Documento politico LINK - Coordinamento Universitario

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1 – VINCERE DENTRO LA CRISI, GLI SPAZI DEL POSSIBILE. All'apice della crisi economica, politica, democratica, ambientale e sociale non si può non ripensare il ruolo dei soggetti di opposizione sociale e ridefinire orizzonti, obiettivi e senso delle battaglie che conduciamo. Siamo cittadini di un mondo in declino, che per sopravvivere prova a comprimere diritti, demolire speranze, consumare bisogni. Tutto ciò avviene mentre le forze politiche e sociali di alternativa non sono mai state così deboli, non solo in Italia, ma in tutto l'opulento Occidente. Quel che di vivo alcune soggettività sociali, nelle proprie forme organizzate e di movimento, riescono a mettere in campo viene costantemente sottoposto a processi di assorbimento, normalizzazione, repressione. In questa fase non si può quindi non chiedersi cosa voglia dire “resistere”, “ribellarsi”, “costruire l'alternativa”, “produrre cambiamento”, ma soprattutto cosa voglia dire “vincere”. Prima ancora dei rapporti di forza pesa l'analisi del campo su cui si gioca la partita. La democrazia italiana è senza dubbio l'espressione avanzata di un processo transnazionale che vede il superamento delle forme classiche della democrazia rappresentativa tipica degli stati nazionali, una forma di governo evidentemente più espressione di un potere oligarchico che della sovranità popolare, ma che fino a ieri quantomeno garantiva forme di mediazione tra le istituzioni e le istanze sociali e le lotte che ne derivavano. Oggi, seppur in forme differenti, in tutto il mondo occidentale, si è chiuso questo spazio. Le post-democrazie non modificano solo il grado di relazione tra singolo e rappresentanza politico-istituzionale, ma incidono profondamente sui processi collettivi e la loro possibilità di produrre cambiamento. La delocalizzazione delle imprese da un lato, dall'altro la delocalizzazione della democrazia, intesa come trasferimento dei processi decisionali dalle istituzioni rappresentative alle élite economiche globali e come crisi della governance, mostrano quanto la globalizzazione e i processi da essa innestati portino povertà, ricattabilità, rabbia e frustrazione. Il ruolo dei soggetti sociali organizzati, in questo quadro, deve tener conto dell'indeterminatezza degli interlocutori. Se il Parlamento è svuotato di funzioni, il Governo è succube dei flussi internazionali del capitale, dell'economia finanziaria e degli organismi sovranazionali, chi è la nostra controparte? Chi può rispondere alle nostre istanze? Chi dobbiamo costringere ad ascoltarci? Governi appariscenti e impotenti o organismi inafferrabili e potentissimi? La crisi economica, a partire dal 2008, ha impresso un'accelerazione ai processi di dismissione del settore pubblico già in atto, che limitano i margini per la contrattazione sociale. Se le Regioni, gli enti locali e gli atenei son sempre più privi di risorse a causa dei tagli del Governo centrale, quale spazio rimane per microvertenzialità e lotte territoriali? Dentro questa crisi democratica ed economica, dentro le sue conseguenze sociali, serve ridefinire obiettivi e percorsi, consapevoli che la trasformazione radicale della società, oggi più che mai necessaria, passa da una lotta di lungo periodo capace di intessere alleanze sociali vere. Per questo in tutte le contraddizioni delle crisi dobbiamo saperci inserire per riaprire spazi di possibilità per il cambiamento. Spazi reali per cambiamenti reali. Sono proprio questi cambiamenti reali che rappresentano la nostra idea di vittoria. Rifiutiamo ogni logica strumentale che relega il cambiamento dell'esistente nello spazio dell'immaginario, in cui ci si può permettere di essere radicali fino all'estremo per incitare alla mobilitazione senza mai dover fare i conti con i suoi risultati reali, con il solo risultato di creare nuova frustrazione. L'autunno 2010, grazie a una determinazione straordinaria e a una capacità strategica del movimento studentesco, inseritosi nella crisi di Governo, ha sentito la vittoria come possibile. Dobbiamo però sapere che ci siamo inseriti in una crisi di Governo tutta interna al campo del centrodestra, lanciandoo la sfida “governo precario, generazione precaria: vediamo chi cade”, e ora, a mesi di distanza, dobbiamo prendere atto che siamo ancora qui, entrambi, più precari che mai. Berlusconi mantiene saldo il proprio ruolo proprio grazie al meccanismo ormai puramente formale della fiducia parlamentare, garantita da un radicato fenomeno di corruzione: la maggioranza a sostegno del Governo si amplia di settimana in settimana. Questo avviene nonostante gli scandali, la


crisi economica e l'indebolimento della figura del presidente del consiglio, abbandonato dallo stesso establishment mediatico-finanziario. Da un lato, quindi, Berlusconi resta in sella nonostante la crisi oggettiva del suo governo, contando proprio sull'autoreferenzialità del sistema e sulla debolezza del centrosinistra. Dall'altro, il blocco sociale che l'ha sostenuto per 20 anni ora lo abbandona sul piano degli scandali e dell'efficacia dell'azione governativa ma ne difende il nucleo neoliberista e antisociale, in attesa di trovare un cavallo migliore su cui puntare. In Italia, cresce di giorno in giorno la consapevolezza di vivere in un sistema autoritario nella sostanza, che rimane però democratico nella forma. Se in quelle che Talmon definiva democrazie totalitarie “tutto è politica, ma la società è spoliticizzata”, potremmo dire che nella democrazia autoritaria in salsa italiana si è spoliticizzata anche la politica, e si tende sempre più a spoliticizzare ogni forma di opposizione sociale, che può manifestarsi solo sotto forma di superficiale insofferenza nei confronti del capo del governo e non di reale alternativa di sistema. Quando i tempi sono incerti, le variabili diventano molteplici e gli scenari rimangono ipotetici. In una situazione del genere non ci si deve limitare ad attendere evoluzioni, bensì bisogna introdurre altre variabili e nuove sistemi di lotta, ipotizzare nuove strade. In particolar modo in una fase in cui il Governo accresce la propria stabilità in Parlamento, in un tempo in cui è saltata ogni possibilità di mediazione reale tra istanze sociali e istituzioni, ha senso continuare a definire le nostre mobilitazioni solo in termini oppositivi? Non possiamo più farci definire l'agenda dagli spazi e dai tempi della politica malata di questo paese, non possiamo più pensare che i cicli delle mobilitazioni siano dettati dai temi che i partiti di maggioranza o i giornali dell'opposizione decidono di porre all'agenda pubblica. La costruzione di un'alternativa di scuola, di università, di società, è quindi, al tempo stesso, esigenza politica e strategica. Se il movimento dei movimenti, nei primi anni del terzo millennio, aveva costruito la propria prospettiva sull'orizzonte, seppur astratto, di un altro mondo possibile, negli ultimi anni i movimenti sociali si sono espressi sulla base del rifiuto della propria condizione, dell'affermazione della propria dignità, della rabbia e dell'indignazione, anche mettendo insieme soggetti sociali differenti tra loro, accomunati dalla dimensione del ricatto. Serve ricostruire una connessione tra prospettive e motivazioni, consapevoli che la rabbia non è una categoria politica e che i ricattati non sono un soggetto sociale, ma che rabbia e ricatto, sono prodotti del capitalismo e delle sue contraddizioni con la democrazia. Se la democrazia soccombe al capitale, quest'ultimo produce crescenti meccanismi di ricatto, mentre la crisi della democrazia produce frustrazione, senso d'impotenza, o rabbia, che per quanto “degna”, non produce automaticamente cambiamento. A differenza della fase immediatamente successiva all'Onda, dopo la mobilitazione dell'autunno 2010 si è scongiurata una diffusa sensazione di sconfitta, a partire dalla consapevolezza che il confine tra vittoria e sconfitta non passa dall'approvazione o meno di una legge, che sia la L.133/08 o la riforma Gelmini, ma si inserisce dentro processi e tempi lunghi. Ogni mobilitazione, ogni grande stagione di movimento, così come una piccola esperienza di lotta, in quanto processi collettivi producono, indipendentemente dai loro esiti vertenziali e immediati, passi concreti in avanti verso l'orizzonte, che anche quando non trasformano in profondità la realtà modificano la composizione sociale delle lotte, i rapporti di forza, rendendo possibile all'onda successiva di essere ancor più forte. La nostra è una lotta che non può vivere solo nel breve periodo, l'ansia di futuro deve fare i conti con la necessità di vincere fino in fondo. Oggi per noi vincere non può limitarsi a ”prendere il palazzo”, anche perché i processi di governance globale hanno ridotto la quota di potere che risiede in quei luoghi. Se non vogliamo che il sistema sostituisca questo tiranno con uno meno appariscente ma non meno feroce, dobbiamo sapere che non serve rovesciare il tiranno, serve rovesciare i rapporti di forza. Dobbiamo sapere che non è possibile vincere nella politica se perdiamo nella società, che nessuno potrà riscattarci se chi vive la nostra condizione sociale è sconfitto tutti i giorni dal ricatto della precarietà. Dobbiamo mettere tutte le nostre energie nell'allargamento degli spazi di contraddizione di questo sistema, spazi in cui il cambiamento che immaginiamo può essere


sostenuto dal consenso e concretamente realizzato, ponendo le basi per nuovi percorsi, sempre più ampi. Dobbiamo indicare la strada del cambiamento senza illuderci che sia breve, e dobbiamo iniziare a percorrerla senza scorciatoie, tenendo lo sguardo dritto verso l'orizzonte e senza aver paura di abbattere gli ostacoli che abbiamo di fronte, con paziente determinazione e impaziente indignazione.

2 - LA QUESTIONE GENERAZIONALE E LA GENERAZIONE PRECARIA “L'Italia è un Paese di vecchi che odiano i giovani e le donne. Ma giovani e donne votano per una classe dirigente di uomini vecchi e quindi il cerchio si chiude. Il progressivo rimbecillimento della nazione si compie senza conflitti generazionali.[...] Vi sta bene? Si fa davvero fatica a capirvi. Certo, tutta quella televisione assunta fin dalla prima infanzia deve aver fatto parecchio male.” [Curzio Maltese, il Venerdì di Repubblica, 2 luglio 2010] Nel luglio 2010 Curzio Maltese scriveva così a proposito della “questione generazionale” in Italia, scatenando un dibattito (rintracciabile sul blog http://ribelliamoci.blog.espresso.repubblica.it/) che ha dato spazio a diversi interventi, in una riflessione pubblica di un pezzo della nostra generazione. A seguito di quell'estate, nelle università abbiamo vissuto una fase di movimento dai tratti inediti, costruita su iterazioni di modalità del passato e da innovazioni imprevedibili. Abbiamo deciso fin da subito di non limitarci a porre il problema di una singola, per quanto devastante riforma, ma di affermare che l'attacco ai saperi è parte della attacco totale alla società, è un esproprio di futuro per la nostra generazione. Nel momento di massimo apice della protesta studentesca, sono stati gli stessi mass media a rimarcare questo aspetto, aprendo un dibattito - più o meno strumentale, più o meno semplicistico - sul tema della precarietà. Persino il Presidente Napolitano è stato costretto a dare largo spazio al tema del futuro e dei giovani all’interno del suo discorso di fine anno. Eppure, nonostante le semplificazioni da parte dei mass media, complice anche l’immediata costruzione di un percorso comune con i lavoratori della conoscenza e gli operai metalmeccanici, il movimento studentesco è riuscito a evitare che la discussione sulla precarietà fosse declinata in un’ottica prettamente “giovanilista”. L’analisi costruita nei nostri atenei è anzi riuscita a focalizzare il nesso tra le politiche gelminiane e quelle di Marchionne, non soltanto rispetto al tema del “ricatto” nei confronti dei soggetti (studenti,lavoratori della conoscenza, operai) costretti a subire le pesanti conseguenze della crisi economica, ma anche nella precarizzazione totale e comune delle vite, a partire da una riduzione verticale dei diritti acquisiti e della certezza di prospettive future. Il percorso costituente di LINK e della Rete della Conoscenza si è aperto con uno slogan “hanno rapito il nostro futuro: riprendiamocelo!”. Questo è stato il leit motiv di tutto l'autunno 2010. Uno slogan che non si limita a costruire immaginario, ma ridefinisce un orizzonte largo di azione, che va oltre il contesto universitario e si apre alla questione sociale; un orizzonte che parla di welfare e precarietà, modello produttivo e alternativa di società, di rifiuto di guerra tra poveri, della costruzione di un mondo più giusto per cui lottare. Abbiamo più volte ribadito che la questione generazionale è una questione sociale, e di certo non una questione di costume, come spesso è stata dipinta dai media. Abbiamo affermato che ad unire la generazione precaria non è tanto un dato anagrafico, ma piuttosto l'unica cifra che ci unisce è la precarietà, del lavoro e delle nostre vite. La grande menzogna di chi collegava l’aumento della flessibilità all’aumento della occupazione è svelata dai fatti. Gli ultimi dati Istat sono drammatici: la disoccupazione è tornata a livelli di otto


anni fa, arrivando tra i giovani quasi al 29%; il numero di laureati che trovano lavoro dopo la laurea è diminuito drasticamente, a riprova di quanto la flessibilità non abbia affatto agevolato forme di inserimento nel lavoro. Luciano Gallino ha definito la precarietà esistenziale da un lato come la limitata o nulla possibilità di formulare previsioni e progetti sia di lunga sia di breve portata riguardo al futuro, dall’altro come l’impossibilità di accumulare un’esperienza professionale solida e trasferibile con successo da un datore di lavoro all’altro. L’insicurezza economica aggrava questa condizione esistenziale di “eterno presente”: senza una fonte di reddito sicura, molte scelte diventano difficili, troppo rischiose per essere affrontate. Ne sono così influenzate anche decisioni affettive come convivenze, matrimoni, la maternità e la paternità, o affittare un appartamento, ottenere un prestito, contrarre un mutuo. La precarietà implica una condizione di ricattabilità che lede alcuni diritti fondamentali, conquistati con anni di battaglie sindacali, come lo sciopero, la cassa integrazione, la malattia e la pensione. Le politiche di flessibilizzazione e di liberalizzazione del mercato del lavoro sono un fenomenale flop delle politiche per risolvere il problema disoccupazionale. Per troppo tempo si è detto che la flessibilità avrebbe permesso una maggior occupazione (ancor di più per l'accesso dei giovani del lavoro). Questa teoria non ha alcuna base empirica, oggi più che mai essa non trova alcun fondamento nella realtà. Anzi che aumentare l'occupazione si abbassano i salari dei lavoro e si annientano le rappresentanze sindacali rendendo la posizione del lavoro precaria. Aumentano le occupazioni più dequalificate e non si stimola un economia innovativa e di sviluppo qualitativo. Importante ci sembra sottolineare il legame che esiste fra le discriminazioni di genere, già fin troppo presenti nel nostro Paese, e la precarietà. Non soltanto l'Italia può vantare un'occupazione femminile inferiore al 50%, un gap salariale del 23% e una percentuale bassissima di possibilità di ricoprire incarichi di vertice, ma è anche il Paese europeo in cui le donne stanno maggiormente scontando il peso della precarietà, con il 73,4% di co.co.pro., una perdita del posto di lavoro superiore al doppio di quella degli uomini e dei tempi di inattività molto più lunghi rispetto a quelli dei loro colleghi maschi. Se a tutto questo aggiungiamo lo smantellamento del welfare e il conseguente aumento di lavoro non retribuito (che ad oggi pesa ancora quasi tutto sulla parte femminile della popolazione), risulta fin troppo evidente come la lotta alla precarietà diventa un'esigenza fondamentale per il raggiungimento di una reale emancipazione sociale ed economica delle donne. L'assenza di diritti e di tutele sul lavoro, infatti, insieme all'impossibilità di godere di una continuità di reddito, impone alle donne di dover scegliere troppo spesso fra vita privata e vita lavorativa, fra famiglia e lavoro, eliminando ogni possibilità di conciliazione di entrambe. Nella giungla della precarietà e dello sfruttamento, le donne sono le prime a soccombere, anche lì dove la qualità degli studi e dei titoli formativi è più alta. Sappiamo bene che la precarietà non è un prodotto metafisico, ma risulta sia da processi globali di cambiamento dei sistemi produttivi e di accumulazione di capitale sia da specifici provvedimenti

legislativi (il pacchetto Treu, la legge 30, il collegato lavoro, ecc.). Per questo le nostre rivendicazioni devono saper tenere insieme questi due livelli: da un lato nuovi interventi legislativi che cancellino le forme contrattuali atipiche, dall'altro un nuovo welfare universale che sappia ridurre il dumping sociale e salariale e restituire forza e autonomia alle persone sul piano della partecipazione sociale. Sotto lo slogan “il nostro tempo è adesso” il 9 aprile molti comitati di precari e precarie hanno posto il tema della precarietà come questione sociale e hanno costruito una giornata di mobilitazione che ha visto scendere in piazza insieme gli studenti e i precari in tante città d’Italia, contribuendo, seppur in maniera parziale, all'emersione di una soggettività sociale invisibile. Perché questo percorso abbia realmente successo, ora, va superata la dimensione meramente evocativa. C'è bisogno di costruire connessioni con percorsi già avviati, per quanto settoriali e/o minoritari, di intercettare i precari all’interno dei loro luoghi lavorativi e di formazione, di guardare a un orizzonte più ampio di quello della singola mobilitazione, di interrogarsi e saper proporre forme alternative concrete di sciopero per tutti i lavoratori non garantiti. Dobbiamo lavorare, tutti insieme, per dar vita a un meccanismo moltiplicativo di organizzazione di mobilitazioni congiunte


tra i comitati dei precari, il sindacato e i movimenti sociali, in primis il movimento studentesco. La soggettività precaria merita di esprimersi non solo in termini di denuncia di un disagio, ma anche e soprattutto come condizione sociale in grado di costruire percorsi reali di radicamento sociale, mobilitazione, rivendicazione e cambiamento. E siamo ben consapevoli che questo percorso deve avere l’ambizione di spostare l’asse, rompere gli assetti e aprire delle contraddizioni anche all’interno del mondo sindacale e soprattutto di quello politico, che sconta ritardi e complicità su questo tema. Dobbiamo rendere l'emersione dell'immaginario e della soggettività precaria come un elemento costante e strutturale delle nostre mobilitazioni, perché si pone come prioritario il tema di costruire l’alternativa alla fuga per tantissimi giovani che ogni anno lasciano questo paese. Nella “lettera dal confine” scrivevamo “Sappiamo che fuggire è semplice, basta salire su un aereo e non voltarsi a guardare. Sappiamo che è giusto restare, mettere in fuga voi, il vostro Governo, e costruire una concreta alternativa alla fuga. Noi stessi, noi studentesse e studenti, siamo l'alternativa alla fuga.” Siamo noi l'alternativa alla fuga, noi che ogni giorno costruiamo, a partire dai luoghi della formazione un’opposizione dal basso che prova a tenere insieme proposta politica e costruzione del conflitto. La precarietà non è staccata dal nostro percorso di formazione, attraversa le nostre vite, perché siamo studenti lavoratori, studenti part-time, lavoratori che rientrano nel ciclo continuo della formazione per reagire all'espulsione dal mercato o per migliorare la propria condizione, apprendisti che passeranno la loro vita in officina e dottorandi che fanno il lavoro dei docenti. Siamo stanchi della retorica sui bamboccioni, delle recriminazioni del ministro Tremonti e del Ministro Sacconi che ci invita a fare lavori umili, e respingiamo anche chi ci rimprovera con paternalismo di non fare abbastanza per ribellarci. Quest’autunno ha dimostrato che è possibile imporre i temi sociali all’agenda politica pubblica. Adesso è necessario imporre le nostre alternative concrete, in primis quella del reddito diretto ed indiretto, all’intera classe politica, sperando che il 9 aprile e lo sciopero generale siano un primo passo per la costruzione di un’alleanza stabile con tutti i soggetti che portano avanti le battaglie contro la precarietà lavorativa ed esistenziale nel nostro Paese. Quello che è emerso con forza, non è però solo la capacità di porre un tema sociale all'interno dell'agenda politica, condizionandola, ma anche e soprattutto la straordinaria determinazione collettiva, la capacità di ribaltare i canoni della politica. L''Onda era stata per una generazione il momento della riscoperta della politica, come qualcosa di cui troppo a lungo siamo stati espropriati, un'esperienza che aveva rotto i canoni classici di un'opposizione sociale sempre più antipolitica. Confrontarsi con la nuova fase aperta dal salto di qualità di quest'ultimo autunno ci impone di ridefinire le forme e le possibilità di ciascuna azione politica collettiva. In un quadro come quello attuale di profonda crisi democratica e di distanza tra rappresentanti e rappresentati, quel che emerge in seno alla nostra generazione, è un “rifiuto molto politico della politica”. Più la politica si conferma essere corruzione e avidità più si invertono i ruoli, più la politica istituzionale diventa espressione di antipolitica, più l'opposizione sociale si può riappropriare del senso vero dell'agire politico. Alla nostra generazione, alla generazione precaria, spetta questo arduo compito: ricostruire la democrazia, cambiare il presente, riprendersi il futuro, dirottarlo sui binari di equità e giustizia, essere concreta alternativa alla fuga.


