Stati generali dello sfruttamento #24N #éora!

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TRA FORMAZIONE E LAVORO PER CAMBIARE LA FORMAZIONE ED IL LAVORO -

Il ruolo di alternanza e tirocini nella dequalificazione di scuole e università

Un mese fa noi studentesse e studenti di tutto il paese scendevamo in piazza per il primo grande sciopero dell’alternanza scuola-lavoro, un’occasione per mettere in discussione non solo uno dei provvedimenti più dibattuti della Buona Scuola, ma l’intero sistema formativo italiano. Un sistema che, per quanto riguarda la scuola, è rimasto sostanzialmente invariato dalla riforma Gentile, salvo rari aggiustamenti che non ne hanno mai realmente modificato l’impianto: ci troviamo così con una scuola che resta ancora profondamente classista, nella quale però l’assenza di mobilità sociale non permette più una netta divisione tra “classe dirigente del futuro” e “operai”, ma, nella negazione della possibilità per cui chiunque possa diventare classe dirigente, la forbice delle disuguaglianze si costruisce sulla retorica della professionalizzazione e della gerarchia tra i saperi. Non più futuri dirigenti, ma tutti - tranne i figli di professionisti - saranno precari, parte del cognitariato, operai e, se va bene, al massimo ingegneri. Nella quarta rivoluzione industriale, nel pieno della riflessione sull’innovazione, sulla necessità di competenze digitali, di imparare ad imparare più che di imparare nozioni e mestieri, cosa potrà mai c’entrare friggere patatine per “formarsi”? Davvero nel nostro Paese esisterà per noi solo questo tipo di formazione e solo questo tipo di prospettiva di lavoro? No, non siamo “choosy” nel porci queste domande, anzi siamo particolarmente curiosi di sapere la risposta da parte di chi ha promosso e promuove queste politiche. Le riforme degli ultimi anni non si sono mai interrogate realmente sulla didattica, sulle metodologie, sulla valutazione, sui cicli. La standardizzazione dei tempi di studio, la netta separazione tra sapere teorico e sapere pratico, il paradigma della lezione frontale sono andati a legittimarsi come elementi invariabili in scuole e università, mentre l’elemento che torna più spesso nella riflessione sul cambiamento dei luoghi della formazione è quello delle necessità di rispondere alla disoccupazione giovanile ed alle esigenze del mercato del lavoro. Non si tratta di una novità dell’ultima legislatura: l’alternanza scuola lavoro e i tirocini non sono delle innovazioni, come qualcuno ha raccontato (nelle scuole erano già presenti gli stage formativi), a costituire l’elemento di novità è piuttosto la loro massificazione e l’importanza crescente da essi rivestita nella definizione di programmi ed obiettivi formativi. Per ricercare le motivazioni che hanno portato all’implementazione di tali strumenti è necessario guardare al contesto europeo: Il dibattito sull’istruzione si concentra oggi intorno ad un tema fondamentale, quello dello “skills mismatch”, ovvero la non coincidenza delle competenze e conoscenze fornite dai percorsi formativi con quelle necessarie al mercato del lavoro. Lo skill mismatch non è un concetto neutrale: non individua semplicemente un gap fra formazione e lavoro, ma rileva l’inadeguatezza dei percorsi formativi alle necessità del mercato, sottointendendo che è proprio la formazione a doversi modificare per sopperire a tali necessità. Gli ultimi rapporti OCSE lo dichiarano in maniera esplicita: la priorità per l’istruzione in Italia è sopperire alle necessità del sistema produttivo. Non importa, allora, costruire saperi critici, che questo sistema produttivo possano metterlo in discussione, non importa costruire luoghi della formazione aperti e in relazione con il territorio, non importa ridare un valore alla conoscenza di per sè, slegandola da un’immediata traduzione in termini economici.


