Diario di Cefalonia

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DIARIO DI CEFALONIA di Eneo Sambraello * Il 28 febbraio del 1941 sono chiamato alle armi e assegnato al 31o fanteria carrista della Divisione «Centauro» in Siena, corso allievi sergenti. Nel settembre dello stesso anno sono trasferito a Rieti per frequentare la Scuola Allievi Ufficiali e, nel marzo del 1942, alla nomina di Ufficiale, sono assegnato al 2o Reggimento fanteria della Divisione «Re» e, infine, al 255o Reggimento della «Veneto». La zona affidataci è compresa tra Gorizia e Lubiana. Inviato a Roma per sostenere un esame di greco rientro al reparto, il 22 settembre e ricevo l’ordine di trasferimento per Cefalonia. Il 3 ottobre mi presento a Bari per l’imbarco e, il 16, inizia il viaggio sul «Città di Spezia». Dopo una sosta di alcuni giorni a Prevesa, il 3 novembre 1942 sbarco ad Argostoli. Destinato all’Ufficio Censura Affari Civili vado ad abitare con i Sottotenenti Gardoni e Petruccelli in una casa nei pressi della caserma. In aprile vengo assegnato alla 7a compagnia del Capitano Balbi. Nel volgere di pochi giorni sono assegnato alla 10a compagnia del Capitano Bianchi e, infine, alla 6a 88

del Capitano Cerrito. La maggioranza del mio plotone è composta di ragazzi del Veneto e del Trentino. Siamo accampati non lontano da Argostoli La domenica successiva (5 o 6 settembre) mentre passeggio in piazza ad Argostoli con il Sottotenente Gardoni dell’autoparco, alle 18 circa, sono avvicinato da un anziano signore greco, il quale, avuta conferma della mia amicizia con il signor Kefalà, podestà di Lixouri, mi dice: l’Italia ha firmato l’armistizio, pertanto la guerra è finita e il signor Kefalà le consiglia di mettersi in borghese e di cercare ogni mezzo per raggiungere la terraferma. Non potendo raggiungere Lixouri per sapere di più, vado a riferire quanto ho saputo al Comandante dei Carabinieri, Capitano Gasco, il quale attribuisce la notizia, di cui ha avuto sentore, alla propaganda greca. Il giorno 8 la notizia giunge via radio. Ancora oggi non riesco a comprendere la gioia e l’esultanza della maggior parte di ufficiali e soldati. Soltanto verso le 22 mi è possibile radunare gli uomini del plotone e parlare loro con calma. Alla unani-


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me domanda: cosa succederà adesso? Rispondo: dipende da cosa faranno i tedeschi, gli inglesi, i greci e, soprattutto, le Divisioni italiane in Grecia e nei Balcani. Il giorno 9 viene fatta l’adunata di battaglione e il Comandante, Maggiore Altavilla, ci comunica: si è «in attesa di ordini»; si spera in un aiuto inglese con mezzi di trasporto e aviazione; si pensa a un atteggiamento non ostile da parte tedesca date le forze in campo (circa 12 000 italiani contro 2 000 tedeschi). Il 10, verso sera, assieme al Capitano Gasco vado in un’osteria di Peratata, in qualità di interprete, per prendere accordi con alcuni rappresentanti dei partigiani greci in merito

La «Casetta rossa».

a un’azione comune contro i tedeschi. A loro interessa soprattutto avere armi e munizioni, a noi gioverebbe una loro azione presso Lixouri ove i tedeschi hanno gran parte degli uomini. Dopo tre ore di discussioni vivaci non si raggiunge alcun accordo. Il giorno 12 ci spostiamo verso Spilia di Argostoli. Siamo sempre «in attesa di ordini». I tedeschi espongono ad Argostoli, in tutte le case e palazzi da loro occupati, grandi bandiere e segni convenzionali, ovviamente per non essere bombardati dai loro «Stukas», di cui però sino a quel momento non si ha 89


Periferia di Argostoli: postazioni occupate dalla 3a e 5a batteria del 33o Reggimento artiglieria tra il 9 ed il 15 settembre.

