Liberi tutti! - Studenti contro le mafie #21M 2018

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INTRODUZIONE Studenti e studentesse da anni scendono in piazza insieme a tante e tanti altri il 21 Marzo per la “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti di mafie”: come Rete della Conoscenza, Unione degli Studenti e Link - coordinamento universitario anche quest’anno saremo nelle piazze organizzate da Libera a Foggia e in tutta Italia. Ogni anno l’elenco delle vittime di mafia continua ad allungarsi, si aggiungono nuovi nomi a quelli delle donne e degli uomini ricordati dai familiari e da centinaia di migliaia di persone in occasione di questa giornata. Ma non sono solo le vittime ad aumentare: in un Paese in cui al di là di provvedimenti spot e promesse non ci si interroga realmente su come combattere la povertà, l’inaccessibilità della formazione, la dispersione scolastica, la devastazione dei territori, le mafie trovano terreno fertile. Ogni anno sempre più studenti vengono espulsi dai percorsi formativi perché non possono permetterseli, sempre più giovani sono costretti ad accettare di lavorare in condizioni di sfruttamento, sempre più persone entrano in condizioni di povertà e vedono calpestata la propria dignità. E sta a tutte e tutti noi togliere alla mafia il terreno sotto i piedi, a partire da conoscenza, verità e giustizia, ricostruendo alternativa e legami di solidarietà. A partire da Foggia, a partire da Sud ma non solo, perché è sempre più chiaro come il fenomeno mafioso non riguardi solo il meridione ma tutto il Paese, perché è sempre più urgente lottare contro le diseguaglianze per liberarsi dalla subalternità e dal controllo criminale dei territori, e riprendere parola e decisionalità. Dopo dieci anni, la tappa nazionale del 21 marzo torna di nuovo in Puglia, a Foggia. Arriva la giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie nel foggiano in un contesto tornato assai violento con il termine della pax mafiosa durata dal 2008 al 2015 tra i vari clan della zona (basti pensare al noto assassinio di San Marco in Lamis della scorsa estate). La mafia foggiana da qualche anno è tornata a mostrare la sua vera essenza, dimostrando di essere la mafia più brutale e sanguinosa del Paese, con tratti primitivi, collezionando decine di omicidi e centinaia di estorsioni (8 imprenditori foggiani su 10 pagano il pizzo). A Foggia la guerra di mafia è una guerra di leadership: la mafia foggiana è caratterizzata da cicli, inizialmente ci sono momenti di compattezza che permettono di collaborare e gestire le enormi risorse economiche illecite, poi però, sorgono i rancori e iniziano le lotte al vertice. Negli ultimi anni, però, possiamo vedere come le mafie foggiane si siano anch’esse adeguate ai parametri delle mafie più comunemente note diventando “mafie degli affari” e trasformandosi in sede fissa e sicura per la delocalizzazione degli affari illeciti delle altre organizzazioni mafiose italiane. In un clima di omertà, silenzio e paura – quale è quello foggiano – i clan si sentono ancora più forti e agiscono indisturbati: nella Provincia di Foggia i numeri di esplosioni davanti agli esercizi commerciali, estorsioni e richieste di pizzo sono inversamente proporzionali alle denunce fatte dalla cittadinanza. Allo stesso tempo, a costruire questo clima prolifico per le organizzazioni mafiose sono le stesse Istituzioni del territorio che non immaginano percorsi di contrasto alla criminalità organizzata ma, al contrario, minimizzano la questione o la ignorano. Ne è un esempio lampante la decisione del Comune