3 - I GIOVANI E LE PROTESTE IN EUROPA E IN MAGHREB Il vento della ribellione soffia in tutto il Mediterraneo. Soffia spazzando via i regimi postcoloniali che controllano l'area da oltre 30 anni. Soffia spazzando via la teoria della «fine della storia», dell'immutabilità del quadro geopolitico uscito dall'89. Soffia spazzando via lo «scontro di civiltà» e tutti i luoghi comuni razzisti sull'inettitudine antropologica se non genetica di arabi e africani alla democrazia. Ciò che è successo nelle prime settimane del 2011 in Tunisia ed Egitto, contagiando poi, in maniera diversa, Libia, Bahrein, Yemen, Iran, ha un potere evocativo dirompente: milioni di uomini e di donne che decidono di prendere in mano il proprio destino e scendono in piazza, mettendo a rischio la propria stessa vita. Si tratta di fenomeni molto diversi, perché si tratta di territori molto diversi: l'Egitto è un paese con 77 milioni di abitanti, caratterizzato da una drammatica povertà e con una vita civile e culturale molto intensa, che ne fa da sempre il punto di riferimento per tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, mentre la Libia è un paese semi-desertico, le cui risorse naturali garantiscono il Pil procapite più alto dell'intero continente e una società ancora profondamente tribale, in gran parte estranea ai sommovimenti culturali globali. Gli stessi esperti che parlavano di una «generazione post-islamista» a proposito delle rivolte in Tunisia, Egitto e Iran, sono molto cauti nell'estendere questa definizione alla Libia, dove l'onda lunga dell'Islam politico sta arrivando ora. È ormai acclarato, inoltre, il ruolo attivo delle potenze occidentali nel sostenere questo o quell'altro soggetto all'interno della rivolta, nell'attirare l'attenzione dei media su alcuni eventi e non su altri, nel dipingere volta per volta un regime come più o meno autoritario e sanguinario. Di fronte a eventi così dirompenti, è difficile resistere alle suggestioni narrative, che, scegliendo un filo coerente di nessi causa-effetto in mezzo all'intricata complessità di movimenti di milioni di persone in un territorio, dal Marocco all'Iran, più abitato dell'Europa e grande più del doppio, ne dissolvono le ambiguità e ne semplificano la rappresentazione. E così gli eventi in Tunisia, dov'è in atto una grave crisi economica, vengono rappresentati come una rivolta per il pane, quelli in Egitto, dove c'è un partito unico, legato inscindibilmente con la potentissima élite militare al governo da decenni e vera detentrice del potere, come un movimento per la democrazia, quelli in Bahrein, dove un popolo a maggioranza sciita è governato da una monarchia sunnita, come una guerra di religione. E così i giovani libici che sparano granate contro i loro coetanei fedeli a Gheddafi sono rappresentati come rivoluzionari democratici mentre i ragazzi di Gaza che lanciano approssimativi qassam contro Israele sono dei fanatici terroristi. Cosa sarebbe successo se uno solo dei milioni di egiziani in piazza contro Mubarak avesse bruciato una bandiera americana o israeliana? Cosa sarebbe successo se un solo telegiornale, al mondo, avesse ritrasmesso i vecchi videomessaggi in cui Bin Laden invitava i giovani musulmani a rivoltarsi contro regimi corrotti come quello di Mubarak? E come mai nessuno l'ha fatto? Alcuni fatti evidenti però ci sono, e tre tra questi sono particolarmente interessanti. Il primo è la crisi dell'ordine mondiale post-1989, basato sull'egemonia americana e sul suo continuo rafforzamento simbolico e geopolitico nello scontro con regimi delegittimati sul piano della libertà e della democrazia. Il risiko delle risorse energetiche, di cui la concorrenza tra i gasdotti Nabucco e SouthStream, è solo il fenomeno più visibile, rende sempre più evidente i conflitti di interessi tra le diverse potenze occidentali, e la forza crescente di movimenti popolari in Medio Oriente che sanno tenere insieme componenti laiche, religiose e di classe smentisce la teoria dello scontro di civiltà. I due blocchi intorno a cui la dottrina Bush intendeva polarizzare le relazioni internazionali si sono sgretolati, e nuovi soggetti, sia regionali sia globali (come il BRIC) si affacciano sulla scena. I popoli arabi e nordafricani sono tra questi, e possono giocare un proprio ruolo, non incasellabile nel rigido schema che prevede da una parte la liberaldemocrazia occidentale e dall'altro la teocrazia integralista. Non a caso assistiamo a tentativi di riproporre anche nel mondo arabo meccanismi simili a quelli utilizzati nelle “rivoluzioni colorate” dell'Europa orientale, con la improvvisa criminalizzazione di regimi alleati quando diventano meno docili e la conseguente


creazione di coalizioni tra gruppi locali, servizi segreti e media internazionali, con l'obiettivo di conquistare sul piano della comunicazione globale la forza necessaria a imporre le proprie posizioni all'interno di un campo nazionale e, di conseguenza, di riallineare il paese in questione nel giusto schieramento internazionale. Tali meccanismi vanno adeguatamente analizzati e compresi, ma mai assolutizzati, se non vogliamo perdere la capacità di riconoscere una rivolta popolare quando la vediamo. Una rivolta è un fenomeno complesso, contraddittorio, in cui soggetti locali e globali perseguono interessi diversi. Ma, se avviene, è il segno di una condizione di disagio popolare reale, e dell'insufficienza del sistema politico ed economico a rispondervi. Per questo non possiamo farci accecare dal passato rivoluzionario di molti leader dell'area. Il loro bonus antimperialista, ormai, è esaurito. Soprattutto dopo che i suddetti leader l'hanno sperperato facendosi lautamente finanziare per decenni dagli exnemici occidentali. Tutte le contraddizioni accumulate per decenni da presidenti democratici che si prorogano a vita, leader islamici che reprimevano l'Islam, rivoluzionari antimperialisti che andavano a braccetto con Usa e Ue, sono esplose nel giro di poche settimane. E sono bastate poche settimane in più perché, come avevamo ampiamente previsto e denunciato, gli stessi che avevano sorretto Mubarak e Gheddafi fino al giorno prima, tornassero a parlare di democrazia e di diritti umani, da esportare anche con le bombe. Al tempo stesso, del resto, sono tornati a preoccuparsi che le immense ricchezze del sottosuolo mediorientale e il gigantesco nodo del controllo delle migrazioni non cadano in mano sbagliate. Noi non abbiamo dubbi: le mani giuste sono quelle dei ragazzi e delle ragazze che sono scesi in piazza questi giorni. Noi siamo con loro perché le ipocrisie sono cadute: non c'è libertà se un prete barbuto può dirmi cosa leggere o se un uomo d'affari straniero controlla la mia terra. Siamo con loro, perché tengano duro, perché la loro rivolta non sia strozzata da nessun papa e da nessun re, perché nessun neocolonialismo o fondamentalismo possa privarli del loro futuro. L'Italia, così come le potenze occidentali, ha avuto un comportamento estremamente ambiguo, Infatti questa essendo legata dai trattati di amicizia del 2008 alla Libia, avrebbe potuto sfruttare questo canale istituzionale per avviare una discussione diplomatica con il regime. Ciò non è stato fatto, l'Italia ha preferito "lavarsene le mani" sciogliendo immediatamente i trattati. Una volta preservata la propria immagine di potenza democratica, l'Italia non si è poi preoccupata di congelare immediatamente tutti i beni di Gheddafi, lasciando quindi a sua disposizione le sue risorse economiche. Altro atteggiamento, decisamente discutibile, riguarda la questione dei migranti. L'Italia è l'unico paese dell' Unione Europea che concepisce il reato di clandestinità, per giunta in contrasto con la direttiva europea del 2008/115/CE. Quale è stato l'atteggiamento del governo? Invece di adeguarsi alle normative europee e di prepararsi all' arrivo dei migranti, si è preoccupato di mettere in atto una strategia del terrore definendo questo flusso come una "invasione barbarica", che poi nella realtà si è tradotto nell'arrivo di 35.000 migranti in un paese di 60 milioni abitanti. Insostenibile poi la scelta dei CIE, centri di identificazione e di espulsione, come modelli di centri di accoglienza, che di fatto si sono trasformati in centri di detenzione, al cui interno ogni giorno vengono violati i diritti umani. All' interno di questi centri, sempre più affollati, i migranti non hanno diritto a nessun tipo di assistenza, che sarebbe invece necessaria, come quella legale o medica. Il secondo fatto, strettamente correlato al primo, è la significativa presenza di connotazioni sociali ed economiche all'interno delle proteste. I regimi di Ben Ali, Gheddafi e Mubarak, pur tra mille differenze, avevano in comune una vaga rivendicazione di continuità con il socialismo panarabo, non solo nei suoi tratti antimperialisti, ma anche nei suoi obiettivi egualitari. Quei regimi hanno tradito su entrambi i fronti, rendendosi complici, talvolta entusiastici (in particolare Mubarak) delle politiche dettate dal Fondo Monetario Internazionale. In questo le rivolte del Mediterraneo si legano, pur nell'innegabile diversità dei contesti, alle proteste europee, e segnano un dato che sembrava dimenticato: c'è un limite allo sfruttamento. C'è una soglia oltre la quale il livellamento verso il basso delle condizioni di vita, soprattutto in presenza di una lievitazione delle aspettative legata alla comunicazione globale, non può più essere tollerato.


Il riferimento alle aspettative globali ci porta al terzo elemento: il carattere generazionale delle mobilitazioni diffuse intorno al Mediterraneo. Le immagini provenienti dalla Tunisia, dall'Egitto e dall'Iran ci mostrano milioni di giovani come noi, con strumenti culturali e di comunicazione simili ai nostri, che si sono stufati di una realtà che non è alla loro altezza. Ragazzi e ragazze che sentono l'anomalia dei regimi che li governano come intollerabile, che non si considerano diversi da qualsiasi altro loro coetaneo su questa Terra, e che hanno deciso di dire basta. Come sempre, il capitalismo genera i propri seppellitori: la stessa globalizzazione che ha integrato in posizioni assolutamente subalterne nel sistema economico mondiale gran parte degli abitanti del pianeta, ha creato le condizioni per una globalizzazione delle aspettative di vita. I ragazzi del Nordafrica condividono almeno una parte dei consumi culturali e degli strumenti di comunicazione dei loro coetanei europei e americani, e non si sentono inferiori a loro. Questi ragazzi hanno deciso di ribellarsi non solo a una generazione di dittatori ottuagenari, ma anche e soprattutto al fatto che quella generazione si autoriproducesse per via ereditaria. Leader come Mubarak, Ben Alì o Gheddafi, infatti, per quanto dittatoriale fosse il loro dominio, potevano comunque contare, almeno in una certa fascia della popolazione, sulla legittimazione storica, sul fatto di essere ormai gli ultimi eredi delle guerre d'indipendenza, del nasserismo e del socialismo panarabo. Non è un caso che la rivolta sia divampata proprio quando questi vecchi leader erano sul punto di lasciare il timone ai figli, figure che di fronte alla popolazione incarnavano il massimo della corruzione e dell'ingiustizia. È doveroso, in ogni caso, che noi osservatori esterni di questi fenomeni geopolitici non prescindiamo da una considerazione complessiva delle possibili prospettive e di quegli elementi che riusciamo a trarre dall'analisi degli eventi, di là da qualsiasi più che positiva considerazione che la maggior parte delle rivolte contro i poteri forti detengono intrinsecamente. Non possiamo sostenere che il Medio Oriente si è finalmente liberato dalla tirannia dei suoi despoti solo perché Hosni Mubarak è stato fatto fuori. I giovani egiziani si sono resi conto che il processo di uscita dalla dittatura è ancora lungo, per questo molti di loro protestano tuttora senza però trovare riscontro nei grandi giornali progressisti, anche nel nostro paese. Ed ecco che giungiamo ad uno dei nodi più complessi della questione: come si può pensare che il medio oriente sia libero quando, il più feroce, corrotto, duraturo, gerontocratico e collaborazionista governo dell'area è ancora saldamente in sella? L'Arabia Saudita rappresenta davvero Il problema nell'area mediorientale: re Abdullah è il governante più vecchio del mondo (84 anni) e la sua dinastia è da decenni legatissima a governi e servizi segreti di mezzo Occidente (CIA, MI6, Mossad, ma anche l'ISI pakistano etc.) rei di aver soffocato in più di un'occasione i tentativi di creazione di stati democratici, lontani tanto dalle potenze atlantiche quanto dalle teocrazie. Egli è il vero avamposto filo-americano in Medio Oriente, e fin quando resisterà tutta l'area sarà maggiormente esposta a possibili contaminazioni. Un esempio di reale insurrezione giovanile proviene, guarda caso, dal luogo più martoriato, disilluso e tradito (dall'occidente e dal medio-oriente) del mondo: Gaza. Qui i ragazzi e le ragazze del “Free Gaza Youth” lanciavano a gennaio il loro Manifesto iniziando con un eclatante e pesantissimo: “Vaffanculo Hamas. Vaffanculo Israele. Vaffanculo Fatah. Vaffanculo Onu. Vaffanculo Unrwa. Vaffanculo Usa! Noi, i giovani di Gaza, siamo stufi di Israele, di Hamas, dell'occupazione, delle violazioni dei diritti umani e dell'indifferenza della comunità internazionale!“. Giovani politicizzati e poco inclini al islam politico, ben consci dei limiti politici e morali di Hamas e ancor più di Fatah, ma determinati nella loro quotidiana rivoluzione, hanno da tempo alzato la voce, imponendosi nel panorama di resistenza mediorientale quale gradita e sorprendente eccezione. La speranza è che, per una volta, la regola non venga confermata. Una riflessione ci sembra, quindi, doverosa: l'analisi delle questioni sociali mediorientali risulta quantomai complessa. Se è vero che moltissimi di questi paesi vivono un imponente deficit democratico in termini di diritti civili e politici (monopartitismo, diritto di famiglia e più in generale sistema giudiziario intriso di precetti religiosi oscurantisti, architettura strutturale dello Stato confusa con le gerarchie ecclesiastiche) lo è anche il fatto che essi necessitano in tempi mediolunghi non di “riforme concesse o calate dall'alto” bensì di autodeterminazione e partecipazione


nelle scelte democratiche, antidoti ottimali contro i rischi di eterodirezione delle lotte. Insomma ciò che conta, non è “la rivolta in sè”, ma “dove porta una rivolta”. Il parallelo tra il Nordafrica e l'Europa, semplicistico quando ipotizzato in termini di contagio rivoluzionario e insurrezionale per la cacciata dei tiranni, diventa più significativo quando si confronta una situazione condivisa da una parte dei giovani in entrambi i contesti, cioè un alto livello di formazione che il sistema economico, sociale e politico non è in grado di valorizzare ma invece umilia e frustra ogni giorno. E in entrambi i contesti, ora, l'alternativa è la stessa: questa parte di generazione cercherà di soppiantare l'attuale élite al potere, ereditandone i vizi strutturali, o sarà in grado di costruire un legame reale con il resto della popolazione, con l'obiettivo di costruire dal basso un cambiamento profondo?

4 – E L'ONDA DIVENNE MAREA: IL CICLO RECENTE DEL MOVIMENTO STUDENTESCO Il movimento studentesco dell'autunno 2010 verrà sicuramente ricordato per essere stato uno dei più dirompenti e radicali degli ultimi vent'anni, nonché quello che è riuscito a conciliare la radicalità con la capacità comunicative, dimostrando intelligenza strategica e politica, ma soprattutto per aver riaperto possibilità di conflitto e vittoria nel Paese. Per poterlo analizzare a fondo, tuttavia, è necessario non scinderlo dal ciclo di proteste iniziato nelle mobilitazioni contro il ddl Moratti del 2005 e poi attraverso la dirompente esperienza collettiva dell'Onda del 2008 e le occupazioni di maggio 2010. L’autunno di quest’anno sicuramente si pone in continuità rispetto al movimento dell’Onda del 2008, sorto a seguito dei tagli della legge 133, in particolare per la capacità di essere percepito come un movimento di rivolta generazionale all’interno del Paese. L'Onda è stato un movimento che è esploso, sorprendendo tutti, anche i suoi protagonisti, che ha vissuto molto anche di una trappola impolitica e di compatibilità sistemica da cui in molti provavano a svincolarsi, un recinto in cui la narrazione giornalistica provava a rinchiuderci. L'assenza di un nome evocativo a identificare l'autunno studentesco 2010 non è solo una nota a margine curiosa, ma un elemento su cui soffermarsi, esito di un rapporto maturo e non passivo con la stampa e i media in genere. I giornalisti indagavano provando a comprenderci, senza riuscire a sovradeterminarci, attribuendo nomi o idee. Non per rispetto della nostra autonomia, ma perché, banalmente, non eravamo previsti. Se l'Onda “ci è successa” e questo movimento lo abbiamo pazientemente “costruito” tutte e tutti con i rispettivi percorsi, è vero che, paradossalmente, siamo stati molto più dell'Onda un imprevisto, una variabile non compatibile con i programmi dell'establishment italiano. Non era previsto, né prevedibile per i più, che studentesse e studenti, che, per motivi anagrafici, sono figli dell'epoca del berlusconismo e della sua egemonia a-culturale, riuscissero a innescare uno dei più grandi processi di opposizione politica e generale alla classe politica di questo Paese. Non era previsto dai più un movimento studentesco marcatamente più politico e meno “studentista”, in quanto i temi della scuola, dell’università e della conoscenza si sono intrecciati immediatamente con quelli del lavoro, dei beni comuni, ricercando insieme una risposta generale ad un attacco generalizzato ai diritti fondamentali e alla democrazia. Non era previsto dai più che il movimento studentesco vivesse di più in diverse fasi, presentando un crescendo parallelo tra partecipazione, pratiche conflittuali e creazione di consenso, diversamente da quanto avvenuto nel 2008. Il movimento del 2010, inoltre, sviluppa immediatamente delle reti di relazione forte tra i vari soggetti del mondo della conoscenza (studenti medi, ricercatori, precari della scuola, precari della ricerca, dottorandi) e con le loro nuove forme organizzate, nonché con il movimento degli operai di Pomigliano e Mirafiori attraverso il sindacato metalmeccanico, senza dimenticare le connessioni con altri movimenti sociali e il forum dei movimenti per l’acqua


pubblica. All’interno di questo quadro possiamo da subito affermare come Link – Coordinamento universitario, attraverso la sua progettualità politica nella Rete della Conoscenza insieme all’Uds si sia da subito posto come piattaforma avanzata al servizio del movimento studentesco, rispettando la sua autonomia. Si deve infatti sottolineare come, la presenza palese delle organizzazioni sia stata un tratto saliente del movimento di quest’anno, tanto da segnare una discontinuità con il famoso concetto di “irrappresentabilità” che aveva marcato con tratto indelebile l’Onda del 2008. Il concetto di irrappresentabilità è stato rimodulato dal movimento in una risposta allo scollamento fra le lotte sociali e l’agenda politica del Parlamento: irrappresentabili dalla politica istituzionale, gli studenti hanno accettato e riconosciuto le strutture studentesche come componente importante di coordinamento delle mobilitazioni. Sicuramente Link – Coordinamento Universitario in questo è riuscito ad essere un buon esempio di connessione tra i processi reali dei singoli atenei e la necessità di coordinarli a livello nazionale, senza mai mettere in discussione la legittimità dei luoghi legittimi del movimento, che restano le assemblee. Un altro elemento che non è possibile trascurare è che le proteste del 2010 si sono sviluppate in un clima di proteste esteso anche negli altri Paesi europei, ricordiamo in particolare gli scioperi francesi contro la riforma delle pensioni e le radicali proteste degli studenti inglesi contro l’aumento delle tasse. Abbiamo da subito individuato nel tema dell’assenza di futuro il filo conduttore che ci legava a quelle proteste, così come successivamente abbiamo trovato lo stesso filo conduttore, in un contesto molto differente, le proteste in Tunisia e in Egitto. Questi elementi di analisi sono fondamentali per comprendere la narrazione delle giornate più importanti di mobilitazione di questo autunno. Così come risulta importante sottolineare l’importanza dell’analisi e della strategia elaborata a Riot Village sull’autunno, costruendo da subito una connessione forte con la Fiom, la Flc e Rete 29 Aprile nonché tracciando le prime tappe d’autunno come l’8 ottobre, la partecipazione studentesca alla manifestazione della Fiom del 16 ottobre e l’idea di un’assemblea nazionale il 17 ottobre a Roma. Proprio rispetto a questo risulta importante sottolineare la decisione di partecipare al percorso di Uniti contro la Crisi, un’esperienza che ha contribuito alla connessione tra una parte del mondo sindacale ed i movimenti sociali, principalmente quello degli studenti. L’esperienza di Uniti Contro la Crisi nasce all’interno la costruzione dell’assemblea del 17 ottobre e prosegue culminando in autunno con il lancio della giornata del 14 dicembre e proseguendo in primavera verso la costruzione di uno sciopero generale dal basso. L’autunno 2010 pertanto non nasce casualmente. Più volte abbiamo ripetuto che se l’Onda è stata figlia di una riscoperta di partecipazione collettiva, questo movimento è figlio delle sporadiche mobilitazioni del 2009, culminate nell’11 dicembre (periodo in cui la riforma era appoggiata in maniera bipartisan da maggioranza e parte dell’opposizione), della riorganizzazione dei ricercatori in particolare nella Rete 29 Aprile, delle occupazioni primaverili contro l’innalzamento delle tasse, tagli dei servizi e dei corsi di laurea negli atenei di Bari, Siena, Catania, Padova e Torino e delle mobilitazioni come “gli esami notturni” di luglio in grandi atenei come la Sapienza, ma anche di significative manifestazioni di piazza in atenei piccoli quali Salerno e Foggia. Tutti questi esempi erano sintomatici del fuoco del conflitto che già ardeva, nascosto sotto la cenere estiva. Particolare importanza ha rivestito la protesta dei ricercatori, iniziata nel periodo di maggio-aprile. “Indisponibili” a svolgere attività di didattica, hanno sconvolto molti atenei, rivelando come la maggior parte di essi si fondasse sul loro contributo non pagato, e soprattutto hanno mostrato come il fronte della protesta fosse non solo esteso agli studenti, ma anche ai ricercatori e perfino ad alcune parti dei precari della ricerca, riuscendo anche a svincolare una buona parte delle figure strutturate e non strutturate dalle logiche corporative che li avevano visti pressoché assenti dalle mobilitazioni degli ultimi anni. E come i ricercatori hanno ribadito la propria “indisponibilità”, così come i metalmeccanici hanno affermato che vi sono alcuni diritti che sono indisponibili, così anche gli studenti si dichiarano “indisponibili” a rinunciare ai propri diritti, indisponibili a cedere di fronte ai ricatti, indisponibili a pagare ancora una volta le conseguenze economiche reali di una crisi tutta


finanziaria e speculativa. Già da settembre con lo sciopero della fame dei precari della scuola davanti al Ministero e il rimando dell’inizio dell’anno accademico in molti atenei, ottenuto in alcune facoltà grazie al voto comune tra rappresentanti degli studenti e ricercatori e conseguenza diretta della protesta di quest'ultimi, le nostre università sono diventate luoghi di costruzione delle mobilitazioni. Le giornate del 4-5-6 ottobre si sono riempite di assemblee molto partecipate riuscendo da subito a connettere il tema dell’indisponibilità con quello dei tagli all’istruzione e della riforma Gelmini, riuscendo a catalizzare sulla data dell’8 ottobre lanciata dall’Uds anche la partecipazione degli studenti universitari. Il 14 ottobre, mentre si discute in Parlamento l’approvazione del ddl, mentre in tutta Italia le mobilitazioni assumono diverse forme, a Roma il movimento occupa la sede della Crui e il rimando dell’approvazione della legge determina un ulteriore rilancio della data del 16 ottobre, manifestazione della Fiom. Dall’8 ottobre al 16 ottobre il tema della connessione tra l’attacco al sapere come bene comune e quello al lavoro come bene comune e la difesa di altri beni come l’acqua pubblica diventa il nodo centrale che segna un allargamento delle rivendicazioni. L’assemblea del 17 ottobre lanciata dall'appello “Uniti Contro la Crisi” riesce ad essere questo e costituisce un motore propulsivo verso il 17 novembre, passando dalla partecipazione al corteo dei precari della scuola a Napoli il 30 ottobre. Il 17 novembre, giornata internazionale degli studenti diventa finalmente un passaggio fondamentale e partecipato del movimento, a differenza di quanto avvenuto nel 2008. Le piazze si riempiono nuovamente di studentesse e studenti, medi e universitari ma, giunti ormai al secondo mese di mobilitazioni, la stampa continua a negare le prime pagine alle proteste studentesche. Fondamentale in questa fase, pertanto, la denuncia pubblica di Link in merito al tagli del'89,54% al fondo nazionale per il diritto allo studio, che mette a rischio borse di studio, mense e alloggi, espellendo di fatto dall'università i quasi 200 mila borsisti italiani. Nelle stesse settimane prende corpo anche la Carovana dell'AltraRiforma, lanciato da LINK, Adi, Rete 29 aprile, Cpu, Flc e varie realtà locali, con l'obiettivo di costruire un'alternativa dal basso al ddl Gelmini. La prima tappa è il 21 novembre a Torino, all'interno dell'occupazione di Palazzo Campana. L’incontro diventa un momento importante di confronto tra diverse realtà universitarie protagoniste del movimento ed occasione di spunti di riflessione e di scambio che determinano un’ulteriore convergenza positiva per un coordinamento nazionale delle mobilitazioni. È l’inizio della fase più larga e più intensa di partecipazione dell’autunno 2010: il 24 novembre decine di facoltà in tutta Italia sono occupate e mentre il ddl viene nuovamente discusso e la sua approvazione rimandata, gli studenti attraversano le città con cortei selvaggi; a Roma viene inaspettatamente assediato il Senato. E' l'irruzione nella scena pubblica, non solo simbolicamente, del movimento studentesco, che rompe il silenzio e apre un mese intenso di mobilitazione. La visibilità e la forza del movimento aumenta ancora più il 25 novembre con l’occupazione simultanea dei monumenti in diverse città d’Italia. Sono le giornate in cui gli studenti paralizzano le città e ricevono applausi dagli automobilisti e dai cittadini e in cui l'occupazione di monumenti come la Torre di Pisa, il Colosseo a Roma, la Mole Antonelliana a Torino e la Basilica del Santo a Padova, impensabile fino a poche settimane prima, diventa, non solo in Italia, il simbolo di una generazione che si riappropria del proprio patrimonio culturale. Il 30 novembre si caratterizza per essere un’altra straordinaria giornata di partecipazione: mentre il ddl passa alla Camera, in tutte le città d’Italia gli studenti bloccano strade e binari per diverse ore un totale di 16 stazioni ferroviarie occupate, porti, autostrade.... A Roma il corteo, cominciato sin dalla mattina presto, continua fino alla sera sotto la pioggia, nonostante il tentativo di violare una zona rossa si trasformi in un primo impatto con le forze dell’ordine che impediscono al movimento di raggiungere il Parlamento. Ancora una volta il consenso sembra moltiplicarsi nonostante tutto; infatti il passaggio sotto il Muro Torto è accompagnato da applausi degli automobilisti, simbolo del grande consenso popolare. La notizia dello slittamento dell’approvazione al Senato dopo il voto di fiducia segna un ulteriore passaggio fondamentale: il movimento studentesco decide di costruire attivamente la giornata del 14 dicembre, lanciata da un appello di Uniti Contro la Crisi. La scelta è chiara: dinanzi a una


