e trentaquattro. Rischiamo di trasformare i fotogrammi in singole istantanee? No, non lo crediamo, perché anche le parole sono immagini. Una mostra senza pareti (è ovvio), o di pareti costruite su altri materiali. «Elementi scultorei che fanno parte del quadro», puntualizza Lea Mattarella. E che ritroviamo in queste opere di piccole dimensioni: «Le tele che compongono Fotogrammi, dipinti armati hanno una sottile cornice di ferro alla quale sono saldati dei manufatti di ferro», annota Paparoni. Tele irrobustite con pezzi di ferro, come il cemento armato? La cornice di metallo è per Paladino il perimetro dello schermo cinematografico. Questi pezzi di ferro Paladino li ha raccolti nell’officina di un suo amico fabbro. Materiali


{mimmo paladino}

Primo piano, olio su tela, 46 x 33 cm, 2006

scartati, non utilizzati. «Raccogliere degli scarti per Paladino significa prendere una forma che è già nel mondo», scrive Paparoni nel suo libro-catalogo. Dunque, la storia, la memoria, il passato. Attorno a questi schermi di ferro spuntano altri ferri, che nel loro essere una “aggiunta” diventano grafie decorative, artifici espressivi, e noi li sentiamo/vediamo leggeri, senza peso, come la traccia corposa di una matita. Recuperando un ferro scartato, riproponendolo per altre funzioni (nel quadro), esponendolo in una galleria, Paladino compie una operazione tanto semplificata quanto complessa. Semplificare significa aver già sottratto (almeno nelle intenzioni, nel progetto), con l’inevitabile “scarto” di ciò che non verrà mai mostrato. Un viso (ad esempio, Palla futurista-Prezioso, olio su tela, 39,5 x 30 cm)

risolto con due segmenti orizzontali – per gli occhi e la bocca – e un segmento verticale – per il naso, è certo una sintesi (anatomica?) che sottrae, scarta. Al tempo stesso, Paladino recupera uno scarto e lo aggiunge al quadro. Una “forma già esistente” che finalmente torna ad esistere. Ma con una differente funzione. E forse sta qui, per noi, l’inganno di tutta la nostra “esistenza”: dover essere qualcos’altro, qualcun altro, essere noi stessi che però “non siamo”. Tornano alla mente i mulini a vento di Quijote. Anche al di là di una nostra lettura di questi Fotogrammi, resta comunque la magnifica possibilità che «ogni immagine genera una immagine che a sua volta ne genera un’altra». Ogni arte provoca altra arte. Ecco perché Paladino “recupera” il matematico e filosofo francese Henry Poincaré, che Paparoni “recupera” nel suo catalogo-

libro: «Ciò che la scienza può raggiungere non sono le cose stesse (…) ma solo le relazioni tra le cose. Al di fuori di queste relazioni non esiste realtà conoscibile». Probabile che anche Duchamp la pensasse così, quando costruì la relazione tra un orinatoio-Fountain, un nome e una data segnati sull’oggetto (come si fa con le opere d’arte: R. Mutt, 1917) e la “stanza” di una galleria o di un museo. Probabile.#

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L’uomo che cammina col cane guarda la strada con occhi diversi. Il cane non parla granché e lui può concentrarsi sui passi e sull’osservazione del mondo. Una pratica che prima eseguiva con costanza, quasi con dedizione ai tavolini del bar, tanto tempo prima, ma poi le cose cambiano. Che cambiassero così tanto, certo, questo non poteva immaginarlo, che si stravolgessero fino a ridurlo al minimo di tutto, all’osso delle cose, neppure questo era prevedibile, ma insomma. L’uomo col cane sa che la vita è come la strada, mutevole e un po’ sporca, e nota tutto, ma a niente fa davvero caso. Per farsi compagnia ha preso l’iPod trovato due sere fa sulla panca, negli spogliatoi. Era rimasto troppo in doccia, chissà, intanto avevano spento quasi tutte le luci e lui era solo; il piccolo oggetto metallizzato lo aveva attirato. L’uomo col cane crede agli incontri e così aveva preso riproduttore e cuffiette e aveva infilato tutto nel giubbotto. Non aveva pensato di prenderlo per ascoltarlo in seguito. Troppa pianificazione non fa parte del suo modo attuale di vivere. Il cane aveva un nome, ma adesso che son rimasti soli non c’è bisogno di tanti appelli. Loro due sono sempre insieme, dividono i pasti, le ore di lavoro e quelle di sonno, il cane si posiziona per lungo, tra i piedi del letto e l’armadio, le zampe ben distese. Anche l’uomo aveva un nome, ma, essendo questa una storia senza quasi dialoghi, non faremo nomi. Manterremo una certa riservatezza, siete avvisati. Diremo tutto, ma senza puntualizzare. Orari e tabelle di marcia, appuntamenti, previsioni del tempo sono roba per chi progetta e si aspetta qualcosa dal futuro. Roba da esseri umani. In questo periodo né l’uomo né il cane si sentono tanto umani. L’iPod, l’uomo non riesce a immaginare di chi possa essere. C’è anche un disco che oggi ascolta molto volentieri per alcune similitudini con la sua condizione: i Musica Nuda sono in due, come lui e il cane. E anche loro si dichiarano “complici”, a dar retta al titolo del disco.