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di Foggia – poi giustificata come un “disguido burocratico” dallo stesso Sindaco Landella – di non costituirsi parte civile nel processo “Corona” contro importanti esponenti della Società Foggiana. L’evoluzione delle organizzazioni criminali foggiane in una mafia dei colletti bianchi ha permesso alle stesse di ottenere facilmente protezione e controllo sociale del territorio. La provincia di Foggia – ma in generale il contesto pugliese - è tra le province d’Italia con le percentuali più spaventose: 1 giovane su 2 è disoccupato, quasi la metà della popolazione è a rischio povertà, il 20% delle famiglie è in stato di povertà e 1 studente su 3 non termina il ciclo di studi. La mafia, dunque, rappresenta una via facile per tutti quei ragazzi e quelle ragazze che non possono permettersi gli studi, non trovano lavoro, non riescono ad autodeterminarsi nella propria terra. La poca conoscenza del fenomeno mafioso nel foggiano e la sottovalutazione dello stesso ha permesso alla criminalità organizzata di radicarsi perfettamente nel territorio. Risulta essenziale, però, il lavoro che le associazioni svolgono sul territorio per contrastare le organizzazioni mafiose. La lotta è appena iniziata ed è sempre più necessario riuscire a modificare il substrato culturale, pienamente contaminato dai modi di fare criminali delle mafie foggiane, e porre le basi per l’emancipazione collettiva delle comunità. In un contesto ad altissima percentuale di esclusione sociale ripartire dalla conoscenza, costruire reti di solidarietà, impegno e lotta contro le mafie, per un’istruzione realmente gratuita e accessibile a tutti e tutte, un sistema di welfare realmente inclusivo e la costruzione di processi di autodeterminazione diventa una via necessaria per il riscatto del territorio e del popolo che lo abita. In questo senso, la tappa nazionale del 21 marzo a Foggia diventa un faro su una questione poco illuminata del nostro Paese, a provare a costruire – partendo dalla conoscenza del fenomeno – processi di denuncia collettiva e liberazione dalle logiche mafiose.

LIBERIAMO LA CONOSCENZA Le Mafie sono anche e soprattutto un fenomeno culturale e affondano le proprie radici grazie a un vero e proprio processo di penetrazione e pervasività nella società. Partendo da questo assunto, è necessario pensare a risposte concrete che riescano ad andare nella direzione della riscoperta del valore della cittadinanza attiva, del senso del vivere insieme, continuare ad immaginare e praticare una società che rifiuti in maniera netta la mentalità mafiosa: in questo schema i luoghi della formazione hanno un ruolo fondamentale. La cultura e la formazione in generale sono nodi essenziali nella costruzione di un argine e di una lotta reale alle mafie. Riteniamo infatti indispensabile non solo evitare qualsiasi rapporto economico con la criminalità organizzata ma anche il disconoscimento da parte della società del codice mafioso in tutte le sue “sfumature” (la violenza, il clientelismo, il ricatto, il meccanismo del privilegio…) e la costruzione di un’alternativa sociale ed economica credibile al modello che le mafie hanno instaurato e gestiscono su molti territori. Abbiamo bisogno di una società che dal basso e proprio a partire dalle scuole e dalle università dichiari guerra alle mafie e si riappropri di potere sulla propria vita e sul proprio territorio. Dobbiamo essere l’alternativa, un modello alternativo da esportare, da raccontare, da costruire. Sappiamo che troppo spesso i dati allarmanti della dispersione scolastica, che raggiungono i preoccupanti livelli del 15% (a fronte dell’impegno preso dall’Italia all’interno della strategia Europa 2020 del 10%), con punte fino al 30% nelle regione del Sud -specialmente Calabria e Sicilia-, sono collegati con quelli dell’aumento della microcriminalità, circoscritta a livello locale e alimentata dagli stessi giovani

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senza alternative e in balia della precarietà. Ad oggi , sono sempre più deboli gli anticorpi culturali e le opportunità di realizzazione individuale e collettiva che impediscono a un ragazzo, a 15 anni, di fare il “palo” di uno spacciatore o a qualsiasi uomo o donna di affiliarsi presso un clan, un’azienda di copertura mafiosa, che sfrutta i lavoratori a nero in tutta Italia.. Recuperare queste condizioni di base è dunque fondamentale per poter ricostruire il terreno dove praticare la giustizia sociale. Se da un lato la risposta securitaria dello Stato è assolutamente inadeguata e rischia di essere complementare più che antagonista rispetto ai meccanismi mafiosi di controllo del territorio, dobbiamo individuare nelle politiche messe in campo su scuole e università precise responsabilità nell’incapacità di includere gli individui nel percorso formativo e nel socializzare modelli alternativi a quelli delle mafie. I luoghi della formazione, dunque, devono poter diventare dapprima un presidio e un luogo di aggregazione e parallelamente di formazione; un luogo dove crescere culturalmente, professionalmente, umanamente, dove si riconquista il ruolo centrale della partecipazione attiva, del senso critico e dello sviluppo delle inclinazioni e delle capacità di ognuno. Questo è il primo obiettivo concreto che noi soggetti in formazione dobbiamo perseguire per costruire l’alternativa alle mafie e al controllo sociale che esse esercitano sulla società. Tutto questo passa in primo luogo dal cambiamento delle condizioni materiali degli studenti e dei cittadini; un cambiamento che consenta di svincolarsi dalle logiche individualiste, della concorrenza sfrenata a discapito di tutti e tutto, che è peculiarità del sistema capitalista in cui viviamo. In questo senso diritto allo studio universale e reddito di formazione sono rivendicazioni prioritarie; assieme alla trasformazione radicale dei paradigmi della didattica e della valutazione. La scuola in Italia non è gratuita, secondo uno studio di federconsumatori solo per le spese relative ai libri di testo e al corredo scolastico si aggira ai 688,33 € per i libri e 522€ per il corredo a queste spese vanno aggiunti gli abbonamenti ai trasporti e il contributo volontario che spesso nelle nostre scuole diventano obbligatori. Un’istruzione gratuita per tutti e di qualità è un primo passo per ridurre la dispersione scolastica e fare delle nostre scuole e delle nostre università un presidio di socialità e di giustizia. L’innovazione delle forme della didattica passa in particolare anche dalla valorizzazione dell’alternanza scuola lavoro di qualità come processo di apprendimento nel mondo del lavoro, a patto che sia congruente con i percorsi formativi, informato da un codice etico al quale aderiscono le strutture ospitanti e da uno statuto dei diritto delle studentesse e degli studenti in stage. Gli studenti devono poter decidere sui percorsi di alternanza che mettono in campo le scuole, e soprattutto è necessario un forte controllo da parte di studenti, docenti e uffici scolastici sulle aziende che ospitano progetti di alternanza. Noi rigettiamo la possibilità di fare esperienze di alternanza scuola lavoro in aziende che hanno legami conclamati con le organizzazioni di stampo mafioso, che non rispettano i diritti dei lavoratori e che inquinano i nostri territori.