probabile caduta del Governo Berlusconi, che avrebbe segnato la fine di un ciclo politico ventennale, qualificandola diversamente, era necessario inserirsi da protagonisti nelle contraddizioni di una crisi di governo tutta schiacciata sulle tematiche interne alla maggioranza, individuando quella giornata e quella possibile crisi come un possibile spazio concreto di vittoria. Convocare il 14 dicembre è il segnale della maturità politica del percorso intrapreso con il 16 ottobre, ovvero manifestare insieme alle altre lotte sociali come gli operai, gli abitanti de L’Aquila , Terzigno ecc per affermare con forza che la vera opposizione è nelle piazze. Un’opposizione dal basso che vuole determinare la caduta del governo, una sfiducia che deve avvenire a causa dei problemi sociali reali di cui la politica continua a non occuparsi. La giornata del 14 dicembre viene spesso ricordata solo per il dibattito semplicistico “violenza-non violenza” che ne è seguito, ma pochi ricordano il fatto che sia stata la manifestazione nazionale più grande dell’autunno, con una ricchezza di soggettività e di contenuti politici come non si vedeva da anni. La giornata del 14 deve essere analizzata nella sua complessità per provare ad essere letta nel modo giusto. Non è possibile infatti separare quanto avvenuto in piazza da quanto avvenuto all’interno del Parlamento, con la compravendita del voto di fiducia e dei parlamentari e dai mesi precedenti di intensa mobilitazione senza alcuna risposta da parte di governo e maggioranza. Quella espressa nella piazza del 14 dicembre è la nostra rabbia. È la rabbia di una generazione cresciuta sotto la cappa oppressiva di una politica completamente impermeabile alle istanze sociali, ai bisogni e ai desideri, cresciuta nella crisi di ogni forma di rappresentanza e mediazione sociale come di ogni forma di appartenenza collettiva, cresciuta nel generale clima di impoverimento culturale che ha investito il nostro paese. È la rabbia di una generazione che ora attraversa la più grande crisi economica degli ultimi decenni, che, per prima, è investita in maniera totalizzante dal fenomeno della precarietà e dalla prospettiva di condizioni di vita peggiori rispetto a quelle dei propri genitori, che non vede ancora la luce in fondo al tunnel del declino e del lavoro schiavista. L'esplosione di rabbia non è sufficiente a farci uscire dal tunnel della precarietà, nello studio come nel lavoro, dobbiamo esserne consapevoli. Non condannare non significa illudersi che il cambiamento possa arrivare in questo modo. È fintamente ingenuo e perbenista considerare questa rabbia una malattia da debellare, ma è illusorio e irresponsabile considerarla la cura. Questa rabbia è un sintomo della crisi profonda che attraversa la nostra generazione. Non va repressa poliziescamente né esaltata suggestivamente, ma analizzata e indagata politicamente. Le lotte sono utili ma da sole non bastano. Occorre una intelligente lettura della fase, la capacità di costruire alleanze sociali al di fuori del movimento studentesco. A fronte del vuoto di rappresentanza della politica istituzionale nei confronti della società, dobbiamo porci come soggetti in grado di fornire una proposta di riforma credibile del sistema universitario e del mondo del lavoro. Dobbiamo impegnarci a costruire rapporti di forza e di consenso che siano in grado di condizionare i soggetti politici istituzionali ed imporre loro di accettare la legittimità delle nostre proposte come piattaforma di base per costruire una università più aperta e rapporti di lavoro più equi e dignitosi. La complessità del movimento studentesco e la sua capacità politico-strategica sta anche nella costruzione del post 14 dicembre e della giornata del 22 dicembre. La non-discontinuità politica tra tutte le mobilitazioni precedenti, e in particolare nei confronti del 14 dicembre, la capacità di tenere insieme il tutto sono state il modo per non perdere niente, niente di quella ricchezza, niente di quella forza. “Spiazzare” questa la parola che più volte abbiamo utilizzato durante l’organizzazione del 22 dicembre , una giornata che può essere sintetizzata dalla frase dello striscione di apertura del corteo romano “Voi soli nella zona rossa, noi liberi per la città”. La scelta di lasciare la zona rossa vuota mentre in Senato viene approvato il ddl per dirigere il corteo nelle periferie è un altro atto di intelligenza e maturazione politica del movimento studentesco del 2010. In quella giornata cortei invadono nuovamente le strade delle città tra gli applausi generali, segno che neanche la strumentalizzazione e le provocazioni post-14 dicembre sono riusciti a scalfire il consenso del movimento. Una giornata che si conclude con l’incontro a Roma tra il presidente Napolitano e la


delegazione degli studenti, avvenuta a seguito di una lettera inviata dal movimento della Sapienza. Sull’incontro con Napolitano diverse sono le polemiche e le considerazioni; come Link abbiamo sempre ritenuto che anche la giornata del 22 dicembre debba essere analizzata nella sua complessità. Scegliere di coinvolgere la città nella protesta, lasciando “i palazzi del potere nella solitudine della loro miseria” (come scritto nella lettera al questore di Roma del 21 dicembre) sono sintomatici della volontà di generalizzare ancora una volta le mobilitazioni al di là delle mura delle nostre cittadelle universitarie, provando ad allargare il consenso e riportando l’attenzione sui contenuti politici delle proteste. Così come scegliere di dialogare e confrontarsi con la Cgil e con il Presidente Napolitano sono frutto della volontà di dimostrare che un movimento può essere al contempo radicale e conflittuale, ma capace di proporre un’altra idea di università e di democrazia. L’approvazione del Ddl Gelmini del 23 dicembre non ha determinato il collasso di quanto costruito durante le mobilitazioni autunnali, grazie alla forza dei contenuti politici e la volontà comune di tutte le soggettività di dare continuità alle proteste anche in primavera. E' da ricordare come nell'iter del DDL i continui rinvii (oltre due mesi rispetto alla tempistica prevista inizialmente) siano frutto della nostra mobilitazione, ben più delle difficoltà interne della maggioranza. Senza la nostra mobilitazione l'opposizione parlamentare avrebbe mantenuto l'iniziale atteggiamento positivo per una riforma ritenuta “una buona legge bipartisan”, e i finiani non avrebbero mai usato l'università come terreno di scontro nell'allora maggioranza. Non per forza questo è un dato positivo, ma di certo dinanzi a un parlamento che ha perso ogni connessione con il territorio e i cittadini che dovrebbe rappresentare, si tratta di un risultato del tutto inedito. Ma soprattutto il movimento del 2010, a differenza del 2008 ha provato ad andare oltre il Ddl Gelmini tenendo insieme la proposta politica. Se l'Onda non era riuscita a svincolarsi dalla trappola vertenziale, la battaglia per il ritiro della L.133/08, il movimento studentesco quest'autunno è riuscito a utilizzare la riforma come catalizzatore ed innesco di un movimento più grande e consapevole. Di fronte ad attacchi al sapere pubblico che si ripropongono di anno in anno con intensità crescente, di fronte ad un parlamento e a un Governo sordo e cieco, di fronte a una riforma che costituisce solo un tassello di un processo di smantellamento dell'università italiana, non è pensabile circoscrivere la propria mobilitazione. Riprendersi il futuro, a partire dal trasformare radicalmente il presente, è stato quindi, e rimane il leit motiv delle nostre mobilitazioni, il grande elemento su cui centinaia di migliaia di studenti in tutt'Italia si sono mobilitati. La riforma Gelmini è stata oggetto anche delle mobilitazioni del 2009, quando LINK era ancora in piena fase costituente, ma ben poco si è mosso in quell'autunno. Possibile fosse solo colpa della risacca dell'Onda? Sembra alquanto limitante e fatalista come approccio. Crediamo invece che l'errore principale, portatore di una scarsa partecipazione fosse una lettura eccessivamente burocratica di una riforma intrisa di tecnicismo e difficilmente comprensibile con una comunicazione immediata, seppur devastante per le vite quotidiane di tutti. Scelta vincente è stata rilanciare il movimento studentesco, in alleanza con gli altri mondi della formazione e della ricerca, non solo sui contenuti stringenti della riforma, ma sul tema dell'insicurezza certa di intere generazioni, frutto di un'azione legislativa devastante per il nostro futuro, e in piena continuità con il disegno Gelmini e i tagli previsti. Anche la costruzione dell’AltraRiforma segna uno degli ulteriori segnali di maturità rispetto al 2008: se l’AutoRiforma ha vissuto molto più della costruzione di un immaginario e dell’idea di un’elaborazione di una riforma dal basso, l’AltraRiforma ha realmente posto le basi tecniche e teoriche per costruirla davvero. Un processo che ha coinvolto realtà di diversi atenei italiani riuscendo ad essere una piattaforma aperta di discussione generale e concreta, Come Link-Coordinamento Universitario siamo riusciti a incidere davvero politicamente e culturalmente nelle mobilitazioni di quest’autunno, dimostrando che l’intuizione di costruire un soggetto di movimento e al contempo vertenziale sia stata quella giusta. Resta il tema della vittoria, un tema che il movimento studentesco dovrà porsi sempre di più per provare a dare una continuità alla partecipazione costruita quest’anno e che diventa imprescindibile per alimentare l’idea della costruzione di un’opposizione reale e sociale che si contrapponga ad una politica sempre più distante.


Il movimento del 2010, soprattutto grazie ai contenuti proposti da Link, ha avuto indubbiamente la capacità di porre al centro del dibattito in anticipo temi che poi tutta l'opinione pubblica ha fatto suoi (si pensi al dibattito sulla “questione giovanile” degli ultimi mesi). Ciò nonostante è inutile negarsi che ora stiamo vivendo un momento di naturale riflusso, con una minore partecipazione. Una minore partecipazione che spinge a interrogarsi sull'effettiva esistenza di un movimento studentesco in questa precisa congiuntura, o se piuttosto non siamo giunti a una più ampia mobilitazione sociale sui temi imposti dal movimento studentesco. Non sempre siamo riusciti tuttavia a scardinare alcuni meccanismi tipici delle assemblee studentesche degli ultimi anni. Il problema della reale partecipazione degli studenti ai processi decisionali non è stata risolta, in questo è utile analizzare la differenza tra la partecipazione alle assemblee e il dato di piazza. Chi prende realmente le decisioni? Chi le esegue successivamente? Come si arriva a determinare quale proposta ha più consenso? Queste sono alcune domande a cui difficilmente siamo in grado di dare una risposta definitiva ma che diventano sempre più importanti in realtà in continuo mutamento come sono i luoghi della formazione. Una sfida che Link dovrà essere in grado di cogliere sarà quella di trasformare questi meccanismi rendendo realmente le assemblee come dei luoghi di democrazia e non dei luoghi in questa viene semplicemente rappresentata.

5 - LE PRATICHE E GLI SPAZI DI CONFLITTO E CONSENSO Se da un lato non è possibile eludere nel dibattito il nodo delle pratiche di lotta, specialmente dopo un autunno intenso e conflittuale come quello appena trascorso, dall'altro lato è necessario mettere in campo un'analisi teorica, svincolata dalle valutazioni contingenti. Tale riflessione è necessaria con estrema accuratezza e maturità, consapevoli che troppo spesso il dibattito è stato viziato da superficialità manichee. Se è indubbio che il movimento studentesco del 2010 sia in piena continuità con l'Onda è anche vero che quest'anno vi è stata senza dubbio una maggior radicalizzazione delle pratiche di conflitto. E' stato un movimento più conscio dei suoi limiti ma anche delle sue possibilità di incidere nella società e partecipato non più da persone alla prima esperienza di mobilitazione come era stato durante l'onda ma da persone che avevano già vissuto una grande esperienza studentesca due anni prima, con la consapevolezza che è necessario un salto di qualità negli “strumenti” e modalità di lotta. L'autunno 2010 si è aperto con esempi lampanti di quanto si fosse chiuso ogni spazio di legittimità del conflitto. Riaprire tali spazi di legittimità non è stata opera semplice ed è frutto di un percorso costante di mobilitazione che comincia da molto prima del 14 dicembre; comincia addirittura dalle occupazioni di maggio 2010 e dalle assemblee estive sul blocco della didattica e degli esami frutto dell'indisponibilità dei ricercatori. Da settembre con le assemblee e con un lavoro costante e ininterrotto si è riusciti a costruire partecipazione, consenso, determinazione. La nostra nascita ha contribuito in maniera determinante a una maggior forza del movimento studentesco a partire dalla capacità di coordinarsi sul piano nazionale. L'occupazione dei monumenti in contemporanea in quattro città italiane (Torino, Pisa, Roma, Padova) il primo giorno e la successiva emulazione e riproposizione in altre città non sarebbe stata possibile senza un ampio livello di coordinamento nazionale. Pur ammettendo l'uso scorretto della visibilità mediatica data dalla salita dei ricercatori sul tetto, che nel caso di Architettura a Roma era diventata una passerella per politici, che ha prestato il fianco a tentativi di strumentalizzazioni, essa ci ha permesso di ottenere una forte risonanza riguardo i temi della nostra protesta. La capacità del movimento è stata quella di radicalizzare molto le pratiche riuscendo però attorno


ad esse a creare un ampio consenso, l'occupazione dei monumenti o il blocco delle stazioni non erano viste dalla maggioranza della popolazione in modo negativo, anzi la gente bloccata sui treni applaudiva nelle stazioni sentendo lo slogan:”ci scusiamo per il disagio”. La capacità di coniugare radicalità e consenso è stata un elemento nell'analisi di tutto l'autunno e deve restare centrale. Bisogna però chiedersi cos'è il consenso, come lo si misura, e come lo si costruisce. Per rispondere a questa domanda è necessario distinguere concetti antitetici, ma spesso confusi, come “credibilità” e “consenso”. La credibilità è un etichetta assegnata sulla base di canoni e parametri di compatibilità con il sistema, frutto dell'apprezzamento dell'establishment. Il consenso è senza dubbio effetto di molteplici fattori legati anche all'informazione, ma si stabilisce sulla base di un rapporto con la cittadinanza, ed è conseguenza delle istanze della mobilitazione, della capacità di comunicarle e delle pratiche utilizzate. Gli spazi di conflitto che abbiamo aperto durante l'autunno non saranno però aperti per sempre, tale legittimazione è frutto di un arco lungo di mobilitazione. Per questo non tutte le pratiche sono ripetibili in qualunque situazione poiché tali spazi di legittimazione se non tenuti aperti con una costante mobilitazione si richiudono rapidamente e non è detto che si riaprano con altrettanta facilità. Guardando alle prossime stagioni di lotta non possiamo pensare che non rischino di emergere divisioni crescenti sul terreno delle pratiche. Se da un lato è vero che rifiutiamo ogni spaccatura del movimento su questo tema, dall'altro bisogna sapere che non è possibile risolvere il tutto con lo strumento del ricatto, per il quale non solo tutto è legittimo, ma deve esser rivendicato a pieno da tutti, pena l'accusa di dissociazione o condanna, tutti termini che rifiutiamo. La soluzione può essere solo una discussione piena e democratica, aperta a tutte e tutti gli studenti sulle forme di lotta da mettere in piazza. Solo decisioni prese in luoghi aperti e legittimi possono evitarci di tirare la corda eccessivamente e non riuscire più a ricondurre ad unitaria e condivisa l'azione del movimento studentesco. In tali discussioni valuteremo ogni forma di lotta sempre e comunque rispetto all'equilibrio necessario tra la radicalità, la costruzione del consenso, l'obiettivo e l'efficacia. Un percorso di lotta partecipato e collettivo deve necessariamente essere democratico. Non è pensabile la costruzione di una società migliore e realmente democratica, se le pratiche della lotta non sono stabilite attraverso mezzi partecipativi e democratici. Come si coniugano i cortei selvaggi e le azioni a sorpresa con le discussioni democratiche? Come possiamo sorprendere e bloccare le città evitando che cortei di decine di migliaia di persone si muovano senza saper nulla del percorso seguendo le decisioni di pochi? Risoluzione di questi interrogativi deve essere tema centrale nella nostra discussione nazionale e locale. La nostra capacità di analisi e di condivisione delle pratiche sul piano nazionale deve essere un elemento che caratterizza la nostra organizzazione, ben sapendo che non in tutte le città è possibile mettere in campo le stesse azioni, e questo dipende dal contesto culturale e sociale in cui si vive. Nuovi fronti di lotta e di conflitto si apriranno, a noi sta sviluppare l'analisi ed essere pronti a variare le pratiche anche a seconda degli obiettivi che si vuole perseguire. La sconfitta riportata questo turno è imputabile all'impossibilità intrinseca di un movimento studentesco di rovesciare da solo i rapporti di forza all'interno del Paese. Risultati intermedi ci sono stati e sono da individuarsi nell'aver spostato l'attenzione dei media sul tema della conoscenza, intimamente connesso con il precariato; nel aver imposto l'agenda politica del parlamento per due mesi; nell'aver aperto un dialogo col Presidente della Repubblica. Questi primi obiettivi conseguiti sono certamente da mettere in relazione con le pratiche messe in campo e con la loro efficacia politica e mediatica, oltre che con la maturità raggiunta da un movimento consapevole della sua importanza. Per ottenere i risultati massimi, è necessario ricreare un'opposizione sociale e culturale di massa che sia in grado di rovesciare i rapporti di forza nel Paese e di costruire un'alternativa societaria, partendo dalle università, dalla formazione e dalla conoscenza.


6- L'UNIVERSITÀ ITALIANA A CAVALLO DELLA RIFORMA 6.1 - LA FORMAZIONE PUBBLICA AI GIORNI NOSTRI: LA NONUNIVERSITÀ Sempre più priva di risorse, strumenti e dignità, e di conseguenza senza una chiara funzione sociale, l'Università italiana è sempre più in crisi, sempre più una “non-università”. La facilità con la quale viene smantellata, la difficoltà con cui difenderla nascono qui, all'interno di questa crisi di senso. Per difendere l'università pubblica non ci basta quindi erigere barricate contro l'azione legislativa, ma serve ricostruirla, a partire dalle sue stesse radici. Serve costruire “l'Altra Università”, Il movimento studentesco di questo autunno è riuscito almeno in parte a superare la retorica dell'ultimo attacco portato all'università pubblica in favore della privatizzazione dei saperi, allargando l'analisi e la protesta, non fermandosi solamente alla legge, ma contrastando gli aspetti più radicali e distruttivi presenti nel progetto del governo di smantellamento della formazione pubblica e allargando il fronte ai temi sociali. Anche il singolo studente sceso in piazza questo autunno si è sentito parte di un movimento in lotta per difendere l'università dai privati come per garantire un diritto allo studio per tutti ma anche all'interno di un gran movimento generazionale che provava ad ampliare il terreno di lotta, da questa convinzione sono nate le manifestazioni del 16 ottobre con la FIOM o del 14 dicembre. Elemento centrale è quindi la consapevolezza che i processi di smantellamento dell'università sono frutto di un processo più largo di attacco ai diritti e alla democrazia. L'attacco che il governo sta portando all'università pubblica non si limitava, ad esempio, alla legge Gelmini ma è costituito dall'insieme di più provvedimenti: legge 133, legge 240, DM17, finanziaria... Sarebbe, infatti, sbagliato ritenere che questi provvedimenti siano indipendenti l'uno dall'altro, quando invece sono parte di una strategia ben definita, inserita all'interno di strategie europee e internazionali sul mondo della conoscenza, seppur condite in salsa italiana. La retorica che la Gelmini ha usato nell'autunno dipingendo gli studenti in mobilitazione come amici dei Baroni pronti a difendere un sistema universitario oramai obsoleto e trainati da un pensiero conservatore di sinistra si è scontrata con l'insieme delle politiche governative che ci mostrano tutta un'altra realtà dei fatti: In due anni l'università italiana ha visto un drastico taglio dei finanziamenti statali, 1.5 miliardi in 5 anni, un diminuzione dell'offerta formativa a seguito di un infinità di norme volte a ridurre il numero di corsi di laurea, un taglio netto ai fondi per il diritto allo studio, per l'anno prossimo sono ad oggi previsti a bilancio 13 milioni, nel 2009 era di 246 milioni. A tutto questo si aggiunge la legge Gelmini (legge 240/2010) che cambierà alla base l'organizzazione interna, la missione e la governance dei nostri atenei. Il rifiuto che abbiamo opposto a questo attacco generale all'università pubblica durante l'autunno per evitare in ogni modo che la legge fosse approvata era solamente una parte di quella battaglia che tutti i giorni conduciamo nelle nostre università contro i Baroni e per difendere gli studenti. Le organizzazioni territoriali che compongono LINK-Coordinamento universitario da anni nelle loro università conducono battaglie per l'ampliamento della democrazia, contro l'aumento delle tasse universitarie, per costruire una didattica migliore. Infatti ci rendiamo conto da tempo della condizione in cui versa l'università italiana. Anche nel 2009, anno di massimo finanziamento del fondo per il diritto allo studio, l'Italia ha investito solo 469 milioni di euro (tra fondi statali e regionali). Il dato è tra i più bassi in Europa e inconsistente se paragonato ai 1,4 miliardi di euro investiti da Francia e Germania, a parità di studenti. La situazione democratica nei nostri atenei è un altro elemento che abbiamo sempre criticato al sistema universitario italiano, nella storia sono sempre state poche persone a gestire l'università, ci siamo sempre trovati di fronte o Rettori a vita molto potenti o senati accademici gestiti da ben poche persone.