notizia. Il mattino del 13 il Capitano Cerrito mi dà l’ordine di spostare una squadra, al comando del Sergente Maggiore Pellegrini, presso la caserma «Principe di Piemonte» con istruzioni precise di non sparare, dato che a 20 metri di distanza ci sono, ben allineati, sei carri armati tedeschi e di non permettere a italiani e greci di far incetta, in maniera selvaggia, di quanto si trova nel magazzino attiguo alla caserma stessa. Accompagno la squadra sino al magazzino, pieno di tutto ciò che un militare può desiderare (viveri, sigarette, vestiario nuovo, scarpe, vini di 90

qualità diversa, olio, ecc.). Qui trovo un collega della compagnia sanità, trentino, che, per «dimenticare il tradimento» dice, è ubriaco fradicio alle 10 del mattino. Verso le 11 con pochi uomini, tra cui il mio attendente Orsi, vado in città, presso lo stabile per gli «affari civili». I tedeschi occupano la strada principale sino alla piazza, ma non incontriamo alcuna difficoltà. Il 13 mattina due motozattere tedesche con uomini e mezzi cercano di approdare ad Argostoli, provenienti da Lixouri. Ma le batterie, che nel frattempo hanno cambiato posizione perché quelle precedenti sono ben conosciute, con alcuni colpi precisi le affondano. Sempre il giorno 13 «radio-fante» parla di un accordo raggiunto in base al quale avremmo lasciato l’isola


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no e fucile abbandonati. Nessuno della 5a ha avuto l’ordine di spostarsi e trovo perfettamente al loro posto sia il Maggiore Altavilla, Comandante di battaglione, sia la 7a compagnia del Capitano Balbi che, in piedi, senza badare agli «Stukas» che continuano a mitragliare, fuma tranquillamente la sua sigaretta. Altavilla mi dice che posso rientrare all’accampamento ove sono già diretti gli uomini della 6a con il Tenente Chiolo, che ha rotto gli occhiali e chiede notizie di Cerrito e della squadra lasciata a presidio della caserma (attenendosi agli ordini non hanno sparato e sono stati fatti prigionieri). Mezz’ora dopo vado a parlare con Balbi. Devo anch’io stare in piedi come lui. Per paura, guardando sempre gli «Stukas» volteggiare sopra di noi, fumo anch’io una sigaretta (non ne ho l’abitudine). Da Balbi so che il Generale Gandin è molto perplesso sul da farsi. L’atteggiamento di alcuni ufficiali inferiori e della truppa lo convincono a non cedere. Lascio Balbi verso le 17 e dopo un centinaio di metri, sulla mia destra, incontro, sotto una tenda, il Capitano Bianchi che, in quei giorni, ha il comando sia della 10a compagnia che del III battaglione del 17o fanteria. Parliamo di tante cose, del presente e del futuro. Sto per andarmene quando viene recapitato a Bianchi un ordine chiaro «attaccare e cercare di vincere entro l’alba» a firma del Colonnello Cessari, comandante del Reggimento. Poiché sono sul posto chiedo e ottengo dal Capitano Bianchi il co-

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e, da Sami, saremmo rientrati in Italia. In tutta la Grecia e nei Balcani i tedeschi sarebbero in ritirata grazie anche all’aiuto dei partigiani greci e iugoslavi. Tutte cose purtroppo lontane dalla realtà. Il giorno 14 vado nuovamente in città, a cento metri dalle nostre postazioni, con sei uomini. Al ritorno ci fermiamo a riempire le borracce d’acqua presso due famiglie greche che abitano lungo la strada. «Radiofante» continua a trasmettere le notizie più diverse: il Generale Gandin vorrebbe cedere e arrendersi, ma ne sarebbe impedito da alcuni Capitani e Tenenti; gli inglesi con navi e aerei starebbero arrivando a Corfù dove si sta combattendo; la Grecia sarebbe presto liberata, ecc.. Verso le ore 14 del 15 settembre un idroplano sta per ammarare vicino al porto, proprio mentre, assieme al Capitano Cerrito, sono in cammino verso la caserma e ci troviamo a un centinaio di metri avanti le nostre postazioni. A quel punto inizia il combattimento e, mentre gli «Stukas» mitragliano le nostre truppe, i tedeschi, è veramente uno spettacolo, in piedi su due file, avanzano sparando a tutto spiano. La collina è piena di massi e pertanto siamo abbastanza al riparo, ma, stando fermi, abbiamo solo due alternative: o morti o prigionieri. Avvisato Cerrito, scelgo però un’altra soluzione: tolto l’elmetto che il sole fa luccicare, corro da un masso all’altro e rientro nelle nostre linee. Il Capitano Cerrito, rimasto fermo, viene fatto prigioniero (lo saprò il giorno dopo). Al posto della 6a compagnia vedo soltanto grandi buche, qualche zai-