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L’importanza dell’introduzione di percorsi di formazione che educhino alla conoscenza del fenomeno mafioso è fondamentale a tutti i livelli della formazione, non è possibile auspicare un futuro libero dal fenomeno mafioso che non investa in una conoscenza piena del fenomeno. Molteplici esempi virtuosi di corsi di studio che abbiano una particolare attenzione al fenomeno mafioso sono presenti in alcuni atenei del paese ma non è chiaramente sufficiente. Le varie declinazioni che assumono le associazioni mafiose richiedono un’attenzione che vada al di là delle esperienze territoriali, e diffondano una conoscenza piena del fenomeno mafioso che parta sì dall’analisi dell’ambiente circostante, ma che sia di contro anche in grado di comunicare la portata pervasiva delle associazioni mafiose, anche lì dove meno ce lo si aspetta. Per far ciò, è necessario che scuole e università agiscano all’unisono, strutturando un percorso di formazione che educhi alla capacità di riconoscere il fenomeno sin dalle scuole superiori, per poi approfondirne la conoscenza nel contesto universitario, al fine di fornire a tutte e tutti gli strumenti atti a conoscere, riconoscere e debellare la criminalità organizzata, attraverso l’applicazione di tutti gli ambiti del sapere. Facciamo quindi delle scuole e delle università dei presidi di giustizia sociale, dei luoghi di esercizio di cittadinanza. La gratuità dell’accesso alla formazione è il primo passo in questo senso: è a partire da saperi liberi, accessibili a tutti e di parte, impegnati, che si potrà sferrare un colpo decisivo alle mafie. E’ necessario che le istituzioni scolastiche e universitarie diventino dei veri e propri presidi di democrazia e giustizia sociale, degli anticorpi alle mafie in grado di contaminare in un processo virtuoso il tessuto socio-economico circostante.

LIBERIAMO iL lavoro La crisi economica che abbiamo attraversato ha rappresentato per il nostro paese il capro espiatorio dello smantellamento delle tutele nel mondo del lavoro. Se proviamo a confrontare la narrazione che il governo Renzi ha dato e delle sue riforme con la fotografia della situazione economica e sociale all’interno del nostro Paese il risultato è allarmante. In Italia la popolazione povera è quantificabile in 10 milioni di individui di cui oltre 6 milioni in povertà assoluta, cioè impossibilitata ad accedere a quei beni e servizi che assicurano un minimo di dignità umana. Lo certifica l’ISTAT ed è la cifra di 5 anni di politiche di austerità e di tagli al welfare e ai servizi essenziali. Mentre da un lato si continua a raccontare di una lunga fila di multinazionali e di imprenditori pronti a sbarcare nella Penisola, in attesa solamente dell’abolizione dell’art. 18 e di un ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro per poter poi liberamente investire e creare milioni di posti di lavoro, non ci si rende conto di quella che è la geografia delle tipologie contrattuali, e dei relativi drammi umani e sociali. E’infatti ridicolo affermare, a fronte delle 46 tipologie contrattuali di cui una sola tutelata dall’art. 18 e solo in aziende con più di 15 dipendenti, che il problema della disoccupazione è un problema di “rigidità” dell’accesso o di uscita dal mercato del lavoro. E’ necessario ribadire invece come l’eccessivo utilizzo di forme contrattuali atipiche sia una delle principali cause della disoccupazione giovanile (44.2%, il dato più alto di sempre) e del ritorno di un fenomeno che pensavamo aver lasciato nei meandri della storia pre-novecentesca: la povertà da lavoro. Oggi molti di coloro i quali hanno un lavoro, se così si può definire al netto dell’assenza di diritti e di tutele e della spesso discutibile utilità sociale, non sono affrancati dalla povertà e non riescono ad emanciparsi, socialmente ed economicamente, attraverso il salario. La retorica del processo di precarizzazione del mondo del lavoro poggia sulla dicotomia tra flessibilità del lavoro e occupazione.