Il numero chiuso sempre imposto senza alcun criterio nei corsi di laurea, i dottorati pilotati, una didattica sempre più basata su logiche di mercato, e corsi di laurea costruiti non sulla base di reali criteri formativi ma creati solamente per contrapporli a corsi di altre università con il solo fine di rubare qualche studente ad un'altro ateneo “concorrente”, sono questi solo alcuni degli elementi negativi che disegnano lo stato in cui versano i nostri atenei. Molti dei problemi evidenziati si devono sicuramente al modo in cui è stato gestito il passaggio all'autonomia degli atenei in Italia che ha creato dei mostri. Gli atenei pronti a competere tra loro per accaparrarsi qualche studente in più hanno sacrificato la didattica relegata sempre più ad un elemento accessorio dell'università, imbrigliata in lacci ministeriali (dovuti anche a situazioni insostenibili presenti in alcuni atenei). La risposta del Governo negli ultimi due anni è però stata forse peggiore, invece di limitare l'autonomia finanziaria, in favore di un'autonomia didattica dello studente, per lasciarlo libero di costruirsi un percorso di studio, piuttosto che limitare il precariato in università, pompato dagli atenei che hanno pensato in questi anni di risolvere le carenze esistenti di personale docente creando nuove forme di sfruttamento, la risposta è stata di segno opposto: si sono tolte risorse all'università per lasciarle nelle mani di banche o fondazioni private che avrebbero dovuto ripianare debiti pregressi (caso di Siena) o coprire i tagli del finanziamento statale, non si è posto nessun limite all'aumento delle tasse universitarie, si è inventata la figura del ricercatore a tempo determinato che avrebbe dovuto risolverei problemi del precariato (3 anni più 3 di precariato e poi o dentro o fuori dall'università) non cercando in alcun modo di risolvere le situazioni di migliaia di precari oggi presenti in università. Il divario nord-sud già esistente tra le università ed evidenziato ogni anno dall'elevato numero di studenti che dal meridione venivano al nord per sviluppare i loro percorsi di studi non fa che aumentare, in un contesto nel quale il Ministero diminuisce i fondi alle università distribuiti su base storica, sottoscrivendo però singoli accordi di programma con regioni e atenei indicando le priorità di investimento, basate spesso su scelte politiche ed economiche. L’università che ci si prospetta davanti non sarà un’università migliore di quella contro cui abbiamo lottato negli ultimi anni. Ritorna quindi più forte una domanda: qual è il ruolo dell’università oggi? Come cambiarla in una direzione che veda aumentare la democrazia al suo interno? Come costruire un’altra università? L’Altra Riforma non può che essere la risposta a questa Non-Università in cui già oggi viviamo. La risposta che in autunno abbiamo opposto a che ci diceva che difendevamo i baroni (spesso difesi dalle liste che al CNSU sostengono il ministro) è frutto di anni di lotte nelle nostre università, l'AltraRiforma non è che un proseguo di quelle lotte e una risposta pratica a chi ci accusa di difendere l'università dei Baroni, per questo abbiamo espresso scetticismo verso l'idea di referendum contro la legge 240/2010 ci sembrava limitante rispetto alle rivendicazioni generazionali del movimento di questo autunno, l'obiettivo non può essere di ritornare ad un'università pre-Gelmini (situazione ormai difficilmente realizzabile) ma piuttosto quella di cambiare alle fondamenta il nostro sistema universitario. Compito di LINK-Coordinamento Universitario sarà sicuramente quello di sviluppare l'AltraRiforma provando però ad analizzare in maniera approfondita il ruolo dell'università oggi in un mondo sempre più globalizzato, dobbiamo lottare sempre per un'università non sottoposta alle logiche di profitto e mercificazione dei saperi ma anzi un università pubblica e di qualità richiedendo un adeguato aumento dei finanziamenti statali. Rimettere al centro del paese la formazione, significa liberare le università e aprirle ad una gestione partecipata da parte di tutte le componenti che le vivono, siano essi ordinari, associati, ricercatori, assegnisti, dottorandi, studenti... Oggi noi dobbiamo rimettere al centro il ruolo sociale dell'università, come motore di formazione del paese e strumento per il miglioramento delle condizioni sociali dell'individuo, l'università non può essere assoggettata a criteri meritocratici punitivi sui finanziamenti, come non lo possono essere gli studenti rispetto al pagamento delle tasse (tasse sui fuori corso...), ma anzi dobbiamo immaginarci e realizzare un università che sappia permettere a tutti di arrivare ai gradi più alti delle formazione aiutandoli nel realizzare il proprio


percorso di studi, tramite borse di studio, alloggi, una didattica di qualità, e non mettendogli degli ostacoli lungo la strada. La formazione deve essere indipendente e non essere assoggettata a logiche di mercato, non si può però pensare ad una formazione completamente slegata da mondo del lavoro, ma l'università deve servire a formare dei cittadini e a dare competenze anche tecniche e specifiche utilizzabili nel mondo del lavoro, ma non vincolando la formazione alla produzione o alle esigenze del mercato stesso. L’università deve pertanto guadagnare un ruolo non subalterno al mondo del lavoro, ma interagire con esso e per un certo grado orientarlo. L'AltraUniversità parte sicuramente dall'analizzare la situazione dell'università oggi, riscoprirne il suo ruolo sociale e praticare l'AltraRiforma per il cambiamento. Per fare ciò è necessaria una grande lotta per la “ripubblicizzazione” dell'università pubblica.

6.2 - L'UNIVERSITÀ POST GELMINI E LA BATTAGLIA SUGLI STATUTI PER DEFINIRE L'UNIVERSITÀ DEL FUTURO Lo scorso autunno, noi studentesse e studenti siamo scesi nelle piazze di tutta Italia e abbiamo prodotto la più grande mobilitazione in difesa dei saperi e della formazione che questo paese ricordi. Ci siamo opposti all’approvazione di un disegno di legge che prevedeva l’introduzione di privati nei CdA degli atenei, la precarizzazione dei ricercatori, l’allargamento dei poteri baronali, l’eliminazione del diritto allo studio. A Dicembre un parlamento ridotto a mercato ha approvato la riforma Gelmini, mentre nelle strade esplodeva la rabbia studentesca. Oggi continua dentro le facoltà e gli atenei una battaglia per sbarrare la strada all’applicazione di questa legge, che rappresenta l’atto finale di un processo di smantellamento dell’università pubblica portato avanti negli ultimi quindici anni da governi di centrodestra e di centrosinistra. Oggi dobbiamo continuare la nostra lotta per la costruzione di un’università di qualità, pubblica, aperta, libera, opponendoci in ogni luogo e con ogni mezzo a nostra disposizione all’applicazione della legge Gelmini, senza per questo accettare una logica emendativa di questo atto legislativo, che resta un provvedimento da respingere in toto. Non si può, infatti, legittimare alcun articolo di una legge che distrugge l'università pubblica la svuota delle sue funzioni di didattica e ricerca: l'obiettivo delle nostra lotta resta quello della cancellazione e della non applicazione dei principi contenuti nella legge. Per farlo non vogliamo chiuderci in una battaglia di retroguardia o solo difensiva dell'esistente ma aprire una nuova fase di conflitto che permetta di ottenere un espansione dei diritti degli studenti, dei precari e dei ricercatori. Questa battaglia è legata alla modifica degli statuti degli atenei, come previsto dalla Legge 240/2010. Il movimento studentesco dello scorso autunno ha saputo costruire un’analisi attenta e approfondita in merito alle linee generali che costituiscono la base di questa controriforma del sistema universitario, accusando fin da subito il governo e la maggioranza di nascondersi dietro alla facciata del merito per portare avanti un provvedimento che riporta l’università ad essere elitaria e classista. Attraverso il processo di revisione degli statuti, che dovrà essere concluso entro nove mesi dall’entrata in vigore della legge, pena il ricatto del commissariamento e la redazione di uno Statuto da parte dei tecnici del Ministero, gli atenei dovranno fare propri i principi contenuti nella riforma Gelmini, modificando la loro organizzazione periferica nonché la composizione e le funzioni degli organi collegiali centrali. La revisione della governance prevede che il Consiglio di Amministrazione diventi il vero centro di indirizzo e di potere, con la possibilità di decidere riguardo la chiusura dei corsi di studio, le linee di ricerca, e tutto ciò che riguarda la didattica, svuotando il Senato Accademico di ogni funzione rilevante. Questo è ancora più grave vista la composizione del CdA prevista dalla legge: di 11 membri totali, 3 dovranno essere esterni all'università (banche, fondazioni, politici, aziende) e tutti potranno essere scelti e nominati dal


rettore o da una sua cricca, con il risultato che non ci sarà nessun controllo democratico e nessuna opposizione dentro all'organo fondamentale della nuova università. Inoltre la legge prevede una ristrutturazione delle strutture periferiche, con l’unificazione nei dipartimenti delle funzioni didattiche e di ricerca. Questo provvedimento da un lato ha scatenato lotte baronali per aggregare i dipartimenti sulla base dei posti di potere da spartirsi più che in base ad esigenze formative o ad un’affinità scientifica e culturale; dall’altro, ha aperto il problema fondamentale della definizione dei processi decisionali e del ruolo dei vari organi periferici rispetto alle decisioni didattiche. In tutto questo, la rappresentanza studentesca viene ridimensionata, e viene resa ancora più marginale nel dibattito interno, ormai dominato dai poteri forti in modo sempre più palese. Questo potrebbe portare all’assenza di pluralismo tra i rappresentanti degli studenti eletti e il blocco di ogni possibile dialettica con il movimento. Più studenti negli organi voleva dire più voci rappresentate, e più possibilità di veder difesi i propri diritti. La Gelmini ha voluto fare piazza pulita di chi disturba il manovratore, e chiudere ogni decisione in stanze segrete e inaccessibili. Come studenti che hanno costruito la mobilitazione autunnale riteniamo che un paese come l’Italia di oggi, fortemente in declino sia dal punto di vista economico sia da quello civile e culturale, abbia assoluto bisogno di conoscenza. La ricerca, la formazione, il sapere libero sono le uniche risorse di cui disponiamo e su cui possiamo costruire una speranza per il futuro. Crediamo davvero di poter uscire dalla crisi senza l’università pubblica? Smantellare l’università pubblica significa sostanzialmente rassegnarsi in maniera definitiva al declino del nostro paese e alla sconfitta della nostra generazione. Per questo abbiamo deciso di impegnarci in una battaglia sugli statuti, sia all’interno delle commissioni che fuori dai palazzi, continuamente a contatto con chi vive l’università ogni giorno: se da un lato infatti crediamo che l'iter previsto per la modifica degli statuti rappresenti una forzatura democratica e che vi siano spazi limitati all'interno delle commissioni, crediamo che alla mobilitazione contro i rettori, e dentro gli atenei, si debba affiancare un lavoro da realizzare con capacità e competenza anche all'interno delle commissioni stesse. La battaglia sugli statuti non potrà essere giocata in difesa, per questo il lavoro dei rappresentanti nelle commissioni deve essere discusso e condiviso nelle assemblee e bisogna riuscire ad incidere all'interno di quelle commissioni attraverso la capacità di mobilitare gli studenti su tutti i temi sensibili per riuscire a creare attorno al dibattito delle commissioni, spesso chiuse, antidemocratiche e nelle mani dei Rettori, un forte interesse e un'ampia partecipazione studentesca. Come Link-Coordinamento universitario si siamo adoperati fin da subito per informare gli studenti sull'andamento dei lavori delle commissioni e per portare delle nostre proposte al mondo studentesco in merito alla revisione degli statuti. Ci siamo subito confrontati con la FLC e con la Rete29 Aprile, l'Adi, il Cpu, il ConPAs arrivando con questi ultimi a scrivere un documento di 10 punti che tracciava le linee generali da noi proposte per la revisione degli statuti, Inoltre per informare e confrontarci con tutti gli studenti sull'andamento dei lavori delle commissioni in l'Italia abbiamo aperto un blog su internet (http://stopgelmini.blogspot.com) e abbiamo scritto un opuscolo sugli statuti che conteneva tutte le nostre proposte. La nostra capacità all'interno del movimento studentesco deve essere quella di riuscire a costruire una forte mobilitazione, che porti ad aprire il dibattito all'interno delle università sullo statuto, aprendo la discussione di quelle commissioni a tutta la popolazione studentesca, confrontandoci in assemblea con gli studenti , utilizzando tutte i nuovi mezzi di comunicazione per impedire che quelle commissioni si trasformino in un luogo chiuso e non permeabile alle istanze che gli arrivano dall'esterno, arrivando anche ove necessario a delegittimare o a bloccare quelle commissioni se vi fosse una reale impossibilità di agire al loro interno. Sfruttando le contraddizioni interne della stessa legge Gelmini e facendo leva sul lavoro di elaborazione e di condivisione che ha portato a costruire l’AltraRiforma dell’Università, vogliamo bloccare nei fatti l’applicazione di questa riforma, limitando il più possibile le conseguenze dannose di questo provvedimento, con la previsione di strumenti di bilanciamento dei poteri, pareri obbligatori e vincolante da parte del Senato Accademico su alcune pericolose prerogative assegnate esclusivamente al Consiglio di Amministrazione, e la definizione di un sistema di programmazione di lungo periodo delle attività didattiche e della loro sostenibilità. Al tempo stesso riteniamo urgente


e necessario sfruttare l’occasione fornitaci dalla revisione statutaria per costruire nuovi spazi di democrazia dentro gli atenei, con l’obiettivo di rendere più partecipate e condivise le decisioni e di costruire un sistema a misura di studente. L’università che uscirà dal processo di revisione degli statuti sarà sicuramente un'università molto diversa da quella che abbiamo conosciuto. Alcune università sanno cambiando tutto per non cambiare nulla, davanti ad una trasformazione di facciata dei meccanismi decisionali e organizzativi, stanno mantenendo nascostamente lo stesso tipo di organizzazione precedente aumentando però i poteri di pochi, in altre i Rettori stanno scrivendo ad hoc statuti che vedranno aumentare notevolmente i loro poteri, grazie a commissioni compiacenti, in altre ancora si sta sviluppando un reale processo riorganizzativo. L'università post Gelmini, almeno per questi primi anni dopo l'applicazione della Riforma, vedrà molte università diverse tra di loro sul territorio nazionale, quelle con Cda eletti e quelle con Cda nominati da esterni, quelle con tutto il potere didattico affidato alle scuole e quelle in cui i dipartimenti assumeranno forti prerogative in merito alla didattica... La nostra capacità dovrà essere quella di continuare ad analizzare e a conoscere i meccanismi di funzionamento dell'università essendo consci che potremo trovarci di fronte ad atenei molti differenti tra loro e questo inciderà notevolmente sulla vita degli studenti. Inoltre la futura università sarà in molti casi un istituzione con un ruolo del pubblico e con un offerta didattica più limitata. Occorre, pertanto, pensare a nuove pratiche di partecipazione, che possano permettere all’intera comunità accademica di assolvere ai compiti di proposta e di controllo (ipotesi question time; referendum studentesco; iniziativa di proposta studentesca; bilancio partecipativo) e che possano permettere una sperimentazione di nuove pratiche di democrazia e partecipazione. Per questo è necessario aprire una fase di analisi, sia nazionale che all’interno delle realtà territoriali, sulle pratiche di mobilitazione, di rappresentanza e sindacali che ci caratterizzano, consci che alcune di esse dovranno essere riviste, ripensate e ricostruite, anche alla luce dell'approvazione dei nuovi statuti, per avere nuovi strumenti, efficaci e capaci di incidere sui processi reali del mondo della formazione.

7.1 – CAMBIARE L'UNIVERSITÀ PER CAMBIARE IL MONDO: RIPUBBLICIZZAZIONE DEI SAPERI E FUNZIONE SOCIALE DELLA CONOSCENZA L'Università è spesso intesa, in maniera semplicistica e per certi versi fuorviante, semplicemente come un ascensore sociale: un luogo, cioè, dove si ricevono le nozioni e si acquisiscono le competenze necessarie allo svolgimento della professione scelta. Ma un luogo che si voglia della formazione non può certamente prescindere dal suo essere, prima ancora che una fabbrica di informazioni, un centro nevralgico di ricerca, scambio e produzione culturale, dunque formazione di sé come individuo e come cittadino: luogo di accrescimento, dunque, del proprio bagaglio di competenze, ma anche e per prima cosa di acquisizione di un sapere e di uno sguardo critico sulla realtà; per realizzare la propria personalità, per migliorare la propria condizione personale e familiare, per dare il proprio contributo alla crescita materiale e morale della propria comunità, sia essa intesa come la propria città, il proprio Stato o il mondo intero. Infatti, attraverso il metodo scientifico e la comparazione di realtà diverse, gli intellettuali di domani osservano la propria realtà e si interrogano su quali siano le strade più efficaci per migliorarla. La nascita e lo sviluppo dell’università, dal Medioevo ad oggi, hanno mostrato una progressiva tensione ad emanciparsi dal controllo del potere, che fosse clericale o imperiale, sull0indipendenza


del sapere e della ricerca. Anche oggi vediamo, all’interno dell’università, il tentativo di imporsi del mercato come ideologia totalizzante, con i propri valori (egoismo, sfruttamento, mancanza di rispetto per la natura, odio verso tutto ciò che è gratuito e non quantificabile attraverso l’unità di misura del denaro) e i propri strumenti pratici per difendere l’ortodossia dagli attacchi degli eretici. Il mercato si è spesso servito dell’università per formare quei professionisti indispensabili alla propria affermazione come centro propulsivo e di controllo. Anche l’accesso di massa all’università, che ha permesso di aprire le sue porte a generazioni di studenti che non appartenevano a quelle classi privilegiate che fino a quel momento erano le sole a potervi accedere – certamente una conquista positiva – può essere letto nel quadro di una necessità produttiva del mercato stesso. Ma dopo la ristrutturazione capitalistica degli anni ’80, l’università pubblica e accessibile a tutti è diventata solo un ingombro. L’università europea, infatti, costruita per formare intellettuali e professionisti, si è trovata a dover diventare un luogo di produzione di forza lavoro più o meno qualificata, a seconda delle esigenze del mercato. Siamo ben consapevoli che una società, per poter ben funzionare, ha bisogno di medici che sappiano fare i medici, ingegneri che sappiano fare gli ingegneri, insegnanti che sappiano fare gli insegnanti. E siamo altrettanto consapevoli di quanto l’università debba poter offrire a tutti coloro che vi si iscrivono gli strumenti indispensabili allo svolgimento della propria futura professione. Se ci limitassimo a dire questo, staremmo lottando per ottenere un’università che funzioni meglio, magari con qualche sala computer più grande, aria condizionata in ogni aula studio e docenti più simpatici e disponibili. No, non si tratta di questo, o almeno non solo. Quello per cui noi lottiamo è il carattere pubblico dell’università. Interrogarsi su cosa significhi oggi rivendicare il carattere pubblico dell’università è una sfida complessa quanto fondamentale per dare un senso alle nostre battaglie e iscriverle in un progetto più ampio di società. L’università pubblica non si può definire soltanto in opposizione a quella privata, come luogo gestito unicamente da un organismo statale da opporre a un altro sulla cui gestione incidono interessi di singole aziende o categorie. L’università è pubblica perché deve rispondere a un interesse pubblico, ovvero della collettività. Non dunque al benessere di uno o di pochi, ma a quello di tutti. Va bene dunque insegnare all’ingegnere a fare l’ingegnere, ma se poi il famoso ingegnere è lo stesso che accetta di costruire delle case con del materiale di scarsissima qualità, o se il famoso medico accetta di diagnosticare finti malanni per poter guadagnare di più con i suoi miracolosi interventi, o ancora, se il meno famoso insegnante spiega a una classe di adolescenti che l’omosessualità è una malattia, saremo sicuri che l’università sia riuscita nel suo intento? Forse ci viene incontro la felice metafora di Piero Calamandrei, quando paragona la scuola (e in generale un luogo di educazione e formazione) al sangue all'interno di un organismo. All'interno di un organismo umano, il sangue è la forza propulsiva. All'interno di un organismo costituzionale, la scuola/università è il centro propulsivo della democrazia stessa. La scuola, come la vedo io, è un organo "costituzionale". Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola "l'ordinamento dello Stato", sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l'organismo costituzionale e l'organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell'organismo umano hanno la funzione di creare il sangue. Chi tocca l'università così intesa, pubblica, laica e plurale, attacca un bene comune: è stato il leitmotiv di tutto l'autunno. Attacca cioè l'organo "collettivo" per eccellenza: un'agorà di un Paese realmente democratico. E fa bene ancora una volta Calamandrei, ancora nel febbraio '50, ad ammonire quella classe dirigente intenta ad allungare le sue mire su quest'organo vitale della


democrazia. La creazione sempre rinnovata - nelle persone che la incarnano e nelle idee che la rendono viva - di una classe dirigente per il Paese non è un aspetto secondario o da leggere in chiave "professionistica" e "politicista". E' quell'insieme produttivo di saperi e cittadinanza responsabile in ogni campo della vita sociale del Paese. Per rimanere nella metafora biomedica: in ogni funzione di ogni singolo organo. La classe dirigente, spiega dunque Calmandrei: [...] non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall'afflusso verso l'alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l'alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società. Una classe dirigente al potere che intacchi questo sistema virtuoso di produzione democratica e rinnovamento continuo, intacca la democrazia stessa. Privatizzare un luogo di formazione significa svuotarlo di senso, dal momento che la privatizzazione comporta l'assoggettamento alle regole della produttività costi-quel-che-costi e alle esigenze del mercato della produzione culturale e dell'acquisizione di competenze utili ad uno sviluppo socialmente sostenibile e alla formazione di un sapere critico. Le riforme degli ultimi due decenni, vanno in questa direzione: si riducono i finanziamenti al sistema pubblico della cultura e della formazione, si permette l’ingresso di capitali privati, s’introducono meccanismi funzionali d’ispirazione aziendale, si esternalizzano ad aziende private fette sempre più ampie di servizi. Tutto questo avviene mentre i saperi vanno via via acquisendo un ruolo sempre più centrale all’interno dei processi di produzione di merce, di valore e di profitto che sono alla base del sistema economico dominante. Negli ultimi decenni il campo della produzione e della fruizione culturale, crescendo in dimensioni ed importanza, ha visto accentuarsi il ruolo delle aziende in grado di fare del sapere socialmente prodotto una risorsa scarsa da commerciare. In questo contesto la questione della proprietà dei saperi è assolutamente centrale. Non c'è battaglia per il protagonismo sociale dei soggetti in formazione e per il cambiamento della società in senso egualitario che possa non passare per iniziative di riappropriazione pubblica dei saperi. La lotta contro la privatizzazione rischia di essere, oggi, una battaglia di retroguardia, se non ci poniamo il problema di ciò che è già finito in mano ai privati. Per questo, durante le mobilitazioni dello scorso autunno, abbiamo mutuato nel nostro linguaggio un concetto tipico dei movimenti legati al tema dell'acqua: la ripubblicizzazione. Dobbiamo immaginare e praticare la sottrazione di settori del mondo della conoscenza alle logiche del profitto e la loro riconquista all'interesse generale. Tale battaglia ci dà anche l'opportunità di mettere in discussione i modelli tradizionali di «pubblico», ripensandoli secondo criteri adatti alle trasformazioni della realtà contemporanea. È una sfida che dobbiamo cogliere prima di tutto sul piano culturale, se intendiamo rilanciare la categoria di «pubblico» e riempirla di significati avanzati e trasformabili in diritti concretamente esigibili sul territorio, al di là di ogni vacuo esercizio intellettuale. Il primo passo in questo senso è la ripresa del ruolo dello stato e delle sue articolazioni territoriali. Non esiste oggi un progetto realistico di demercificazione dei saperi su grande scala che possa prescindere da una massiccia politica di investimenti a carico della fiscalità generale. Eludere questo punto, rivendicare il ruolo del pubblico nell'ambito dei saperi e del welfare senza dire che ciò comporta una ripresa del ruolo della Repubblica (che, per Costituzione, è formata dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni), significa fare della facile propaganda e allo stesso tempo avallare la retorica liberista dominante nel suo tentativo di criminalizzare il ruolo delle istituzioni pubbliche in economia. Per reclamare reddito e servizi dobbiamo essere disposti prima di tutto a reclamare investimenti statali, e per rivendicare la parziale sottrazione al mercato di settori quali la casa o i trasporti dobbiamo rivalutare il ruolo delle istituzioni pubbliche quali regolatrici di suddetti mercati. Ma praticare la ripubblicizzazione significa non limitarsi a rivendicare un ruolo di maggiore forza e


autonomia all'interno delle dinamiche di mercato, bensì porsi l'obiettivo di scardinare le logiche di funzionamento del mercato, piegandole all'interesse generale. Tale obiettivo non può passare solo attraverso lo stato. Pubblico, per noi, è ciò che risponde all'interesse generale, e spesso ciò può essere compiuto più facilmente dal basso che dall'alto. Ogni esperienza di autoproduzione, autogestione, cooperazione e mutualismo è la messa in pratica concreta di un'alternativa praticabile al dominio violento del profitto. Il nostro compito è la costruzione di connessioni tra tali esperienze e la messa in campo di un progetto complessivo di rilancio delle pratiche mutualistiche tra i soggetti in formazione. Si tratta di un campo aperto di sperimentazione, con l'obiettivo di riempire il concetto di «pubblico» di significati più estesi rispetto a quello di «statale», aprendosi ai contributi più vasti, dalle elaborazioni legate al «comune» alle esperienze del nuovo welfare, del volontariato e del terzo settore, pur stando ben attenti a evitare ogni scivolamento verso il campo ambiguo della cosiddetta «sussidiarietà» e verso l'opacità delle forme miste pubblico-privato la cui presenza si è fatta sempre più invadente nel dibattito sul welfare come nella pratica dei sistemi di servizi sociali, soprattutto locali. La battaglia per la ripubblicizzazione dei saperi, inoltre, si lega indissolubilmente all'esigenza di superare un modello schematico e superato di concepire l'autonomia e l'indipendenza dell'università. Troppo spesso, infatti, le nostre battaglie contro l'invadenza dei privati e delle istituzioni all'interno dell'università si sono prestate all'equivoco della torre d'avorio, alla confusione tra autonomia e autoreferenzialità. Per questo dobbiamo avere il coraggio di dire che difendere l'indipendenza dell'università pubblica da ogni potere esterno non significa predicarne l'isolamento o promuovere una cultura e una scienza asettiche e prive di collegamenti con la realtà. Noi riteniamo che l'università debba effettivamente aprirsi alla società, appagarne le esigenze di conoscenza e di rinnovamento, contribuire al dibattito civile, giocare un ruolo di primo piano nella vita sociale e culturale di un territorio. Difendere la natura pubblica dell'università significa ripensarla in chiave sociale, immaginando l'università come un attore sociale in grado di mettersi in relazione con il territorio, con i soggetti sociali, con le istituzioni, con le filiere produttive in maniera attiva, non limitandosi a fornire innovazione tecnologica e forza lavoro più o meno qualificata, ma indicando linee di sviluppo avveniristiche. La conoscenza e i suoi luoghi possono quindi diventare parte attiva nella costruzione di un nuovo modello di sviluppo, sostenibile in senso sociale e ambientale. Nei territori, le università possono attivare circuiti virtuosi per favorire lo sviluppo della creatività, l'innovazione e l'orientamento in senso ambientale e sociale dell'economia.

