Rivista! unaspecie

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Foto di Carlo D'Alonzo


Sommario MANIFESTO

RECENSIONI

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Sogni americani - L’assassino ipocondriaco - Effetti collaterali - CosmoZ - Il demolitore di camper - La strana collezione di Mr. Karp - La velocità di lotta - La strada del coraggio - Disegnatore di sogni - Last night

INEDITI

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Havisham di Carol Ann Duff Unaspecie! di Concorso: poesia di Paolo Badini

5 EDITORIALE

Rivista! edizione straordinaria “prima cetacea”

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CULT/RITRATTI

Pasolini: tra promesse e omissioni Era un’altra bellezza - Franz Kafka, fuga dalla macchina - Intervista a Riccardo Duranti - La comunicazione costante Il Codex di Luigi Serafini

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Direttore Responsabile: Mariantonietta Sorrentino. Direttore Editoriale: Lorenzo Battaglia

www.rivistaunaspecie.com Caporedattori: Violetta Mari, Antonio Marotta, Carlo D’alonzo Redattori: Maria Susca, Adriana Marineo, Davide Rambaldi, Margherita Chiriacò Collaboratori: Daniel Degli Esposti, Eugenio Cannata, Lorenzo Martello, Michela De Fabritiis, Francesco Sgrò, Martina Fabbri, Riccardo Piazza, Claudia Romagnoli, Alessandro Graciotti, Eugenio Sibona, Walter Tripi. Traduttrice: Angela Fato


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MANIFESTO

ivista! unaspecie è un periodico di poesia e letteratura, fondato da un gruppo di studenti dell’Università di Bologna, che nasce con un’intenzione programmatica ben precisa: ri-accettare il libro come mezzo di formazione individuale, di dialogo, di discussione appassionata, di modi e linguaggi condivisibili. Vogliamo quindi impegnarci nello stimolare una linea rinnovata, che richiami l’atto della lettura a un civile senso di educazione e ricerca personale; perché leggere risulti ancora uno sprone necessario e fondamentale per un pensiero libero, non adagiato al ruolo di bestiolina ammaestrata. Oggi la lettura sopravvive in uno spazio sempre più esiguo, dove il senso del molteplice è un dato di fatto se non l’elemento costitutivo della realtà industrializzata, ma non per questo il lettore deve essere estraniato dal discorso attuale. Egli ricerca in un testo l’origine di una vera presenza: una quasi-epifania. Come scrive Ivan Illich, l’atto di lettura non è paragonabile a una lastra spuria, stampata su uno schermo, senza braccia e gambe, né si tratta di un mero rapporto tra osservatore e oggetto-osservato. Leggere è prima di tutto attività della mente come del corpo, uno strano gioco d’azzardo fatto di regole, ma anche di interazioni e proiezioni nel vuoto. Fin dall’antichità i latini ci hanno insegnato che la parola ligere equivale a “raccogliere” da cui legere “leggere” e dilegere “prediligere, amare”. Ciò significa acquisire nuove forme conoscitive attraverso un’esperienza compiuta, di sinergia tra corpo e mente. Quindi la lettura va intesa in movimento, una tensione, tendere sé stessi e non restare fermi di fronte a un libro, costringendolo a una morsa fossile che non gli appartiene. In un atto di lettura è essenziale scalmanarsi, sbraitare, o monasticamente borbottare: abbiamo bisogno di esprimerci quando leggiamo. 2


Questo senso lo abbiamo perso e dobbiamo assolutamente impegnarci per ritrovarlo. Di questi tempi il vero problema non è la morte del libro, ma la morte del lettore come persona fisica, che è il solo nella posizione di dare credito a un testo scritto e ricreare a sua volta un pensiero estetico. I dati statistici del 2013 hanno rivelato che soltanto il 46 per cento degli italiani si considera lettore (quindi dichiara di leggere almeno un libro extra-scolastico o extra-professionale all’anno). È un dato disastroso sintomo dell’imperdonabile inciviltà di cui siamo prove viventi a ogni livello di estrazione sociale e culturale. Una nazione che legge è di certo un paese più libero: questa considerazione, da sola, vale già abbastanza per confermare con assiduità che leggere è meglio che non leggere. Lettura e scrittura sono due atti di democrazia assoluta che elevano lo spirito e non privilegiano nessuna interpretazione. Dobbiamo quindi rioccuparci dei libri e nei libri, sperimentare linguaggi che ci aiutino a trovare nuove strade e che recuperino i segni di una cultura pregnante: un gigantesco abbeveratoio a disposizione di tutti. Pena il rischio di lasciare le cose così come sono, abbandonarci a roba amena, beccare tra libri e materiali senza scopo, scegliere il niente, alimentandoci con pornografie d’insignificanza. “Il manifesto della redazione”

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Concorso fotografico Rivista!unaspecie: vita universitaria! (foto di Carlo Martello)


Editoriale!

Editoriale! Del 13 Aprile

Rivista! edizione straordinaria “prima cetacea”

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criviamo scriviamo scriviamo in onore della prima edizione cetacea di Rivista!unaspecie - Ciao bellezze! che ve ne pare di questo nostro nuovo vestitino che ricorda un cartoncino, pieno di bollicine in bella vista, tutte aggonghindate e colorate? Cosa ne dite, vi piace sì o vi piace no? Bhé . . . noi siamo un po’ imbarazzati nel rimirarci così eleganti, belli e sexybomb ma come dicono le balene - c’est la vie! C’è chi può e chi non può, c’è chi è sexybomb chi maxibon, c’è chi pesca felicemente e chi pesca niente, c’è chi dà a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio e a Brutto quel che è di Brutto ma, bando alle ciance, siamo a primavera . . . - e noi della redazione sogniamo un bel pic nic ai giardini, finalmente liberi dall’ossessione di scrivere editoriali, postare articoli, correggere articoli, controllare mail, ordinare libri, disperarsi per consegne mancate, avere figli, trombosi diabeti e cirrosi - bastardo e grato a te Lettore che ci leggi! E che ti aspetti da noi esacerbanti novità ogni fine settimana! Spulcia fino in fondo questa chicca di carta - tale Signorina Rivistina che è tanto bella con indosso il suo nuovo vestitino di primavera, bella di tante Recensioni, snella di Cult e Ritratti d’autore, bionda e boccolosa di Inediti!

copertina, i cameraman e lo sceneggiatore, i ragazzi della via Pál per aver contribuito come comparse; l’ermellino, Paltrino, Diego Armando Maradona, Paolo Brosio, la Madonna di Medjugorje, i poeti della Bottega Instabile, i Vietcong e il dottor Umido S., già protagonisti dei precedenti editoriali. Con la speranza di farvi compagnia nei vostri bagni, vi auguriamo buona lettura. Rivista!unauccidiamoglialberiperchédobbiamofareilcartaceo

E come si usa fare in queste grandi occasioni ringraziamo: tutta la redazione che in questi mesi ha sopportato la redazione, il nostro direttore responsabile Mariantonietta Sorrentino, Antonio Marotta e Carlo D’alonzo per la realizzazione grafica, Adriana Marineo per il disegno di

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Recensioni!

Sogni Americani di Sapphire Articolo di Violetta Mari donna. Faccio fronte al diavolo senza deodorante e senza lauree”. Quel diavolo è il cancro della società, riguarda tutti , ma a viverlo e a doverlo affrontare in prima persona ogni giorno ci sono sempre e solo coloro che abitano dove stanno le metastasi, laddove indifferenza, disuguaglianza, e discriminazione sono realtà duramente tangibili. L’America sembra avere allora più che mai bisogno dei suoi eroici anti-eroi beat, di qualcuno che mostri a chi non vuol vedere la segregazione razziale, la condizione subordinata della donna, le discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale. Il suo invito è semplice e diretto: “Parla, senno sarai sempre legato al suolo”. Sapphire sceglie la poesia per parlare ed elevarsi da quel suolo, oltre che per dare vita ad un vero e proprio progetto etico sommando nella sua voce tutte quelle messe a tacere con violenza o perdute di chi come lei ha vissuto nelle metastasi ma a differenza di lei non ha avuto la forza di parlare e il coraggio di avere dei sogni. “Le mie lacrime sono il sangue di troppe donne, i miei denti cadono dalla mia bocca quando io non parlo” L’autrice allora scava nella grezza materia umana con l’intento di riafferrare e riportare alla ribalta un terreno comune sul quale poter ricostruire un perduto e rimpianto senso di comunità; è al corpo quindi, dilaniato e violato, che affida il compito di scrivere, consapevole che nessun’altro linguaggio potrà mai essere altrettanto immediato e quindi adatto a raggiungere un livello di comprensione e risonanza profondo con chi legge. Abbiamo tutti bisogno dei sogni coraggiosi di Sapphire, perché anche noi in qualche modo siamo l’America e il suo sorriso di plastica. (Sogni americani - Stampa alternativa, 1996)