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In sostanza, le prospettive dei governi degli ultimi anni parlavano di crescita dell'occupazione di qualità attraverso l'abolizione dell'art.18 e l'utilizzo di sgravi fiscali per le imprese che investivano in assunzioni. Il dato che ci riportano queste politiche sono 600000 contratti a tempo determinato in più nel nostro paese nell'ultimo anno: la precarizzazione produce lavoro di bassa qualità, generando una concorrenza spietata tra le imprese sull'abbassamento dei salari e sull'aumento dell'orario di lavoro, non sull'innovazione. Nello stesso periodo, a fronte di una narrazione che continua ad asserire che non esiste ricchezza nel nostro Paese o che essa risiede nei risparmi familiari, c’è stato un enorme spostamento di questa stessa ricchezza dal basso verso l’alto; basti pensare che in Italia, per fare un esempio eclatante della sperequazione economica in Italia, 10 persone dispongono di un patrimonio pari a quello di 500.000 famiglie operaie (Censis). E’ quanto mai evidente dunque che quella in cui viviamo è una stagione in cui i cosiddetti “sacrifici” vengono imposti solo alla parte più debole della popolazione a favore di una ristrettissima cerchia di elite che gestiscono nei loro interessi le politiche economiche e sociali del nostro Paese. Questa precarizzazione e atomizzazione del mondo del lavoro, unita alla depressione economica, negli ultimi anni ha evidenziato una crescita esponenziale di nuove e radicate forme schiavitù sui territori. Se le pratiche di sfruttamento dei caporali prevedono: mancata applicazione dei contratti di lavoro, un salario di poche decine di euro al giorno, orari tra le 8 e le 12 ore di lavoro, violenza, ricatto, sottrazione dei documenti, imposizione di un alloggio e forniture di beni di prima necessità, le speculazioni mafiose arrivano a 17,5 miliardi di euro: su più di 8000 aziende ispezionate sul settore il 30% dei dipendenti vive e lavora in piena irregolarità.La nuova legge sul caporalato introduce la sanzionabilità anche del datore di lavoro e non solo dell’intermediario, prevede l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità, l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, la confisca dei beni, in alcuni casi. Nell’elenco degli indici di sfruttamento dei lavoratori aggiunge il pagamento di retribuzioni palesemente difformi da quanto previsto dai contratti collettivi territoriali e precisa che tali contratti, come quelli nazionali, sono quelli stipulati dai sindacati nazionali maggiormente rappresentativi. Il provvedimento prevede l’assegnazione al Fondo antitratta dei proventi delle confische ordinate a seguito di sentenza di condanna o di patteggiamento per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro e estende le finalità del Fondo antitratta anche alle vittime del delitto di caporalato: le due situazioni sono ritenute simili e spesso le stesse persone sfruttate nei lavori agricoli sono reclutate usando i mezzi illeciti come la tratta di esseri umani. E' fondamentale che le misure di sostegno e di tutela del lavoro agricolo siano potenziate con investimenti strutturali provenienti dalla confisca di beni e fondi mafiosi, potenziando la rete del lavoro agricolo di qualità, che dovrebbe raccogliere, certificare e “bollinare” le aziende virtuose e un piano per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori stagionali. E' necessario inserire in questo quadro il ruolo dell'istruzione, risulta evidente quella che è la costante neoliberista della subordinazione della scuola alle esigenze del mercato del lavoro. Da un lato la questione dei tirocini per il mondo universitario e dall’altro la questione dell’alternanza scuola lavoro per l’istruzione secondaria superiore.Oggi i riferimenti normativi nazionali e le discipline regionali dei tirocini curriculari sono deboli e non tutelano gli studenti e le