7.2 – MERITOCRAZIA: L'INGANNO DELLA COMPETIZIONE Usciamo dagli anni celebrati come “fine della storia”, anni nei quali un sistema, quello capitalistico, si è imposto come il solo possibile. Nell'ultimo trentennio si sono celebrate le presunte superiorità di un sistema economico privato in contrapposizione al sistema pubblico. Al posto della solidarietà, valore alla base dello Stato sociale, si è diffusa la religione della concorrenza. L'efficienza e il mito della crescita economica hanno fatto da corollario a decenni di privatizzazione che hanno trasformato i luoghi collettivi in arene competitive per il successo personale in nome del tutti contro tutti. Dalla suddetta matrice culturale neoliberista deriva l'idea di meritocrazia completamente astratta dalle dinamiche sociali, i cui tratti sono propri di una filosofia oligarchica. Una concezione di competizione sociale completamente sganciata dal reale che dimentica le disuguaglianze di reddito. La retorica della meritocrazia si incarna nella rinuncia al ruolo dell'istruzione come strumento fondamentale per la possibilità da parte di ognuno di migliorare le proprie condizioni economiche e


sociali. È come pensare ad una gara di velocità in cui i vari concorrenti partono da distanze diverse: alcuni, i più fortunati, dovranno percorrere un breve tratto per giungere al traguardo; altri, meno fortunati, saranno costretti a una lunga corsa per giungere all'arrivo. Sostituite i metri con le diverse condizioni di reddito e avrete ciò che molte forze politiche italiane, in maniera trasversale, intendono per merito. La nostra idea di merito si misura invece sull'uguaglianza delle opportunità e in ogni caso le capacità ed i meriti di ognuno vanno sempre analizzate come il prodotto di un processo di cooperazione e condivisione tra molti. La ricchezza culturale è un prodotto sociale e quindi non privatizzabile a favore di pochi. Noi scegliamo di ripartire dall’imprescindibilità del diritto allo studio e di un nuovo welfare universale come strumento di emancipazione sociale e dell'università pubblica come luogo in cui le differenti condizioni di partenza possano sciogliersi nell’accesso libero al sapere. L'università pubblica e il valore legale del titolo di studio devono essere la vera garanzia del diritto all’istruzione finalizzato allo sviluppo dell’intera società e non ad interessi parziali. Le proposte di utilizzo dei coefficienti di merito per calcolare le tasse universitarie avanzate in questi mesi da alcuni atenei sono perciò da rigettare in toto. Perché uno studente che ha una media più bassa, usufruendo degli stessi servizi di tutti gli altri, deve pagarli di più? Forse uno studente in ritardo non paga già più tasse dovendo pagare più anni di uno studente in regola? Sembra che in questo paese stia passando il principio per cui uno studente con risultati inferiori alla media sia una perdita e pertanto debba risarcire il danno che arreca, ovvero che la sua formazione sia fondamentalmente inutile. Si tratta invece, fortunatamente, di un laureato in più, un soggetto formato, un arricchimento per la società che ha investito in lui. Sostituire la logica della partecipazione collettiva a quella della competizione individuale significa rendersi conto che l'obiettivo dell'università è la diffusione del sapere come interesse sociale, e che l'interesse sociale della nostra collettività è avere a disposizione un numero più ampio possibile di cittadini dotati di una formazione di qualità. La trappola del merito va disinnescata. È vero che l’Università ha bisogno di merito, siamo noi studenti i primi a rivendicarlo. Ma il merito non va inteso come una discriminazione, bensì come un’opportunità. Invece di mettersi a punire insensatamente chi ha una media un po’ più bassa, perché l’università non si preoccupa di fornire opportunità di formazione aperte a tutti e all'altezza ai suoi studenti più capaci? Gli studenti hanno diritto a una formazione di qualità per tutti e per tutte, e a partire da questa base vanno costruite le opportunità di formazione alta in grado di valorizzare al meglio le menti della nostra generazione. Come è possibile parlare di alta formazione selezionata quando la nostra formazione universitaria di base, in alcune facoltà, è fatta di lezioni in cinema o teatri affollatissimi? Che livello di interazione tra studente e docente possiamo pretendere in queste condizioni? L'università deve essere il luogo dell'offerta di possibilità elevate e adatte alle diverse attitudini di ciascuno, così da garantire lo sviluppo delle capacità di ogni studente. Così come rifiutiamo ogni barriera all'accesso, siamo contrari a logiche di numeri chiusi interni ai processi formativi: l'università deve restare il luogo in cui a tutti è data la possibilità di misurarsi con i più strumenti formativi e organizzare propri percorsi di formazione personale nell'ambito di opportunità comuni per tutti. Pretendere di incentivare il merito sulla base di mance ed erogazioni monetarie è una truffa propagandistica. «Merito» ed «eccellenza» sono parole vuote a cui noi preferiamo sostituire «qualità» e «opportunità». Vogliamo un'intera generazione di studenti meritevoli formati in un'università d'eccellenza, e questo obiettivo non si raggiunge con premi e punizioni da quiz televisivo, bensì costruendo un sistema di qualità e opportunità formative all'altezza degli standard internazionali. Per un’università della qualità e del merito per tutti e per tutte c’è bisogno quindi di più investimenti da parte del governo, prendendoli magari dalle quote di bilancio destinate alle grandi opere o alle spese militari o al nucleare. L’unica risorsa di cui dispone l’Italia, oggi, sono i cervelli dei suoi giovani. L’unica grande opera in grado di rilanciare il nostro paese è investire su di loro, sulla loro


formazione, sulla ricerca.

8 - L'ALTRARIFORMA DELL'UNIVERSITÀ: PROPOSTA, PRATICA E PROCESSO In seguito alle turbolente proteste dell’Onda, nel 2008, tra molti di coloro che hanno opposto resistenza alle iniziative di smantellamento dell’università pubblica di questo governo si è venuta a formare la consapevolezza che non sarebbe più stato sufficiente perseguire una pur sacrosanta opera di protesta se non accompagnandola ad un processo di riflessione volto a elaborare proposte concrete. Giorno dopo giorno alla ferocia del governo, interessato a smantellare le università pubbliche, ultimo pericoloso baluardo del pensiero critico, si è contrapposta un’opposizione attonita (quando non complice), incapace di presentare all’Italia un diverso scenario per gli atenei. Era perciò palese che l’università non avrebbe avuto nessun aiuto esterno, e se avesse voluto salvarsi (o addirittura migliorarsi) lo avrebbe dovuto fare da sé. Fuor di ogni dubbio non è di certo la prima volta che il movimento studentesco si cimenta con la costruzione di proprie proposte. Il Maggio francese comincia con la repressione di assemblee e occupazioni in cui si discuteva di proposte molto concrete come la modifica delle modalità di svolgimento esami, un piano di assunzione di nuovi docenti, la costruzione di nuove aule. L'Onda ha affrontato la sfida dell'autoriforma dell'università, una sfida fallita, non solo per lo scontro emerso nell'assemblea nazionale dell'autoriforma nel novembre 2008, ma anche per una incapacità di conciliare obiettivi di lungo periodo, proposte concrete e immediate, e pratica costituente nell'università. Alla luce dell'attacco in corso al sistema pubblico della formazione non potevamo però continuare a leccarci le ferite del fallimento dell'autoriforma; serviva da subito ripartire da un percorso partecipato che affrontasse di petto il tema dell'alternativa. È in questo quadro che si inserisce il progetto AltraRiforma promosso dal coordinamento universitario LINK, un percorso inaugurato nel 2009, che da allora ha visto crescere la partecipazione, la diffusione e la profondità di analisi. L'idea di fondo è molto semplice: individuare le linee guida per una riforma strutturale ed effettivamente migliorativa del sistema pubblico d'istruzione terziaria a fronte di una sintesi ragionata delle esperienze di chi studia e lavora in università. Il percorso ha visto un coinvolgimento molto più largo del nostro coordinamento universitario. All'appello prima e all'assemblea nazionale del 26/27 marzo 2011 hanno preso parte: Adi, CPU, Rete 29 Aprile, FlC CGIL, Assemblea Permanente Urbino, Ateneo Controverso – Cosenza, Collettivo duekappaotto – Campobasso, Coordinamento universitario Link Tuscia, LINK Benevento, LINK Fisciano – Salerno, LINK Bari, LINK Kollettivo Foggia, LINK Napoli, Link Roma, LINK Siena, LINK Taranto Lista di Sinistra – Trieste, Movimento studentesco Macerata, Osserva - Osservatorio Indipendente d'Ateneo – Udine, Panenka – Bologna, Sindacato degli Studenti – Padova, Sinistra Per... – Pisa, Si Studenti Indipendenti – Torino, UDU Lecce. Il carattere straordinario e innovativo dell’Altra Riforma sta proprio nel legame inscindibile fra proposta e mobilitazione, per questo L’Altra Riforma non è semplicemente un elenco di idee concrete per migliorare l’università italiana, bensì una pratica politica costante che pone al centro il tema dell’alternativa e della reale possibilità di cambiamento di questo paese. Sarebbe riduttivo pensare all'AltraRiforma solamente come ad un testo; dopotutto, la stessa dell'AltraRiforma ricorda che questa è un percorso aperto, democratico, ed il documento "ufficiale" ha conosciuto almeno 3 stesure (quella originaria del novembre 2009, quella di Palazzo Campana del novembre 2010, quella di Roma del marzo 2011), nonché numerose modifiche su wikisaperi, e continuerà ad essere oggetto di discussioni ed emendamenti. Come attestano le modifiche apportate nel marzo 2011, il processo non si è fermato con l'approvazione della 240, ma si è anzi intensificato, a dimostrazione che l'obiettivo politico non è influenzato dall'avvenuta approvazione della legge Gelmini, ma guarda a lungo termine, al futuro


dell'istruzione superiore nel nostro Paese. Fino ad oggi l'AltraRiforma è stata arricchita da numerosi dibattiti, ed è riuscita a ricucire dicotomie che sembravano senza vie di fuga: promuovendo l'AltraRiforma abbiamo saputo infatti • criticare il governo senza cadere nella trappola di difendere l'esistente: LINK ha da sempre ammesso che l'università è veramente malata e bisognosa di una riforma, e che occorre difenderla dai suoi mali oltre che dai suoi nemici. Individuando alcuni dei problemi che la affliggono (ad es. scarsa democraticità dei processi decisionali in mano a pochi baroni, difficoltà a garantire l'accesso a tutti, rigidità e inadeguatezze dei percorsi formativi...). Così facendo si è dimostrato come le leggi promosse da questo governo aggravassero anziché risolvere i problemi; • difendere i diritti degli studenti senza limitarsi ad una lotta corporativa: soprattutto grazie al confronto con ricercatori e dottori di ricerca precari, abbiamo cercato di salvaguardare i diritti degli studenti inquadrandoli entro uno schema più generale, ripercorrendo i nessi che li legano indissolubilmente ai privilegi e ai problemi di altre categorie; • essere capaci di darsi un orizzonte utopico ma senza perdere la concretezza: in quanto manifesto d'intenti, l'AltraRiforma cerca di descrivere un'università ideale per questa società, anche arrischiandosi a fare rivendicazioni "utopiche". Tuttavia, sarebbe un errore pensare che la capacità di sognare vada contrapposta necessariamente ad uno spirito pratico: ben lungi dal credere di poter ottenere facilmente tutti i nostri obiettivi, abbiamo comunque ritenuto opportuno darci un orizzonte da perseguire nel lungo termine, che nel breve termine si incarni facendosi spazio nelle difficoltà del quotidiano in battaglie difficili ma quanto mai concrete quali quella della riscrittura degli statuti degli atenei. Se perseguito con la stessa o con maggiore costanza e dedizione, questo percorso potrebbe diventare un manifesto tanto solido ed articolato da imporsi come una pietra di confronto imprescindibile per ogni legislatore che voglia metter mano sull'università, nel locale così come nel nazionale. Per far sì che l'AltraRiforma entri in questo stadio di maturità occorerrà fronteggiare e superare ulteriori dicotomie, quali ad esempio: • la contrapposizione tra mondo della cultura e mondo della produzione: piuttosto che contrapporre differenti fazioni in lotta (ad es. ricerca applicata VS ricerca di base, discipline culturali VS discipline tecnoscientifiche, corsi di sturio professionalizzanti VS corsi di studio culturali ...) l'università dovrebbe essere in grado di bilanciare e comprendere l'indispensabilità di una cultura variegata e a 360 gradi per un migliore sviluppo della società; • l'autonomia degli atenei rispetto al loro ruolo nella società: i rapporti tra società e università non possono risolversi con l'assoggettamento delle università a pochi privati, che già le tengono supplendo alla carenza di finanziamenti governativi, e ancor più facilmente potrebbero trasformarla in un loro giocattolino se entrassero nei CDA come previsto dalla 240. D'altro canto, le università devono assumersi delle responsabilità nei confronti della società: probabilmente sono gli unici luoghi capaci di proporsi come motori della ripresa sociale ed economica, grazie al loro ruolo di difesa della memoria storica e di produzione e trasmissione di conoscenza tecnoscientifica e di cultura. È però fondamentale chiarire che l'AltraRiforma non è solo un testo di proposta per riformare l'università, una proposta di legge da presentare al Governo, anzi, è soprattutto un processo partecipato da un lato, e pratica concreta dall'altro. Ogni contenuto dell'AltraRiforma è, infatti, possibile vertenza immediata anche dentro le facoltà, pratica da mettere in campo dal basso, e processo perché attiva discussione collettiva sulla propria condizione dell'università.


8.1 - PER UN'UNIVERSITÀ PARTECIPATA: RIPENSARE LA RAPPRESENTANZA, REINVENTARE LA DEMOCRAZIA Gli atenei non sono mai stati dei luoghi davvero democratici. Vi è sempre stato un continuo restringersi o espandersi degli spazi di discussione, confronto, decisione. Si restringevano gli spazi di agibilità per i rettori e i baroni, altre volte si è riuscito a conquistare spazi, diritti, democrazia. A seguito del grande ciclo di mobilitazione degli anni '70, scuole e università hanno visto l'introduzione di organi di governo collegiali, della rappresentanza studentesca. Oggi, è più che mai necessario superare anche quel modello. E' necessario, anche a seguito delle straordinarie esperienze di mobilitazione di questi anni, e soprattutto, alla luce dei mutamenti all'interno dell'università italiana, che tra 3 + 2 e processo di Bologna, hanno modificato tempi e modi con i quali gli studenti vivono la partecipazione alla vita degli atenei. Le mobilitazioni di questi due anni hanno segnato profondamente il movimento studentesco, dopo alcuni anni con scarse mobilitazioni si tornava ad avere le assemblee piene di studenti desiderosi di esprimersi e portare il proprio contributo, ci si trovava davanti ad un'ampia richiesta di partecipazione e di democrazia con cui ci si doveva confrontare. Le università e le scuole pubbliche sono forse ad oggi gli ultimi luoghi collettivi assieme alle fabbriche ed è all'interno di questi luoghi che una nuova soggettività sociale ha reinventato le forme di partecipazione democratica: nascevano dalle assemblee dell'onda spontaneamente gruppi di lavoro e analisi pronti a dare il loro contributo alla mobilitazione. Inoltre in particolare in questi ultimi anni siamo riusciti a superare una storica dicotomia esistente tra rappresentanza e movimento, la rappresentanza studentesca infatti non può che è essere uno strumento e mai un fine. Uno strumento utilizzato dalle organizzazioni studentesche per agire all'interno degli organi accademici, aprire nuovi spazi di conflitto e praticare democrazia. La rappresentanza deve essere uno strumento anche a servizio del movimento studentesco capace di acquisire così una maggiore capacità di analisi e di sviluppo di proposte politiche, condannando l'idea di una rappresentanza come fine ultimo delle organizzazioni studentesche, slegata dal movimento ad un isolamento politico e ad una sempre maggiore distanza dalle reali esigenze degli studenti e dalle pratiche con cui si esprime ad oggi la partecipazione negli atenei che deve sempre mirare a ridurre la distanza tra rappresentanti e rappresentati. Come LINK-Coordinamento Universitario siamo convinti che ci debba porre la sfida dell'espansione dei diritti e della partecipazione democratica alle scelte operate nei propri luoghi di formazione. Risulta evidente come da parte del ministro Gelmini ci sia la volontà di togliere quel poco di agibilità che gli studenti hanno all'interno degli organi di governo dell'Università, come è chiara la volontà di spostare la maggior parte del potere decisionale nelle mani dei Rettori. Risulta necessaria una mobilitazione che vada nella direzione di aumentare la qualità della partecipazione degli studenti nelle scelte che li riguardano, sia garantendo forme di democrazia diretta, sia provando a legare la rappresentanza a questi strumenti. Oggi in particolare a seguito dell'approvazione della legge Gelmini e della conseguente riscrittura degli statuti delle università che vedranno una diminuzione degli scarsi spazi di democrazia già esistenti occorre ragione e ripensare a forme nuove di partecipazione. Tramite lo strumento dell'AltraRiforma siamo stati capaci di fare un'analisi e un'elaborazione di proposte sul tema e crediamo che esse vadano sempre ampliate con la ricerca costante di nuovi spunti. Noi vogliamo una democratizzazione dei processi decisionali, da realizzare tramite una maggiore trasparenza e l’allargamento della rappresentanza negli organi accademici ai dottorandi, precari, ricercatori e studenti e l'introduzione di strumenti di democrazia diretta e partecipata. Pensiamo che la miglior cura contro il clientelismo e la corruzione sia il controllo democratico dal basso e non l'accentramento del potere baronale e aziendale. Inoltre riteniamo che il rapporto tra Università e mondo esterno non debba risolversi con la sottomissione del mondo universitario alle ingerenze di politici e privati, ma in un dialogo alla pari tra il mondo universitario e il tessuto sociale e


produttivo della società civile, Riteniamo che l'autogoverno dell'Università debba essere uno dei principi fondamentali alla base del processo decisionale negli organi. Pensiamo che nessun esterno possa comporre gli organi di governo dell'ateneo, siano essi enti locali o privati non possono far parte di alcun organo deliberativo, in particolare del CdA . Parlare di democrazia oggi negli atenei significa anche analizzare i cambiamenti provocati dalla legge 240/2010. La riforma Gelmini della governance prevede lo svuotamento dei poteri del Senato Accademico (maggior organo politico dell'Università) e il rafforzamento di quelli del Consiglio di Amministrazione (maggior organo amministrativo dell'Università). A questo spostamento di competenze si accompagna da un lato la previsione della presenza di un numero di esterni (tra cui privati) all'interno del Consiglio di Amministrazione e dall'altro la riduzione, all'interno di quest'organo della rappresentanza studentesca. Ciò comporterà da un lato la formazione di indirizzi politico-strategici che avranno a monte non delle valutazioni culturali, di lungo periodo, sulla qualità dell'offerta didattico-formativa, ma valutazioni di cassa e previsioni di profitto e dall'altro la drastica riduzione della possibilità, da parte degli studenti, di incidere sul processo decisionale (un processo decisionale che riguarda scelte che toccano direttamente la condizione dello studente universitario). Oltre a questa, c'è tutta un'altra serie di norme che va nella stessa direzione. Ricordiamo, ad esempio, il fatto che, con la riforma, si sancisce uno strapotere del Rettore, che avrà la possibilità di scegliere i suoi “vassalli” dentro il Consiglio di Amministrazione in base alle mere competenze finanziarie e non in ragione della loro esperienza in materia di ricerca e didattica. L'attuale processo di modifica degli Statuti degli atenei italiani per essere resi conformi alle norme della 240/2010, ci impone una seria riflessione, da un lato, su quali siano i nostri margini di manovra, malgrado l'approvazione della riforma Gelmini, per l'espansione dei diritti e della partecipazione democratica alle scelta operate nei luoghi di formazione e, dall'altro, sulla formulazione di una serie di proposte relative a questi temi, proposte che rientrino nella nostra idea dell'Università, che rientrino nella nostra AltraRiforma. Per quanto riguarda il primo punto, riteniamo opportuno fare una battaglia durante l'iter di modifica degli Statuti per far inserire norme che rendano possibile l'ampliamento degli spazi di democrazia e partecipazione, bilanciando le intenzioni di una riforma che va su tutt'altra strada. Crediamo innanzitutto, che tutte le decisioni prese all'interno degli organi debbano essere assunte nella massima trasparenza. Inoltre dobbiamo lavorare affinché siano previsti all'interno dei nuovi statuti, strumenti e forme di partecipazione come: referendum consultivi, abrogativi, confermativi; delibere di iniziativa popolare, meccanismi di iniziativa studentesca; assemblea di facoltà, aperte a tutte le componenti, con scadenza regolare e sospensione della didattica; question time tra le fasi di lavoro degli organi, come strumento per la popolazione studentesca per proporre interrogazioni sui temi oggetto di discussione e deliberazione; progettazione partecipata nel campo dell’edilizia. Premesso quindi che riteniamo essenziale mettere in campo una mobilitazione durante il processo di modifica degli Statuti sulle suddette tematiche; crediamo, inoltre, sia opportuno fare un lavoro più ampio per pensare a nuove forme del processo decisionale all'interno dei nostri atenei. Oltre a questi principi, che dovrebbero essere alla base della costituzione degli organi decisionali degli atenei italiani, la nostra elaborazione ci ha permesso di pensare a forme innovative di partecipazione democratica, come: l'istituzione di assemblee di facoltà e di ateneo periodiche e ufficiali, con sospensione delle lezioni, per favorire un rapporto diretto tra gli studenti e i loro rappresentanti; l'istituzione di Conferenze di Ateneo; la previsione di specifiche competenze ai rappresentanti degli studenti, comprendenti il controllo sulla qualità dei servizi e la possibilità di esprimere un parere vincolante sui temi che riguardano più direttamente gli studenti; la previsione di ipotesi di bilancio partecipativo; l'introduzione di istituti di democrazia diretta come il referendum studentesco; l'iniziativa studentesca; la consultazione degli studenti tramite questionari anche mediante il sito internet; l'adozione dello Statuto dei diritti delle studentesse e degli studenti e del Codice deontologico che regoli le incompatibilità nell'assunzione di familiari e i limiti di mandato su tutte le cariche.