Sogni americani si presenta inoffensivamente come un libricino tascabile con copertina blu rossa e bianca come l’America, ma i racconti e le poesie che contiene, sono neri come gli abissi e come la pelle ferita dalla quale fuoriescono prepotenti come urla. Ogni pagina sfogliata è uno schiaffo dritto in faccia all’ America, a quel suo volto ipocrita riconoscibile sempre di più nel sorriso di plastica di Ronald Mac Donald e sempre meno in quello solenne della statua della libertà. Siamo nella metà degli anni ’90, l’ Impero del consumismo è all’apice del suo fulgore, silenziosamente le coscienze consumando si consumano fino a confondere schiavitù con libertà di scelta. A quali valori appigliarsi in un mondo in cui tutto è malsanamente e illusoriamente possibile fino all’assurdo, ma solo per qualcuno? Sapphire risponde con provocazione, mescolando idoli e merci “o Maria non piangere, prova il crac”, il vuoto di valori e questa confusione la asfissiano, ma non la uccidono, non chiamatela vittima… “io sono povera, sono nera. Sono una

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L'assassino ipocondriaco di Juan Jacinto Muñoz Rengel Articolo di Carlo D'alonzo Niente di tutto questo però si avvicinerebbe alla verità dato che ciò che tiene strettamente legato l’assassino alla sua vittima è la sua morale kantiana ferocemente in contrasto con l’idea di espirare prima di aver portato a termine il suo compito. Nonostante la miriade di malattie e sintomi minuziosamente descritti che sono sicuro porteranno qualche lettore all’assunzione di antidolorifici e alla prenotazione di visite specialistiche, il vero tratto somatico del libro è rappresentato dalle “lezioni di filosofia” magistralmente accostate al flusso degli eventi; queste, facendo rivivere attraverso le storie personali dei grandi del passato le sventure di Mr Y, lasciano al lettore il compito di marcare una linea tra ciò che è reale e ciò che è immaginato, sottolineando talvolta le esagerazioni dei pazienti, talvolta i limiti della medicina. Durante la serie di sfortunati eventi che portano l’assassino sempre ad un passo dal compimento del suo obbiettivo ci si accorge progressivamente che, nascosta da una maschera hard boiled, l’anima di questo romanzo è molto più profonda e, quando nelle battute finali Rengel “entra” per un instante all’interno del proprio creato, ci fornisce un passepartout di lettura che dona al libro un sapore del tutto inaspettato, aprendo la porta a mille interpretazioni, forse tutte valide o forse come le malattie di Mr Y, solo immaginate. Divertente e mai stucchevole, questo noir sfumato di ironia non manca di suspanse (anche se a crearla sono episodi in cui il professionista della morte scambia giocattoli erotici per pistole) e riesce a soddisfare la voglia di una lettura leggera tenendosi ampiamente a distanza dalla banalità. (L’Assassino ipocondriaco - Castelvecchi editore 2012)

“L’assassino ipocondriaco” spiazzante e geniale libro del giovane scrittore spagnolo Juan Jacinto Muñoz Rengel, anche autore delle raccolte 88 Mill Lane (Alhulia, 2005) e De mecànica y alquimia (Salto de Pàgina, 2009), racconta degli svariati tentativi dell’astuto quanto imbranato Mr Y, assassino professionista ormai con un piede nella fossa (o almeno così dice lui) di uccidere il signor Blaisten, psicologo abitudinario e suo ultimo lavoro prima dell’eterno riposo. Avendo ricevuto in anticipo il pagamento ed essendo alle sue ultime ora di vita, al lettore viene spontaneo domandarsi cosa impedisca a Mr Y di godersi il pagamento anticipato e le sue ultime ore su di una spiaggia all’altro capo del mondo! La risposta potrebbe essere data dall’allergia dell’assassino ai raggi solari, oppure dalla sua impossibilità, causata dalla maledizione di Ondine, di riposarsi; oppure dal suo disturbo della percezione sensoriale che gli rende impossibile gestire coerentemente gli stimoli del mondo esterno!

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Recensioni!

Effetti collaterali di una stanza in affitto di Matteo Pioppi Articolo di Margherita Chiaricò

“Sembra ieri che andavo all’università che poi dopo ricordo di essermi sposato e di aver fatto anche dei figli ma non mi ricordo se poi sono ancora vivi questi figli o se son morti o se sono scappati via per scappare da tutto questo sfinimento di vita; se sono andati via hanno fatto bene che se la vita li sfiniva e li disgustava hanno fatto bene a scappare da questa cloaca piena che è oggi l’umanità, che ci stiamo prendendo in giro tutti quanti con delle storie che mi vien male a pensarci ma ci penso lo stesso”. Le vicende narrate nei nove racconti si stagliano su di uno sfondo di disillusione, sulla quale vengono rappresentati le debolezze umane e qualche sogno infranto; i personaggi affrontano le giornate permeati da un senso di negatività e sfiducia con l’importante e sfolgorante aiuto di molto fumo e molto alcool. “Questa sera, che è sempre una serata di merda, stasera sto come tutte le sere che esco o quasi tutte, con un whisky in un mano e nell’atra una sigaretta sempre accesa. Tutti mi prendono contro e io mi chiedo: cosa ci faccio qui, perché non sono rimasto in casa?”. Questi i temi toccati dallo scrittore all’interno del libro; racconti monocorde quanto il colore della sua copertina, totalmente nera, quasi a voler dare risalto al testo, ai contenuti, piuttosto che alla forma. (Effetti collaterali di una stanza in affitto - Bèbert, 2013)

“Effetti collaterali di una stanza in affitto” è un’opera di Matteo Pioppi, scrittore ed editore reggiano, ora residente a Bologna e fondatore della casa editrice Bebért Edizioni. L’opera consta di nove racconti a sé stanti, accomunati da un linguaggio gergale simile al parlato e dalla presenza di Ruben, protagonista in alcuni, personaggio secondario in altri. Lo scompigliato vortice di pensieri descritti in periodi lunghi dà vita ad uno stile “non tradizionale” che ricorda molto un flusso di coscienza interiore; parole che scorrono velocemente, quasi quanto i pensieri stessi dei protagonisti. Viene rappresentata così la realtà vista con gli occhi di alcuni ragazzi che, attraverso le poche pagine che compongono ogni singolo racconto, si dimostrano profondamente delusi dall’andamento delle cose intorno a loro; dalla loro vita. Pioppi ci fa immergere all’interno di una particolare visione del mondo, una visione negativa, piena di aspettative disattese e ideali destinati a rimanere tali.

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CosmoZ di Cristophe Claro Articolo di Eugenio Cannata la miriade di remake cinematografici e adattamenti sempre più fantasiosi, appare certamente riduttivo. E ancor di più non lo si può ritenere in alcun modo un romanzo di fantascienza o un’allegoria, poiché esso è, a differenza del romanzo di Baum, un romanzo prettamente storico, ben radicato negli eventi e nell’ottica del primo Novecento ed i cui personaggi si evolvono e crescono di pari passo con il susseguirsi della Prima Guerra Mondiale, dei “Roaring Twenties” ed infine della Grande Depressione. In questo elemento risiede il tratto caratteristico del romanzo di Baum, ovvero nella profonda interazione reciproca tra i personaggi immaginari – quelli sì tratti dal romanzo di Baum – e il mondo reale, storico, all’interno di cui essi assumono piena coscienza delle proprie contraddizioni. Il caso più esemplare è rappresentato dall’esperienza della Grande Guerra raccontata attraverso gli occhi di due dei quattro protagonisti del romanzo di Baum, Oscar Crow, «che i suoi compagni avevano soprannominato lo Spaventapasseri perché era capace di stare ore intere senza muoversi, ma soprattutto perché teneva, nascosta nelle tasche della giubba, un po’ di paglia del suo Kansas» e Nick Chopper, un ex taglialegna che, a causa dello scoppio di una granata perde tutti gli arti e viene trasformato nell’”uomo di latta”. Attraverso una scrittura scorrevole e accattivante, Claro riesce a superare il magico mondo ideato da Baum e a far confluire gli innumerevoli spunti della sua fervida fantasia nella creazione del suo mondo, il mondo di un figlio del Novecento cresciuto nelle Banlieue parigine: ClaroZ. (CosmoZ - Clichy, 2013)

Christophe Claro nasce nel 1962 a Parigi, o meglio – dettaglio per nulla trascurabile – nelle Banlieue parigine, ovvero quell’immensa costellazione di etnie, culture e stili di vita che contribuisce, tra le altre cose, a rendere Parigi, come l’ha definita Balzac, «un paese molto ospitale che accoglie tutto, sia le fortune vergognose che quelle insanguinate». Dopo aver finito il liceo inizia a lavorare in una libreria e, parallelamente, come correttore di bozze per diverse case editrici, contatti che gli hanno permesso di diventare uno dei più affermati e noti traduttori francesi, o, come ama definirsi lui stesso, uno “chasseur de trésors littéraires”. Dopo aver pubblicato svariati romanzi e aver tradotto autori del calibro di Salman Rushdie e Chuck Palahniuk, si può dire che con CosmoZ – il suo tredicesimo (!) romanzo – Claro abbia raggiunto la piena maturità letteraria e narrativa. Definire CosmoZ una semplice ripresa del celeberrimo “Il Meraviglioso Mago di Oz” pubblicato da Frank L. Baum nel 1900, quasi fosse alla stregua del-

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Recensioni!