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studentesse che durante il percorso di studi intraprendono un progetto di tirocinio. Non solo si denunciano svariati fenomeni di sfruttamento, ma il dilagare di finti tirocini che mascherano veri e propri rapporti di lavoro ci pongono di fronte a una realtà di abuso strutturale che snatura il nostro studio e apprendimento. Infatti ci si avvale spesso della manodopera di studenti tirocinanti in sostituzione di personale qualificato e contrattualizzato. Non esiste uno statuto che garantisca i nostri diritti, malattia, maternità, tutor universitario e aziendale, rimborso spese, compatibilità con esami o con l’orario di lezioni se previste nello stesso semestre. Inoltre dentro ai nostri Atenei e dipartimenti non esistono commissioni paritetiche che monitorino in più fasi (iniziale, in itinere, ex post) il controllo della coerenza tra progetto formativo e attività svolte e che definiscano criteri per l’accreditamento degli enti ospitanti dove si pratica il tirocinio, come il rispetto della compatibilità ambientale e dei diritti dei lavoratori. La Buona Scuola ha rappresentato la volontà governativa di educare le generazioni allo sfruttamento, alla dequalificazione e anche alla specializzazione monouso utile a Industria 4.0. E’ evidente come si è voluto creare un canale di precarizzazione tra istruzione e mondo del lavoro ignorando il fatto che per rispondere alla disoccupazione giovanile che sta al 35% nel nostro Paese. L'alternanza scuola lavoro si è inserita proprio in quest'ottica: nata come metodologia per garantire sostanza alla didattica è diventata strumento di indirizzazione al mercato del lavoro. L'ultima legge di stabilità ne palesa l'evidenza con l'inserimento di sgravi fiscali per le aziende che assumono studenti e studentesse che hanno svolto più del 30% delle ore di alternanza nei propri luoghi di lavoro, inserendoli completamente in quelle che sono le dinamiche precarie delle tutele crescenti. Oltre alla sfera della precarietà è necessario evidenziare quelli che sono i rischi di svolgimento di attività in aziende poco trasparenti. Sono molteplici i casi di contemporaneità di cassa integrazione per operai, di assenza di formazione permanente, di appalti poco chiari e protocolli di alternanza nella stessa azienda, sempre nell'ottica della massimizzazione del profitto. Rivendichiamo la necessità della scrittura di un codice etico in alternanza scuola lavoro per garantire un piano vertenziale di lavoro sui territori, garantendo così strumenti di tutela per gli studenti e le studentesse e strumenti di denuncia per lavoratori costretti a vivere condizioni di sfruttamento e alienazione.

LIBERIAMO Le citta' Negli anni abbiamo potuto constatare una duplice evoluzione del fenomeno mafioso, che tocca sia le modalità di azione e di sottomissione di una parte della comunità locale, sia un’espansione territoriale e di governo delle nostre stesse città. Per quanto riguarda il cambiamento nelle modalità di azione, vediamo come ad oggi ad un uso della violenza che sta tornando sempre più in auge si stia accostando una crescita controllo dei territori tramite corruzione e mezzi economici. Per quanto riguarda il secondo filone evolutivo, se in passato vigeva un tacito accordo tra mafia e politica, di governo di alcuni settori, come quello degli appalti, oggi si può constatare una vera e propria infiltrazione di questi nella politica locale, in modo da non più influenzare una decisione, ma prenderla, sostituendosi totalmente al governo locale. A riprova ci sono i tanti casi di scioglimento di giunte comunali nel Nord Italia; e il caso Aemilia è quella che più ha avuto notorietà nazionale, ribadendo che il fenomeno mafioso si è espanso con il passare degli anni fino ad arrivare ai governi territoriali del Nord del nostro Paese, ribadendo che la mafia non salva niente e nessuno.