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Mentre si va avanti, e ancora non si è detto nulla in fondo, l’uomo col cane arriva davanti alla vetrina della salumiera. Il negozio è chiuso, ma fuori c’è la titolare. Anche se non è nelle sue abitudini, l’uomo col cane (con disappunto del cane) cambia strada velocemente. A volte, anche un saluto è un saluto di troppo. Passa davanti a un seminterrato da cui proviene il suono di una tv molto alta. Sono quasi le sette di sera e il mondo si prepara a una tregua momentanea, quella della cena in arrivo. Piccoli riti domestici che l’uomo col cane ricorda come un passato lontano, la vita raccontata di un altro. Lui cammina, il cane trotterella, il guinzaglio è lasco e tutto va sempre come deve andare, pensa l’uomo. Le cuffiette dell’iPod non sono il massimo, pensa l’uomo. Riflette che gli piace che passi un po’ d’aria tra il suono e il suo orecchio. E mentre il disco va, siamo già alla traccia tre o quattro, l’uomo nota questa semplice verità: il disco è fatto di una voce (di donna) e del supporto musicale (di un uomo, si vede dalla copertina, minuscola, nel monitor). Mentre il cane lo guarda dal basso in alto, un po’ infastidito da queste soste senza motivo del padrone (e forse dal suo rimuginare), l’uomo si sente spaesato, perduto. Ci sono questi testi poetici, questa melodia minima e vibrante, questo incanto dei Musica Nuda, che gli piacerebbe far sentire a qualcuno. E così avvicina un auricolare all’orecchio del cane. Il segugio lo fa fare per un poco. Poi, rapido gli dà una veloce leccatina. E subito un’altra. È segno che gli piace. L’uomo col cane segue la musica, il cane rincorre tracce invisibili, l’iPod si avvia alla fine della riproduzione. È calato il buio fitto e denso e l’uomo si accorge che hanno deviato dal loro percorso abituale. Sono arrivati a un piccolo giardinetto con panchine malmesse, ruderi romani, una fontana. L’uomo poggia con delicatezza l’iPod su una panchina. Cane e padrone si avviano verso il solito posto. I Musica Nuda restano lì e sono pronti per altre orecchie o altre tasche, non ha importanza. La bellezza è di tutti.#


{musica nuda}

di Angelo Simone

Petra Magoni, Ferruccio Spinetti - Foto di Angelo Trani

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nien te di con testa bile

{robert mapplethorpe} Nell’autoritratto del 1980, Robert Mapplethorpe ti guarda dritto negli occhi. Incorniciato in un quadrato perfetto – il formato favorito per i suoi scatti – il mezzobusto ritratto è quello di un giovane uomo bianco, di 34 anni, piuttosto glabro ed efebico nella muscolatura del petto appena accennata. È truccato, non da donna, ma come si truccano le donne degli anni ’80: sopracciglia naturali, ombretto denso che copre le palpebre, mascara che allunga e ripiega le ciglia, rossetto lucido, gloss come si diceva allora. Anche la pettinatura connota l’epoca, unisex, la stessa del John Travolta della Febbre del sabato sera o di Jane Fonda versione aerobica. Se non fosse già stato usato, il titolo di questa fotografia avrebbe potuto essere “Portrait of Rrose Sélavy” nell’accezione intesa da Duchamp – ritratto da Man Ray nel 1924 in abiti femminili – di “Eros c’est la vie”, perché l’eros è inscindibile dalla vita e dall’opera di Mapplethorpe. Nato nel 1946 in una famiglia cattolica irlandese medio-borghese naturalizzata americana, il giovane Robert, malgrado si senta attratto dalle riviste porno per gay, lotterà a lungo contro l’accettazione della propria radicale omosessualità che gli si rovescerà addosso come il crollo di una diga alla fine degli anni Sessanta. Sono, quelli fra il ’63 e il ’69, anni particolari per gli Stati Uniti: il Vietnam, le rivolte studentesche, la Beat generation, i Figli dei fiori, i movimenti di liberazione delle donne e degli omosessuali... Fenomeni che cambieranno rapidamente e irreversibilmente la società. Appresa questa “scomoda” condizione, Mapplethorpe decide di farne il soggetto della propria ricerca artistica. La sua prima mostra fotografica del 1973 fa