Militari italiani catturano soldati tedeschi.

mando di un suo plotone, il 3o del Sergente Maggiore Cacciatore. Verso le 18 iniziamo l’attacco. Si avanza con mortai e mitragliatrici. Bianchi e Benedetti (Tenente della 10a) sono avanti a tutti di almeno 20 metri. I tedeschi nel ritirarsi, privi come sono del decisivo aiuto degli «Stukas», lasciano in linea a distanza di 15 metri una dall’altra due mitragliatrici con il compito di ritardare la nostra azione. Verso le 3 del 16 tutto è finito. Abbiamo fatto quanto stabilito dal Comando (facile a dirsi, ma la realtà è molto diversa su un terreno così difficile e roccioso). Ci troviamo sulla punta di Argostoli, di fronte a Lixouri-San Teodoro, con parecchi prigio92

nieri tedeschi e austriaci e con una non indifferente mole di armi e munizioni. Nei pressi dell’ospedale saluto Bianchi e Benedetti e m’incammino verso Troianata. È giorno e gli «Stukas» iniziano la loro opera demolitrice. L’area del faro e tutta la città di Argostoli sono nelle nostre mani. I prigionieri tedeschi, radunati provvisoriamente nei pressi del comando di Divisione, fanno pena e non offrono certo lo spettacolo del giorno prima quando avanzavano con l’aiuto degli «Stukas». Hanno paura di chissà quali maltrattamenti. Sono invece trasferiti a San Costantino, a pochi chilometri dalla città. Poiché i mitragliamenti da parte degli «Stukas» non finiscono, bevuto un caffè presso una famiglia greca, rientro all’accampamento con un


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mare il maggiore Altavilla su quanto avvenuto. Rientrato all’accampamento, saluto il Capitano Balbi che con la 7a compagnia, unitamente alla 10a di Bianchi e Benedetti, va nella zona di Skala (Capo Munta). Il giorno stesso insieme al Tenente Chiolo e al Capitano Ciaiolo della 5a siamo destinati a raggiungere la zona di Sami-Sant’Eufemia; gli uomini sono tutti della 5a (meno 2 ufficiali della 6a) e pertanto sia il mio attendente, Orsi, che la squadra rimangono sul posto. Nella tenda, dentro a un baule, ho biancheria, scarpe, vestiti, ecc., tutta roba che abbandono con la certezza di rientrare dopo qualche giorno. Al mattino del giorno dopo raggiungiamo le colline nei presi di Divarata, quale compagnia di riserva del I battaglione del 317o fanteria. Siamo così disposti: il Capitano Ciaiolo in basso, il Tenente Chiolo alla sua destra e io all’estrema destra. Verso le 7 ci troviamo circondati da truppe tedesche e comincia l’inferno: gli uomini sebbene circondati da tutte le parti sono meravigliosi, sparano con fucili e mitragliatrici; molte perdite sia da una parte che dall’altra. Ma alle 8,15 la situazione appare insostenibile. Do ordine di cessare il fuoco e di arrenderci, non prima d’aver nascosto tra le grotte uno «staier» di cui mi sono appropriato il giorno 15. Nei pochi attimi che passano tra la nostra resa e la venuta dei tedeschi, che per prima cosa ci tolgono, oltre alle armi, orologi, medagliette, penne, ciondoli, ecc.. Ricordo la domanda fattami da un ragazzo

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autocarro. Qui trovo sia il Capitano Cerrito che la squadra lasciata a guardia della caserma. Sono stati trattati ottimamente e non hanno da lamentare nulla della breve prigionia. Unitamente a loro sono stati fatti prigionieri alcuni uomini della compagnia di sanità, il Tenente Cavazzini dell’8a e, cosa un po’ ridicola, la squadra esploratori con il Sottotenente Lanzaro. Il primo degli ufficiali a essere ucciso dai mitragliamenti è il Tenente Verroca che, a Lakitra, è di guardia ad alcuni prigionieri. Il giorno 17 viene mandato a rastrellare la zona dove si è combattuto il Tenente Marricchi della 5a compagnia e noi della 6a passiamo una giornata relativamente calma. A pomeriggio inoltrato del giorno 18 tocca a me, con una decina di soldati lo stesso compito. Siamo a metà percorso quando sentiamo deboli grida di aiuto e pianto; è un Sergente tedesco, Robert Klodt (il nome lo so il giorno dopo), nudo, con la gamba maciullata da un nostro mortaio la sera del 15. Non può più resistere al dolore e alla sete. Mando subito all’ospedale due uomini a chiamare un medico tedesco che viene dopo pochi minuti. Improvvisiamo una barella e, in quattro, lo accompagnamo all’ospedale. Cosa singolare: quel ferito durante l’avanzata l’avevo visto steso per terra, vicino a un albero. Sembrava morto. Portiamo ai tedeschi libri e giornali trovati nella zona dove si era combattuto. Il giorno 19 vado al comando di battaglione a fare rapporto e infor-