Il demolitore di camper di Luca Saltini Articolo di Claudia Romagnoli

Michele è l’alter ego dell’autore Saltini che con questo romanzo ha partecipato al Premio La Giara indetto dalla RAI nel 2012; come quest’ultimo, la voce narrante del romanzo mosso dalle sue grandi ambizioni di scrittore, scrive racconti per bambini, il cui protagonista è Nonno Umberto, mito di piccoli lettori affezionati che gli indirizzano spesso lettere di ringraziamento; racconti grazie ai quali si vede finalista del Premio Strega al fianco di Giovanna Mezzogiorno. Michele vive con i genitori e la nonna ed è vicino di casa di Dino Bardi, padre separato che fa di tutto per ottenere la custodia dei figli nei giorni stabiliti, nonostante i veti della ex moglie, che divengono causa di feroci arrabbiature, sfogate in bevute, sigarette e…demolizioni di camper. Nella Svizzera italiana da sempre sinonimo di ordine e rigore, la vita dei due protagonisti sembra più quella di due artisti della Romagna solatìa, a cui rimandano spesso le battute e la sagacia dei personaggi. In primis la nonna di Michele, Rina, inossi-

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dabile vecchietta longeva e intelligente, che con la sua lungimiranza capisce in quanti e quali problemi si caccino Dino, con la complicità del nipote. Un romanzo in cui la presenza dell’anziana, spesso vissuta come un limite nello spazio della vita di un giovane, è quella che conferisce saggezza e che salva le peripezie dei confabulanti dalle grinfie della polizia e della procura. L’amicizia di Michele e i saggi consigli della nonna ricondurranno a ragione l’amico bizzarro; Dino sarà l’invitato più gradito alla festa di compleanno dei 98 anni di Rina. Un romanzo costellato di personaggi curiosi che colorano le scenette narrate nei capitoli, pervasi di una realtà amara. Un padre, che deve sottoporsi a visite periodiche da uno psicologo, è tenuto sotto controllo dalle autorità, lavora strenuamente per poter vedere i suoi bambini, ma il cui tempo passato con loro è sempre troppo poco: una ragione di vita che fa impazzire. Realtà che diviene parte della vita di Michele costantemente preoccupato per lui, e di nonna Rina che nel suo silenzio autoritario comprende perfettamente il dolore di chi cerca di ricomporre i cocci di una famiglia che non è più sua. Un romanzo coraggioso che porta alla ribalta un tema attuale, la custodia dei figli, spesso trattata a sproposito, che Luca Saltini descrive con uno stile accurato, descrizioni precise e vena satirica che pervade anche le situazioni più grame. Personaggi reali, che nella disperazione affrontano la vita con forza e sana follia, rendono la lettura del romanzo piacevole e interessante. I camper distrutti da Dino non sono in fondo altro che luoghi di vita dissennata, rapporti extra coniugali, confusione e chiasso: aspetti dell’esistenza che il padre separato vuole scacciare da sé, per riprendersi l’affetto costante e sincero dei suoi figli. (Il demolitore di camper - Fernandel, 2013)


La strana collezione di Mr. Karp di Cary Fagan Articolo di Adriana Marineo

Avete mai collezionato qualcosa nella vostra vita? Che cosa? Personalmente, ho collezionato conchiglie, monete (prima che l’euro rendesse tutto più difficile), e oggettini trovati per strada, per terra. Però sono probabilmente tutte collezioni che Randolph, l’undicenne protagonista de La strana collezione di Mr. Karp considererebbe noiose, poco interessanti. Ma soprattutto troverebbe me una collezionista poco seria. Lui, Randolph, fa tre collezioni: tappi di birra, penne e parole (una collezione “alquanto astratta”, contenuta nel suo Dizionario Oxford, su cui segna le parole nuove che impara e che diventano così i suoi pezzi, alcuni dei quali condivide strada facendo con il lettore). Sa bene che essere un collezionista richiede grande dedizione, ed una continua ricerca. Il collezionista esemplare è il bizzarro Mr. Karp, l’inquilino della mansarda che la famiglia di Randolph decide di affittare: è un ometto eccentrico, che “veste in modo antiquato e ha un paio di buffi baffetti sottili”. La sua collezione è per Randolph un mistero: che

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collezione può avere bisogno di essere trasportata in scatole con su scritto “FRAGILE” e “DEPERIBILE”? Insomma, si chiede Randolph: “Che diavolo collezionava mai Mr. Karp? Ciambelle? Frutta esotica? Bignè al cioccolato?”. La collezione di Mr. Karp si rivelerà essere sorprendente per rarità, stranezza e apparente evanescenza, e il suo possessore avrà tanto da insegnare al curioso Randolph: non solo, o non tanto, sul collezionismo, ma sulla vita. Nonostante l’apparente tranquillità, tutta la vita di Mr. Karp gira intorno a questa grande passione, che gli fa fare grandi viaggi (arriva fino in Giappone!) per recuperare i pezzi più preziosi, e lo contrappone addirittura a un arcinemico, l’infido Ravelson, che gli tende intrighi e tranelli. La collezione di Mr. Karp, scritto dal canadese Cary Fagan (autore di tanti libri sia per ragazzi che per adulti e vincitore di molti premi) e illustrato da Mauro Ferrero, è un libro appassionante per ragazzi (e non soltanto ragazzi) curiosi, così come è curioso e pronto a farsi domande Randolph, capace di pensare “strani pensieri”, che altro non sono che domande sulla felicità e sulla vita. Grazie all’iniziativa della casa editrice Biancoenero La strana collezione di Mr. Karp è un libro per ragazzi ancora più curiosi: è composto secondo i criteri dell’Alta Leggibilità, utilizzando il carattere biancoenero®, che facilita la lettura ai bambini e ragazzi dislessici. (La strana collezione di Mr. Karp - Biancoenero edizioni, 2013)


Recensioni!

La velocità di Lotta di Andrea Scarabelli Articolo di Martina Fabbri

il contrario: lui abbandona a poco a poco la sua codardia, si tuffa in sciocchezze da adolescente con la consapevolezza degli adulti e si lascia andare alla spensieratezza dei lunghi giri in bicicletta nella città addormentata, dei piccoli furti e delle notti passate a ballare. Po lentamente si risveglia. Andrea Scarabelli racconta della sua città, cinque anni dopo il suo esordio da scrittore, della Milano attuale dove non basta il privilegio di essere “nato dalla parte giusta del mondo”, ma dove bisogna sempre rincorrere qualcosa, guadagnarsela, spesso senza sapere cosa sia questo qualcosa. Un libro che si legge bene, scritto con l’urgenza di una generazione insoddisfatta e immobile, la nostra, che si rianima per merito di un’adolescente troppo matura per la sua età, che ritrova la velocità, l’energia. Due generazioni a confronto, o meglio il futuro che si scontra con quello che è stato il suo passato, domandandosi come mai la vita abbia portato mutamenti così sostanziali. (La velocità di Lotta - Agenzia X, 2013)

Milano. Giorni nostri. Diego, trent’anni, pubblicitario. Creativo, un tempo. Affetto, ora, dal male di vivere. Sfiduciato verso il genere umano, soprattutto verso sé stesso, perso nell’apatia, incapace di reagire, di riscattarsi, in perenne attesa della scossa, ma sempre con la messa a terra ben posizionata. Fino a che gli precipita addosso Carlotta “Lotta” con i suoi quindici anni, con la sua combattività inarrestabile. Una ragazzina introversa, che non piace ai suoi coetanei, scappata di casa, decisa a vincere una guerra contro il mostro delle banche, che ha ridotto la sua famiglia in pezzi, che gli deve una qualche forma di riscatto per la spensieratezza infantile che le è stata privata. Lui statico, lei dinamica, lui decide di aiutarla, lei di lasciarsi salvare, seppure a modo suo. Ma vero anche

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La strada del coraggio. Gino Bartali, eroe silenzioso di Aili e McCannon Articolo di Daniel Degli Esposti

Come potrebbe un libro che racconta le vicende del grande Gino Bartali inserirsi fra le pagine di una rivista letteraria? Soltanto pochissimi giornalisti e scrittori di genio sono riusciti a sfondare la barriera della critica dipingendo sulla carta i colpi potenti dei pedali; Aili e Andres McConnon meritano pienamente di essere inseriti in questa ristrettissima élite. La strada del coraggio non è soltanto la biografia di uno straordinario protagonista del ciclismo d’annata; i suoi capitoli offrono ai lettori una ricostruzione puntuale e fedele degli scenari storici che accompagnarono la parabola sportiva di Ginettaccio e consentono di comprendere in maniera più profonda le sue scelte. Con le loro ricerche, gli autori hanno restituito alla vita di Bartali una dimensione fisica e totale: prima di essere un campione del pedale, egli fu un ragazzo della provincia toscana che divenne uomo nel bel mezzo del decennio più caldo del Novecento. L’analisi critica dei suoi sentimenti, delle sue azioni e

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dei suoi comportamenti permette ai contemporanei di calarsi nella realtà dei suoi tempi e di interrogarsi sulle possibilità che si aprivano dinanzi a lui senza rinchiudersi nello stereotipo dell’atleta di Dio. La narrazione delle tragiche vicende belliche e la ricostruzione del trionfo di Gino al Tour del 1948 collegano sapientemente gli aspetti sportivi ai grandi temi della storia e della politica; le pagine che riportano questi eventi scorrono con un ritmo incalzante e tengono il lettore con il fiato sospeso. La loro fluidità ricorda la struttura di un grande racconto, non la lentezza esegetica di un saggio. Aili e Andres McConnon hanno avuto il grande merito di capire che lo sport moderno è sempre stato incastonato nelle dinamiche di produzione culturale della società; comprendere la natura di una prestazione atletica senza valutare il contesto storico che l’ha resa possibile non è altro che un vano esercizio di erudizione statistica. Gli amanti della storia e della simbologia politica, che non si accosterebbero mai a un’opera di letteratura sportiva slegata dal background culturale del suo soggetto di analisi, troveranno ne La strada del coraggio stimoli inaspettati; se tutto questo non bastasse, la straordinaria piacevolezza stilistica della traduzione italiana costituisce un plus irrinunciabile, un ulteriore omaggio alla memoria di un grande personaggio del Novecento italiano. (La strada del coraggio. Gino Bartali, eroe silenzioso - 66thand2nd, 2013)


Recensioni!