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scandalo. Esposte polaroid che ritraggono se stesso e gli amici che frequenta, in pose sadomaso, in atti sessuali estremi, crude, esplicite, impietose. La sottocultura omosessuale newyorkese è lì rappresentata nella sua potente, oscena e dolorosa trasgressività. Sono scatti difficili da guardare, scuotono dentro, turbano profondamente anche perché riescono, nostro malgrado, ad eccitare. L’America si vergogna di queste immagini che mandano in frantumi il suo perbenismo e scatenano la sua sessuofobia. È questo, a mio avviso, il momento più interessante dell’intera opera di Mapplethorpe. Per la prima volta, soggetti e azioni solitamente protagonisti del mondo della pornografia, attraverso l’occhio del grande fotografo, si trasformano in pose di un realismo crudo e scioccante, ma di assoluta perfezione tecnica e compositiva. Vita e arte si fondono filtrate dai linguaggi delle avanguardie artistiche dell’epoca, ottenendo opere che rappresentano e rappresenteranno per sempre un particolare universo in un periodo storico tormentato e complesso.

Quando guardo gli scatti indiscutibilmente belli degli anni ’80, non riesco ad impedirmi di pensare che in questo congelare pulsioni, azioni ed emozioni erotiche, spostandole sul piano della ricerca di perfezione, Mapplethorpe intraprenda anche un percorso di “purificazione” – che affonda le radici nella severa educazione cattolica ricevuta – quasi volesse riscattare col linguaggio della classicità e della bellezza le trasgressioni estreme rappresentate nelle prime opere. I nudi maschili “michelangioleschi”, il corpo scultoreo di Lisa Lyon, i fiori allusivi, i ritratti delle “celebrities” del più trasgressivo tra gli artisti figurativi oggi sono icone americane appese nei salotti buoni di mezzo mondo e hanno ottenuto il consenso generale, quello che appaga trasgressori e perbenisti, omo ed etero, sotto il grande cappello dell’arte non contestabile: “Spesso l’arte contemporanea mi mette in crisi perché la trovo imperfetta. (...) Nelle mie fotografie migliori non c’è niente di contestabile. (...) È quello che cerco di ottenere”.

La seconda esposizione “The X portfolio” del 1978, tra osanna e censure, lo rende celebre. Ma i nuovi scatti, per quanto “forti”, sono già cambiati, si sono già indirizzati in quel percorso di ricerca della perfezione formale che sembra ossessionare il fotografo. La trasgressione estrema – almeno sul terreno della fotografia, non della biografia – sembra essersi placata. Uso le parole del fotografo Adriano Altamira: “L’operazione che sta dietro al mondo figurativo e all’imagerie di Robert Mapplethorpe è piuttosto trasparente: trasporre soggetti omoerotici nel territorio eletto e squisitamente formale della classicità, usare la natura morta come un genere allusivo, e infine fare del nudo – indifferentemente maschile o femminile – una forma di studio botanico”.

Quando guardo gli scatti indiscutibilmente belli degli anni ’80, non riesco a non vederci anche linguaggi già sperimentati e percorsi, già battuti da altri grandi maestri della fotografia prima di lui. Ma forse questo è il prezzo che si paga quando il genio si coniuga col successo e il professionismo.#


di Elisa Savi Ovadia

Š Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission.

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TRAINDOGS #14 Ci sono vite che passano fuori dal finestrino: quante volte nei vostri viaggi a lunga percorrenza avete guardato donne che stendevano, bambini che giocavano, uomini che lavoravano, coppie che facevano le coppie. Quante volte vi siete chiesti chi fossero, che vite facessero, che incontri e che percorsi, così diversi dal vostro, quelle vite incrociate in quell’attimo casuale, che non c’era stato un prima e non ci sarebbe stato un dopo. E i passaggi a livello, quella gente che aspettava, in macchina o a piedi, oppure su un piede solo, in sella alla bicicletta, aspettava per andare dove, per fare cosa. Quante volte vi siete immaginati in quei paesi dove non sareste mai stati, a vivere quelle vite, al posto o insieme a loro. Tutto questo, su questo treno, non succede mai. Perché quelle vite che guardo fuori dal finestrino tutti i giorni non hanno nessun fascino. Le conosco a memoria, e mi basta la mia.

#183 L’uomo è lì sul molo, che dipinge. Ha la barba bianca e le mani sporche di colore. Oggi tira vento e ci sono pochi turisti. C’è un bambino che lo guarda e segue con gli occhi il pennello che traccia le onde e va a capo ogni volta che finisce la tela, come se fosse una lettera scritta con la schiuma del mare. L’uomo disegna i gabbiani, anche se non ce ne sono, e al bambino verrebbe voglia di dirlo, ma lo sa che non deve parlare con gli sconosciuti. L’uomo si ferma, asciuga il pennello con lo straccio, guarda il bambino e inizia a raccontargli la storia di un veliero. Poi mischia i colori finché non ottiene quello del legno bagnato e allora dipinge lo scafo e poi il bianco delle vele, gonfie di quel vento che scompiglia i capelli del bambino. Poi dipinge le nuvole, dello stesso bianco. Ora tutt’e due guardano il mare. E vedono il veliero. Il bambino lo vede arrivare. L’uomo lo vede partire.