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Ad aprire il vaso di Pandora di questa evoluzione è stato il caso di “mafia capitale”, che partendo dalla corruzione dell’organo politico e amministrativo cittadino romano, ha visto con il passare degli anni sempre una maggiore influenza e in seguito infiltrazione negli organi comunali di persone legate alla ‘ndrangheta territoriale, sia a livello di decisore politico sia a livello di esecutore della macchina burocratica, influenzando per primi i contesti sociali più svantaggiati. Se il contesto romano è balzato agli onori della cronaca, non significa affatto che si tratti di un caso isolato: esso piuttosto è emblematico, nelle sue diverse sfaccettature, delle cause e delle conseguenze del crescente radicamento della mafia sui nostri territori. La mafia che amministra le città e le regioni è la stessa che si sostituisce allo Stato nell’erogazione di servizi, nell’assicurazione di un lavoro. E’ per questo che la sua forza aumenta proporzionalmente alla crescita delle diseguaglianze, che nel nostro paese e non solo raggiungono livelli sempre più inaccettabili. Il 5% più ricco della popolazione italiana possiede ben il 40% della ricchezza totale: è giustizia questa? Come si può pensare di costruire una società differente senza partire, in primo luogo, da una radicale lotta alle diseguaglianze? Da una lotta contro la povertà, e non contro i poveri, da una lotta contro i soprusi e le ingiustizie, e non contro chi rientra nello stigma del “disagio” in delle città sempre più votate al dogma del decoro? Se la risposta è stata quella della militarizzazione e della repressione, come testimoniato dai decreti Minniti-Orlando, possiamo affermare che la direzione da intraprendere è diametralmente opposta. La guerra feroce tra ultimi e penultimi, incoraggiata da politiche distruttive nei confronti di qualsiasi forma di tutela e diritti, non vede vincitori se non coloro che sulle diseguaglianze, sulla povertà, sullo sfruttamento continuano a speculare. Sono gli stessi che decidono sui nostri territori in virtù dei loro profitti, gli stessi che fomentano odio e violenza verso il “diverso”, che mascherano razzismo e xenofobia con l’assistenzialismo. La risposta a tutto questo è urgente e necessita di essere radicale, e sta nelle nostre mani: non possiamo permetterci di lasciare che siano mafia e fascismo a rispondere a questi bisogni, spostando l’attenzione dai problemi reali e riversandola su chi sta peggio, su chi è escluso. Non sono infatti noti da oggi i legami tra mafia e fascismo. Già in passato sono arrivate all’attenzione della cronaca le connessioni di soggetti facenti parte di organizzazioni a stampo mafioso, e la destra fascista eversiva presente nel nostro paese. Queste connessioni hanno portato un’azione all’interno delle nostre città che ha visto la saldatura di questi due fenomeni, confondendo le azioni degli uni e degli altri in un unico disegno criminoso. In sostanza: i militanti di estrema destra sono diventati il braccio armato dei mafiosi, e i mafiosi il braccio economico dell’estrema destra. Questo ha portato ad un sempre maggiore controllo delle periferie e delle zone con gravi disagi sociali, da parte di queste due; monopolizzando interi settori dell’ economia malavitosa; costituendo, inoltre, accordi di divisione di influenza sui territori tra le varie bande mafiose e tra le organizzazioni fasciste con cui esse scendono a patti.

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Esempio lampante di tutto questo è il caso del clan Spada e del sodalizio con CasaPound, che ha visto questi ultimi ottenere ragguardevoli risultati elettorali a Ostia, proprio grazie all’appoggio del clan, facendo leva non solo sui disagi presenti nel territorio, ma anche sulla sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni (visto che appena due anni prima la giunta municipale era stata sciolta per infiltrazioni mafiose). In un contesto come quello descritto, nel quale le diseguaglianze, la violenza, l’esclusione e le ingiustizie avanzano, possiamo e dobbiamo ridisegnare le nostre città. A partire dalle periferie, quelle sociali e quelle geografiche, dai quartieri dormitorio, dalle zone universitarie. Laddove l’azione delle amministrazioni è sempre più orientata a ricostruire l’immagine delle città nascondendo la polvere sotto il tappeto, sta a tutte e tutti noi costruire una narrazione e un’azione radicalmente diversa. Ripartire dalle periferie significa rifiutare la logica dei quartieri vetrina contrapposti ai quartieri ghetto e guardare invece al loro reale potenziale, sono piene di vita, testimoniano che le città vivono contraddizioni e disuguaglianze fortissime al loro interno e ripartire da esse significa raccontarle, parteciparle, viverle. Ridare vita a ciò che viene spesso da un bisogno non ascoltato, e ridare dignità. Perchè ogni volta che la mafia risponde al posto delle amministrazioni ai bisogni della cittadinanza, o peggio risponde attraverso di esse, non è dignità quella che si sta dando a chi ha già subito ingiustizie. Per questo il bisogno di aprire e ripopolare spazi e presidi in questi luoghi, dar vita a laboratori di buone pratiche contro il saldo radicamento delle mafie. Costruire una lotta política e sociale che parta dal basso e dalle istanze dei cittadini, partendo dal ruolo fondamentale che ha la conoscenza in contesti di disuguaglianze, per sensibilizzare e coscientizzare la cittadinanza e fornire strumenti emancipatori. Le pratiche mutualistiche sono quindi strumenti fondamentali per costruire antimafia sociale e far fronte ai problemi della cittadinanza: per ogni nuovo spazio aperto, per ogni biblioteca sociale, per ogni ripetizione o mercatino del libro scolastico organizzato, ci sono decine e decine di studenti ai quali si consentirà non solo l’accesso alla conoscenza, ma l’impegno concreto, l’incontro, la partecipazione. In città nelle quali l’individualismo e l’assenza di luoghi collettivi sono sempre più la norma, rispondere a questo con la socialità e l’aggregazione significa dotarsi di anticorpi forti nel contrasto alle mafie: riscoprire la dimensione della collettività e ricreare un senso di solidarietà collettiva, per determinare e cambiare l'esistente.