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Con la retorica delle competenze, stanno man mano modificando alla radice il sistema formativo che, dalla scuola all’università, diventa utile esclusivamente a formare non i lavoratori o i cittadini del domani, ma automi in grado di svolgere esclusivamente mansioni specifiche, con una settorializzazione e una parcellizzazione dei saperi ben lontana da un’idea di conoscenza come strumento di emancipazione. Pure volendo indagare l’ottica della prospettiva lavorativa, la logica dell’insegnamento della mansione appare estremamente poco lungimirante nell’epoca della quarta rivoluzione industriale, in cui va insegnato sempre più ad avere consapovolezza di processo piuttosto che della mansione già facilmente sostituibile da macchine o algoritmi, va insegnato a rafforzare le caratteristiche dell’umanità, piuttosto che quelle della meccanizzazione, vanno ricercate capacitazioni piuttosto che competenze frammentate. L’alternanza e i tirocini curriculari si configurano quindi oggi, nella maggior parte dei casi, come strumenti di sfruttamento di manodopera gratuita da parte di enti ed aziende ma, andando più in profondità, come gli ultimi tasselli di un mosaico ben più grande che riguarda tutta la filiera formativa. Anche fuori dai luoghi accademici, infatti, la scusa della formazione viene spesso usata per coprire prestazioni di lavoro: accade in molti casi con progetti di servizio civile-sfruttamento (come spesso accade nei beni culturali e come denunciato da “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali), così come con prestazioni di lavoro non pagate con la scusa dell’ “esperienza” e formazione necessaria per il curriculum. Nelle università e nelle scuole si avvalla quindi un modello basato sulla totale distorsione della formazione permanente, che da occasione di crescita e sviluppo costante della persona per il miglioramento della società, diviene corsa alle certificazioni e riduzione dei tempi e spazi di vita. Nella realtà dei fatti pochissime aziende in Italia sanno fare formazione permanente, pochissime hanno dei laboratori fuori dalla catena produttiva, pochissime hanno la capacità di sostenere i costi ed avere le figure professionali necessarie a formare. Come possono quindi formare studenti se non lo fanno con i propri lavoratori? Alternanza e tirocini si inseriscono quindi in un più grande problema italiano: quello del modello produttivo, dell’assenza di investimenti pubblici, specie al sud, dell’assenza di visione, ed aprono a pieno le contraddizioni di un Paese che fonda il suo futuro sul lavoro povero e sulla rinuncia agli studi piuttosto che sul benessere collettivo. -

Il ruolo di alternanza e tirocini ai tempi del jobsact: il sistema duale all’italiana

Nella Nota di Aggiornamento del DEF 2017 approvata il 23 settembre viene riproposto il progetto di rilancio della formazione professionale in Italia, che secondo numerosi politici e opinionisti dovrebbe ispirarsi al “modello duale tedesco”. Ma né l’attuale formazione professionale italiana né le proposte di riforma avanzate dal Governo hanno nulla a che fare con il modello tedesco, a cominciare dall’investimento pubblico complessivo in istruzione. Nel DEF leggiamo che una studentessa o uno studente può soddisfare il proprio obbligo scolastico e raggiungere un titolo di studio equivalente alla laurea trascorrendo tutto il percorso formativo in azienda tramite i contratti di apprendistato: “il giovane può conseguire, con percorsi di apprendistato di primo livello, una qualifica professionale, un diploma professionale, un diploma di istruzione ed una specializzazione di istruzione e formazione tecnico professionale. Il periodo di apprendistato può avere la stessa durata del percorso formativo. Conseguito il titolo, il giovane potrà continuare con l’apprendistato professionalizzante”. Questo modello è stato costruito a seguito del Jobs Act - che ha permesso l’assolvimento


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dell’obbligo scolastico con contratti di apprendistato dai 15 anni - e dimostra il reale progetto che sta dietro al cosiddetto “sistema duale all’Italiana”: mandare gli studenti, anche minorenni, a lavorare nelle imprese, con un costo per i datori di lavoro nettamente inferiore rispetto ad un lavoratore subordinato. Questa non è formazione, ma lavoro minorile e sostituzione di lavoratori tutelati con studenti sottopagati, che spesso non hanno alcuna garanzia di imparare un mestiere a causa dei controlli insufficienti. Come evidenziato dal rapporto Education at a Glance 2017 dell’OCSE, il nostro Paese presenta delle forti contraddizioni rispetto all’accesso all’istruzione e all’occupazione: riteniamo che il primo passo per raggiungere una reale “società della conoscenza” sia l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni e il divieto di inserimento degli studenti all’interno dei processi produttivi. Il saper fare non si acquisisce con lo sfruttamento e la sostituzione dei lavoratori per arricchire i datori di lavoro, ma tramite percorsi di formazione che diano spazio alla creatività, alla pratica e alle attività laboratoriali, ma sempre al di fuori della produzione. Al di fuori di scuole e università si presenta invece la giungla dei tirocini extra-curriculari, strumenti impiegati in particolare dal programma Garanzia Giovani. La funzione di questi percorsi sarebbe la formazione continua della forza lavoro, in particolare giovani fuoriusciti dai tradizionali percorsi formativi. Tuttavia la normativa, prevalentemente regionale, è frammentata e non adeguata a fornire garanzie di qualità formativa e reddito dignitoso ai frequentanti. Il programma Garanzia Giovani si è dimostrato limitato e inefficace nonostante lo stanziamento pubblico di 1,5 miliardi. Sono stati presi in carico solamente 900 mila giovani (MLPS, 153° Report settimanale - Aggiornamento al 27 luglio 2017) ma solamente al 44% sono state fatte proposte concrete. Secondo l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (L’attuazione della Garanzia Giovani in Italia, n.1/2017) il 69% ha ricevuto una proposta di tirocinio extracurriculare, con un tasso di inserimento occupazionale del 24%. In numerosi casi questi tirocini non hanno alcun contenuto formativo realmente utile ai giovani, che vengono ridotti a lavoro scarsamente qualificato in cambio di rimborsi da poche centinaia di euro. Il 57% dei giovani che hanno completato il programma non studiano o lavorano. L’Incentivo Occupazione Giovani è finanziato per il 2017 con 200 milioni di euro, per sgravi fiscali fino a 8 mila euro per ogni assunzione a tempo determinato o con contratto a tutele crescenti, ovvero senza alcuna garanzia di stabilità del posto di lavoro. La formazione continua è possibile laddove siano ampliati i diritti dei lavoratori, come la continuità di reddito e la tutela dal licenziamento, affinché si possano seguire percorsi formativi formali o non formali senza ostacoli da parte del datore di lavoro. Il diritto al tempo libero per la formazione è fondamentale e va esteso, insieme con politiche che favoriscano la redistribuzione dell’orario di lavoro. Il diritto alla formazione continua è inoltre inseparabile dalla garanzia di un reddito di base, che consenta a tutte e tutti l’autonomia sociale necessaria ad intraprendere percorsi formativi di istruzione o di aggiornamento professionale per migliorare la propria posizione lavorativa. -