#154 Il sole è già scappato a ponente. Lo insegue con lo sguardo, fin dove può. Poi lo vede sparire, come ieri, come il giorno prima, come ogni giorno degli ultimi dodici anni. E’ tutto quello che vede del mondo, seduto davanti a quella finestra: due tigli, un muro di mattoni, e subito dietro una casa rossa, i binari del treno, i tralicci dell’alta tensione, e dietro ancora il campo allagato, perché ha piovuto tanto, una masseria, ma è già più lontana, altri alberi, a macchie, e poi laggiù, in fondo a tutta quella terra, dopo il cementificio, dopo il campanile e le case basse del paese, dopo tutto quello che c’è ma è troppo lontano per vederlo bene, inizia il cielo. Dodici anni che non vede altro, che ha imparato a memoria i tramonti, e il passaggio dei treni, e il suo mondo è tutto in quella finestra, centocinquanta centimetri per centoventi. Dodici anni che guarda quel davanzale come un desiderio negato.

#206 C’era odore di terra bagnata, ancora prima che cadesse la prima goccia di pioggia. La polvere entrava in gola, sollevata dal vento di scirocco che precede il temporale. Il mare si era alzato. Il cielo si era abbassato. In mezzo c’erano gli uomini. Che correvano al riparo, che rinforzavano gli ormeggi, che chiudevano le finestre. Al primo piano di una camera d’albergo, dietro i vetri, c’era lui che guardava. Guardava i lampi, che tagliavano in due il cielo. Guardava quel porto e quella gente. Che non aveva mai visto prima: era arrivato da due ore, era partito da due giorni. Due giorni che aveva visto passare dal finestrino di un treno, dietro il suo riflesso. Era cambiata la forma delle case, gli alberi erano diversi, la luce era cambiata. Due giorni bastano per lasciarsi alle spalle una vita, se non ti volti mai indietro. Il primo tuono fece tremare i vetri. Il secondo fece tremare lui.

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di Fabio Palombo

#252 Se potessi stare in equilibrio sul vento, il cielo, solo il cielo, guarderei dal basso. Perché sul cielo non puoi sederti a cavalcioni, né salirci sopra, né tantomeno scavalcarlo come se fosse un recinto. Il cielo è troppo alto. Però il resto non lo è. Non lo è questa pianura, le strade, le case, i palazzi. E tutta questa gente. Nient’altro che puntini colorati. Sui binari delle stazioni, alle fermate dell’autobus, ai semafori, ammassati come coriandoli il giorno dopo la festa di martedì grasso. Coriandoli che non prendono mai il volo, non importa quanto vento ci sia. Io è da quando ero bambino che studio le correnti ascensionali. Che so tutto dei venti: la forza, la direzione, dove nascono e dove muoiono, quelli bassi e violenti che precedono un temporale e quelli più alti, che vanno sempre da ovest a est. Io un giorno ci salirò sul vento. E come un coriandolo rosso, supererò quel cancello.

#293 Nessuno scrive della terra. Perché se la guardi non succede niente. La terra è un cielo senza uscita. È il mare senza poesia. È sporca. È dura. La terra è solo terra. Eppure la terra respira, se facciamo silenzio, e ci mettiamo in ascolto. La terra si alza e si abbassa. E gli esseri più piccoli lo sentono, perché è una questione di vicinanza. La terra sopporta il peso del cielo, anche se il cielo non pesa niente. La terra guarda il mare con sospetto, perché in fondo, per com’è fatta la terra, si mette troppo in evidenza. La terra si muove raramente. E quando lo fa, si scrolla gli uomini di dosso, come un grosso animale con le mosche. C’è da capirla, la terra. Io avevo un amico che era così com’è la terra. Il mare per lui era solo acqua. Il cielo era solo aria. Non parlava quasi mai. Però se facevi silenzio, potevi ascoltarlo. Ora è solo terra. E nessuno scrive della terra. Perché è un cielo senza uscita.

#284 Verrà dal mare. E avrà la pelle che saprà di sale. E sarà una follia. Di quelle che è una vita che ti chiedi se e quando ne avrai il coraggio. Verrà dal mare. Perché è dal mare che vengono i misteri. Portati dal vento. O dalle correnti. Verrà dal mare. Perché l’acqua non è come la terra, che se ne sta sempre ferma. L’acqua si muove. E quando si muove tutta quell’acqua, non lo fa per niente. Verrà dal mare. E tu non saprai quando. Potrà essere una notte, mentre dormi. O piuttosto in pieno giorno. Perché il mare non è come gli uomini. Il mare non ha nulla da nascondere. Sono gli uomini che non sanno guardare oltre la superficie. E allora dicono che il mare è imprevedibile, che non ci si può fidare, che è pericoloso. Verrà dal mare. E ti porterà via, come un’onda di risacca. E tu ti farai senza peso. E ti lascerai portare. Verrà dal mare. E sarà una follia. E avrà la pelle che saprà di sale.