Disegnatore di sogni di Alfred Kubin Articolo di Michela De Fabritiis

«[...] Improvvisamente comprendiamo che, fin dalla nascita, siamo circondati da fantasmi, e di certo non solo da quelli che ci lasciano impietriti, che ci succhiano il sangue e ci portano sulla cattiva strada, ma anche da quelli che danno consigli, i bonaccioni e i buffi. E il nostro corpo, con la pelle e i capelli, con i suoi istinti e le sue passioni, corpo che ci sembra così familiare, è in verità il fantasma a noi più vicino e più estraneo. Che qui ci sia una frattura, oltre la quale non è più possibile considerare le cose innocue e chiare, lo capiscono tutti coloro che considerano l’argomento con serietà. Qui non c’è scelta, non c’è ritorno: bisogna andare al di là, per ritrovare, anche superando la paura, dopo un lacerante stadio di transizione in cui ogni abituale sicurezza della coscienza vacilla, un nuovo stato di equilibrio psichico: l’instabilità.» (Alfred Kubin, Disegnatore di sogni, Castelvecchi, 2013)

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Misterioso, folle, allucinato: Alfred Kubin (1877-1959) è un illustratore boemo, membro del gruppo di artisti Der Blaue Reiter, insieme a Kandinskij, Klee, Marc, Jawlensky, Macke e altri. Tra i tanti, ha illustrato alcune opere di Edgar Allan Poe, Fëdor M. Dostoevskij, August Strindberg e Salomo Friedlaender/Mynona. È autore e illustratore de L’altra parte (Adelphi, 1965), un romanzo onirico e visionario, ottimo esempio della letteratura mitteleuropea novecentesca. In Disegnatore di sogni (Castelvecchi, 2013), una raccolta di appunti scritti tra il 1921 e il 1949 intorno all’arte e ai suoi rapporti con l’universo onirico, Kubin mette in scena la sua più profonda essenza, analizzando e portando alla luce la sua relazione con l’arte e con il disegno puro, intrecciandoli con gli aspetti più reconditi e sconvolgenti del suo passato. L’universo kubiniano è un universo abitato da incubi inquietanti, da fantasmi, da allucinazioni che tormentano. La sua arte nasce da un impulso, da un istinto che risiede nei suoi sogni e che è strettamente legato ai ricordi d’infanzia e alle sue impressioni giovanili. Disegnare è un atto di liberazione: un’esigenza a cui egli deve sottostare per riuscire ad afferrare in maniera univoca le visioni che gli affollano la mente. È un artista complesso, enigmatico, ma che al tempo stesso invita l’osservatore a entrare nella profondità del suo mondo, a esplorarlo e a restarne destabilizzati. (Disegnatore di sogni - Catelvecchi, 2013)


Last night a subber saved my life di Simone Laudiero Articolo di Eugenio Sibona

Per essere di fatto un libro, colpisce che non ci siano indice e numero delle pagine (diciannove): sarà perché è scritto sotto forma di lungo articolo blog, come se fosse una chiacchierata tra amici al bar. L’autore, Simone Laudiero, è un giovane napoletano che ha già all’attivo qualche romanzo (Ti presento i preppers e La difficile disintossicazione di Gianluca Arkanoid) e attualmente è impegnato nella scrittura di sceneggiature. Ha sfruttato così la sua esperienza nel mondo dello spettacolo per questo viaggio fatto di interviste agli appartenenti di ItaSA, il principale portale italiano di “sottotitolatori”: termine abbastanza brutto, per cui per fortuna è stato recentemente coniato il neologismo “subbers”, derivato da “sub”, a sua volta abbreviazione di “subtitle”. Svelato quindi il significato del titolo: L’altra notte un sottotitolatore mi ha salvato la vita. A molti sarà capitato di scaricare al computer serie

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tv e impazzire a trovarle coi sottotitoli in italiano e così a volte rassegnarsi a guardarli in lingue diverse. Comunque sia, viene spiegato il lavoro che c’è dietro questa complessa attività che ci permette di capire, in un modo o nell’altro, quello che vediamo e ascoltiamo. In alcuni casi sembra che l’autore usi l’inglese in modo un po’ autocelebrativo e fine a se stesso; ma, in generale, lo stile è scorrevole e colloquiale e introduce in un sottobosco che ai più potrebbe sembrare qualcosa di esclusivamente amatoriale. E invece nasconde una realtà ben consolidata da diversi anni, fatta di meeting in tutta Italia di persone che cominciano quasi per gioco, per migliorare l’inglese. E per alcuni diventa un lavoro vero e proprio. Nel mezzo c’è anche una piccola considerazione sullo stato attuale della televisione italiana e sulla qualità della programmazione e diffusione dei vari programmi, rispetto alle tempistiche della produzione originale. L’argomento è esplorato in modo dinamico, dando voce ai membri del forum di ItaSA, che hanno modo di raccontare diversi aneddoti curiosi sulla traduzione di dialoghi e battute, soprattutto nel caso di espressioni quasi intraducibili. La lettura è consigliata in particolare a coloro che vorrebbero fare una professione del proprio hobby: infatti questa esperienza spesso fa curriculum e viene equiparata alle certificazioni linguistiche. Però, attenzione, perché non è tutto rosa e fiori: spesso dietro c’è un mondo che si rivela chiaramente precario e sottopagato. Senza bisogno di sottotitoli. (Last night a subber saved my life - Zandengù, 2013)


Cult/Ritratti!

Tra premesse e omissioni: Pasolini visto da uno specchietto retrovisore Articolo di Francesco Sgrò

«Sono solo, in mezzo alla campagna: in una solitudine reale, scelta come un bene. Qui non ho niente da perdere (e perciò posso dire tutto), ma non ho neanche niente da guadagnare (e perciò posso dire tutto a maggior ragione)». La scelta è un atto politico, è limitare lo sguardo a qualcosa, mettere a fuoco una parte e lasciare sfocato il resto. Scrivere su Pasolini implica proprio questo: scegliere, quindi muoversi in un percorso di premesse e di omissioni, dare forma ad un paesaggio che, per sua costituzione, rimane senza contorni, indefinito, anomalo. Premettere ci porta ad omettere, ma non importa. In fondo, l’obiettivo è lanciare piccoli flash, recuperare un contatto autentico con Pasolini, spegnere tutte le luci che lo circondano. Abituarsi al buio, e poi, di nuovo alla luce. Bisognerebbe accostarsi a Pasolini iniziando con un gesto catartico e innaturale: dimenticarlo. Eclissare un’iconografia fastidiosa addomesticata a dovere, la quale non restituisce che un feticcio sbiadito, facile tanto da idolatrare quanto da ripudiare. «Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me, questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali».

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L’enorme boom post mortem, la sguaiata corsa di tutti per annetterselo, per dire “Io sono stato suo padre”, impone un arresto, uno sgambetto, una scivolata, un fallo, un azione di sabotaggio, una strada dissonante, alternativa. Ecco perché scelgo un’intervista. Più precisamente, l’ultima, rilasciata a Furio Colombo il 1° novembre 1975. Di questa, vorrei mettere in evidenza il procedere discorsivo serrato come un corpo a corpo, e la sua trasparenza emotiva. L’intervista è un autoritratto a matita, vivo e interattivo, ancora fresco sulla pagina, fortunatamente non conclusivo. L’immagine che ricaviamo è quella che si vede – o, si intravede – da uno specchietto retrovisore. Un’immagine forse distorta, infinitamente più piccola, ma comunque circoscritta, facilmente (o falsamente?) inquadrabile. Una tra le tante possibili, quindi. Ciò che colpisce Pasolini, e ne mette in movimento l’immaginazione, è la realtà quotidiana. Pasolini parte sempre da lì, dalla situazione, dall’evidenza. Una realtà, oramai, vissuta e subita come tragedia. «Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra». Una tragedia che Pasolini vorrebbe fosse processata: numerosi, sono i potenziali atti d’accusa; molti, troppi, gli imputati – per semplicità, il Potere -; as-