La riproduzione del lavoro povero e delle disuguaglianze in legge di stabilità

Il Governo costruisce una guerra tra poveri negando le legittime richieste dei pensionati di evitare l’adeguamento della Fornero che innalzerebbe ulteriormente l’età pensionabile, con la scusa delle politiche attive per i giovani. Questo è un paradosso: come si può contrastare la disoccupazione giovanile tenendo maggiormente gli anziani al lavoro? E’ inoltre interessante analizzare cosa voglia dire per il Governo investire sui giovani. Nella Legge di Stabilità 2018 presentata dal Go-


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verno Gentiloni le misure previste per contrastare la disoccupazione giovanile sono semplici regali alle imprese. Viene previsto uno sgravio fiscale per tre anni del 50% sulla tassazione del rapporto di lavoro, con un tetto annuo di 3000 euro per ogni giovane, per i nuovi assunti con contratto a tutele crescenti – un contratto precario mascherato da tempo indeterminato – con età fino a 34 anni per il 2018 e fino ai 29 dal 2019 al 2020. Nelle Regioni del Sud lo sgravio triennale sarà del 100% con tetto di circa 8000 euro all’anno per gli under-29; inoltre sarà del 100% per gli assunti in seguito ad un percorso di alternanza scuola-lavoro o apprendistato. Il costo totale di queste misure ammonta a circa 355 milioni di euro nel 2018, arrivando a 1,8 miliardi nel 2020. Una cifra importante, ma questi incentivi sono inutili al contrasto della disoccupazione giovanile. Una volta terminati gli sgravi fiscali le assunzioni stabili si sono interrotte, sono aumentati i contratti a tempo determinato e la situazione del mercato del lavoro è rimasta degradante per i giovani: infatti l’incentivo è stato utilizzato soprattutto nel settore terziario a bassa produttività, dove si concentra il fenomeno dei lavoratori poveri (working poor). Con il Jobs Act di Renzi sono stati trasferiti alle imprese tra i 14 e i 22 miliardi di soldi pubblici, con effetti tutt’altro che desiderabili visto l’aumento dei rapporti di lavoro precari. Basta con i soldi pubblici regalati ai privati! Al contrario viene previsto lo stanziamento di soli 300 milioni per il Reddito di Inclusione (REI), di cui può beneficiare solo 1,7 milioni di persone rispetto ai 4,7 milioni di poveri nel Paese. L’assegno erogato sarà del tutto inadeguato a garantire l’autonomia sociale del beneficiario, perché le cifre variano dai 190 euro per i singoli ai 480 euro per le famiglie con 5 o più componenti. Una misera mancia pre-elettorale che non contrasta l’aumento delle diseguaglianze nel Paese. L’Italia ha bisogno di dotarsi un reddito di base, garantito a tutte e tutti i residenti sul territorio nazionale, che garantisca l’autonomia dal ricatto tra disoccupazione e lavoro povero e sfruttato. Con il modello di formazione duale “all’italiana”, le politiche attive del lavoro caratterizzate da sfruttamento in tirocini extra-curriculari e sgravi alle imprese che promuovono la precarietà, con l’assenza di un welfare universale, si stanno riproducendo le diseguaglianze. Senza una radicale riforma della formazione e del mercato del lavoro, aumenteranno sempre di più il lavoro povero e l’emarginazione sociale, mentre sempre meno persone avranno accesso ad una formazione e un lavoro dignitosi e di qualità. Per questo vogliamo l’istruzione gratuita e di qualità. Ma non sarebbe sufficiente, perciò rivendichiamo un Piano per il Lavoro che investa sull’innovazione e crei occupazione diretta da parte dello Stato, tramite una politica fiscale realmente redistributiva - il nostro è l’unico Paese europeo che non prevede una tassa patrimoniale sugli immobili. Nel nostro Paese c’è un grande bisogno di nuovo lavoro nelle Infrastrutture, nei servizi della Pubblica Amministrazione, nella Cultura, nell’Istruzione e nella Ricerca e di un piano straordinario di investimenti diretti produttivi specie sul Mezzogiorno. La Legge di Stabilità 2018 abbozzata dal Governo prevede solamente 7.900 assunzioni nel Pubblico impiego e 1500 stabilizzazioni di precari della Ricerca, numeri del tutto insufficienti. Per rilanciare davvero lo sviluppo sostenibile dell’Italia servirebbero 100 mila assunzioni nella PA e 20 mila assunzioni di ricercatori a tempo indeterminato nell’Università e negli Enti di ricerca.