#307 Cresce come cresce il sole, ogni mattina, sull’orizzonte del mare, quando l’acqua prende fuoco. Ci dovremmo essere abituati ormai, è così da sempre, e dovremmo sapere che è solo un’illusione, ma ogni volta ci ritroviamo con gli occhi spalancati. Succede tutto in pochi minuti. Quei pochi minuti che separano il buio dalla luce, la paura dalla speranza, il niente dal tutto. Cresce come cresce un sorriso, che nasce in profondità e risale lungo le direttrici del corpo, e solo dopo qualche momento affiora alla superficie delle labbra. E subito si espande, su tutto il viso, a cerchi concentrici. Cresce come cresce il rumore del treno, un suono leggero in un punto lontano, confuso tra altri, ma tanto basta per girare la testa in quella direzione e guardarlo aumentare, finché attaccato al rumore inizi a vedere anche il treno. Quel treno che cresce e riempie lo spazio.Come il mio desiderio di vederla scendere.#

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la moda etica: creare senza distruggere

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{carmina campus} Carmina Campus è un progetto di riciclo creativo applicato alla moda e al design: borse, gioielli, bijoux, mobili. Ma non è soltanto una attività commerciale: in primo piano c’è l’obiettivo di diffondere conoscenza e coscienza ecologica. Il progetto è anche un’occasione di sostegno per alcune campagne di sviluppo sociale a favore delle donne dei Paesi più poveri e per iniziative legate alla salvaguardia dell’ambiente. Ideatrice di Carmina Campus è Ilaria Venturini Fendi.

I prodotti Carmina Campus sono realizzati artigianalmente in Italia con lavorazioni di alta qualità su materiali di scarto trattati con la stessa cura dedicata solitamente a quelli più preziosi. Per promuovere i suoi progetti di sviluppo in alcune comunità africane Carmina Campus ha iniziato la produzione di pannelli e altri semilavorati realizzati da gruppi di donne del Camerun e successivamente del Kenya. I manufatti sono poi utilizzati in alcune borse lavorate in Italia. Il progetto si è sviluppato con la creazione di alcune linee interamente realizzate in Africa con materiali recuperati sul posto.

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{carmina campus} le borse

il packaging

i materiali

Anche se il modello è lo stesso, le borse sono tutte diverse una dall’altra e numerate. Non ci sono riferimenti a collezioni o stagioni, perché il concetto su cui lavora Carmina Campus è il materiale e il suo possibile riutilizzo. Uno stesso modello può avere versioni più o meno estive o invernali che vengono presentate insieme, oppure non avere affatto una collocazione stagionale. Gli interni sono importanti e caratterizzati quanto il lato visibile della borsa. Le fodere sono spesso in tessuti vintage stampati o ricamati, di varia provenienza.

È il più ecologico possibile. I materiali da trasporto vengono riutilizzati più volte, per limitare al massimo il consumo di carta. Il cartellino, in cartoncino riciclato, permette l’identificazione di ogni pezzo: riporta il suo numero di archivio, le ore di lavorazione e progettazione e l’elenco dei materiali che sono stati utilizzati per realizzarlo. Le informazioni sono scritte a mano, perché diverse da un pezzo all’altro.

Non sempre un materiale suggerisce subito quale potrà essere il suo futuro riuso e questo comporta la necessità di immagazzinarlo e conservarlo per averlo a disposizione in un secondo momento. L’elenco dei materiali è incompleto e sempre in evoluzione: tele plasticate per usi industriali, ombreggianti da giardino, pvc per rivestimenti, corde da montagna e cime da barca, cinghie per serrande, tappi di bottiglia, tende in plastica e da sole, tessuti d’arredamento, pezzi di moquette e tappeti, articoli di merceria, ritagli di pellame, metalleria, maniglie per cassetti, tubi elettrici, tubi per doccia, tessuti vintage da abiti, tovaglie, cuscini, rivestimenti per sedili di auto e di aerei, sciarpe da calcio, tessuti militari.

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Carmina Campus collabora con Aidos una ong che si occupa dei diritti delle donne nei Paesi in via di sviluppo, e con ITC (International Trade Centre, agenzia ONU e OMS) che nell’ambito del suo programma di ethical fashion promuove lo sviluppo in Africa attraverso il lavoro. Nelle comunità del Kenya seguite da ITC vengono prodotti i semilavorati realizzati con cascami di tessuti tradizionali o con altri materiali riciclati sul posto e poi assemblati in Italia da esperti artigiani.