sardo: Tenente, crede che mi lasceranno questo temperino, regalo della mia fidanzata?. Penso di sì, rispondo. I tedeschi ci caricano dei loro zaini, e inizia la lunga marcia verso Frankata. Lungo il tragitto vedo seduti per terra, sul ciglio della strada, il Tenente Colonnello Fiandini e il Capitano Verro (li conosco di vista). Lungo il percorso alcuni soldati, assieme al Sottotenente Montanari, vengono fatti deviare dalla strada principale e non ho più occasione di vederli. Verso le 14 si fa sosta per il pranzo (ovviamente per i tedeschi) e io, unico Ufficiale, sono a una distanza di 20 metri dal posto ove stanno seduti per terra i soldati della 5a che erano rimasti con il mio gruppo. Dopo una mezz’ora, si sentono sulla destra le mitragliatrici in azione in diversi punti della spianata; non immagino ciò che succede sino al momento in cui non vengo invitato in malo modo ad alzarmi e a raggiungere «gli altri traditori» per la fucilazione (così mi viene detto chiaramente in ottimo italiano da uno dei tantissimi altoatesini facenti parte della divisione che ci ha fatto prigionieri). Cosa provo? Nulla, so che a me non sarebbe successo; chiedo di potermi aggiustare le fasce e legare le scarpe, mi scosto di circa due metri e, dopo una rincorsa di cinque metri e un salto di due, riesco a cadere in piedi sulla strada piena di altri prigionieri italiani in cammino verso Razata. Quando comincio a correre i più vicini a me sono due soldati austriaci che sparano subito due colpi, senza però l’intenzione di colpire 94

(almeno tale è la mia opinione). Cerco di unirmi alla lunga fila con la speranza di riuscire ad attraversare gli avvallamenti che mi separano da Peratata e Troianata. A un certo punto rimango ultimo della fila e, quando pensavo d’essere riuscito a sganciarmi, da un viottolo sbucano altri tedeschi con altri prigionieri e sono costretto ad accodarmi e a raggiungere il grosso nei pressi di Kuruclata. Verso le 21 è buio pesto, noi prigionieri siamo seduti per terra con i tedeschi tutti intorno. Arrivano degli autocarri, una jeep e alcune moto con carrozzino. Un Ufficiale, in perfetto italiano, esorta tutti gli ufficiali italiani che sono in mezzo alla truppa a presentarsi perché avrebbero avuto un trattamento di riguardo, degno del loro grado. Alcuni soldati mi incitano ad aderire alla richiesta tanto generosa. Ma quanto è successo al pomeriggio mi blocca. Resto fermo senza poter intervenire per avvisare a cosa vanno incontro gli ufficiali, una decina, che si presentano. Vengono caricati su un autocarro e portati chissà dove. È il 21 settembre1943. Ho 21 anni e dieci mesi. Al mattino del 22 altra passeggiata che non ha mai fine e sosta a Frankata; questa volta in una grande pianura, presso un magazzino con a fianco una stradina ben delimitata che porta verso la strada principale. Sul retro un muro alto pochi metri dal quale ci dividono tre case, abitate da famiglie greche che da Argostoli, a causa dei mitragliamenti, si sono spostate in periferia. Verso le 11 vedo appoggiata al muro una ragazza di circa 16 anni, Me-


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ri, che conosco di vista. Vado a parlarle e, dopo aver avuto acqua, vino e riso in abbondanza che distribuisco tra quanti mi sono vicino, ci mettiamo d’accordo in merito alla mia fuga. Meri avrebbe lasciato nella stalla un paio di scarpe, una maglia e i calzoncini del fratello. Parlo di quanto accaduto il giorno precedente ad alcuni ufficiali del 317o. Ma non vogliono credermi. Verso mezzogiorno vedo scendere dalla stradina, con 5 ragazzi muniti di fascia con croce rossa, uno dei cappellani militari, Don Capozi, della 44a compagnia di sanità, tutto sorridente e arzillo. Evidentemente vive tra le nuvole. Pensa che gli spari siano segni di gioia per la fine della guerra. Fattomi prestare un bracciale, lo accompagno sul posto ove il