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Abbattere la catena dello sfruttamento

Viviamo una condizione di precarietà e sfruttamento dalla scuola all’azienda. Lo stesso disegno di società diseguale sta alla base delle politiche che impoveriscono i lavoratori e dequalificano l’istruzione pubblica. Partendo dagli studenti utilizzati come forza lavoro gratuita arrivando al lavoratore a cui viene negata la pensione per venire sfruttato anche in vec-


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chiaia, si estende la concezione per la quale siamo condannati a un’intera esistenza in cui produrre per altri, senza poter decidere niente sulle nostre vite, dovendo accontentarci delle briciole, senza avere il diritto ad una casa, a decidere quando e se avere una famiglia, dove e come vivere. Le nuove gerarchie sociali, peraltro, nella quarta rivoluzione industriale si basano sempre più sui saperi, destinando ad un futuro di lavoro povero in un tessuto produttivo sempre più obsoleto un’intera generazione che, subendo la rincorsa dell’innovazione, è costretta a scegliere tra emigrazione all’estero perchè sovraeducata o rinuncia agli studi e sfruttamento. Che fare allora? Sicuramente non arrendersi all’asservimento della conoscenza, delle nostre vite e dei nostri corpi al mercato e ai profitti. E’ necessario prendere parola in maniera chiara, tutte e tutti insieme. E’ arrivato il momento di sottrarre il terreno sotto ai piedi a chi crede di poter disporre del nostro presente a proprio piacimento, facendo di ogni scuola e di ogni università un presidio di democrazia, partecipazione e messa in discussione dell’esistente. Se ci insegnano che lo sfruttamento è qualcosa a cui abituarsi, incrociamo le braccia, se ci ripetono che le diseguaglianze e la competitività sono elementi necessari per la crescita, ribadiamo che non è questa la crescita che vogliamo, e che c’è progresso solo in presenza di un miglioramento delle condizioni materiali di tutti. Se ci mandano a svolgere alternanza in aziende che non ci formano, che sfruttano noi, i lavoratori e l’ambiente, se ci ritroviamo a sostituire lavoratori durante i tirocini universitari, rivendichiamo con ancor più forza diritti e tutele, e riportiamo, anche all’interno dei luoghi della formazione classici, una rivendicazione non più rimandabile: un mondo in cui competere col nostro vicino, in cui tapparsi il naso e accettare ogni condizione, in cui non poter fare domande né essere la voce fuori dal coro senza temere ripercussioni e repressione, non è il mondo in cui vogliamo costruire il nostro futuro. Sta a tutti noi rivoltarlo, a partire dalla distruzione della catena dello sfruttamento della quale siamo parte, per liberarci tutte e tutti. ALTERNANZA Che il costo dell’istruzione, tra caro-libri, tasse scolastiche e corredo, sia eccessivo e sia il principale fattore della dispersione scolastica, è ben noto a tutti: parliamo di circa 1200 euro all’anno. A tali spese, però oggi occorre aggiungere anche quelle necessarie allo svolgimento dell’alternanza scuola-lavoro, soprattutto se si vuole dare una dimensione reale degli investimenti del MIUR in questa metodologia didattica: se le famiglie possono arrivare a spendere centinaia di euro per permettere lo svolgimento del percorso (tra mense, spese per i trasporti, dress code e molto altro) il Ministero dell’Istruzione invece di aiutarle rimette mano sulle risorse dell’alternanza previste dalla Buona Scuola, cioé 100 milioni di euro, per tagliarle. Nel 2017 abbiamo assistito ad un primo taglio di 1,6 milioni; dopo questa prima erosione delle risorse è previsto un secondo taglio pari a 2 milioni di euro nel 2018, un terzo taglio di 3 milioni per il 2019 e una definitiva stabilizzazione, a partire dal 2020, che taglia ogni anno 3 milioni di euro sull’alternanza scuola lavoro. A risentirne è la qualità dei percorsi ma anche, evidentemente, il portafoglio delle famiglie, e di aiuti in questo senso nella finanziaria del 208 non se ne sono proprio visti: non un centesimo in più è stato investito per il diritto allo studio. Il Miur però non è il solo attore in questo gioco delle forbici. Se con la Legge di Stabilità 2017 il Governo aveva già un ruolo centrale, le cose sono peggiorate con la Legge di Stabilità