senti, invece, gli accusatori: «Ecco io vedo così la Il bollettino meteo è dei più tragici: un’acqua malefibella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e gior- ca, solo apparentemente innocua, piove sulla realtà. nalisti delle intenzioni più nobili: le cose succedono I tombini sono ingorgati, le strade sono sommerqui e la testa guarda là». se. Le immagini sorridenti della televisione, i comizi E ancora: «E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario politici con le loro formule di rito, la fabbrica della ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e scuola dell’obbligo, la pacatezza dei giornali, l’afopoi diciamo: “ma strano, ma questi due treni non nia degli intellettuali, piovono sulla città, sui palazzi passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi e sulle borgate, ininterrottamente. L’acqua sale, non in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un trova una via di fuga. Ogni cosa sarà sommersa, criminale isolato o c’è un complotto”. Soprattutto il ogni individuo rimarrà annegato. L’alternativa, oltre complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di che nel rifiuto, sta nel cambiamento: «Cambiare però in modo drastico e disperato quanto drastica confrontarci da soli con la verità». Una tragedia che diventa, quindi, inevitabile, il cui e disperata è la situazione. [...] Qui manca il chirurgo unico gesto di opposizione sta nel rifiuto: «Il rifiu- che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: to è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli “signori, questo è cancro, non è un fattarello benieremiti, ma anche gli intellettuali, i pochi che hanno gno”. Cos’è il cancro? E’ una cosa che cambia tutte fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzemica i cortigiani e gli assistenti dei carsco, fuori da qualsiasi logica precedente». dinali. Il rifiuto per funzionare deve esSiamo tutti in pericolo, quindi. L’esigensere grande, non piccolo, totale, non za di Pasolini è un’esigenza di vita: su questo o quel punto, “assurdo”, prendere coscienza della scena nella non di buon senso». Rifiutare il po- "Qual'è la tragedia? la quale viviamo, assistervi non pastere, per prima cosa; ma che cos’è tragedia è che non ci sivamente, ma gettando il proprio il potere? «Il potere è un sistema sono più esseri umani" corpo nella lotta, così da tornare ad di educazione che ci divide in sogessere vivi. giogati e soggiogatori. Uno stesso Pasolini ha parlato molto, la quantità sistema educativo che ci forma tutti, delle sue riflessioni e della sua produdalle cosiddette classi dirigenti, giù fino zione artistica è sparsa su carta di giornale, riunita dentro libri in forma di saggio o di ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano allo stesso modo. Se ho tra le poesia oppure su pellicole cinematografiche. Molte mani un consiglio di amministrazione o una manovra sono le parole andate perdute, quelle registrate su di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando carta o su pellicola non sono necessariamente le uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere migliori, né lo rappresentano meglio di quanto non ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno faccia un suo gesto, una sua espressione o la sua detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio dirit- voce. Eppure, credo che questi pochi frammenti che to-virtù. Sono assassino e sono buono». ho riportato, questi graffi di vita, restituiscono – alL’educazione, obbligatoria e sbagliata, spinge ogni meno in parte – Pasolini, intero e solitario, nella sua individuo dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. voglia di essere e nella sua capacità di parlare. È faciUna liturgia dissacrante impone i suoi idoli: volere, le sbarazzarsi di Pasolini dandogli del moralista o del possedere, distruggere. Tutti sono i deboli, perché profeta o altro ancora. Pasolini non aveva tempo per tutti sono le vittime; tutti, però, sono anche i colpe- questo; era troppo occupato a vivere. «Amo ferovoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. cemente, disperatamente la vita. E credo che questa «Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al pa- ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. drone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qua- Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è lunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabitotale non lascia più vedere “di che segno sei”». «Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’i- le. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro». solare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio».

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Era un’altra bellezza Articolo di Mariantonietta Sorrentino

Una fiction andata in onda alla fine di febbraio talia, riducendo il desiderio di tanti ad un rincorrere ha ripercorso l’esperienza dell’alfabetizzazione scatole e soldi in prima serata? degli adulti affidata al mezzo televisivo. Chi ha Era una Italia, quella, in ripresa, un Paese che vesuperato i 50 anni ricorderà quelle immadeva svuotarsi inesorabilmente le camgini in bianco e nero che portavano pagne per riempire, con la speranza in tutte le case, negli anni immenelle tasche, le fabbriche cittadine. diatamente successivi al doEra cominciato il grande esodo poguerra, il volto di Alberto stavolta non verso Germania, "Attrae quell'universo Manzi. Le lezioni del giovaSvizzera e America, ma all’inun po' arcaico dove si ne e rivoluzionario maestro terno dei nostri confini. Non erano impartite ad un Paese scriveva con i pennini e le fu per questo meno doloroso con un tasso elevatissimo e foriero di cambiamenti. matite sui quaderni" di analfabetismo. Parlare Quella Italia vedeva poco la tv oggi di tale carenza fa sorrianche perché i programmi eradere, ma il Governo Moro se ne no pochi e la scatola rettangolare, preoccupava; anzi lo statista in perdi dimensioni ciclopiche, la possedesona volle quelle lezioni con una decisiova una parte sparuta del Paese; allora ci si ne a dir poco illuminata. Viene da fare paragoni riuniva, amichevolmente, per assistere a programcon gli attuali politici: si preoccupano del grado mi come “Lascia o raddoppia” e si scommetteva di analfabetismo culturale che ha soggiogato l’Isu questo o quel concorrente. 18


Erano lontani i tempi di oggi, quelli che hanno affidato le cruente liti condominiali agli sceneggiatori, che hanno visto smarrire la persona in favore della cosa da possedere. Ora che il grande sogno è evaporato come le oasi illusorie del deserto per vedere materializzata una crescente e drammatica disoccupazione, attrae quell’universo un po’ arcaico dove si scriveva con i pennini e le matite su quaderni dalla copertine nere. Morta l’agricoltura e cantato pure il “De profundis” con tanto di prefiche, l’Italia va facendo incetta di prodotti dalle campagne spagnole e greche che arrancano essi stessi per stare al passo con un pianeta globalizzato. Morto l’artigianato, sono scomparsi i mestieri che dell’abilità delle mani facevano il loro punto di forza. In cambio, nelle grandi città, si assiste ad un rincorrersi di corsi per creare all’uncinetto, con calze di filanca fiori e oggetti di ceramica. Qualcosa sopravvive nelle campagne, ma è solo l’ultimo colpo di coda di un artigianato che non è stato supportato da leggi adeguate né da sgravi fiscali e che oggi appare come un caro estinto cui non si pensa più. Eppure ne abbiamo nostalgia, forse perché il presente ci ha disilluso, forse perché l’abilità delle mani ci riporta ai nonni ed alle copertine, ai maglioni che stuoli di zie ci confezionavano insieme alle sciarpe. Nel vuoto che spadroneggia, voltarsi indietro è ineludibile. Nulla di controproducente se siamo capaci di reinterpretarlo il passato, se non ci limitiamo alla sterile nostalgia. Se la smettiamo di iscrivere i nostri figli a corsi continui di nuoto, hockey su pista, pianoforte e chi più ne ha più ne metta. Dopo aver smarrito la nostra fanciullezza, stiamo rubando ai piccoli l’infanzia di un giocare in cortile o in casa con i compagni. Presi dalla foga di farne degli esperti multitasking, li stiamo trasformando in mostri muniti di Ipad che rimangono intrappolati nelle storie 19

di cyberbullismo vuoi come vittima vuoi come carnefice. Quando si giocava nell’Italia che fu, il massimo che capitava era un confronto tra gruppi che si fronteggiavamo dando calci ad un pallone. E ci stava pure la scazzottata in cortile che affidava alla gloria il migliore, un vincitore senza trucco e senza inganno. Come fare a travasare questa realtà nelle esperienze dei ragazzi oggi? Come restituirgli il sogno di un mondo migliore dove il buono vince? Rodari avrebbe avuto la risposta e pure Calvino. Forse si può cominciare costruendo un rudimentale teatro delle marionette e giocare con i nostri figli ogni tanto. Senza Pc e ipod. Senza trucco e senza inganno.


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Fuga dalla macchina.

Analogie tra racconti e sogni di Franz Kafka Articolo di Maria Susca L’inquietudine è la malattia di chi non ha più un tempo per vivere e deve fare i conti quotidianamente con un’organizzazione sociale spietata: un meccanismo progettato al millimetro che non lascia via di scampo e impedisce la realizzazione di desideri e il soddisfacimento dei bisogni. “Per essere il più possibile pesante, ciò mi sembra favorevole al sonno, avevo incrociato le braccia e posato le mani sulle spalle sicché giacevo come un soldato con lo zaino”. Leggendo i sogni di Franz Kafka ci si rende conto di come l’immaginario presente in essi divenga materiale costituente dei suoi scritti. La sua vita onirica, più intensa, a suo giudizio, della scialba vita diurna, lo affaticava molto e prendeva costantemente il sopravvento su di lui e sulla sua già scarsa capacità di adattarsi alla vita in società. “Da un punto di vista letterario, la mia sorte è molto semplice. La capacità di descrivere la mia sognante vita interiore ha fatto cadere tutto il resto fra le cose secondarie e lo ha orrendamente atrofizzato né cessa di atrofizzarlo. Nessun’altra cosa può mai soddisfarmi”.