Postazione controaerei italiana.

giorno prima sono stati trucidati i soldati della 5a compagnia. Sulla destra, con la testa appoggiata a un albero, vedo il soldatino sardo che al mattino del giorno prima era preoccupato per il suo temperino. Dopo mezz’ora torniamo e riconsegno il bracciale. Soltanto dopo la conferma del cappellano alcuni ufficiali cercano il mio aiuto e il mio consiglio. Scappare in gruppo equivale al suicidio, individualmente, senza conoscere la lingua, è molto difficile, ma è l’unico consiglio che si possa dare. Verso le 14 i tedeschi cominciano ad agitarsi e a far mettere in riga i soldati prigionieri. Penso di antici95


Troianata: pozzo all’interno del quale furono rinvenuti i resti di circa 400 fanti del II btg./17o fanteria.

pare i tempi – l’accordo con Meri era per le 14,30 – chiedo e ottengo da un sergente il permesso di prendere un po’ d’acqua per gli Ufficiali. Entro nella stalla, mi cambio, curando di nascondere bene la mia roba, ed esco con una sacca sulle spalle e con una grande fiducia nell’avvenire. Raggiungo la strada principale e, qui, avviene il primo intoppo. Il medesimo sergente che m’ha dato il permesso comincia a sbraitare in tedesco, ma si capisce benissimo cosa intende dire: crede d’avermi riconosciuto ma, per mia fortuna, vicino a lui, intento a riparargli la moto, c’è il 96

Caporal Maggiore La Ganga – siciliano – della compagnia comando che mi conosce benissimo dato che i primi mesi a Cefalonia ero addetto all’ufficio cifra, quale interprete presso il Comando. Anche lui comincia a gridare, in una lingua che dovrebbe essere greco, mi dà un calcio e penso che quel gesto convinca il tedesco di essersi sbagliato. Percorro altri cinquanta metri e un Ufficiale tedesco con la moto, dall’altra parte della strada, si ferma osservandomi attentamente ma senza dire una parola. Giunto nei pressi di S. Gerasimo prendo la via sulla destra e attraverso burroni e avvallamenti, giungo nei pressi di Lakitra. Mi rifugio in una grotta e dormo tutta la notte sull’erba, che comincio ad


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il barbiere mi incita ad andarmene, vado lungo la riva in attesa di una barca che mi porti a Lixouri. Mentre sono in attesa, a circa trenta metri di distanza, una lunga colonna di soldati prigionieri mi passa davanti (vanno al rancio); moltissimi mi riconoscono, alcuni fanno addirittura cenni di saluto, nessuno ha l’idea di denunciarmi ai tedeschi. Verso l’una arriva una barca a motore, siamo in otto, naturalmente mi riconoscono e vogliono darmi per forza un aiuto in denaro, poche dracme ovviamente. Da loro so che moltissimi ufficiali sono stati uccisi presso il faro e poi gettati in mare. Giunto a Lixouri, vado immediatamente a casa della famiglia Kefalà: ho la possibilità di lavarmi, fare un pasto decente e riposarmi. Mi trattano come se fossi uno del-

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Mitraglieri italiani in postazione.

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apprezzare anche come cibo. Il mattino del 25, per sfuggire a un rastrellamento del villaggio, vengono nei pressi della grotta due ragazze di Argostoli che con i parenti hanno raggiunto la campagna a causa degli «Stukas». Una di queste mi aveva dato l’acqua il giorno 14 ad Argostoli ed era stata maltrattata dai tedeschi in presenza del padre, legato a una sedia. È ancora terrorizzata. Mi portano polenta che mangio con avidità. Il 26 i tedeschi lasciano il villaggio. Vedo nei pressi il marinaio (Franco) già addetto al trasporto Argostoli-Lixouri, naturalmente prima dell’8 settembre. Verso le 10 decido di raggiungere Lixouri. Senza avere la percezione di quanto sia successo mi incammino lungo la mulattiera sino ad Argostoli. Mi fermo un attimo presso un barbiere di mia conoscenza. Il negozio ha già sei clienti (militari tedeschi). Facendo finta di bestemmiare in malo modo, parlando naturalmente in greco,


Troianata: salme di militari italiani fucilati.