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2018: incrementano infatti gli incentivi per le aziende che ospitano studenti in alternanza scuola – lavoro. In parole povere, la manovra finanziaria anche quest’anno non restituisce alla formazione quanto le è stato tolto in anni di tagli e di contrazione della spesa pubblica, ma piega ulteriormente i saperi alle esigenze del mercato. Su richiesta esplicita di Confindustria, il Governo Gentiloni ha accettato di estendere infatti gli sgravi contributivi al 100% alle aziende che “assumono” gli studenti che hanno svolto il 30% delle ore di alternanza scuolalavoro nelle imprese stesse. Non possiamo più parlare, dunque, di metodologia didattica, ma di vera e propria politica attiva sul lavoro. Provando a fare un calcolo sulle stime della Ragioneria di Stato circa le assunzioni di studenti da un lato e gli sgravi fiscali dall’altro, ne emerge un quadro terrificante. Si prevede per il 2018 che 18.900 studenti vengano “assunti” per fare alternanza scuola lavoro nelle aziende: basandoci sui dati dell’anno precedente, l’esonero contributivo medio per ogni “assunto”, è di €2430 euro; facendo due calcoli lo Stato, quindi, farebbe un regalo alle imprese che assumono gli studenti in alternanza pari a €45.927.000. Confrontare una cifra simile con i 3,5 milioni sottratti all’alternanza con le ultime due manovre ci restituisce un ritratto sincero delle priorità del Governo: togliere alla scuola, togliere al Pubblico, per regalare - molto di più - ai privati. L’UNIVERSITA’ DELLA FORMAZIONE PRECARIA L’università della formazione precaria In questi anni, assieme al definanziamento strutturale dell’Università Pubblica stiamo assistendo all’imposizione dentro ai nostri Atenei di una visione ideologica e mercificante della formazione. Infatti oggi sulla retorica della formazione che deve coniugare al sapere il saper fare, si consumano veri e propri rapporti di sfruttamento a danni di studenti e studentesse attraverso l’uso distorsivo del tirocinio. Ormai noi tirocinanti siamo tantissimi, un esercito di riserva utile al mercato del lavoro per sostituire lavoratori con manodopera fortemente subalterna e carente di tutele. Parliamo nel solo anno accademico 2013/2014, tra stage e tirocini, di 279.590 rapporti che corrispondono al 16,5% degli studenti italiani. Impiegati in diversissime funzioni: quasi la metà in strutture sanitarie, il 23,7% in imprese e studi professionali, il 17% in enti pubblici e scuole. Più si scende verso Sud più il numero diminuisce raggiungendo il 7%, del resto questo dato si spiega con una verità scomoda e inesorabile: al Sud dove il tessuto industriale è meno fitto e le possibilità lavorative più basse questa possibilità è riservata a pochi. Tra i soli laureati questi numeri si triplicano, portando nel 2015 ad una media del 56% (nel 2013 del 57%), come riporta il rapporto Almalaurea tra quanti hanno svolto un tirocinio organizzato dal corso di studio “il 25% dei laureati ha svolto tirocini di durata superiore alle 400 ore. I tirocini più lunghi sono generalmente svolti dai laureati dell’area tecnico-scientifica rispetto a quelli dell’area delle scienze umane e sociali e dai laureati magistrali a ciclo unico (il 55%, tra questi ultimi, ha svolto un tirocinio di durata superiore a 400 ore). Occupiamo posizioni diversissime e in un modo o nell’altro entriamo a contatto con la vostra vita quotidiana, teniamo in piedi interi reparti di strutture sanitarie (soprattutto quelli sperimentali) e socio-assistenziali e siamo fondamentali per cliniche e ospedali davanti ai tagli sempre più cospicui di spesa pubblica. Non ci sono limitazioni orarie giornaliere, non è prevista la possibilità di ammalarsi o di entrare in maternità, le fasce orarie e i giorni non sono regolamentate per cui ci si può trovare ad