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Malgrado il timore dei legami coniugali e familiari più volte ha provato a imbrigliarsi, a ricoprire i ruoli che segnano l’evoluzione di una vita adulta, fallendo però in ogni tentativo. Non fu che scrittore e per fuggire allo sguardo di disapprovazione del padre limitò questa attività alle ore notturne. La voce di natura ignota che spinge Kafka alla scrittura è la stessa dei sogni: incomunicabile e inafferrabile ma origine di un racconto lucido che è come “pula che vola in tutte le direzioni” e per sua natura non può rimanere inerte, deve espandersi e viaggiare. Provenendo dal suo profondo il racconto è potenzialmente inesauribile egli stesso afferma di poter ricavare da sé tutto ciò che desidera, unico pegno lo sprofondare in quelle forze oscure e creatrici che normalmente sono tenute a margine. Kafka appunta i suoi sogni in un diario o li affida alle missive destinate ad alcune tra le persone più importanti della sua vita: Max Brod, suo miglior amico e tramite principale con la società letteraria, che ha raccolto e pubblicato molto materiale inedito dell’autore, ma soprattutto Felice Bauer e Milena Je-


senská, donne fondamentali per lo scrittore praghe- combere. Questo tentativo di sottrazione diverrà se, delle quali fu sinceramente innamorato. Per la sua sempre coazione alla fuga suicida. Furbizia breve di indole non riuscì quasi mai a esprimere in altre ma- una grottesca fuga dalla gabbia. “Se continui a correre innanzi, a sguazzare niere l’affetto che a esse lo legava se non nella nell’aria tiepida, le mani sporte di lato redazione di lettere. Il rischio di entrare come pinne, nel dormiveglia della a far parte del mondo stringendo un fretta non vedi che fugacemente legame coniugale con una donna ""La capacità tutte le cose cui passi accanto, era troppo alto per lui che nella di descrivere la mia e un giorno ti lascerai sorpasvita desiderava solo scrivere. La vita di Kafka è uno stato so- sognante vita interiore ha sare anche dalla carrozza. Ma resti immobile, se, con la gnante in cui l’essere umano è fatto cadere tutto il resto... se forza del tuo sguardo, fai creindifeso e privo di qualsivoglia protezione (Milena parla del suo nessun'altra cosa può mai scere le tue radici in larghezza amante-corrispondente come e in profondità – nulla ti può sposoddisfarmi" di un individuo nudo tra indivistare, eppure non sono vere radici, ma è solo la forza del tuo sguardo dui vestiti). Esattamente allo stesso che va dritto al bersaglio – allora vedrai modo i protagonisti dei suoi scritti, tutti in qualche modo riconducibili all’autore, sono senza anche l’immutabile, oscura lontananza, da cui non rifugio. A essi non è concesso sognare: sono con- può venir nulla, tranne che, appunto, una sola voldannati alla veglia, solo che da questa non ci si può ta, quella carrozza, che avanza, diventa sempre più svegliare. Gli scenari in cui si trovano immersi sono grande, poi, nell’attimo in cui ti è accanto, riempie il dominati dalla legge onirica, dalla logica dell’incu- mondo intero, e tu ci affondi dentro come un bambo e descritti con una lucidità spiazzante, un iper- bino nell’imbottitura di una carrozza da viaggio, che realismo che cela l’abisso dietro la più solida delle corre attraverso la tempesta e la notte.” certezze. La condizione dell’uomo moderno è tale da annientarlo in quanto essere umano e renderlo succube del ruolo che dovrà ricoprire nella società. Ne “La metamorfosi” Gregor Samsa delinea una via di fuga per se stesso in una sorta di involuzione darwiniana: l’uomo si fa animale (meglio se piccolo e rasente al suolo) per sfuggire al progresso, al ritmo scandito e indiscutibile della vita moderna. La metamorfosi è un cambiamento nella struttura di un essere che diventa negazione dell’evoluzione, un modo come altri per infilare un bastone nel meccanismo di un motore che ci porta avanti forzatamente e che in molti però si premurano di proteggere e mantenere ben oliato. Allo stesso modo l’essere pesante, ancorarsi al suolo e sprofondare nella terra come Josef K. di “Un sogno” sono per Kafka possibili vie di fuga foriere di sensazioni estasianti ma non di libertà. L’individuo che tenti di eludere l’organizzazione sociale inaccettabile in cui vive è destinato a soc-

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La traduzione come forma di riflessione: intervista a Riccardo Duranti

Articolo di Alessandro Graciotti Riflettere quindi interrogarsi, ma anche flectĕre dunque piegare. La traduzione non è puro meccanismo, mera interpretazione dello scritto, ma una forma d’arte di chi lavora nell’arte, di chi produce letteratura, di chi scrive. Piegare l’opera compiuta in un’altra lingua alla propria è un lavoro delicato, mimesis di un originale che cambia aspetto e voce rendendosi autonoma. Il punto di questa intervista, che mira a un riscatto della traduzione come forma di riflessione sulla letteratura, è il capire assieme al traduttore ed editore Riccardo Duranti quanto di plausibile c’è nelle supposizioni di uno studente con gli occhiali che si muove tra le nuvole del ragionamento astratto. Entriamo subito nel vivo. In un’intervista rilasciata per la Fondazione Universitaria S. Pellegrino, dal tema “Tradurre la Letteratura” , lei dice che il privilegio della traduzione è il fare una lettura critica molto profonda, «perché bisogna andare alle radici del testo originale e cercare poi di riprodurre». Inoltre nella nota alle Lettere a Gordon Lish , parla di tradurre come di riscrivere. Quest’ultimo caso, in particolare, mi lascia immaginare come la traduzione possa essere sì una riscrittura, ma di qualcosa da

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elaborare ex novo. Saprebbe dirmi che cosa intende per “riprodurre” e per “riscrivere”? La traduzione è riproduzione o creazione? È una “riproduzione creativa” delle intenzioni dell’autore. La creatività dell’arte presenta una fondamentale analogia con la formazione dell’universo, non nell’ingenua versione mitica del creazionismo, ma in quella più scientifica di un vasto gioco combinatorio di elementi per produrre una gran varietà di organismi. Già nell’intuizione di Democrito s’ipotizza una serie di atomi disposti in modi sempre diversi per formare la materia in costrutti sempre più complessi. Se ci si riflette, è lo stesso meccanismo che presiede, per analogia, alla combinazione di note, pennellate, parole, gesti, movimenti nelle varie discipline artistiche, in modo un po’ naturale e un po’ artificiale, seguendo schemi tradizionali, ma inserendo spesso vitali innovazioni. Ricombinare elementi di esperienza per produrre un’opera d’arte e rielaborarne il risultato in un’altra lingua e in un diverso orizzonte culturale sono operazioni essenzialmente simili. Questa «riproduzione creativa» di cui parla sembra in effetti definire il processo di riflessione del traduttore nei suoi lati passivo e attivo. Un po’ come fare poesia. Lei stesso nella risposta precedente relaziona il meccanismo della traduzione a quello delle varie discipline artistiche. Ma in che modo si pone le domande della propria riflessione il traduttore? È davvero così poeta? Qual è il fine della sua opera da fare? Mi pare evidente che il traduttore, per mediare il senso e la forma dell’opera dell’autore originale e renderla fruibile al proprio pubblico, debba ripercorrere criticamente il percorso “creativo” tracciato dal suo predecessore. Oltre a interpretarlo, però, gli tocca anche riscriverlo, renderlo chiaro non con una parafrasi critica, bensì con la migliore approssimazione mimetica che la sua lingua gli permette, ricorrendo


a una serrata dialettica interiore tra i limiti della sua soggettività ermeneutica e le contraintes imposte dal testo di partenza. Personalmente, questa sfida mi affascina e mi stimola molto: la trovo un’ottima palestra anche per affrontare impegni creativi diretti. Il testo da tradurre, insomma, come sparring partner prima di affrontare duelli creativi più personali. Considerare la traduzione solo come esercizio potrebbe risultare meccanico e strumentale se non intervenisse anche un altro elemento essenziale che postula una funzione di servizio per chi non ha accesso al testo originale. Come ho ricordato altrove, per la mia vocazione traduttoria ho trovato incoraggiamento in un proverbio di Leonardo da Vinci che sembrerebbe invece sconsigliare un’attività del genere: «Chi può bere alla fonte, non beva dalla brocca». Nel bagaglio deontologico di traduttore-imbottigliatore il precetto più in evidenza dovrebbe essere quello di mantenere al massimo la purezza e la freschezza dell’acqua della fonte cui si ha la ventura di attingere, in modo che la perdita subita dai lettori “in brocca” sia la minima possibile. Immagino faccia riferimento a questo compito così delicato del traduttore-imbottigliatore quando parla di «andare alle radici del testo originale». Ciò significa che si deve riuscire non solo a cogliere i meccanismi linguistici, ma anche quelli esistenziali, personali e inconsci che scaverebbero nel cuore del testo e dell’autore. Viste le sue esperienze personali e professionali, che cosa significa per un traduttore conoscere l’autore? Esatto. Un processo di identificazione con l’autore è inevitabile quando si analizza in profondità un testo. Bisogna però essere molto attenti a non lasciarsi trascinare troppo a fondo. Si deve in un certo senso fare la spola dentro e fuori dal testo, mantenere un’oggettività critica pur nella mimesi che si tenta. Questo è un altro modo in cui la creatività ricompare tra i talenti necessari al traduttore: si deve far ricorso all’immaginazione per ovviare a tutta una serie di problemi di ordine psicologico e/o culturale impliciti nel testo. Quando si può consultare l’autore forse questa immaginazione è inibita e la vertigine che coglie chi s’arrischia nel funambolismo necessa-