la famiglia, mi danno una stanza e dei vestiti e, sebbene ci sia un’ordinanza tedesca in cui si intima la consegna di ogni soldato italiano rifugiato presso le famiglie greche, rimandano di giorno in giorno la data della mia partenza. Il 3 ottobre il signor Kefalà mi consegna una carta d’identità intestata ad un certo Spiro Katiforis nato nel 1919 e, il giorno dopo, mi aggrego ad un certo Kuruklis, munito di una valigetta, di qualche dracma e di un biglietto di presentazione per il podestà di Agrinion che dovrebbe provvedere alla sostituzione della fo98

tografia sul documento di identità. Abbiamo lasciato Lixouri da mezz’ora quando un autocarro, carico di soldati italiani e tedeschi che andava nella nostra stessa direzione, si ferma dopo averci sorpassato due volte. Ancora una volta questi, pur avendomi riconosciuto, si limitano a sorridermi. Camminiamo tutto il giorno e alla sera raggiungiamo Sami. Riposiamo la notte presso una famiglia (nella stalla) e, al mattino del 5 ottobre, ci imbarchiamo su una lancia a motore per raggiungere Neocori. Ivi giunti, nel pomeriggio, ci sistemiamo in una bettola. Si dorme di notte, di giorno non si fa nulla, si aspetta. Il giorno 14 v’è un «fuggi fuggi» ge-


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decina d’anni e che conosco di vista (abitava dalle parti di Neocori) ma che fortunatamente (o volutamente?) non mi riconosce. Ottenuto il visto, Murra mi presenta a sua moglie e ai genitori. Acquista presso una bancarella pane, formaggio e fichi per il viaggio e mi paga il biglietto del treno sino a Patrasso. È il 24 ottobre del ’43. •

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Dopo l’arrivo in terraferma ha inizio per il Sottotenente Sambraello una vicenda terribile. Catturato per delazione, imprigionato e torturato per due mesi dai tedeschi, sfugge a tre fucilazioni e due impiccagioni. Non parla e viene trasferito in un durissimo campo di concentramento tedesco. La prigionia e la fame sono dure. Viene liberato dagli inglesi solo il 2 maggio 1945. Raggiunge finalmente Venezia, ma non può tornare alla sua diletta, italianissima Fiume, sacrificata con l’intera Istria (a maggioranza italiana) alla ingordigia miope di Tito. Il diario, di cui abbiamo riportato in sintesi solo le pagine relative agli avvenimenti nell’isola, chiude con un’amara riflessione e un pensiero «ai soli eroi conosciuti da vicino e come tali, anche se ancora senza adeguata ricompensa almeno morale, Ciaiolo, Cerrito, Chilo, Benedetti, Balbi, Bianchi e talora neppure nominati nei diversi scritti storici» . V’è ancora una Cefalonia da scoprire! 99

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* Ufficiale in congedo, già effettivo alla Divisione «Acqui»

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nerale verso la boscaglia e verso ripari diversi, perché una compagnia tedesca sta facendo un rastrellamento. Non vengono dalla nostra parte e così tutti torniamo al nostro posto di attesa. In quei giorni vengo a sapere che il Capitano Bianchi e il Tenente Benedetti, scappati dall’ospedale, sono riusciti a raggiungere la terraferma e a unirsi ai partigiani greci. Penso alla stranezza del destino: abbiamo fatto assieme l’avanzata del 15 settembre e tutti e tre ci troviamo in terraferma, non liberi del tutto, ma perlomeno vivi. Il 18 ho la carta di identità e posso proseguire il viaggio verso Atene (quello è il mio intendimento). Da buon filibustiere, prima di lasciarmi andare, il mio accompagnatore vuole farmi firmare una carta dalla quale risultano tutte le spese da lui sostenute in quei giorni per il mio mantenimento. Compresi gli abbondanti pasti da me consumati a carico del signor Kefalà. A pomeriggio inoltrato raggiungo Messolongi e mi fermo a chiedere acqua a una persona in piedi vicino a un casolare. Mi chiede se sono italiano, da dove sono fuggito e mi dà da mangiare e da dormire per la notte. Si chiama Murra, fa il calzolaio, il nonno materno è italiano. Mi accompagna al «Kommandatur» ove devo andare per farmi mettere il timbro di «libera circolazione» sulla carta d’identità. Giunto al Comando tedesco, dopo mezz’ora di fila, sono interrogato da un trio di Sottufficiali ai quali fa da interprete – lingua greca – un italiano di Rodi più vecchio di me di una


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