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avere turni di tirocinio serali/notturni o in giorni festivi, così come per i tirocini curricolari non è prevista alcuna tutela della compatibilità degli orari con la frequenza delle lezioni e la preparazione degli appelli d’esame. Questi dati dimostrano l’impatto enorme che hanno i tirocini in termini complessivi sul sistema universitario, ma soprattutto la situazione drammatica in cui ci troviamo: un monte ore non trascurabile di lavoro vero e proprio e non retribuito, senza alcun diritto reale riconosciuto. Questo perché la regolamentazione in materia è veramente minima: non è obbligatorio il rimborso spese (solo quando previsto dalla regolamentazione regionale) e l’impresa o l’ente deve solo versare il corrispettivo per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e “dovrebbe” assegnare ai tirocinanti un tutor, le cui mansioni, molto spesso, non sono chiare. Si arriva così alla situazione paradossale per cui per le imprese, ma anche per il settore pubblico, è conveniente far svolgere parte del proprio lavoro ai tirocinanti piuttosto che a personale retribuito (e adeguatamente formato). Tramite questo fenomeno, noi studenti e tirocinanti, invece di ricevere una formazione tecnico-pratica che completi il nostro percorso di studi, ci ritroviamo ad essere ingranaggio del meccanismo che porta aziende e enti pubblici alla competizione al ribasso sui salari e alla dequalificazione dei servizi offerti. Questo dilagare del fenomeno dei tirocini non è finalizzato a migliorare la nostra formazione, ma è frutto dell’idea malata per cui le scuole e le università debbano piegarsi alle esigenze del mercato (o peggio delle singole aziende), formando così lavoratori iper specializzati e a forte rischio di disoccupazione tecnologica sul lungo periodo. Crediamo nel valore formativo dell’esperienza e nelle potenzialità che come metodologia didattica può esprimere, ma tutto questo non può avvenire senza uno statuto dei diritti degli studenti e delle studentesse in tirocinio che contenga un codice etico per tutelare dagli abusi. Apice di questa visione ideologica e mercificante della formazione è il piano del governo di inserire a partire dal prossimo anno accademico le cosiddette lauree professionalizzanti, che prevedono un intero anno di tirocinio in azienda e la partecipazione dell’azienda stessa alla definizione dell’intero percorso didattico degli studenti. E’ tempo di liberarci dallo sfruttamento e sbarazzarci di questa visione mercificante e svilente della nostra formazione! Quali prospettive? Vogliamo tirocini di qualità, con un piano formativo ben definito e un tutor che sia formato e pagato per seguirci e guidarci nell’apprendimento. Vogliamo una revisione complessiva dei tirocini previsti (o obbligatori) nei nostri corsi di studio, sostituendoli se necessario da attività laboratoriali svolte nelle università e maggiormente adatte a una formazione ad ampio raggio come dovrebbe essere quella universitaria. Vogliamo diritti garantiti durante il tirocinio, orari compatibili con il nostro percorso di studi, rimborsi per tutte le spese sostenute. Vogliamo essere coinvolti negli organismi che stabiliscono le convenzioni con le aziende, attraverso l’istituzione di commissioni paritetiche. Vogliamo un reale servizio di orientamento verso i tirocini che preveda anche la raccolta di opinioni di chi li ha frequentati negli anni passati. Vogliamo una normativa nazionale e regionale stringente che ci tuteli veramente.