Tutte le pratiche che mirano ad ampliare la democrazia negli atenei vanno messe in campo da subito all'interno delle nostre università, non si può attendere che siano Baroni o Rettori ad inserire negli statuti forme nuove di consultazione studentesca, l'obiettivo deve essere quello di far partecipare costantemente gli studenti alle scelte e alle decisioni dell'ateneo, il referendum studentesco anche dove non legittimato dagli atenei deve essere uno strumento utilizzato dalle nostre organizzazioni per confrontarsi con gli studenti e renderli partecipi delle scelte. Le nostre organizzazioni e il movimento studentesco devono essere in grado di riaprire e legittimare nuove forme di democrazia e di partecipazione alla vita e alle scelte dell'ateneo praticandole costantemente nelle università. Nell'AltraRiforma proponiamo: 1. Autogoverno dell'università: nessun esterno può comporre gli organi di governo dell'ateneo. Siano essi enti locali o privati non possono far parte di alcun organo deliberativo, in particolare del Consiglio di Amministrazione. 2. Chiara definizione del ruolo degli organi: il consigli di amministrazione deve gestire il bilancio sulla base degli indirizzi politici del Senato Accademico, a cui devono essere forniti tutti gli elementi per decidere liberamente. 3. Trasparenza e pubblicazioni in tempi rapidi degli atti. 4. Introduzione di una rappresentanza di tutte le componenti universitarie negli organi collegiali, senza andare a discapito della componente studentesca. 5. Elezione diretta di tutti gli organi collegiali per la parte della rappresentanza studentesca. 6. Il mandato dei rappresentanti degli studenti deve essere al massimo di durata biennale per consentire agli studenti di esprimersi e di valutare puntualmente il loro operato. 7. Presenza obbligatoria effettiva degli studenti e/o dottorandi all’interno dei nuclei di valutazione. Non possiamo accettare che la valutazione della didattica e dei servizi dei nostri atenei venga effettuata senza la componente studentesca. 8. Rafforzamento del ruolo delle commissioni didattiche paritetiche (vedi sezione didattica). 9. Riconoscimento di specifiche competenze ai rappresentanti degli studenti, comprendenti il controllo sulla qualità dei servizi e la possibilità di esprimere un parere vincolante sui temi che riguardano più direttamente gli studenti. 10. Radicale riforma dei Consigli degli Studenti, oggi pressoché inutili e fonte di burocratizzazione e corruzione. Non devono poter gestire i fondi per le attività studentesche e devono servire principalmente da occasione di confronto tra i rappresentanti nei consigli di facoltà e quelli negli organi centrali. 11. Istituzione di assemblee di facoltà periodiche ufficiali con sospensione delle lezioni, per favorire un rapporto diretto tra gli studenti e i loro rappresentanti. 12. Conferenze di Ateneo. Ogni 6 mesi, e comunque prima dell'approvazione dell'offerta formativa. Può essere generica o affrontare singole macro-tematiche (Diritto allo studio, Offerta formativa, Rapporto con il territorio, Internazionalizzazione, etc.) 13. Introduzione di istituti di democrazia diretta come il referendum studentesco: Introdurre negli statuti di ateneo una forma di consultazione promossa dalla stessa Università nelle sue varie articolazioni (centrali e periferiche), dai rappresentanti degli studenti e dagli studenti singoli. Il referendum può essere consultivo (su proposte in via di approvazione), propositivo o di rinvio (per proposte già approvate dagli organi). Il referendum può essere uno strumento estendibile a tutte le categorie (studenti, precari, ricercatori, docenti)e applicabile sul livello di ateneo così come sui livelli periferici. In caso di referendum propositivo o di rinvio vi è l'obbligo di discussione della proposta presentata con referendum entro la prima seduto. In caso di rinvio la medesima delibera può essere approvata nuovamente solo con i 2/3 dei voti dell'organo. In entrambi i casi l'Organo si riunisce in seduta aperta. Si prevede un meccanismo di accettazione della legittimità quesiti da parte di una apposita commissione paritetica o di un garante degli studenti. Il referendum può essere indetto da una percentuale della rappresentanza studentesca (il 25% degli eletti in Consiglio degli studenti o nei consigli di facoltà nelle università in cui esso non è presente) o in alternativa mediante raccolta firme a sostegno del quesito. I dettagli tecnici sulle modalità di presentazione del quesito sono rinviati al regolamento generale di ateneo, fermo restando il principio di richiedere un elevato numero di firme per la categoria interessata, in modo da evitare un uso improprio dello strumento e sprechi di risorse. 14. Iniziativa studentesca: possibilità di vincolare l'organo competente a discutere la proposta avanzata con l'iniziativa stessa, inserendola all'ordine del giorno della seduta successiva, in ordine di tempo, al giorno di presentazione della proposta. L'organo sarà, oltretutto, vincolato a votare la proposta e ad inviare una risposta scritta e motivata al primo firmatario. Per di più è prevista la presenza del primo firmatario nella seduta in cui verrà discussa la proposta. In caso di istanze scritte gli organi sono tenuti a rispondere entro 30 giorni. 15.Prevedere nello statuto assemblee periodiche di ateneo, scuole/facoltà e corso di laurea, per creare partecipazione e coinvolgere lo studente nelle scelte portate avanti all'interno degli organi decisionali dell'ateneo. Crediamo inoltre che sia importante, garantire a tutti la possibilità di partecipare senza perdere ore di lezione e permettendo quindi una più ampia partecipazione, esigenza per la quale richiediamo il blocco della didattica. In caso di indizione di un'assemblea è automaticamente sospeso l'obbligo di frequenza. In specifici casi può essere richiesto, mediante raccolta firme degli studenti interessati, la sospensione della didattica. Viene pertanto istituito un monte ore annuale dal quale attingere sulla base di richieste da parte di studenti o liste di rappresentanza. 16. Sono periodicamente effettuate consultazione degli studenti questionari anche mediante il sito internet. 17.Adozione dello Statuto dei diritti delle studentesse e degli studenti e del Codice deontologico che normi le incompatibilità nell'assunzione di familiari e i limiti di mandato su tutte le cariche. 18. Allargamento dell'elettorato attivo per il rettore a tutti gli studenti (con voto ponderato). 19. Accorpamento di dipartimenti e facoltà su criteri scientifici e didattici. 20. Radicale riforma dalla rappresentanza studentesca nazionale, oggi del tutto inefficace, secondo i seguenti criteri: • Abolizione del CNSU e creazione della conferenza nazionale studenti–MIUR. In tale conferenza saranno presenti 1, 2


o 3 rappresentanti degli studenti per ogni ateneo, a seconda del numero di iscritti, eletti direttamente dagli studenti nelle normali elezioni d'ateneo con un apposito incarico oppure selezionati tra i più votati nei Senati Accademici. L'attuale budget per i gettoni di presenza del CNSU sarebbe assolutamente sufficiente a coprire i costi della conferenza. • Possibilità da parte della conferenza studenti-MIUR di convocare referendum studenteschi nazionali. • Audizione obbligatoria di membri della conferenza nelle commissioni parlamentari e ministeriali quando si parla di università. • Istituzione di un organo previsto dalla 390/91: la Consulta nazionale del DSU, con competenze in merito alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e una consistente rappresentanza studentesca.

8.2 - UN DIRITTO ALLO STUDIO PER TUTTI Il diritto allo studio universitario sta attraversando uno dei momenti più critici della storia recente, travolto dalla riforma Gelmini e dai tagli derivanti dalla finanziaria, che lo deformano in strutture e finalità. La legge finanziaria 2011 n.220 del 13/12/2010 riduce il fondo integrativo statale per le borse di studio del 95% in quattro anni ( da 246 milioni di euro del 2009 a 13 milioni di euro nel 2012). Inoltre i tagli ai fondi di finanziamento per gli enti locali hanno portato come logica conseguenza ad una riduzione degli stanziamenti delle amministrazioni regionali che vanno a finanziare quella parte di diritto allo studio che è di loro competenza ( mense e residenze universitarie ). Già da quest'anno si sono palesati così i risultati di queste manovre: l'aumento delle tariffe per i servizi offerti ( mense e attività culturali e sportive ), ma soprattutto la certezza di non poter garantire lo stesso livello di copertura alle borse di studio per i prossimi anni, che già quest'anno ha visto un calo dell'erogazione e una media nazionale del 40% di copertura degli idonei. Da anni denunciamo la situazione del diritto allo studio in Italia, un diritto fondamentale al quale il ceto politico, di qualunque colore, ha sempre dimostrato un'attenzione irrisoria, se non inesistente. Questa situazione disastrosa è fotografata da un rapporto dell' OCSE, "Education at a Glance 2010", che contiene dati relativi al 2007 – ben prima degli ultimi tagli di Tremonti – e colloca il nostro paese all' ultimo posto per percentuale di studenti beneficiari di borse o provvidenze. Unico caso tra i paesi OCSE, l'Italia, che con la creatività che ci contraddistingue, ha creato la figura “dell'idoneo non beneficiario” di borsa di studio: tale studente ha un diritto costituzionalmente garantito ex art. 34 ( “ ... I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. “ ); ha vinto un bando pubblico per farlo valere; ma lo Stato, non stanzia fondi sufficienti a coprire tutti i beneficiari, gli nega tale diritto, e in sostanza gli dice “arràngiati!”. Da tale situazione derivano forti disparità e discriminazioni a livello locale, poiché per la mancanza di una legge quadro nazionale, le Regioni affrontano in maniera differente questo problema, con divergenze di disponibilità economica e di sensibilità sulla crucialità del tema. In questo scenario deprimente, il nostro Ministro dell'Economia ha pensato bene di versare sale sulle ferite aperte tagliando ulteriormente i fondi già scarsi. ponendo un reale blocco all'accesso al sapere. Risulta utile fare un paragone con l'Europa e con il sistema di di dritto allo studio di altri paesi, in Francia e Germania, a parità di studenti universitari con l'Italia, si investono 1,4 miliardi di euro sul DSU, in Italia nel 2009 solamente 469 milioni che equivalgono a circa 500.000 beneficiari in Germania e Francia contro i 150.000 in Italia. I posti letto nelle residenze universitarie erano pari 160.000 in Francia e 180.000 in Germania e 40.000 in Italia. Con questa situazione paragonata ad altri paesi europei che stanno continuando ad investire sul DSU, in Francia da anni è in atto un piano di edilizia universitaria che mira ad ampliare in numero di alloggi universitari, il governo italiano ha pensato bene di ridurre ulteriormente i finanziamenti. Per dimostrare di avere davvero interesse a promuovere la valorizzazione delle competenze e la formazione di eccellenze uno Stato deve innanzitutto impegnarsi a mettere il maggior numero possibile di studenti nelle condizioni di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione, in conformità a


quanto sancito dall’articolo 34 della nostra Costituzione. Questo è possibile solo attraverso la copertura totale delle borse di studio, mediante uno specifico fondo statale erogato alle Regioni di almeno 321 milioni di euro, comprendenti il reintegro dei tagli contenuti nella legge finanziaria 2011. In questo modo si metterebbe fine all'assurdità degli “idonei non benificiari”. I tagli di Tremonti da un lato e la riforma Gelmini dall'altro tracciano i contorni di un progetto ben chiaro e diametralmente opposto al nostro sul diritto allo studio. Infatti gli articoli della legge 240/2010 dedicati alla riforma del diritto allo studio universitario ripetono più e più volte la formula “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica”, ad indicare come la politica del governo voglia disimpegnare lo Stato dal proprio fondamentale ruolo nella formazione pubblica e nel libero accesso ad essa, ma erogando nello stesso tempo 25 milioni di euro agli atenei privati. Da una parte si introduce il tanto propagandato Fondo per il Merito e il sistema dei prestiti d'onore a studenti scelti senza alcun requisito di reddito, prestiti che gli studenti dovranno restituire al termine degli studi, con il solo risultato che i meno abbienti si troveranno indebitati con una banca ancor prima di iniziare a lavorare. Con una montagna di debiti alle spalle, al termine degli studi, il laureato sarà invogliato ad accettare qualsiasi lavoro, se lo troverà e all'interno di questo, ad accettare qualsiasi sopruso al quale il datore di lavoro lo sottoporrà, aumentando ulteriormente il grado di precarietà e sfruttamento dei lavoratori. Dall'altra all'art. 5 della riforma si delega il governo ad intervenire sul sistema attuale di diritto allo studio a proprio piacimento e senza alcuna possibilità di controllo parlamentare. Se la finanziaria è l'arma economica per prosciugare il diritto allo studio, l'art. 5 è l'arma normativa con la quale il ministro potrà distruggere tutto il sistema legislativo di protezione del diritto allo studio, dato che la delega al governo include la definizione dei Livelli Essenziali ( minimi ) delle Prestazioni ( LEP ) da garantire ( borse di studio, trasporti, assistenza sanitaria, ristorazione, accesso alla cultura, alloggi ), prima meglio garantiti tramite legge ordinaria. Inoltre, la previsione di borse e premi di studio finanziati da fondazioni bancarie e da altri enti privati non trasparenti trasformano la possibilità di accesso alla formazione universitaria da diritto a privilegio. Si vuole così che l’ università torni ad essere un luogo d'elite a cui potranno accedere, come un tempo, solo i rampolli dei ceti benestanti del paese, i figli della casta politica, baronale, imprenditoriale-finanziaria e dei loro servi zelanti. Gli effetti dei tagli nelle realtà territoriali si sono avvertiti in maniera evidente. Anche in quei pochi contesti dove la copertura totale degli idonei veniva garantita, è stata posta gravemente a rischio. In molti casi si prospettano anche revisioni di già discutibilissimi requisiti di reddito e di merito. Per non creare “idonei non benificiari” si pensa piuttosto a come restringere le maglie di chi ha diritto ai sussidi, proponendo ad esempio di abbassare i limiti ISEE, che in molte regioni risultano già estremamente ridotti. C'è bisogno di una legge quadro nazionale sul diritto allo studio, che stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni erogati dalle Regioni e in particolare l'entità minima garantita delle borse di studio. Il fondo nazionale per il diritto allo studio dev'essere, di conseguenza, sufficiente almeno per coprire i Lep e dopo aver raggiunto la copertura totale delle borse di studio, è necessario un ampliamento degli idonei, estendendo i criteri di reddito sulla base dei quali viene assegnata la borsa di studio. È evidente poi il pericolo, in un momento di crisi e di definanziamento, di ricorrere a dubbi strumenti alternativi per sopperire alle esigenze di funzionamento delle aziende e degli enti regionali preposti al diritto allo studio. Mezzi come i project-financing, che vengono spacciati come soluzione alla mancanza di finanziamenti pubblici per l'edilizia universitaria, si rivelano come truffe legalizzate, ai danni dei contribuenti, promosse da società interessate unicamente a lucrare sulle proprie attività, e che gravano per decenni sui bilanci degli enti locali. Similmente accade per le esternalizzazioni dei servizi, con costi che si scoprono ingestibili e con una qualità irrimediabilmente inferiore ai servizi erogati in maniera diretta. La costituzione in ogni regione di un osservatorio regionale sul diritto allo studio, permetterebbe alle studentesse e agli studenti, di monitorare i servizi e borse erogati da ogni agenzia, istituendo organi di controllo da parte degli studenti per la qualità delle mense e dei servizi, potendo in questo


modo intervenire direttamente attraverso vertenze territoriali all'equiparazione su canoni nazionali imposti. E' indispensabile poi vietare ogni esternalizzazione ai privati dei servizi per il diritto allo studio. Inoltre bisogna evitare ogni tipo di costruzione edilizia tramite lo strumento del project-financing, prevedendo un piano pluriennale di finanziamento straordinario per l'edilizia universitaria, che finanzi la realizzazione, tramite il recupero di determinate aree urbane, di nuove case dello studente e di alloggi pubblici a canone concordato. Diritto all'abitare significa diritto alla casa; ma anche a un'esistenza degna, all'interno di un contesto urbano accogliente; e a un sistema di servizi all'altezza degli standard europei. Ogni tanto i media “scoprono”, il dramma degli affitti a nero o del caro affitti. E’ un dramma quotidiano con cui migliaia di studenti fanno i conti ogni giorno. E’ necessario consolidare il sistema delle case alloggio e porre in atto una politica abitativa per gli studenti capace da un lato di non allontanarli dai centri storici e ghettizzarli in quartieri dormitorio, dall’altro di contenere i costi. A causa della mancanza o della scarsità dei controlli, gli studenti sono in balia della speculazione del mercato immobiliare, con affitti stellari per case poco dignitose e quasi sempre con contratti a “nero”. Chiediamo l'impegno degli enti locali a sopperire a questa negligenza, attraverso la costituzione di patti territoriali assieme ai sindacati dei proprietari, degli inquilini e affittuari, con una tutela legale per gli studenti. Riteniamo cruciale, inoltre, fare una battaglia contro gli “affitti in nero” che, oltre a non garantire i diritti previsti per legge agli affittuari, provocano un danno economico agli studenti e alle loro famiglie che in questo modo non riescono ad usufruire delle detrazioni economiche che avrebbero con un normale contratto regolarmente registrato. Uno strumento utile potrebbe essere il censimento degli studenti fuorisede e degli immobili inutilizzati di proprietà del comune e dell’università, organizzando in questo modo un controllo sulle abitazioni non occupate, con la possibilità di requisire gli alloggi sfitti. Servono inoltre contributi pubblici per gli affitti, sul modello francese, e iniziative, come lo sportello casa gestito da Università e Comune, in grado di favorire la lotta al sommerso, attraverso l' incrocio dei database tra agenzie regionali per il DSU, enti locali ed Università. Attraverso, poi, delle convenzioni con la Guardia di Finanza, si potrebbe disincentivare l’evasione fiscale e la speculazione a danno degli studenti. Ogni studente ha diritto a una carta per la mobilità che, allo stesso prezzo agevolato, a prescindere dal luogo di residenza, lo renda in grado di accedere ai luoghi della formazione e di muoversi liberamente sul territorio nazionale. Nel mondo della “Globalizzazione”, dell’abbattimento delle frontiere fisiche e virtuali per il raggiungimento delle conoscenze, delle informazioni e delle necessità di ognuno, è ridicolo che esistano delle difficoltà per il nostro paese nel permettere a tutti, e specialmente ai soggetti in formazione, di spostarsi in piena libertà. Il pendolarismo, fenomeno di massa per gli studenti universitari, la dislocazione dei luoghi della formazione nelle periferie delle città e la distanza dal centro storico hanno fatto della mobilità un nuovo ostacolo nel raggiungimento del diritto al sapere. L’emergenza ambientale poi ci impone un ripensamento degli stili di vita e della geografia urbana, per limitare l'uso dell'auto. Bisogna richiedere una mobilità sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale che richieda politiche pubbliche di investimento, istituendo convenzioni sui trasporti per rendere gratuiti da subito i trasporti urbani nelle aree municipali universitarie, senza distinzione tra residenti e non residenti, e per ridurre al 50% il costo dei trasporti extraurbani in tutte le regioni per i pendolari, per poi arrivare gradualmente alla gratuità totale della tratta casa-università entro 4 anni. Lo scenario della crisi economica internazionale e la retorica dell'indebitamento pubblico e del rispetto degli impegni comunitari velano ancora una volta la battaglia puramente ideologica che la destra ci muove contro, per cancellare il nostro diritto a non essere ignoranti: chiediamo investimenti su sapere, ricerca e formazione, e ci rispondono con spese militari, finanziamenti a scuole e atenei privati, grandi (e mafiose) opere, nucleare. A fronte di questo duro attacco, si è levata alta la voce di protesta di chi continua instancabilmente a difendere un diritto imprescindibile per ogni società che voglia definirsi civile. L'esperienza della mobilitazione di questo autunno, che ha raggiunto l'apice nelle mobilitazioni di Dicembre, ha dimostrato che da parte di un'intera generazione c'è la presa di coscienza del fatto che il diritto allo


studio come strumento di accesso al sapere, ed infine presupposto di emancipazione sociale, viene continuamente svilito e calpestato da una casta politica ed economico-finanziaria che cura solo gli interessi di bottega ed ha una visione prospettica che non supera mai i cinque anni che la separano dalle elezioni successive, laddove invece una formazione universitaria e una ricerca di alta qualità richiedono una programmazione di ben più ampio respiro. Il movimento però ha compiuto un passo ulteriore, riscoprendo nelle ingiustizie di un settore le disuguaglianze di un intero sistema. Le rivendicazioni hanno mostrato una generazione che ha deciso di ribellarsi ad un destino di precarietà, portando avanti una critica che supera il mondo della conoscenza per investire quello del lavoro, mostrando così ad una società dormiente tutta l'irruenza di chi vuole riappropriarsi del proprio futuro. Il finanzimento sull'università e sul sistema di diritto allo studio è ciò che permette ad un giovane di questo paese di avere una reale “alternativa alla fuga”. Il movimento di questo autunno ha saputo essere dirompente in quanto parlava ad una generazione e non contestava solo una legge, il tema del futuro era al centro degli slogan del movimento. Un futuro non precario, che si costruisce investendo sulla formazione e dando a tutti la possibilità di studiare e di accedere ai più alti livelli di istruzione. Lo stato deve mettere tutti in condizione di poter studiare garantendo a tutti, tramite un sistema di welfare adeguato, la possibilità di continuare il proprio percorso di formazione. Una borsa di studio, un posto letto in una residenza, i trasporti gratuiti sono ciò che permette ad un giovane, malgrado le difficoltà economiche esistenti, di proseguire gli studi e di avere quindi un futuro in questo paese evitando una fuga solitaria. Non limitandoci a criticare semplicemente l'esistente, ma avendo una chiara idea su quale direzione debba intraprendere l'università italiana in tema di diritto allo studio, pensiamo che sia necessario distinguere radicalmente e con decisione il concetto di borsa di studio a sostegno del reddito da quello di premio al merito. La nostra posizione su questo punto è chiara: il premio al merito è doveroso ma deve necessariamente essere subordinato al sostegno al reddito. Infatti solo dopo aver garantito un'effettiva uguaglianza d'accesso all'università pubblica anche ai meno abbienti si può selezionare equamente i meritevoli, altrimenti la valutazione sarebbe falsata dalla disparità delle condizioni sociali di partenza, ed il potenziale di una parte della società rimarrebbe inespresso. La valutazione del merito deve esserci, ma deve essere considerata secondaria rispetto all'obiettivo primario della formazione dello studente, e deve avvenire solo dopo che siano stati reperiti i fondi per garantire l'effettivo e reale diritto alla conoscenza di quanti vogliano dare un contributo alla ricerca del Sapere. L'università non può e non deve essere uno strumento funzionale alla necessità delle imprese di selezionare il personale, ma un cammino di formazione che faccia crescere, maturare e migliorare le potenzialità quasi infinite dell'uomo. Queste rivendicazioni potranno sembrare utopistiche e peregrine in Italia, perchè da troppo tempo siamo abituati a pensare che non c'è mai limite al peggio, e che un miglioramento delle condizioni di vita sia impossibile. Ma in altri paesi europei, che hanno sviluppato un sistema di welfare universitario molto più universale del nostro, tutto questo è possibile. Nello specifico, riteniamo che i modelli esemplari siano quelli olandese, scandinavo e francese, cioè quelli che contemporaneamente riescono a garantire sia i premi al merito sia la possibilità di studio e formazione a chi parte da condizioni più svantaggiate, ad un numero di persone molto più alto rispetto all'Italia. E fra questi tre modelli riteniamo che il migliore sia quello francese in quanto fa ricorso molto meno allo strumento del prestito d'onore. Questo modello di welfare universitario è stato concepito, in questi paesi, per trasmettere agli studenti un chiaro messaggio: coloro che intendono cimentarsi nell'attività accademica, rappresentano una parte della società utile, rispettata ed apprezzata. Gli studenti stanno svolgendo un vero lavoro sociale per la nazione e per questa ragione devono essere sostenuti ( per quanto riguarda il reddito ) e remunerati per i loro sforzi ( per il merito ) come se stessero effettivamente lavorando. Ed in questi paesi i risultati, in termini di crescita economica e qualità della vita, non si fanno attendere. Questo esito si può produrre anche in Italia, ma può avvenire esclusivamente attraverso un massiccio intervento, economico ma anche di


attenzione, dello Stato e della classe dirigente del nostro paese sul tema dell'universalità del diritto allo studio e della centralità dell'università e della ricerca pubblica. Il diritto allo studio, lungi dall'essere una voce di passivo in bilancio, da tagliare ragionieristicamente, deve essere considerato come un vero e proprio investimento produttivo alla crescita morale e materiale del nostro paese, perchè libera le energie costruttive delle nuove generazioni. Nell'AltraRiforma si propone 1. Una legge quadro nazionale sul diritto allo studio, che stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni erogati dalle Regioni e in particolare l'entità minima garantita delle borse di studio. Il fondo nazionale per il diritto allo studio dev'essere, di conseguenza, sufficiente almeno per coprire i Lep. 2. Copertura totale delle borse di studio, mediante uno specifico fondo statale erogato alle Regioni di almeno 321 milioni di euro, comprendenti il reintegro dei tagli contenuti nella legge di stabilità 2011. In questo modo si metterebbe fine all'assurdità degli “idonei non benificiari”, studenti alle quali è riconosciuto il diritto alla borsa di studio ma che, di fatto, non la ricevono. 3. Dopo aver raggiunto la copertura totale delle borse di studio, è necessario un ampliamento degli idonei, estendendo i criteri di reddito sulla base dei quali viene assegnata la borsa di studio. 4. Istituire convenzioni sui trasporti per gli studenti per rendere gratuiti da subito i trasporti urbani nelle aree municipali universitarie, senza distinzione tra residenti e non residenti, e per ridurre al 50% il costo dei trasporti extraurbani in tutte le regioni per i pendolari, per poi arrivare gradualmente alla gratuità totale della tratta casa-università entro 4 anni. 5. Abolizione del prestito d'onore e di ogni forma di sostegno al diritto allo studio che preveda l'indebitamento degli studenti. In particolare in questo contesto di carenza di finanziamenti sul diritto allo studio riteniamo che l'incentivazione del merito vada perseguita con opportunità di formazione di qualità e non con “mance” e erogazioni monetarie. 6. Incremento delle risorse per le borse part-time di collaborazione presso le università italiane (150 ore). Le borse vanno assegnate secondo i criteri con cui vengono erogate le borse di studio, e va definito un livello minimo nazionale della retribuzione oraria, pari alla media delle retribuzioni attuali. In nessun caso le 150 ore vanno utilizzate per svolgere le mansioni del personale tecnico-amministrativo. 7. Istituzione di una “borsa preventiva” di carattere nazionale, erogata agli studenti iscritti all'ultimo anno della scuola superiore per favorire la loro libera scelta, indipendentemente dalla regione nella quale lo studente scegliesse di studiare. 8. Previsione di agevolazioni nella tassazione per gli studenti lavoratori e di meccanismi di incentivo alla loro regolarizzazione. 9. Istituzione di un programma di mobilità temporanea interna al territorio nazionale. 10. Istituzione di organi di controllo da parte degli studenti per la qualità delle mense e dei servizi agli studenti. 11. Nessuna esternalizzazione ai privati dei servizi per il diritto allo studio, neanche sotto forma di project financing. 12. Tutela e promozione dei diritti degli studenti disabili, attraverso il loro coinvolgimento attivo. 13. Sperimentazione di quote di bilancio partecipato nelle Ardsu. 14. Carta di cittadinanza studentesca per l'accesso gratuito ai contenuti culturali. 15. Costituzione in ogni regione di un osservatorio regionale sul diritto allo studio. 16. Piano pluriennale di finanziamento straordinario per l'edilizia universitaria, che finanzi la realizzazione, tramite il recupero di determinate aree urbane, di nuove case dello studente e di alloggi pubblici a canone concordato. Servono inoltre contributi pubblici per gli affitti, sul modello francese, e iniziative, come lo sportello casa gestito da Università e Comune, in grado di favorire la lotta al sommerso. Possibilità di requisire gli allloggi sfitti. Incrocio dei database tra Comune, Ardsu e università per l'emersione nel nero. 17. Borse Erasmus: aumento dell'integrazione ministeriale della quota erogata e concessione di una parte della borsa al momento della partenza. Va inoltre prevista una differenziazione a seconda del costo della vita del paese di destinazione.