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rio a colmare certi vuoti rimane sotto controllo, ma il piacere tormentoso che si prova nell’inventare in italiano un paesaggio sconosciuto o nell’incarnare un personaggio singolare è una delle tante soddisfazioni extra che il lavoro di traduzione regala a chi lo fa con passione. Nella mia carriera si è pure verificato il caso di un rapporto di amicizia che si è poi trasformato in attività di traduzione postuma. È quello che è successo con Raymond Carver. Tutte le mie versioni, tranne la prima, quella del racconto Errand, l’ultimo e il più “diverso” che abbia mai scritto, sono state condotte dopo la sua scomparsa, in un tentativo di elaborare il lutto, di recuperare una voce amica perduta. In conclusione, centrando un tema decisamente più pratico: cosa pensa della generale speculazione sulle scuole, master e corsi vari per traduttori e del ruolo che ha l’editoria in questo contesto? Cosa consiglia ai giovani, agli studenti e a chi non riesce ad affermarsi come traduttore in questo paese? Da una parte sono contento perché la formazione delle nuove leve non è più affidata al caso e alla passione individuale, come è successo all’inizio della mia carriera. Però un pericolo, di cui ci siamo accorti fin dai i primi tentativi di organizzare corsi universitari specifici sulla traduzione letteraria, è quello di saturare un mercato che già soffre di sovraffollamento. Su un piatto della bilancia c’è un indubbio miglioramento della qualità media della traduzione, sull’altro il peggioramento delle condizioni di lavoro già precarie della categoria, arricchendo l’enorme esercito di riserva cui gli editori possono attingere mettendo in concorrenza i traduttori tra di loro. Una soluzione non è facile indicarla. Nella mia esperienza di formatore ho più volte notato che molti sono i chiamati ma pochi gli eletti. In tutti i corsi di traduzione che ho insegnato, la percentuale di allievi veramente portati ed equipaggiati per la professione non ha mai superato la soglia del 10%. Sembra un limite fisiologico. Certo, un buon 50/60% degli altri allievi sono usciti con una maggiore consapevolezza dei problemi che l’attività comporta, ma, in qualche modo, penso si debba rendere più efficiente e produttivo il processo di formazione dei traduttori.


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La comunicazione costante di Davide Rambaldi Pochi giorni fa mi trovavo nel mezzo dell’appennino modenese in cima a una montagna dove non vi erano né strade, né paesi, né nulla. Nessuna presenza umana. Solo la fatica e i daini. La riscoperta della natura e degli angoli più remoti sono una moderna esacapade dalla civiltà che noi stessi abbiamo creato. Una fuga da un mondo dove tutti sono connessi con tutti o tutto. In continua e trasversale comunicazione. Ed è stato lì, in cima al crinale spazzato dal vento, che il mio amico si è connesso a Skype. “Recuperare il contatto con la natura” si dice spesso, usando una delle frasi fatte più ricorrenti ed errate della storia. Già, perché se recuperare un rapporto più stretto con il pianeta terra vuol dire rimanere comunque connessi ad una rete invisibile che distrugge la definizione temporale e spaziale di lontano, l’uomo non è mai solo, non è mai più rientrato nell’ambiente naturale da cui proviene. Non è cacciatore od esploratore, ma osservatore distratto con una mano sul cellulare e la speranza feticista del cittadino abituato ai programmi televisivi che spera di vedere chissà quali eventi speciali. In realtà la tecnologia non ci permette di aver contatto neanche con noi stessi. Sembra che ormai non si possa fare a meno di condividere tutto quello che facciamo, con il web. Sono in costante crescita i profili sui social network di bambini appena nati, cani e gatti che si ritrovano senza saperlo e da subito sotto i fari del web. Secondo una ricerca Quartz, i profili non umani su facebook sono addirittura più di 100 milioni. La cosa che colpisce di più è come persone che non abbiano mai usato Internet, ora spendano molto tempo navigando. Gli italiani in particolare 24

sembrano amare i social networks. Secondo i dati Pew research 2013, Audiweb e LiveXtention, il 75 % degli italiani online è utente di questi nuovi media, battendo addirittura gli Stati Uniti (72%). I dati che colpiscono sono anche quelli della fascia over 64: il 60% dei plurisessantenni online usa Facebook e simili. Anche i telegiornali sembrano aver improvvisamente scoperto la comunicazione digitale. E’ sempre più comune sentire frasi del tipo “… e il suo ultimo status su internet prima di suicidarsi fu …”. O peggio ancora quando i “mi piace” (freddo metodo digitale di mostrare vago apprezzamento) o le pagine populiste su Facebook vengono prese come rivoluzioni in atto o prese di posizioni nette. La semplicità di un click rimpiazza l’impegno fisico e mentale richiesto da una pagina cartacea, da un dibattito politico o da una lezione impartita da qualcuno. Non si tratta solo di pigrizia 2.0 quanto di un lavaggio della coscienza, di un bagno bat-


tesimale che ripulisce dai sensi di colpa per esser media. ad esempio, a seguire lo schema epideparte di una società individualista. miologico è la tendenza degli utenti ad iscriversi Altro caso recente sono politici italiani e perso- o a cancellare il proprio account online se lo fannaggi famosi che con le loro pagine online si met- no altri. In parole povere, seguiamo il comportatono alla berlina dei giudizi della gente comune mento degli altri. Come un branco, ma digitale. Il e dimostrano di non conoscere i nuovi mezzi. Si lato più importante è che se il calo attuale degli vedano i vari Mastella, Alemanno e Fabio Rolfi, le utenti per esempio di Facebook dovesse prosecui gaffe, chiamiamole così, hanno attirato insulti guire, nel 2017 l’80% degli utenti sarebbe guarito, cioè avrebbe chiuso il proprio diario in digitale per come non mai. Il lato forse più affascinante della comunicazione concertarsi sul proprio presente fisico. digitale non è dato solo dalla rapida diffusione di Quello che si auspica non è una ipocrisia hippy. informazioni e dalla semplicità con cui luoghi fisi- Non dobbiamo far saltare in aria tutti i nostri averi ci lontanissimi possano essere raggiunti come in borghesi come in Zabriskie Point e camminare a un’enorme pangea piatta, bensì dalla capacità del piedi scalzi sull’erba, ma semplicemente tornare mezzo di comunicazione di influenzare il conte- alla vita normale fatta di tempo per sé, interazioni fisiche e verbali col mondo che ci circonda ed nuto. La forma realizza il contenuto. “Il medium è eliminazione di questo continuum spail messaggio” sosteneva il celebre Marshall McLuhan. Il concetto si spiega zio-temporale perenne dei nuovi in modo semplice: i nuovi mezmedia. Non rinunciare al web, zi, rapidi, brevi ed istantanei indispensabile e (quasi) derichiedono e ricreano nuove mocratico medium d’infor"Il lato più affascinante mazione, nonché unica posforme di comunicazione. Si della comunicazione sibilità per persone lontane pensi a Twitter che obdigitale è dato dalla bliga gli utenti ad usare che vogliano sentirsi semal massimo 140 caratteri plicemente non abusarne. capacità del mezzo di creando messaggi brevi, I giornalisti dovrebbero usainfluenzare il contenuto" quasi slogan, spesso ricchi re i social network come terdi abbreviazioni ed imprecisiomometro dell’umore del popolo ni grammaticali e privi di verbi e e non come una fonte sicura da aggettivi. Si pensi ai social network cui prendere tutto come oro colato. o ai blog, dove il vecchio diario segreto si Per quanto riguarda i politici, ben venga l’alspoglia dell’intimità e urla a sconosciuti e curiosi ba della “Internet democracy”, ma è chiaro come ci in una piazza digitale (spesso con saccenza) o alle sia ancora molta strada da fare. Tra cliccare su like liti sui canali youtube. e scendere in piazza per una manifestazione c’è un D’altro canto si potrebbe notare come certi at- abisso. Occorre solo essere oggettivi. teggiamenti aggressivi o di showing off si siano solo aggiornati ai nuovi media di comunicazione. Dalle chiacchiere di paese a un più vasto e pericoloso comportamento online. Si veda alle voci “Bullismo” e “sexting”. Interessante una ricerca dell’Università di Princeton riportata da Marco Passarello per Il Sole 24 Ore a gennaio 2014, la quale dimostra come sia stato possibile applicare il modello SIR (quello utilizzato per studiare le epidemie) per osservare la diffusione dell’uso dei nuovi social 25


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Il Codex di Luigi Serafini: il senso dell'immaginazione Articolo di Antonio Marotta Aprendo il codice non ci troviamo di fronte alla schizofrenia di Luigi Serafini, artista, architetto, designer romano nato nel 1949 d.C; ma neanche di fronte a una creazione istintuale né a un’idiota autocelebrazione. Saldo e coerente, lucidamente allucinato, perfettamente architettato sul nulla, il Codex Seraphinianus gioca sul suo aspetto mastodontico dandosi un tono da enciclopedia, per poi con trepidazione e angoscia, pesantemente ripiombare nella vuotezza delle sue pagine. Sfinito ed esilarato dal suo fitto cifrario completamente insensato, il codice apre spazi e mostra a chi lo osserva la sua solidità nel sospirare dove forse sta la chiave di tutto: l’immaginazione. Allora a questo punto vale anche per me: questo lavoro è stato realizzato nella consapevole finzione che esista una realtà; una realtà del libro, una realtà che circonda il libro, una realtà netta dell’artista e una realtà immobile del lettore. Lo spostamento della realtà – Serafini con un linguaggio raffinato si concede periodi lunghi e ben rimpolpati, con quelli che sembrano essere indici e schemi organizza e approfondisce; fiori, innesti, piante e frutta, specie animali che producono luce,