Carmina Campus ha aperto a Roma, in via Fontanella Borghese 40, re(f)use, la prima boutique che propone moda e design realizzati esclusivamente con materiali di riuso o di riciclo. I modelli proposti sono di Carmina Campus e anche di altri designer italiani e internazionali.# A cura di Carmina Campus www.carminacampus.org

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{matteo pericoli}

Non c’è una finestra dalla quale abbiamo guardato Matteo Pericoli che da una finestra sta guardando ciò che sta fuori. Sarebbe, se davvero ci fosse questa immaginaria finestra, un giochino di rimandi, di rispecchiamenti. Non c’è. Lo schermo di un computer ha la pretesa di essere “una finestra sul mondo”, ma è solo linguaggio che va di fretta con le parole: la luce è sempre la stessa, e quando lo schermo si mette in stand-by non è come il tramonto. Ovvio che non lo sia. Matteo Pericoli ha disegnato New York vista da sessantatre finestre (che sono quelle

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che ha scelto per il suo libro, The City Out My Window. 63 Views on New York). Di finestre ne aveva trovate trecento (di trecento appartamenti); ha disegnato un centinaio di “sguardi” scegliendone sessantatre. Potrebbe sembrare un numero strano, se pensi al mondo che di solito è misurato con le decine e le centinaia. Sessantatre. Finalmente un numero che sorpassa, supera lo standard, il tot preciso, riassuntivo. New York è una città bellissima. Non ci sono dubbi. Da una finestra è qualcos’altro? Ti affacci se stai in alto, se davanti c’è un profilo di palazzi. In genere sono

RIUSCIRE A TROVARE QUELLA VOCE CAPACE DI DIRE IL PIÙ POSSIBILE COL MINIMO INDISPENSABILE


di Chiara Gabrielli finestre chiuse. Pareti di cristallo. Finestre che si aprono con lo sguardo. Per Matteo Pericoli lo sguardo non è soltanto vedere. Perché, se stai davanti ad una finestra a disegnare, quello che vedi non lo raggiungi solo con gli occhi. Chiediamolo a Matteo. È così? Direi di sì. Infatti, quello che forse m’interessa di più mentre disegno è cercare di capire quello che percepiamo, pensiamo o sappiamo delle città. La scelta di “disegnare tutto”, che contraddistingue i lavori sui lunghi rotoli, ma in fondo anche quello delle finestre, mi permette di non dover scegliere, ma di osservare quello che accade quando ricostruisco le parti di un tutto che in realtà si nasconde. Quando lavoro ai rotoli disegno quello che tutti possono vedere, sebbene mai dispiegato in quel modo; quando guardo dalle finestre so che sto per disegnare la città più intima possibile, quella nascosta nel cervello dei suoi abitanti. Una città pressoché invisibile, cioè non-visibile se non da quel punto di vista unico al mondo. Mi pare che i due siano approcci diametralmente opposti verso lo stesso fine: raccontare la città.

Loris Stein

Probabile che New York sia la città più cinematografica del mondo. A Hollywood i film si producono, a New York si girano. Forse è così. E questo spostamento, che non è solo geografico, suggerisce una maniera di pensare i disegni di Matteo Pericoli. Chiudendola, la finestra. Per “vedere” cos’è che poi abbiamo sul serio osservato, pensato, sentito, ricordato, immaginato. Dalla finestra di Rrose si vedono balconi e finestre. Sono finestre di cucine, sale da pranzo. Chi c’era dietro alle finestre newyorkesi che osservavi dalle tue finestre? Mi piacerebbe poter rispondere qui raccontando mille aneddoti curiosi. E forse alcuni ce ne sono, come quando una mattina presto mi trovai a casa di David Byrne per fotografare la sua vista, con lui vestito da calciatore e un bell’albero di Natale tutto acceso e lampeggiante, una mattina di maggio. Fu proprio lui a formulare quella sensazione che avevo percepito e che andavo cercando: la view envy, ovvero l’invidia da vista o l’invidia della vista. Il credere cioè che le tante finestre che si vedono dalla nostra nascondano viste migliori, scorci più interessanti o rivelatori sulla città. Rendendo in fondo la vista dalla finestra un bene fisico e misurabile dal punto di vista immobiliare (si può comprare una vista con dietro una casa), ma che non dà garanzie – ti possono sempre costruire un palazzo davanti e non ci si può fare nulla. Ma, tornando alla questione degli aneddoti di cui sopra, alla fine dietro alle finestre c’era soprattutto il mio desiderio di andare a caccia della New York vista da dentro. Infatti, le visite erano per lo più rapide e mirate allo scattare le mie 30-40-50 foto, senza cercare in alcun modo – per timidezza o timore di intrudere nella vita altrui – di attaccare bottone.