8.3 PER UNA DIDATTICA DI QUALITÀ E ACCESSIBILE A TUTTI La situazione attuale: un’università pubblica in crisi L’imperante necessità di razionalizzazione che, in questi anni, ha colpito i corsi di laurea e che si è esplicata sulla base di un mera riduzione di finanziamenti (con i tagli al fondo di finanziamento dell’università e le misure adottate dalla contro-riforma Gelmini) ha inciso profondamente sulla qualità della didattica e quindi sulla qualità dei saperi che vengono trasmessi nei nostri atenei e sulla nostra formazione. Dalla Legge Zecchino-Berlinguer che ha quantificato il contenuto dell'insegnamento, introducendo i crediti formativi, imponendo a individui diversi – anche sul piano dei metodi e dei tempi di apprendimento – un unico standard, e attraverso la costituzione del cosiddetto “3 + 2”, si è dato il via alla proliferazione e liceizzazione dei corsi di laurea, creando un rapporto bulimico fra studente e sapere; a intervalli di tempo relativamente brevi, lo studente è indotto ad intasarsi di nozioni, da riversare al momento dell'esame e da abbandonare subito dopo,


quando si dovrà riprendere ad incamerare concetti del tutto nuovi. Per quanto paradossale possa sembrare l'università di oggi è al tempo stesso iperspecialistica e liceizzata. Iperspecialistica per l'estrema frammentazione dei percorsi di studio, proliferati sulla base delle esigenze baronali. Liceizzata per il progressivo abbassarsi della qualità della didattica nei nostri atenei. I tagli effettuati dalla L.133/08 all'FFO degli atenei italiani, hanno causato una riduzione dei servizi per gli studenti, tra cui i budget destinati al Fondo 390 e per il Miglioramento della Didattica, dove confluiscono tutti i soldi destinati alle attrezzature dei laboratori didattici, al materiale inventariabile, all'acquisto di libri per le biblioteche, comportando un calo della qualità della didattica. Inoltre il blocco del turn-over del 20% previsto dalla stessa legge ha determinato l'interruzione di quel ricambio generazionale nel corpo docente che consente l'ingresso dei ricercatori portatori di nuove conoscenze e di metodi d'insegnamento che innalzano il livello qualitativo della didattica. Nonostante la costituzione delle “magistrali” con la 270/2004 e la nota 160 del Miur si legge esplicitamente l'obiettivo di ridurre i corsi di laurea non essenziali al fine di ridurre le spese e non per un reale miglioramento della didattica. Il raggiungimento di questo risultato infatti si ha solo ponendo dei criteri quantitativi per l'istituzione dei corsi di laurea: l'attivazione dei corsi è vincolata a criteri dimensionali che interessano il numero di docenti e studenti, sbilanciandone le proporzioni. Questo riduzione si traduce quindi nell’accorpamento di alcuni corsi di laurea e nella soppressione di altri, fenomeni che hanno assunto i connotati di uno smantellamento generale dell'offerta formativa, attuato senza criteri qualitativi adatti. Il d.m 17 del 2010 peggiora ulteriormente la situazione. Oltre a definire il chiaro obiettivo di “razionalizzazione” dell'offerta formativa, pone vincoli molto rigidi riguardo al numero di ore, ai settori scientifico disciplinari. In base al blocco delle assunzioni vi è il rischio, per quei corsi con alto tasso di docenti in età pensionabile, di essere chiusi o accorpati indipendentemente da una valutazione sulla qualità dell'offerta formativa o dal ruolo strategico di un corso di laurea. L'abbassamento della qualità della didattica inoltre è determinato anche dalla mancanza di docenti strutturati all'interno delle facoltà, il che comporta l'apertura di numerosi bandi di vacanza che danno la possibilità di insegnare anche al personale non altamente qualificato. La lotta contro il blocco del turn over, di riflesso è anche la lotta per una maggiore trasparenza nei meccanismi di assunzione e promozione dei docenti, oggi sempre più penalizzati dalla L. 240 che pone una fasulla idoneità nazionale, nella mani delle commissioni degli atenei composte da solo docenti ordinari. Partendo da queste premesse, riteniamo fondamentale un processo di vera riforma del sistema didattico universitario, che muova da l’Altrariforma dell’università, il primo vero approccio strutturato volto alla realizzazione di un’università pubblica a misura di studente, dove la libertà e la qualità dei saperi e della ricerca sono messi al riparo da logiche aziendalistiche e speculative. Il miglioramento della qualità dei saperi che vengono trasmessi all’interno dei nostri atenei non può che passare attraverso un’inversione di rotta delle politiche di finanziamento dell’università pubblica. I tagli progressivi attuati delle varie leggi finanziarie e di riforma dell’università, hanno messo in crisi un sistema che già di per se presentava problemi notevoli; le misure introdotte dalla legge 133 in merito al blocco del turn over, porteranno l’Italia sempre più in basso nella graduatoria del rapporto docenti-studenti, partendo da una situazione già peggiore rispetto agli altri paesi europei. La qualità non si misura solo sulla competenza dei singoli docenti: essa è da ricercare anche negli stessi procedimenti di insegnamento e apprendimento. Il processo di massificazione dell’università accompagnato però da un sempre più limitato finanziamento statale, ha fatto si che la lezione universitaria sia andata tramutandosi in una lezione frontale, di stampo liceale, dove la possibilità di espressione e apprendimento critico dello studente viene sacrificata a fini di tempistica e copertura del programma del corso. La scomparsa di seminari e laboratori, che ancora nel vecchio ordinamento rappresentavano momenti in cui gli studenti imparavano il know how delle diverse discipline, ha inflitto un duro colpo alla qualità della didattica: in quelle sedi veniva mostrato il “retroscena” delle elaborazioni scientifiche o tecniche, in modo che gli studenti potessero iniziare a cimentarsi con la pratica dei rispettivi campi di specializzazione. Se vogliamo che nelle nostre aule universitarie si possa creare un percorso di apprendimento critico


e innovativo, non è possibile continuare a frequentare lezioni in duecento-trecento persone, con un solo professore, che si trova costretto ad attenersi a modalità standardizzate di insegnamento; una situazione che il più delle volte esclude a priori la possibilità di una libera espressione degli studenti. Il nostro obiettivo è quello di ottenere una trasformazione di questa situazione di apprendimento acritico e manualistico, attraverso l’adozione di nuove metodologie di insegnamento che prediligano la forma seminariale e una collaborazione più stretta tra gli studenti, e tra studenti e docenti. Questi risultati possono essere ottenuti ad esempio attraverso la pratica del lavoro di gruppo e del progetto collettivo, che favoriscono, oltre all’apprendimento dei contenuti, anche l’accrescimento delle capacità di collaborazione tra individui, portando a uno sviluppo della persona e della sua sociabilità, oltre che della cultura individuale. Bisogna infine incidere sull’aspetto della libertà dello studente nella scelta dei corsi: va garantita una maggiore flessibilità dei piani di studio individuali, con la garanzia di un offerta formativa ampia e plurale; deve essere promossa una maggiore mobilità a livello di atenei nazionali con la possibilità per lo studente di sostenere esami nelle varie università italiane, al fine di favorire una libera circolazione di persone e idee, ovviamente anche attraverso un potenziamento del sistema di diritto allo studio. L’importanza dell’università non si gioca solo sul piano della trasmissione di un bagaglio di conoscenze puramente teoriche, ma anche nell’ambito del mondo del lavoro e della formazione di professionalità spendibili in esso. Ad oggi, le forme di stage o tirocini messe in campo dagli atenei per favorire una maggior compenetrazione fra mondo accademico e mondo del lavoro non hanno, in gran parte dei casi, raggiunto l’obiettivo prefissato; anzi, molto spesso, si sono trasformate in occasioni di vero e proprio sfruttamento della manovalanza studentesca. Un miglioramento qualitativo di questo aspetto della formazione, deve passare attraverso una completa revisione dello strumento degli stage e tirocini, trasformandolo in una esperienza lavorativa di formazione, e perciò adeguatamente retribuita, che sia attinente al percorso di studio scelto, e che possa essere strumento efficace per stimolare capacità pratiche e professionalizzanti. A questo proposito risulta necessario un maggior controllo e selezione degli enti accreditati per queste tipologie di attività, di modo che si assicuri un effettivo contesto di formazione e crescita personale dello studente. Anche quest’anno migliaia di studenti sono impegnati con le prove d’accesso a corsi di laurea universitari a numero programmato. Per migliaia di giovani da anni i test sono la lotteria che può cambiare la loro vita: negare l'accesso ai propri sogni o consentire l'accesso a quello che sembra essere un luogo formativo, ma che invece è sempre più una non-università. Impedire agli studenti di accedere al corso di studi più vicino alle loro propensioni è ingiusto, non solo perché bloccare l’accesso all’università viola l’art 34 della Costituzione che enuncia il principio della “libertà di istruzione”, ma anche perché vengono selezionati mediante domande non attinenti al proprio percorso scolastico, ma proprio su quelle materie che saranno oggetto degli studi futuri (di cui non necessariamente son tenuti ad avere conoscenze). E' profondamente incoerente chiedere agli studenti elevati standard qualitativi per accedere a un luogo della formazione che di qualitativo ha sempre meno. A ciò si aggiunge il fatto che gli standard qualitativi vengono valutati con domande a crocetta, sempre più spesso formulate in maniera errata, ed è ancor più vergognoso far pagare una tassa d’iscrizione al test, quando di questo costo dovrebbero farsene carico le università; tanto più quando la gestione di questo servizio viene affidata a enti privati, in alcuni casi vere e proprie organizzazioni criminali, che si sono prodigate con ogni mezzo a fornire a benpensanti e benestanti genitori le risposte per i propri figli in cambio di migliaia di euro. Bisognerebbe abolire i test d’accesso e iniziare a pensare che l’unico modo per selezionare gli studenti è la qualità e una corretta valutazione nel percorso formativo e non a priori. Il numero chiuso è stato istituito troppo spesso per ovviare a problemi di tipo infrastrutturale, o per la ristrettezza dei finanziamenti. Troppo spesso, invece di accrescere strutture e docenti si è puntato sulla riduzione degli studenti. A partire da una radicale critica ai tagli di bilancio all’istruzione pubblica e nell’ottica di nuovi e più ampi investimenti in questo settore, riteniamo utile che una vera selezione tra gli studenti avvenga durante il periodo di formazione e non prima di esso, cosi che possa essere garantito il diritto di tutti all’accesso all’università.


E’ necessaria una nuova politica di assunzione di docenti, nonché di finanaziamento per nuove e migliori strutture didattiche, per riuscire a garantire standard qualitativi degni di un istruzione a livello accademico. Tutto ciò discende da una nostra e innovativa idea di università, in cui la selezione si realizza nella serietà della didattica e con un vera capacità di valutazione, tanto dell’apprendimento dei saperi, quanto della qualità di questo apprendimento; non su criteri meramente quantitativi ed economici. In pratica c’è bisogno di un reale investimento dell’Università Pubblica italiana, un investimento almeno alla pari degli altri stati europei. La possibilità per gli atenei di confederarsi, deve passare attraverso una diversificazione dell'offerta formativa negli atenei confederati, che non può significare specializzazione dei corsi di laurea solo in base alle esigenze lavorative e alle caratteristiche del territori. I corsi di laurea dovranno essere sempre liberi da ogni logica di mercato e soprattutto rivolti alla valorizzazione e allo sviluppo della Ricerca all’interno del territorio. In ogni caso l’eventuale chiusura di corsi deve veder garantita la continuità del percorso di studi e la massima mobilità degli studenti mediante un sistema nazionale di diritto allo studio.

8.4 - LA VALUTAZIONE DELLA DIDATTICA: RIFLESSIONI E PROPOSTE L’ipocrisia relativa a merito e meritocrazia nei discorsi dei “riformatori” dell’università, si manifesta nella totale inconsistenza dei cosiddetti organi di valutazione nazionale della qualità (ANVUR), e nel continuo processo di demolizione del diritto allo studio, che invece è uno strumento necessario per una corretta valutazione del merito individuale, al netto delle condizioni sociali, economiche e culturali di partenza. Non si deve poi dimenticare che noi studenti, in quanto persone che vivono l’università sulla propria pelle, siamo i primi soggetti da dover consultare in un ambito vitale quale quello della valutazione della qualità della didattica nei nostri atenei. La valutazione della didattica da parte degli studenti è uno strumento di democrazia partecipativa che riteniamo di fondamentale importanza, per poter ottenere un concreto miglioramento della qualità. Chi eroga un servizio può pure fare dell’autocritica, ma deve in ogni caso tener conto della soddisfazione del fruitore del servizio: il giudizio dello studente non può essere ignorato, nel momento in cui si vanno ad analizzare queste tematiche. Riteniamo fondamentale e necessario che siano costituite commissioni didattiche paritetiche con potere decisionale, oltre che nei dipartimenti, anche all’interno dei singoli corsi di studio, vista la contingenza in questa sede di argomenti quali la valutazione degli insegnamenti e dei professori, nonché la maggior efficacia e tempestività nell’affrontare tali problematiche in questa sede. Queste commissioni dovranno essere composte da un ugual numero di docenti e studenti, e si dovranno riunire almeno una volta per quarto (o bimestre) accademico, per compilare essa stessa l'assegnazione degli insegnamenti e gli orari delle lezioni. La commissione didattica di corso di studio si occuperà innanzitutto della discussione degli esiti dei questionari di valutazione in merito ai singoli insegnamenti. Esiti che dovranno essere consegnati dall’organo competente alle singole commissioni, in tempo utile per una esaustiva presa di visione degli stessi. Essa proporrà delle soluzioni ad eventuali problemi emersi, che verranno quindi consegnate agli opportuni organi deliberanti delle scuole e dei singoli dipartimenti interessati. Questi saranno tenuti a discutere tali proposte durante le rispettive sedute e a deliberare sulle stesse. In questo processo è essenziale che i rappresentanti degli studenti vengano coinvolti come parte attiva nella discussione, nonché vengano loro forniti tutti i dati necessari per un completo svolgimento delle loro funzioni. Inoltre è necessario dotare la commissione didattica anche di adeguati ed oggettivi strumenti esecutivi da poter applicare soprattutto nei casi di perseverante valutazione negativa, quali una diminuzione scalare dello stipendio del singolo docente in questione o una limitazione di benefici o


prerogative di cui gode. Riteniamo fondamentale dover applicare una sanzione al singolo piuttosto che all’ateneo, come invece l’attuale legge prevede, mediante una diminuzione di parte del Fondo di Finanziamento Ordinario. Un processo di valutazione di questo tipo deve essere svolto anche su scala temporale, per poter monitorare la variazione della qualità nel corso degli anni e permettere di verificare l’efficacia delle misure di perfezionamento delle metodologie di insegnamento. L’università pubblica deve essere intesa tanto come luogo di ricerca, quanto come luogo di trasmissione del sapere. Solo con un concreto investimento ed un serio monitoraggio della qualità della didattica possiamo garantire una formazione adeguata per la nostra generazione e per quelle a venire. Nell'AltraRiforma proponiamo: 1. Per accrescere la qualità della didattica, scongiurare la proliferazione del numero chiuso è necessario intervenire sul rapporto docenti/studenti. E' pertanto necessario abolire il blocco del turn over. 2. Abolizione dei requisiti minimi necessari: risolvere il problema della proliferazione dei corsi di laurea è possibile solo mediante una valutazione qualitativa e non quantitativa. In ogni caso la eventuale chiusura corsi deve veder garantita la continuità del percorso di studi e la massima mobilità mediante un sistema nazionale di diritto allo studio. 3. Le commissioni didattiche paritetiche devono avere un ruolo fondamentale in materia di didattica per gli organi cui afferiscono. Debbono essere presenti almeno in ogni corso di laurea (o raggruppamento di corsi di laurea affini, o dipartimento) per discutere in particolare dell'organizzazione del programma di studi; inoltre, debbono esistere commissioni didattiche paritetiche (o quantomeno coordinamenti delle strutture di cui al corso di laurea) per ogni struttura di raccordo, per trattare gli aspetti organizzativi e formali della didattica (quali ad esempio il calendario accademico). In particolare, gli organi corrispondenti devono chiedere un parere obbligatorio in quanto all’attivazione o soppressione di corsi di studio e ai criteri di valutazione di didattica e servizi agli studenti; inoltre, sono obbligati a discutere le proposte delle commissioni in merito a qualsiasi variazione dell’offerta formativa. 4. La scelta del corso di laurea deve essere sostenuta da un sistema di orientamento universitario realizzato in maniera coordinata con le scuole, in particolare con le scuole dei territori, a partire dalla trasparenza nella presentazione del corso di studi. 5. È necessario superare l'attuale impianto dell'organizzazione dei corsi a partire da corsi impostati su macroaree divise in esami fondamentali, caratterizzanti, e a scelta in modo da consentire il più alto livello di autogestione del proprio percorso formativo superando definitivamente il sistema dei crediti che impedisce mobilità dentro i corsi e tra i corsi. 6. Impostare la didattica con metodi di tipo seminariale, che favorirscano la cooperazione tra studenti e le presentazioni in pubblico. 7. Istituire uno statuto dei diritti degli studenti che svolgono stage e tirocini che garantisca l'attinenza del tirocinio con il percorso di studi, che definisca modalità stringenti per l'accreditamento degli enti accreditati, affidando tale compito alla commissione didattica paritetica. Lo statuto deve sancire il divieto di usare stagisti per la sostituzione nelle mansioni di coloro che lavorano presso l'ente accreditato, limitandosi all'affiancamento finalizzato alla formazione; deve essere garantito un rimborso spese. L'ente che non rispetta il progetto formativo perde la possibilità di accreditarsi presso tutte le università italiane.


8.5 PER UN'UNIVERSITA PUBBLICA E FINANZIATA DALLO STATO Il movimento dell'onda si basava sul radicale rifiuto della legge 133 che tagliava i finanziamenti all'università di 1,5 miliardi in 5 anni, si creò contro quella legge uno dei movimenti di massa più grandi degli ultimi anni. L'università italiana è riuscita a sopravvivere a quei tagli, alzando le tasse studentesche in quasi tutti gli atenei, riducendo i servizi e gli investimenti in ricerca. Il 2009 ha visto poi palesarsi le intenzioni del governo con la prima proposta di legge Gelmini si capiva come ci fosse una generale strategia dietro ai tagli ministeriali: limitare il finanziamento pubblico all'università per aprire ai privati la gestione delle università. Si tagliavano i fondi e si obbligavano le università ad inserire degli esterni nei Cda, esterni che sarebbero stati i futuri finanziatori delle università, probabilmente enti o fondazioni private. Lo stato disinvestiva nella formazione, lasciando il campo libero al privato, questo si inseriva in una strategia precisa portata avanti dal governo per limitare l'investimento pubblico e attaccare il funzionamento dell'ente pubblico così come della pubblica amministrazione partendo dalla convinzione che privato fosse sinonimo di qualità ed efficienza. Questo modello di distruzione del sistema pubblico italiano non può che essere rifiutato, qualsiasi riforma del sistema universitario che si presenti migliorativa non può essere fatta senza investimenti, risulta necessario invertire una tendenza che mira a ridurre l'investimento statale, per questo abbiamo richiesto nel 2008 l'abolizione dei tagli della legge 133 come richiediamo oggi un piano straordinario di investimenti che porti in tre anni l'investimento in formazione, università e ricerca al 5,7% del PIL (costo: 18 miliardi di euro, in media, all'anno) e in particolare il finanziamento di università e ricerca da 8 672 a 12907 dollari per studente (media Ocse). La formazione deve essere libera e per questo finanziata dallo stato e non da qualche privato o politico di turno, dobbiamo pensare ad un sistema che viva sul finanziamento stabile dello stato e non su costanti integrazioni e misure straordinarie, come avviene ogni anno per l'università dall'approvazione della legge 133. La conoscenza è ciò che permette la crescita sociale di un individuo per questo, in particolare in un momento di crisi economica, è fondamentale investire in questo settore e uscire dalla retorica che vede la formazione come uno spreco su cui tagliare. Bisogna immaginarsi un finanziamento universitario non dipendente dai privati, dalle regioni o dai contributi studenteschi, che appunto per questo non possono coprire il mancato investimento statale. Tutto questo non è solo un'utopia, ma si può realizzare con delle precise scelte politiche di investimento in questo settore, come sottolineato anche da Sbilanciamo recuperando risorse per l'università cambiando politiche economiche, portando ad esempio l'imposta sulle rendite finanziarie dal 12,5% al 20% potenziando la lotta all'evasione fiscale. Dobbiamo avere il coraggio di dire che vogliamo un'università ricca, per usare una provocazione dovremmo affermare che vogliamo un'università con più risorse di quelle apparentemente necessarie, perché la ricerca è possibilità di sbagliare, provare e riprovare, ma che usi le risorse in maniera oculata e limpida, e a chi ci accusa di voler sprecare risorse affermare che vogliamo lo “spreco controllato e trasparente delle risorse”. L'investimento su università e ricerca deve essere percepito dai cittadini e dai nostri govenanti come un contributo allo sviluppo sociale e civile della nazione. Finanziamento universitario tra pubblico e privato: Finanziamento e autonomia Il finanziamento ordinario del sistema di Alta Formazione deve essere compito irrinunciabile delle istituzioni pubbliche. Deve essere lo Stato -e le sue articolazioni locali- a garantire, attraverso un adeguato finanziamento, l'imprescindibile indipendenza economica e quindi decisionale del sistema universitario. I finanziamenti privati che già sono presenti nei nostri atenei, per quanto riguarda in particolare i finanziamenti ai progetti di ricerca, sono accettabili solo nella misura in cui risultano accessori e