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esseri arcobaleno che bucano l’arcobaleno, pennuti fusi con le loro uova, e ancora macchinari composti da parti anatomiche fuse col meccanico, dagli utilizzi intuitivi, a volte inutili ma pazientemente orchestrati. E poi sezione di storia, sport, gastronomia (un comodo impianto di erogazione di pesci dal rubinetto di casa, per avere sempre pesce fresco), medicina, linguistica, etnografia e urbanistica. Spiega illustrando, categorizza scientificamente, e certosino, ci descrive quel fiore. Il linguaggio accademico è strutturalmente coerente, perfettamente logico, ma “purtroppo” completamente indifferente alla nostra diretta lettura. Noi non capiamo neanche una parola di quello che ci sta dicendo, non sappiamo neanche a che pagina siamo! E’ questo suo punto di vista in corto circuito l’unica presenza frizzante che circuisce la nostra libera lettura. Che ci fa riflettere e interagire. Serafini si concede delle esilaranti sortite intertestuali e il gioco sta nel trascinare il lettore a fare lo stesso. Portante, è la grande naturalezza di questo suo mondo, perennemente comprensibile, pienamente vivibile, nient’affatto surreale e per farlo gioca sulla familiare convenzione del dare spessore


a qualsiasi cosa sia enciclopedico: “cataloga et im- “In me mago agere” – La lettura non è una questione pera” sinonimo di metodico, draconiano e infallibile. di diottrie e l’immaginazione non è propriamente del Il Codex sembra non aver paura della rottura di un testo (si potrebbe dire per qualsiasi libro); il testo suo equilibrio e della sua continuità, sembra invece non dice un beneamato nulla (chi cerca di decifrare impegnato in un interiorizzazione del lettore che fa di decriptare la scrittura inventata di Luigi Serafini, a mio parere non ha capito un fico secco) non apre da motore di sviluppo. Il testo come incontro – Quello che c’è costante- nessunissimo mondo, non trascina il lettore in un mente è la presenza di una nascosta ombra dell’in- delineato paesaggio; il testo non cerca di rimandacontro che si crea tra le strampalate immagini e il re a nessunissimo significato, non obbedisce a dei lume di chi lo sfoglia e così il testo non si può avvi- dettami di un Essenza, ma si riempie nell’incontro con il lettore e permette un ordinato dispiegamento cinare alla ricerca di una sua prospettiva. Luigi Serafini divertendosi crea una supertrappola. dell’immaginazione di quest’ultimo. Qui allora prenUn po’ come la classica trappola nel bosco, le pagi- dono vita i significati: nello spazio che intercorre tra ne sono delle veline finemente solide che sornione la colossale bugia del libro e la colossale menzogna camuffano un buco enorme, un vuoto eterno, che del lettore, che finge di capire e inizia a questo punattende solo il lettore più distratto per illuderlo di to a interagire per poter creare una enciclopedica e solidità. Il Codex sembra ricordare che ci si può vera essenza. permettere di andare oltre e continuare Il codice non presenta un mondo di imla lettura fin dopo il gesto stesso maginazione ma apre un mondo (una epi-lettura), dove l’immagiall’immaginazione; la differenza è nazione non è più un “pianetusottilissima e l’opera di Serafini colo” fatto di semplici parole può ricordarcelo. "Il codice non presenta un Questa potenzialità sta nell’isu cui sbarcare per distrarsi, mondo di immaginazione ma per sospendere la pesannafferrabilità del codice: la tezza di quella che chiamia- apre un mondo all’immaginazione; sensazione e la consapemo con noncuranza “realtà”, volezza che si ha è quella di la differenza è sottilissima ma partendo dal “finito” delle non riuscirlo mai a comprene l’opera di Serafini può pagine è il lettore stesso che dere interamente. Non solo ad ricordarcelo" si protrae nell’esercizio infinito ogni pagina con nuove invendell’Immaginazione; il rischio poi zioni, trucchi e scherzi visivi, ma è quello di precipitare al destino di ogni volta che risfogliamo il codiogni lettura, svelando la camera vuota ce; è un libro non dotto, ma malandrino e polverosa che dietro la pagina si nascone capace di manifestare l’infinito. de, ma li tra mucchi di briciole e odore di chiuso i Il Codex Seraphinianus è la prova di come si percepiccoli “esserini” colore dell’arcobaleno continuano pisce l’immaginazione, se mondo da scoprire e da a promettere nuova vita. Vedere l’ultima pagina del comprendere, o più semplicemente il più potente libro per credere. degli strumenti con cui potervi permettere di gioAlla stregua di un senso, come può essere il tatto e care interagendo con la realtà, anche con quella del la vista, possiamo nominare, distinguere e appunto libro, rendendola vostra e più solida. percepire mediante il “senso” dell’immaginazione, il Semplice, ci vedi tu le cose quale, come direbbe Locke, ha necessità di esperienza per poter dischiuderci dei significati, e l’atrofizzarsi di questo senso a mio dire ai giorni nostri è spessissimo denunciato e, nota personalissima, ancora più spesso neanche riconosciuto come tale: fa parte solo dell’artista, fa parte solo dell’opera, e se si muove nella persona, l’immaginazione viene spesso confusa con una momentanea ispirazione.

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Inediti!

Havisham poesia di Carol Ann Duffy del mondo”, personaggi fittizi o reali, che solitamente sono protagoniste dei monologhi. Presentiamo qui la traduzione, inedita in Italia, del monologo drammatico Havisham, tratto dalla raccolta Mean Time del 1992. La voce che sibila e urla addosso al lettore è il personaggio terribile e celeberrimo di Great Expectations di Charles Dickens, Miss Havisham.

Traduzione di Angela Fato (vincitrice del “Premio per la traduzione poetica”- edizione 2013 del Centro di Poesia Contemporanea di Bologna) Carol Ann Duffy è una poetessa scozzese che nel 2009 ha avuto l’onore di essere la prima donna nominata Poet Laureate da Her Majesty in persona. Partita alla fine degli anni ‘60 a Liverpool, la sua carriera artistica nasce come sodalizio con Adrien Henri, uno dei massimi esponenti dei Liverpool Poets, dal quale apprende l’importanza di rendere vivi i propri componimenti poetici con voce e accompagnamenti musicali, decantandoli in pubblico. La maturità artistica di Duffy parte dalla Liverpool vissuta ai tempi di The Beatles e cresce guardando ai maestri del dramatic monologue, Robert Browning tra i primi. La forma del soliloquio in versi dà la possibilità all’autrice di giocare con le parole, “[going] for the sound of the words” e offre un luogo esclusivo per dare voce alle “donne

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“Havisham” Benvoluto tesoro bastardo. Neanche un giorno, da [allora] senza desiderarlo morto. Il mio pregare così duro da avere ciottoli verde scuro per occhi, corde sul dorso delle mani con cui potrei [strangolare.] Zitella. Puzzo e ricordo. Intere giornate a letto a gracchiare Nooooo verso il muro; il vestito ingiallito, tremante se aprivo l’armadio; lo specchio sbronzo, a figura intera, lei, io, chi ha [fatto questo] a me? Viola le maledizioni che sono suoni, non [parole.] Meglio alcune notti, quel suo corpo perduto su di me, la mia lingua svelta nella sua bocca, nel suo orecchio poi giù fino a quando all’improvviso un morso, [sveglia. L’amore è] odio dietro un velo bianco; un palloncino rosso che [mi esplode] in faccia. Bang. Ho accoltellato una torta nuziale. Datemi un cadavere di uomo per una luna di miele [lunga, lenta.] Non pensate che sia solo il cuore a b-b-b-bruciare.


Unaspecie! di Concorso poesia di Paolo Badini

Il dubbio del faraone A volte uno strano albero vaga oltre i muri delle mie stanze attraversa i corridoi, va oltre le sacre iscrizioni; capita allora che la polvere portata dal vento resti sospesa in tutta la biblioteca per poi cadere al suolo generando una forma che indica i quattro punti cardinali: Aretus, Disi, Anatole e Mesembria. Amon io abbandonai per seguire la Luce ed essa non mi ha mai lasciato, ma il popolo inneggia contro di me minacciando di uccidermi perché è istigato dagli scriba e dai sacerdoti. Restano a me fedeli le guardie, tutto l’esercito e la moltitudine degli schiavi. Io incarno la giustizia e la grandezza di Aton in un antico patto sancito tra lui e la mia dinastia. Anche se tutto riappare neanche la pietra sfugge alla legge del tempo e su di essa trascrivo la vera storia del mondo, ma il dubbio riguarda il destino che nessuno oltre a me sa interpretare e ora so già che mani brutali ne trasformeranno il significato per renderlo irriconoscibile. Questo è il tormento che mi toglie spesso il sonno e che genera in me il tremore e a volte la malattia.

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