A sinistra: Ed Koch

Lo stessa domanda si può fare per la città più newyorkese d’Europa (ah, il difetto di far assomigliare luoghi e cose sempre a qualcos’altro!). Matteo Pericoli ha disegnato il doppio skyline di Londra, prima da una sponda del Tamigi, poi dall’altra. I disegni sono anche diventati un’applicazione per l’iPad, così noi possiamo girare per la city, ascoltando informazioni sull’architettura, la storia e notizie varie. Guidati dalla voce di Matteo. Modificando un po’ il titolo di un libro di Sandro Veronesi, ti chiedo: Per

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{matteo pericoli} dove parte questo tour (treno) allegro? La risposta breve alla tua domanda è: non ne ho idea. Quella un po’ più lunga avrebbe a che fare con la sensazione che le città percepite sono enormemente più importanti di quelle oggettive, fisiche. L’architetto urbanista ideale (o comunque chi è alla guida della progettazione delle città) secondo me dovrebbe essere in grado prima di raccontare un luogo che non esiste come fosse già vissuto, vero, percepito; raccontarlo cioè prima come visto dall’altro lato, da chi lo vivrà, visiterà, ecc.; e poi dovrebbe mettersi a progettarlo con in mente quei racconti. I miei disegni, forse – essendo “anche” un po’ architetto – hanno a che fare con quel punto invisibile di contatto tra le due attività: il raccontare e il progettare.

In realtà, la prima volta che mi sono misurato con la distanza sul serio è quando, nel 1998, mi sono reso conto che il primo disegno di Manhattan Unfurled stava iniziando a essere così lungo che si stava trasformando in qualcos’altro. Proseguendo col rotolo da disegno da sinistra verso destra (essendo io destrorso) mi stavo anche rendendo conto che guardando indietro nel mio disegno, a sinistra, ovvero ri-arrotolando svariati metri già fatti, non solo mi spostavo nello spazio della città che stavo disegnando, ma guardavo anche una mia mano meno capace, un disegno che, se avessi potuto, avrei a quel punto fatto diversamente. Stavo guardando momenti passati, ma ancora fortemente legati al presente a cui lavoravo.

Il segno di Matteo Pericoli ha la grazia di un tratto filiforme, che corre con ritmo, senza però tralasciare nulla. E dal momento che sono città con le loro architetture extralarge (si può dire?), ecco che il segno leggero di Pericoli restituisce loro la dovuta fisicità, il volume, la consistenza. Quasi come un ossimoro, una sorta di “forte leggerezza”. O sbaglio? “Forte leggerezza” mi piace, anche perché non potendo (e in certi casi non volendo) mai cancellare quello che disegno mentre lavoro ai definitivi, ogni linea porta con sé molta della paura di sbagliare che spesso fa così bene. La possibilità di premere CTRL+Z o “undo” rende tutti molto più coraggiosi, e permette di tentare molte più cose. Ovviamente un passo avanti.Va benissimo. E la paura di sbagliare? E quell’esperienza che viene dai tanti sbagli? Le linee registrano tutto.

Jorge Luis Borges racconta di un pittore che ha dipinto continuamente paesaggi fatti di città, montagne, isole, persone. Si accorgerà, alla fine, che tutte quelle immagini raffigurano il suo volto; la rappresentazione della realtà altri non è che il suo autoritratto. Hai lasciato qualche parte di te sul profilo di un grattacielo o sulla cupola di una cattedrale? Anche in questo caso, non saprei. Sarebbe forse un po’ prevedibile e scontato dire di sì. Quello che è certo è che ogni tipo di ricerca a prima vista rivolto all’esterno trova la sua controparte dentro di noi. E viceversa. Come ci fossero due pezzi di un puzzle da ricomporre: uno sta fuori, l’altro sta dentro. A maggior ragione se si tratta di finestre, i cui vetri sono in realtà più degli specchi.

New York, e poi Londra. Oggi Matteo vive a Torino. Grandi città, ma il mondo è davvero piccolo. Nel 2005 Matteo ha pubblicato con Quodlibet New York e altri disegni. La finestra della redazione di Quodlibet dista diciotto chilometri dalla finestra della redazione di Rrose. Cos’è la distanza per uno come te, abituato non solo a traslochi da un continente all’altro, che ha percorso le due metropoli a piedi, in bicicletta e in battello? Verrebbe da pensare che la tua unità di misura non sia il metro ma il “passo-passo”.

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Il critico letterario e filologo ungherese Péter Szondi – riferendosi a Immagini di città di Walter Benjamin – ha detto che «una città è un viaggio nel tempo piuttosto che nello spazio». È così anche per te? Non potrebbe esserlo di più per me. Come dicevo sopra, soprattutto nel caso dei disegni sui rotoli, lo svolgimento sia figurato che letterale della scoperta della città avviene nel tempo e non solo nella lunghezza dei rotoli. Proseguendo qualche centimetro al giorno, dopo mesi di lavoro posso far corrispondere porzioni della città disegnata ai relativi periodi in cui ci ho lavorato, e in teoria potrei continuare a fare lo stesso lavoro all’infinito; cioè potrei ricominciare e ridisegnare la stessa città di nuovo, tanto sia la mia mano

Nietzsche


che la città saranno nel frattempo cambiate, dando vita così a un disegno e a un racconto sempre diversi.