LIBERIAMO iL FUTUro ‘Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. La mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.’ Così citava Giovanni Falcone, da allora molte cose sono cambiate. Da allora possiamo dire che è cambiato tutto, che le mafie colpiscono tutte e tutti, che ci hanno tolto tutto, che la politica di questi anni ha prodotto tutto il nichilismo e la rassegnazione di più generazioni che non immaginano, che non creano, che non mettono in discussione il presente. Da questa rassegnazione, conseguenza del ricatto sociale ed economico che ogni giorno ci troviamo a vivere, delle sempre più crescenti diseguaglianze, nasce la violenza. Violenza che è stata al centro del dibattito delle ultime settimane, a cui fa da cornice la banalità del dibattito che ne è scaturito. La questione “emergenziale” delle baby gang, del “ritorno” delle camorre che sparano, delle paranze dei bambini e del culto della violenza. Ebbene la politica ha risposto che la soluzione sta nella maggiore sorveglianza e nel criminalizzare chi si macchia di questi atti, senza interrogarsi su cosa li ha causati e senza chiedersi da dove nasce il culto della violenza. Il dibattito

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mediatico ha prodotto il peggio che ci si potesse aspettare: “è colpa di Gomorra” “sbattiamoli in carcere con tutta la famiglia, e buttiamo la chiave” “riduciamo l’età punibile” sono le risposte propinate da politica e opinionisti, ma la domanda che nessuno si è posto è sempre la stessa: qual’è la causa? La violenza che abbiamo vissuto negli ultimi fatti di cronaca è il frutto della violenza della società e del modello economico in cui viviamo, dello stato di abbandono in cui vivono i nostri territori, della speculazione che subiscono quest’ultimi, della mancanza di quei diritti sociali che dovrebbero essere, da costituzione, alla base dello Stato. Questi diritti sociali non ci sono garantiti, i servizi annessi sono sempre più privatizzati e per pochi, e questo genera il ricatto per cui chi ha la possibilità economica di poter accedere ai suddetti ha diritto a vivere dignitosamente, mentre chi non può permetterseli è costretto a vivere a stenti, a tirare a campare, o a scegliere la logica del profitto facile, della violenza e della criminalità. Ma la soluzione secondo la politica non è di certo quella di ripartire dalla giustizia sociale, la soluzione è controllo e criminalizzazione, che vediamo bene come negli ultimi anni abbiano creato solo problemi. In Italia il 70% di chi ha subito provvedimenti coercitivi è tornato a delinquere nel giro di 2 anni, questo dato ci aiuta a fare specchio della realtà. In alcune zone del Sud Italia (prendendo Napoli come esempio dati gli ultimi accadimenti) l’abbandono scolastico arriva a picchi del 33% (quasi uno studente su tre lascia la scuola dell’obbligo), interi rioni sono sprovvisti di scuole, queste ultime non hanno alcun legame col territorio ergendosi a scuole di eccellenza e dall’alta offerta formativa, con un prezzo da pagare che non tutti possono permettersi. Dai libri di scuola al contributo volontario l’istruzione pubblica pone dei limiti a chi non può permettersela, vincoli economici che pesano sulle spalle delle famiglie. Questa situazione fomenta le diseguaglianze culturali, economiche e sociali di chi vive i nostri territori, le quali vanno a fomentare la violenza, la guerra tra poveri e il bacino d’utenza della criminalità organizzata. E’ inutile e troppo facile fare appelli paternalistici al buon senso e alla morale, puntare il dito contro le famiglie e rivolgersi alle coscienze, tutto questo non cambierà le cose di una virgola se non si danno i mezzi a chi vive i nostri territori di mettere in discussione il sistema mafioso uscendo dal ricatto economico e sociale a cui sono sottoposti, pur di riuscire a campare. Per questo pensiamo che bisogni ripartire da quei diritti sociali quali il diritto allo studio, al lavoro, al reddito universale, alla salute e all’inclusione sociale; bisogna ripartire dai luoghi della formazione, intesi come presidi attivi di antimafia sociale, palestre di democrazia e strumento di emancipazione dalla logica del profitto facile e dalla logica mafiosa, aprendo questi alla cittadinanza, al quartiere, oltre l’orario curriculare. Bisogna ripartire dal diritto allo studio per tutte e tutti con una legge nazionale che regoli le prestazioni minime che l’istruzione pubblica è tenuta a dare e finanziare realmente quelle leggi regionali che già esistono, ma che non sono mai state finanziate. Solo rendendo le nostre scuole sicure, laiche, solidali e a misura di studente potremmo dire di aver liberato il futuro e di aver compiuto il passo più lungo verso la lotta alle diseguaglianze e alla criminalità organizzata.