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RICERCA Così come gli studenti e le studentesse in tirocinio risultano essere l’ultimo anello della catena dello sfruttamento all’interno dell’università, negli atenei del nostro Paese le parole d’ordine risultano ancora essere precarietà e sfruttamento. Da anni ormai le attività di ricerca e di insegnamento, che contribuiscono in modo determinante al funzionamento degli atenei, sono sulle spalle di figure la cui condizione di precarietà lavorativa va ad incidere sia sullo svolgersi della didattica sia sull’attività di ricerca. I due fattori che maggiormente hanno influenzato il cambiamento nel mondo della ricerca negli ultimi anni sono stati la cronica carenza di finanziamenti e una logica valutativa attenta solo al prodotto finito e fondata su un meccanismo premio-punitivo. In questo quadro si inserisce il massiccio processo valutativo, ad opera dell’ANVUR, concretizzatosi in particolare con la VQR e con l’ASN, che hanno favorito non solo l’utilizzo di indicatori esclusivamente quantitativi ma anche la produzione intensiva a livello quantitativo a scapito della qualità. In tutto ciò si inseriscono le politiche messe in atto negli ultimi anni in materia di reclutamento, tra cui il blocco del turn-over, la contrapposizione tra nuove assunzioni e scatti di carriera, e il taglio al Fondo di Finanziamento Ordinario. Ha significativamente contribuito all’attuale condizione della ricerca il pesante blocco del turn-over che ha impoverito i dipartimenti di risorse umane e bloccato un ricambio generazionale necessario all’innovazione della ricerca stessa. Già al primo stadio della carriera di un ricercatore, quello del dottorato di ricerca, si incontrano le prime grandi difficoltà e le prime barriere all’accesso. Basti pensare alla figura del dottorando senza borsa, attualmente prevista dalla normativa italiana e esistente nella pratica a causa della riduzione del numero di posti di dottorato banditi nelle università italiane. La complessità del quadro aumenta però rispetto al numero delle figure post doc che rende la precarietà ormai il segno distintivo di una larga fetta della ricerca italiana, con un periodo lunghissimo che va dalla fine del dottorato all’immissione in ruolo. Una precarietà lavorativa amplificata da fondi destinati alla ricerca quasi completamente basati sulla realizzazione di singoli progetti di ricerca a discapito della ricerca di base. A partire dall’emanazione della Legge 240/2010, che ha abolito la figura del ricercatore a tempo indeterminato, la piaga della precarietà non ha fatto altro che aggravarsi. Oggi il numero di ricercatori precari, il cui lavoro quotidiano è fondamentale nelle attività di ricerca e didattica delle nostre Università, è nell’ordine delle 40.000 unità, a fronte di un organico di docenti con contratto a tempo indeterminato che è recentemente sceso al di sotto delle 50.000 unità. Nel complesso in questi ultimi otto anni l’Università italiana ha perso più di 13.000 posizioni a tempo indeterminato, solo in parte compensate dall’uso, anzi, dall’abuso delle varie figure di ricercatore a tempo determinato Tutto ciò si lega inevitabilmente al meccanismo di selezione del reclutamento e alle modalità con cui, tramite i punti organico, gli atenei governano il processo di assunzioni.


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In questo senso è più che mai urgente un piano di investimenti e di reclutamento, nonché una semplificazione e un riordino dell’attuale molteplicità delle figure pre-ruolo, in modo da evitare l’abuso di contratti precari e predisporre un percorso ragionevole per chi è intenzionato a dedicare la propria vita alla ricerca e alla didattica in Università, non solo per riportare l’organico degli atenei ai livelli necessari per garantire una didattica di qualità, senza numeri chiusi o altre barriere all’accesso e una produzione scientifica in grado di portare sviluppo e innovazione nel Paese, ma soprattutto per ridare una prospettiva di stabilità a coloro che hanno nella ricerca e nel mondo accademico le proprie aspirazioni e aspettative lavorative. Per il riscatto dell’Università I dati che oggi rappresentano la condizione dell’Università pubblica e della formazione nel nostro Paese ci parlano di una posizione dell’Italia tra le ultime a livello europeo, a partire da un bassissimo numero di laureati nel nostro Paese, un investimento in università e ricerca molto limitato, un numero di docenti insufficiente rispetto al numero di studenti all’interno dei nostri atenei e una condizione di precarietà di tutte le figure lavorative dell’università, a partire dal numero di precari della ricerca, fino al personale docente e tecnico amministrativo. I dati ci parlano inoltre di tasse universitarie molto elevate e dell’estrema scarsità di investimenti per il diritto allo studio. La condizione dell’Università pubblica italiana, derivante da anni di riforme che hanno impoverito e definanziato la stessa e ne hanno smantellato la sua funzione sociale, ci parla di una scarsità di risorse complessiva che colpisce in modo trasversale ogni componente della comunità accademica dagli studenti al personale docente: nessun investimento e nessuna risorsa per garantire agli studenti e alle studentesse borse di studio e posti alloggio, 20.000 ricercatori esclusi dalla stabilizzazione a tempo determinato, impossibilità di far fronte agli scatti stipendiali del personale docente e il mancato rinnovo del contratto per il personale tecnico amministrativo, e un funzionamento degli atenei molto spesso appaltato a personale esternalizzato, tramite l’utilizzo di cooperative, a cui non vengono garantiti diritti e retribuzione adeguata. Un sistema universitario in ginocchio da anni che non solo ha subito le conseguenze del definanziamento strutturale dovuto alle riforme degli ultimi anni, ma che non vede alcun tipo di inversione di rotta per uscire da questa situazione di emergenza. Il testo della Legge di Bilancio dimostra come non esista la volontà di far fronte a nessuna delle questioni centrali che oggi affliggono il sistema universitario se non cercando di dare risposte marginali e residuali rispetto alle reali esigenze che oggi risultano centrali per tutte le componenti accademiche. È necessario invece un ripensamento globale e complessivo delle politiche universitarie che affronti, in primis, la questione del finanziamento complessivo, tramite l’aumento significativo del Fondo di Finanziamento Ordinario, che possa avvicinare il nostro Paese alla media europea. È necessario rimettere al centro la qualità della ricerca e della didattica nonché delle condizioni di lavoro delle figure che ad oggi vivono in una condizione di precarietà contrattuale