In alto: Mark Morris A sinistra: Dalla redazione del Paris Review

Mi è venuto di citare tre scrittori. Ci dici, per equilibrare, a quale architetto-illustratoredisegnatore ti senti più vicino, per stile, pensiero, modi o altro? Sempre se lo hai intravisto da una delle tue tante e aperte finestre. Credo che poche persone siano mai state capaci di sintetizzare in un solo disegno ciò che crediamo di vedere, quello che sappiamo o che pensiamo di sapere, e quello che ci aspettiamo di vedere come ha fatto Saul Steinberg. Più che la vicinanza o l’affinità (o il suo essere anche architetto), è la speranza che mi fa spesso volgere lo sguardo e il pensiero al suo lavoro. La speranza, un giorno, di riuscire a trovare quella voce capace di dire il più possibile col minimo indispensabile.

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{matteo pericoli}

Susanna Moore

Matteo Pericoli, una mostra e un workshop a Venezia. Drawings from Within 22 maggio – 15 settembre 2012 a cura di Francesca Valentini Una mostra prodotta in cooperazione tra il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari Venezia e a.r.t.e.s. Forschungsschule, scuola di ricerca delle facoltà umanistiche dell’Università di Colonia. Inaugurazione: martedì 22 maggio 2012 (ore 11.00) A seguire, dialogo con l’artista (ore 12.00) Aula Colonne - San Sebastiano, Dorsoduro, 1686 - Venezia In occasione della prima edizione della Ca’Foscari Summer School, Matteo Pericoli guiderà un workshop teorico/pratico interamente dedicato al disegno. Dal 25 al 29 giugno 2012 a Venezia. Info: www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=120278.

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Mikhail Baryshnikov

Matteo Pericoli, una mostra a Londra. London Unfurled: PM Gallery and House (www.ealing.gov.uk/pmgalleryandhouse), Pitzhanger Manor-House, Ealing (West London) 10 luglio – 2 settembre 2012#


Rrose. La creatività, di volta in volta Bimestrale (5 numeri) Registrazione n. 606 / 27.09.2011 Direttore editoriale Massimo De Nardo Direttore responsabile Alessandro Feliziani Coordinatrice editoriale Chiara Gabrielli Impaginazione Paolo Rinaldi

Font Gill Sans, Joanna (Eric Gill) Stampa Tipografia San Giuseppe (Pollenza – MC) maggio 2012 Carta Fabriano Extra Offset interno 120g, copertina 250g Distribuzione in libreria Joo Distribuzione Via F. Argelati, 35 / 20143 Milano

La notizia del trillo accidentale di una sveglia a teatro, riportata da un quotidiano del 1930 e raccontata da Michele Dürer sulla testata quindicinale da lui diretta, ispira una nuova forma di protesta. Ovunque si leva il suono di sveglie al quarzo, regolate da individui che si improvvisano disturbatori per destare l’opinione pubblica. I casi di emulazione si moltiplicano e il commissario ritiene lo stesso Dürer responsabile, per via dell’articolo che ha firmato. Il giornalista, tuttavia, è deciso a indagare sulla vicenda e scoprire dettagli sulla vita della persona che, suo malgrado, ha dato origine al fenomeno di protesta: l’orologiaio Giovanni Oldeni. La verità che emerge è la cronaca di un evento fortuito, apparentemente insignificante, eppure capace di sconvolgere l’esistenza dei protagonisti e svelare una fitta trama che lega il passato al presente.

Edita da Rrose Sélavy Associazione culturale per le arti visive, musicali e sceniche p. iva 01774270431 cod. fisc. 92020620438 Sede Via Carlo Santini, 6 / 62029 Tolentino MC Contatti rroseselavy24@tiscali.it www.rroseselavy.org T 0733 971310 / T 0733 963041

«Immediatamente coinvolgente. Il protagonistanarratore entra in scena in una terra di confine con una voce ben riconoscibile.» «Veramente bello e ben scritto. La trama è coinvolgente e senza battute d’arresto.» «Scrittura precisa, efficace senza inutili digressioni, scorrevole, profonda, matura. Concetti ben resi. Personaggi e dialoghi realistici. Sensibilità e commozione.» Ebook edito nella collana io scrittore Gruppo editoriale Mauri Spagnol (tra i vincitori finalisti del concorso “io scrittore, 2010”) Per leggere le prime 30 pagine: http://edigita.cantook.net/p/7770 Per acquistarlo: http://www.ibs.it/ebook/de-nardo-massimo/ ogni-tanto-fatela-suonare/9788897148517.html E in tutte le librerie online


Luciano Laurana (attr.) "Città ideale" Urbino, Galleria Nazionale delle Marche - Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

la cultura

Ci sono molte banche e molti modi di essere banca. Noi, da sempre, pensiamo che il nostro ruolo sia semplicemente quello di esserci. Davvero. Ecco perché Banca Marche “aMa”. Ama la concretezza, la fiducia, le passioni. Ama i progetti e il futuro. Ama perché partecipa e sostiene il tessuto economico, sociale e culturale del territorio. Un territorio che va ben oltre le Marche, con tanti clienti che amano il nostro modo di essere.


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