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LIBERIAMO LA TERRA Le modalità con le quali il fenomeno mafioso si declina nel rapporto col territorio, non riguarda esclusivamente il controllo militare dello stesso e le sue manifestazioni più evidenti, che canonicamente risultano più evidenti in quanto si verificano all’interno del contesto quotidiano degli agglomerati urbani, causando anche una maggiore esposizione dei fatti di cronaca e la possibilità comunque di puntare a creare reti di solidarietà. Alcune delle manifestazioni non necessariamente più recenti, ma che negli ultimi anni hanno iniziato ad acquisire un particolare rilievo mediatico, sono quelle del caporalato e delle ecomafie. Il 20 Luglio 2015 morì Abdullah Muhamed, il 47enne sudanese stroncato dal caldo a 40° gradi delle campagne del Salento raccogliendo i pomodori. Il suo caso non è stato né il primo né l’ultimo, e ci deve ricordare come tale fenomeno, permeante i contesti agricoli del Salento, del Foggiano,dell'area campana e calabrese, trova terreno fertile là dove esistono contesti di totale assenza di diritti e riconoscimento fondamentali, da parte di chi subisce la condizione di sfruttamento. Il termine schiavitù non è inesatto o esagerato per definire il fenomeno del caporalato, anzi, è perfettamente calzante per descrivere questo fenomeno. Senza partire da un ragionamento che tenga in conto le esigenze di giustizia sociale e tutela della salute degli individui tutti, a prescindere dalla loro condizione di cittadinanza e a prescindere dalla propria condizione economica, non si potrà mai sperare di eradicare o scalfire il fenomeno delle agromafie, che forti dell’ascesa di un discorso pubblico semplificatorio e xenofobo rispetto i temi dell’immigrazione, riesce ad insinuarsi alla base della filiera produttiva agroalimentare e conseguentemente, anche attraverso la grande distribuzione. Un altro fenomeno mafioso legato a doppio filo col territorio e letteralmente con la terra, è quello delle ecomafie. L’esperienza della Terra dei Fuochi, ha rivelato la portata di un business milionario di smaltimento illegale di rifiuti speciali e non che non si esaurisce in Campania. La capacità delle mafie di introdursi all’interno della filiera dello smaltimento dei rifiuti sia in modo istituzionale, quindi pilotando gli appalti, sia attraverso la gestione diretta dello smaltimento da privati, ha permesso che questo business venisse gestito non solo a discapito delle normative vigenti, ma danneggiando in modo quasi irreparabile l’ecosistema circostante. Emblematico è il caso della stazione della TAV di Afragola: una grande opera che venne presentata come elemento logistico fondamentale per il rilancio del sud italia, che è stata però realizzata su terreni nei quali erano state sepolte scorie tossiche. Questo nonostante la bonifica che si sarebbe dovuta realizzare, e invece, è adesso un inamovibile sarcofago di cemento su un’area inquinata, dove la bonifica non è poi purtroppo stata mai realizzata. È palese quindi come dietro la narrazione di un’importanza strategica cruciale per lo sviluppo del paese di una grande opera, si venga a creare il rischio di un appiattimento del dibattito rispetto i rischi della stessa. Questo restringimento dello spazio democratico di critica, finisce per svilire qualsiasi obiezione venga posta, col risultato che nel momento in cui i nodi vengono al pettine è ormai troppo tardi: chi doveva illegittimamente guadagnare ha già guadagnato, mentre a stato e collettività non rimane che porre rimedio ai danni di una situazione che poco tempo prima non poteva essere messo in discussione senza essere accusati di disfattismo.

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