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tramite un piano straordinario di reclutamento di ricercatori per ringiovanire e aumentare la numerosità della docenza universitaria, con l’obiettivo di adeguare il rapporto numerico studenti/docenti del nostro sistema universitario a quello degli altri paesi europei. È necessario garantire l’accesso a tutti e tutte ai gradi più alti della formazione tramite maggiori investimenti sul diritto allo studio universitario, sulla residenzialità universitaria per eliminare ogni tipo di ostacolo economico e rendere realmente sostenibile il percorso universitario. È necessario uscire dal sistema di competizione tra Atenei, Dipartimenti e lavoro di ricerca. È necessario infine riportare una ragionevole equità di trattamento economico dei docenti universitari e del personale pubblico non contrattualizzato e rinnovare il contratto del personale contrattualizzato all’interno dei nostri atenei Il rifinanziamento complessivo del sistema universitario e il ripensamento delle politiche universitarie degli ultimi anni è un’urgenza ormai non prorogabile. È per questo che il 24 novembre bloccheremo gli atenei del Paese con una mobilitazione generale di tutte le componenti dell’università, non solo in risposta alla Legge di Stabilità ma per un ripensamento complessivo del sistema universitario del nostro Paese che possa rimettere l’Università al centro del dibattito pubblico e del nostro Paese. Accesso all’insegnamento: #iovoglioinsegnare. Migliaia e migliaia sono gli studenti e le studentesse universitari, ed i precari giovani e meno giovani, interessati ad accedere al percorso per diventare insegnanti nelle scuole pubbliche secondarie, che in questi mesi si sono incontrati in decine e decine di assemblee negli atenei del paese, per informarsi e mobilitarsi in vista del nuovo concorso/corso FIT. Se la nuova modalità di accesso è senza dubbio migliore rispetto ai vecchi modelli, costosi per gli aspiranti insegnanti e vere e proprie industrie di precariato, non mancano anche nel FIT dei profili di problematicità. E’ stato chiesto, infatti, ad una platea amplissima di acquisire 24 cfu in materie socio-antro-psico pedagogiche e metodologie didattiche per poter accedere al futuro concorso: gli atenei, in condizioni di difficoltà economica strutturale e senza nessun finanziamento specifico per l’attivazione dei corsi, hanno provato ad inventare stratagemmi per ottenere introiti o ridurre le spese, o peggio, come sta accadendo soprattutto al sud, a non aver ancora strutturato i percorsi, a discapito di studenti e laureati. Non si conoscono ancora tempi certi ed ufficiali dell’uscita del bando, e la condizione di insicurezza ed incertezza prosegue anche per quanto attiene ai posti che verranno messi a disposizione, con il rischio che per alcune classi di concorso siano numeri irrisori. Il Governo parla di investimento sui giovani e di lavoro per gli under 30, ma nel settore della scuola l’aumento dell’età pensionabile, il blocco del tourn over e la vergogna delle classi pollaio in cui un docente insegna a 40 studenti, ci indica il contrario. Non c’è una vera volontà politica di costruire un ricambio generazionale nelle scuole d’Italia. Avere docenti formati, nelle condizioni di poter insegnare e valorizzati sul profilo anche salariale, è interesse non solo di chi ambisce a questa carriera, ma del paese tutto. La condizione della docenza è cartina di tornasole sulla salute del paese, poichè indice degli investimenti sul futuro: la scuola! La svalutazione del ruolo dell’insegnante è tangibile anche dal fatto che per il primo anno del corso FIT viene prevista una retribuzione di soli 400€ al mese: una cifra ridicola che non solo non permette la sopravvivenza, ma costruirà una vera e propria selezione di censo, in quanto solo coloro i quali partono da condizioni agiate potranno permettersi una retribuzione tan-


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to bassa. Ancora una volta queste misure penalizzano il mezzogiorno, che i dati ci indicano come la zona con maggiore presenza di aspiranti insegnanti, quasi sempre futuri emigranti al nord, ma anche quella con i redditi piĂš bassi. Il 24 novembre le partecipate assemblee avvenute in tanti atenei si riverseranno nelle piazze, per denunciare la #retribuzioneFITtizia a cui vogliono obbligarci, per pretendere certezze nei tempi e nei posti messi a bando, ma soprattutto per rivendicare investimenti pubblici nella scuola e nella formazione dei docenti, convinti che siano tante le spese inutili da poter tagliare per dare spazio alle esigenze che rappresentano un ivestimento per tutti e tutte.


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