non sostituti del contributo pubblico. Il finanziamento privato non deve, perciò, diventare un mezzo tramite il quale lo Stato può esimersi dall'assolvimento di uno dei suoi compiti fondamentali. Per questi motivi il finanziamento di enti non pubblici, deve essere accessorio e non necessario al mantenimento ordinario delle università. In ogni caso nessuno potrà sedere nei consigli di amministrazione delle università in virtù del proprio contributo economico. Il potere decisionale deve rimanere nelle mani della comunità, che meglio conosce le problematiche del proprio Ateneo e che ha più interesse a sanarle. Bisogna però prevedere dei meccanismi di controllo dei bilanci degli atenei, anche in deroga all'autonomia, per impedire operazioni potenzialmente pericolose per la stabilità economica di un ateneo come è accaduto negli anni passati. Questo fenomo che ha portato alcuni atenei sull'orlo del fallimento e oggi nelle mani di banche e privati locali che si sono impegnati a ricoprire buchi di bilancio enormi va assolutamente evitato in futuro. Distribuzione dei fondi e quota premiale Proprio in ragione di ciò, il ministero non deve distribuire agli atenei fondi vincolati a determinati obiettivi: quello dei fondi vincolati è un sistema che incrementa lo spreco e che spesso porta le comunità a rivedere le proprie priorità pur di ricevere un finanziamento che spesso finisce per andare sprecato. Il funzionamento degli atenei non può dipendere da enti o soggetti privati, le università devono essere indipendenti dall'esterno e gestite da tutta la comunità accademica, anche per quanto riguarda gli aspetti finanziari, fatto salvo il controllo esercitato dallo stato. Le università devono avere un forte legame con il territorio che non può però significare una dipendenza dai fondi di finanziamento regionali. Le regioni possono investire nel sistema universitario e in particolare sul diritto allo studio e sui servizi alla popolazione universitaria come per lo sviluppo di corsi di laurea fortemente legati al territorio ma non si può sostituire al finanziamento nazionale un finanziamento regionale. Ad oggi molte regioni stanno siglando patti o accordi di programma con i ministeri delle finanze e dell'istruzione, e le università presenti nel territorio regionale che mirano alla cosidetta regionalizzazione delle università. Un processo che rischia di portare nei prossimi anni, come sta già avvenendo, il ministero ad investire sempre meno sulla formazione e a girare i fondi alle regioni che li investono nelle università sulla base di specifici accordi politico-economici. Da una parte lo stato investe meno, riducendo il trasferimento dei fondi nazionali su base storica e dall'altro crea specifici accordi, ad oggi tutti con regioni governate dal centro-destra, che mirano sempre di più a limitare il potere degli atenei e a far dipendendere il finanziamento alle università in base ad accordi determinati dalle esigenze politiche specifiche delle amministrazioni regionali. Nella distribuzione dei fondi alle università la quota premiale va ripensata,. Essa, infatti, non deve essere un sistema per affossare atenei di piccole dimensioni o altri già di per sé stessi in condizione di difficoltà a causa di una mala gestione passata . Un simile sistema spesso non rappresenterebbe una punizione per gli autori di tale gestione, ma solo per gli studenti che si vedrebbero chiudere corsi ed opportunità di studio. Per questo riteniamo che la quota premiale debba rappresentare al massimo un extra rispetto ai fondi necessari alla vita ordinaria dell’università. Tale bonus deve essere attribuito agli atenei che hanno già dimostrato di aver ben gestito quanto ricevuto negli anni passati, ma non può essere utilizzato come sistema punitivo nei confonti di altri atenei. Il finanziamento studentesco: Tasse e contributi; merito ed opportunità La contribuzione studentesca non deve essere confusa con una tassa, gli studenti infatti contribuiscono al funzionamento dell'università nella misura in cui il loro contributo non sia essenziale all'adempimento delle funzione primarie del sistema università. Immaginare oggi un sistema universitario senza contribuzione studentesca è assolutamente irrealistico, questa però non può sostituire il finanziamento statale , come sta avvenendo negli ultimi anni a seguito dei tagli ministeriali (legge 133) che hanno portato ad un aumento della contribuzione studentesca in molti atenei. Dobbiamo però tendere ad una progressiva eliminazione dei contributi versati degli studenti, come avviene in altri paesi europei, questo però non può dipendere dalle università, ma deve essere frutto di politiche di investimento statale sulla


formazione e di un radicale cambiamento del sistema fiscale. Tuttavia riteniamo che la contribuzione studentesca debba essere quanto più possibile equa e improntata a criteri di progressività: chi più ha più deve contribuire (come stabilito anche dalla nostra carta costituzionale). Per il raggiungimento di tale scopo proponiamo la rimodulazione delle fasce sulla base di criteri di maggiore equità e progressività, con l'obiettivo minimo di rendere omogeneo il prelievo sugli studenti e le loro famiglie, creando sistemi di tassazione a fasce ampie o con l'utilizzo di coefficenti specifici che incidano in misura minore sulle fasce di reddito più basse e in misura maggiore su quelle più alte. L'aumento del numero di fasce di tassazione, tra la prima e l'ultima, permette di inquadrare in maniera più precisa la situazione di reddito dello studente, determinando in maniera più equa il suo contributo. Il contributo versato degli studenti deve essere condizionato, oltre che dalla situazione economica che resta imprescindibile, anche dai seguenti fattori: Situazione familiare: Riteniamo giusto ridurre i contributi per le famiglie che hanno più figli iscritti contemporaneamente a corsi di laurea e master. Ciò anche qualora i figli siano iscritti ad università diverse, questo per non incidere sulle scelte universitarie di chi si immatricola successivamente. Studenti lavoratori, studentesse madri, casi difficili: Tutti gli studenti che per oggettive ragioni personali, non possono essere considerati "studenti a tempo pieno" devono avere diritto ad un regime di tassazione diverso, pari al 50-75% della quota che lo studente pagherebbe se fosse iscritto a tempo pieno, che tenga conto della loro situazione e che ammortizzi le loro difficoltà. Riteniamo necessario normare tale disciplina a livello nazionale per garantire una certa omogeneità di trattamento. Riteniamo inoltre che in nessun caso la condizione di studente lavoratore o part-time debba comportare discriminazioni riguarda alla didattica: lo studente part-time, nel caso superi la soglia di crediti prevista, deve poter passare allo status di studente a tempo pieno, integrando ovviamente la conseguente contribuzione. La contribuzione studentesca deve essere diversificata solo in base alle condizione economiche degli studenti e non rispetto alla loro iscrizione a facoltà diverse, così come gli atenei devono costituire un un fondo specifico integrativo che possa contribuire alla copertura delle tasse universitarie di quelle famiglie che vedono ridursi le proprie entrate da un anno all'altro in misura sostanziale. Inoltre devono essere eliminate tutte le tipologie di tassazione per partecipazione a concorsi, borse o test di ingresso in università (es. tasse per accesso a concorsi di dottorato), nonché le tasse di immatricolazione a qualsiasi tipo di corso di laurea, così come non si possono pensare sanzioni per gli studenti fuori corso. Dobbiamo richiedere il rispetto della soglia del 20% come quota di bilancio coperta dalla contribuzione studentesca in rapporto al FFO reale, evitando che gli atenei strumentalmente la ignorino e utilizzino i contributi studenteschi per coprire tagli o buchi di bilancio, l'eventuale extragettito deve poi essere vincolato ai servizi agli studenti. La contribuzione studentesca deve subire un radicale ripensamento e non possiamo far pesare agli studenti una diminuzione dei finanziamenti statali. Dobbiamo in tutti i nostri atenei praticare l'altrariforma e ridiscutere i sistemi di tassazione provando a creare dei sistemi più equi e delle maggiori tutele per gli studenti in difficoltà. Nell'AltraRiforma proponiamo: 1. Abrogazione dei tagli previsti dalla L.133/08. 2. Piano straordinario di investimenti che porti in tre anni l'investimento in formazione, università e ricerca al 5,7% del PIL (costo: 18 miliardi di euro, in media, all'anno) e in particolare il finanziamento di università e ricerca da 8 672 a 12 907 dollari per studente (media Ocse).* Ripartizione equa dell'FFO sulla base dei costi effettivi. Integrazione automatica dell'FFO in base all'inflazione e agli scatti stipendiali. 3. La quota di finanziamento alle università derivane dal FFO deve essere comunicata ad inizio anno e i fondi devono essere trasferiti dal Ministero agli atenei senza ripartirli in più mensilità. Questo per permettere agli atenei di sviluppare una seria programmazione annuale delle spese e non chiudere l'anno di bilancio senza essere a conoscenza dell'esatta entità del trasferimento di fondi ministeriali. 4. Controllo dei bilanci degli atenei per evitare il dissesto finanziario. No alla ripartizione di quote di FFO su base di criteri premiali e punitivi, il cui unico risultato è aggravare le situazioni di deficit. Monitoraggio efficace da parte del governo e interventi mirati anche in deroga all'autonomia per impedire operazioni potenzialmente pericolose per la stabilità economica di un ateneo. 5. No alla penalizzazione economica degli atenei per criteri quali il numero di studenti che si inseriscono nel mercato del lavoro e per il numero di


fuoricorso. 6. Basandoci sul lavoro svolto in collaborazione con Sbilanciamoci recupero dei finanziamenti per le università e la ricerca in Italia per raggiungere parametri europei ed eliminare l'effetto dei tagli Ministeriali tramite tassazione delle rendite finanziarie (Facendo riferimento alle stime prodotte da Sbilanciamoci portare l'imposta sui conti dal 12,5% al 20% porterebbe, in riferimento ai dati del 2004, un gettito di 3 Mld di € .) e la lotta all'evasione fiscale.

Per quanto concerne la contribuzione nell'AltraRiforma proponiamo: 1. Rispetto della soglia del 20% come quota di bilancio coperta dalla contribuzione studentesca in rapporto al FFO reale. Restituzione agli studenti dei fondi prelevati in eccesso dagli atenei che negli ultimi anni hanno sforato questo limite tramite servizi agli studenti. Imposizione di sanzioni agli atenei che hanno sforato nell'ultimo anno la soglia del 20%. 2. L'eventuale extra-gettito della contribuzione studentesca derivante dallo sforamento del limite del 20% in rapporto al FFO deve essere vincolato ai reali servizi agli studenti, identificati dall'università in accordo con la componente studentesca (si ritengono ad esempio prioritari gli investimenti nelle biblioteche o per le borse di studio rispetto al finanziamento alle attività sportive) In nessun caso gli introiti della contribuzione studentesca devono essere utilizzati per supplire a carenze di investimento statale. 3. Riforma del sistema di tassazione studentesca tramite la rimodulazione delle fasce sulla base di criteri di maggiore equità e progressività, con l'obiettivo minimo di rendere omogeneo il prelievo sugli studenti e le loro famiglie, creando sistemi di tassazione a fasce ampie o con l'utilizzo di coefficenti specifici che incidano in misura minore sulle fasce di reddito più basse e in misura maggiore su quelle più alte. 4. Eliminare tutte le tipologie di tassazione per partecipazione a concorsi, borse o test di ingresso in università (es. tasse per accesso a concorsi di dottorato), nonché le tasse di immatricolazione a qualsiasi tipo di corso di laurea. 5. Un aumento delle lotta all'evasione ed elusione fiscale, aumentando i controlli sulle dichiarazioni ISEE e arrivando a esaminare la totalità delle dichiarazioni. Firmare ove non esistano convenzioni tra l'univeristà e la guardia di finanza, perché chi evade le tasse ruba la borsa di studio a un altro studente. 6. Eliminare le sanzioni nei confronti degli studenti fuori corso, che non devono subire degli aumenti della contribuzione studentesca in seguito alla loro mancata laurea nei termini previsti dalla durata legale del loro corso di studio. Inoltre deve essere eliminato qualsiasi tipo di sconto sulla contribuzione studentesca legato a criteri meritocratici. Il merito si incentiva con maggiori opportunità, non lucrando sulla pelle di chi resta un po' indietro con gli studi, gli studenti meritevoli possono essere premiati in altre forme e con maggiori opportunità di accesso a corsi specifici, stage all'estero... 7. Riduzione dei contributi studenteschi per le famiglie con più di un figlio contemporaneamente iscritto all'università, calcolata sulla base del numero dei figli e delle condizioni economiche della famiglia. 8. Evitare che un solo istituto bancario abbia il monopolio dei pagamenti dei contributi degli studenti tramite accordi con le università, anche grazie all'introduzione di nuovi strumenti di pagamento, come il bollettino MAV già utilizzato da alcuni enti pubblici, che permettono agli studenti di un'università di poter scegliere in che istituto bancario pagare le tasse, eliminando i monopoli e quindi almeno in parte il potere di singole banche su alcuni atenei. 9. Uno specifico sistema di contribuzione per gli studenti a tempo parziale, che sia basato sulla riduzione di una quota percentuale fissa (tra il 25 e il 50%) del contributo che lo studente pagherebbe a parità di condizione economica se fosse iscritto a tempo pieno. 10. La contribuzione studentesca deve essere diversificata solo in base alle condizione economiche degli studenti e non rispetto alla loro iscrizione a facoltà diverse. Gli studenti di un ateneo devono poter scegliere i corsi a cui iscriversi sulla base delle loro volontà e dei loro interessi non devono essere quindi previste contribuzioni differenziate tra corsi di laurea come spesso accade tra facoltà umanistiche e scientifiche di uno stesso ateneo. 11. Specifiche misure anti-crisi e di sostegno alle famiglie in difficoltà che vedono modificarsi della propria condizione economica in misura rilevante rispetto all'anno precedente su cui si basa la dichiarazione ISEE. Richiediamo l'istituzione in ogni ateneo di un fondo specifico integrativo che possa contribuire alla copertura delle tasse universitarie di quelle famiglie che vedono ridursi le proprie entrate da un anno all'altro in misura sostanziale.

9. LE NUOVE POLITICHE DI AUSTERITY EUROPEE Siamo ancora molto distanti da un'Europa dei popoli in grado di ampliare gli spazi di democrazia oltre i confini nazionali e costruire legami di solidarietà tra le popolazioni europee nell'ottica dell'estensione dei diritti e delle protezioni sociali. Del resto, il percorso di integrazione europea realizzato negli ultimi decenni rappresenta, pur tra le mille complessità e contraddizioni, un evidente tradimento dei principi del federalismo democratico che, secondo i suoi cantori, lo ispirerebbero. Quello che speravamo sarebbe dovuto essere un grande spazio di costruzione di una cittadinanza solidale si è rivelato una scorciatoia utilizzata per aggirare i meccanismi della democrazia rappresentativa e del dibattito pubblico. Ciò che doveva essere in grado di abbattere le barriere del nazionalismo e di rimarginare le ferite delle due guerre mondiali si è ridotto oggi, alla prova dei fatti, a un semplice dispositivo di implementazione delle politiche neoliberiste


determinate dai grandi poteri oligarchici, industriali e finanziari sovranazionali. Molto spesso, l'Europa ha costituito per i politici nazionali un mezzo di elusione dei dibattiti pubblici negli stati nazionali. Il livello decisionale europeo rappresenta un modo per i governi di assumere scelte impopolari in maniera impermeabile al dibattito democratico, per poi poterle riportare nei reciprochi paesi come imposizioni dell'Ue. Questa volta, come altre volte, i paesi europei hanno reagito alla crisi con un attacco generalizzato al welfare. Tagli e riduzioni, lacrime e sangue, sacrifici e restrizioni, ecco in estrema sintesi la ricetta dell'Europa per l'uscita dalla crisi economica mondiale del 2008. In una parola: austerity. Il quadro è quantomai preoccupante, proprio perché nessuno degli esecutivi a capo dei paesi del vecchio continente si è discostato da quello che ai più competenti economisti mondiali sembra un salto deciso e convinto verso la recessione finale che porterà ad un peggioramento nettissimo delle condizioni di vita della popolazione. Di quale parte della popolazione stiamo parlando? Ovviamente di quella che più di tutte le altre ed in prima battuta si è trovata esposta agli effetti devastanti della cosidetta ”finanza creativa”, quella priva di qualsiasi garanzia sociale, caratterizzata da un'unica certezza: la mannaia del debito pubblico che pende pericolosamente sulla sua testa. In ordine di problematicità, Stati quali Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia e Spagna, Repubblica Ceca e Francia hanno paradossalmente deciso di uscire dalla crisi del capitalismo proponendo un'ulteriore accelerata in senso neoliberista, ridimensionando ulteriormente il ruolo dello Stato nella politica economica, ormai alla mercé dei più feroci speculatori internazionali (gli stessi che nel '92 attentarono alla vita della lira) e delle agenzie di rating (vedi: Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s), veri e propri strumenti di manipolazione delle Borse. Nello specifico il menù suggerito, o imposto, dal F.M.I., come nel caso greco, è sempre il solito: la spesa pubblica, e quindi la garanzia di investimenti per la collettività, viene abbattuta. La maggior parte dei governi a partire da quello inglese di David Cameron, provvede all'innalzamento dell'età pensionabile regalando altri anni di schiavitù per uomini e donne. L'assurdo si raggiunge svelando che le generazioni successive un pensione non l'avranno proprio. Il sistema della previdenza sociale è molto colpito: aiuti alle famiglie, contributi per i nuovi nati e sussidi per la disoccupazione vengono falciati con facilità immensa, per non parlare di stipendi e salari, sia nell'ambito del lavoro pubblico che in quello privato, già gravati dall'assurdità di un costo della vita in continuo aumento. Il Fondo Monetario Internazionale, istituzione caratterizzata dalla palese e tacitamente accettata assenza di democrazia, utilizza lo spauracchio del “default” per indurre gli stati ad accettare forme più o meno spinte di privatizzazione delle risorse o degli enti che si occupano di servizi quali trasporti, scommesse, sistemi idrici, energetici, gestione delle infrastrutture e settore agroalimentare. La politica economica impostata dall'Europa è, quindi, a dir poco suicida: operazioni come quelle che i vari stati stanno compiendo, nel tentativo di riequilibrare dei bilanci in rosso dai mastodontici debiti pubblici, non porteranno che ad una ancor più decisa diminuzione dei redditi e quindi della domanda determinata dal sempre minore potere d'acquisto di interi pezzi della società ed infine a un crollo delle entrate fiscali. La gestione di questa fase rappresenta la prova più lampante della crisi della stessa governance europea: pur convergendo nell'impostazione neoliberista e monetarista da imporre agli stati a rischio di default (Grecia, Irlanda, Portogallo), i governi europei tendono a seguire strade sempre più divergenti nelle scelte strategiche, o, meglio, a seguire una stessa strada, che però prevede la competizione con i vicini sia per quanto riguardo l'approvvigionamento energetico sia per quanto riguarda la politica industriale. Dumping sociale e salariale da un lato, concorrenza nella costruzione di grandi poli industrialifinanziari dall'altro: questi sembrano essere gli assi della politica economica dei governi europei. Politiche che vanno in controtendenza con gli stessi documenti che l'Ue periodicamente produce. Il recente documento “Europa 2020 - Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusive”, infatti, prova a delineare una strategia di uscita dalla crisi definendo tre priorità: crescita intelligente: sviluppare un'economia basata sulla conoscenza e sull'innovazione; crescita sostenibile: promuovere un'economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva; crescita inclusiva: promuovere un'economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la


coesione sociale e territoriale. È una strategia che si viene delineando con luci ed ombre e rispetto alla quale occorre mantenere alta la guardia. Se da una parte, infatti, i propositi possono perlopiù apparire condivisibili (si punta, ad esempio, alla riduzione del tasso di abbandono scolastico fino al 10% e al raggiungimento della soglia del 40% di laureati tra i giovani; è previsto il potenziamento della mobilità giovanile tramite l'iniziativa faro Youth on the Move), permane ancora un'ottica di visione dei saperi e della cultura sempre più subordinata alla sola prospettiva della crescita economica (così come già avveniva nella strategia di Lisbona sulla scuola). Inoltre, le politiche di austerity colpiscono anche e soprattutto i settori su cui la stessa Ue dice di voler investire: scuola, università e ricerca sono infatti tra i principali bersagli di questa guerra che è innanzitutto culturale, tesa a dipingere le forme di protezione sociale come rendite parassitarie e lussi insostenibili accusati di essere nocivi per la tenuta dei bilanci pubblici. I vincoli di bilancio rigorosi imposti dalla UE con le politiche di “austerity”, non tengono conto dei problemi dei giovani, dei disoccupati, dei precari e di tutte quelle fasce di popolazione più deboli e incidono pesantemente sui già deboli sistemi di welfare. Sul fronte dell'università, a partire dal 1999, tra buoni intenti e torsioni aziendaliste si è realizzato in questi 12 anni il processo di Bologna, alla base di aziendalizzazioni e della dequalificazione della formazione, portando in Italia all'introduzione del nefasto 3+2. A più di 12 anni dall'inizio del “Processo di Bologna” sembra avvicinarsi la sentenza. È in corso infatti, una iniziativa della Commissione Europea denominata “Modernizing University”. Si tratta ancora di una scatola vuota che si prefigge l'obiettivo di integrare ulteriormente l'università con il mondo produttivo, piegandolo all'esigenze delle imprese. Sono in fase di preparazione i documenti della Commissione Europea, che dovremo attentamente esaminare. Insomma: l'Unione Europea continua a produrre documenti keynesiani a cui seguono politiche neoliberiste, a proporre agende comuni che prevedono un aumento della competizione interna, a lanciare grandi consultazioni che non diminuiscono di un centimetro il deficit democratico. Queste ambiguità producono una cortina fumogena che confonde le promesse con i fatti e inquina il dibattito pubblico, alimentando l'idea ingenua e superficiale del berlusconismo come eccezione italiana in un'Europa progressista e democratica. Come in campo politico e istituzionale, anche in campo sociale ed economico, le politiche di Berlusconi e Tremonti non sono invece altro che la trasposizione becera e clientelare di tendenze ben più generali, che coinvolgono a livello europeo i partiti popolari come quelli socialdemocratici. L'unico modo per svelare queste ipocrisie è accelerare nettamente sul piano della costruzione dell'Europa sociale dal basso: costruire un ampio fronte europeo di mobilitazione, in grado di connettere gli straordinari movimenti a cui in questi mesi hanno dato vita studenti e lavoratori in Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda, Grecia e in molti altri paesi e di rilanciare sul piano della protesta e della proposta. In questo senso è nostro compito promuovere ovunque possibile momenti di dialogo e confronto tra i movimenti del continente, sia nel campo studentesco sia in quello del lavoro e del welfare. In particolare, per quanto riguarda il campo studentesco, LINK-Coordinamento Universitario si deve far carico della costruzione di relazioni con altri soggetti studenteschi europei, all'interno e all'esterno dell'ESU, nei cui confronti rinnoviamo la nostra richiesta di adesione.


10 – LAVORO E PRECARIETÀ IN ITALIA, DALLA FINE DEL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE AD UN NUOVO WELFARE 10.1 - LA GUERRA DI CLASSE DALL’ALTO E LA TRANSIZIONE AL NEOLIBERISMO. La forma neoliberista del capitalismo è andata imponendosi a partire dalla metà degli anni Settanta, dopo la crisi petrolifera del 1973 e con la fine degli effetti del compromesso keynesiano: i salari andavano ad incidere direttamente sui profitti, sfiorando i livelli di sostenibilità massima. Bisogna guardare all’ascesa dell’ideologia neoliberista come una risposta del capitale a quella che negli anni Settanta fu definita “crisi di governabilità”: il modello fordista-keynesiano aveva agevolato, in qualche modo, una forte organizzazione dei lavoratori per via del gigantismo delle fabbriche (cosa che contribuì all'approvazione nel 1970 in Italia dello Statuto dei lavoratori) e delle politiche di welfare. Per vincere la crisi strutturale che stava attraversando l’economia, in un contesto del genere, risultava urgente sostituire il grande regolatore, lo Stato, con un altro regolatore più invisibile e anonimo e quindi meno attaccabile: il mercato “le cui leggi impersonali si imporrebbero a tutti per forza di cose come leggi di natura” (A. Gorz) Un fenomeno simile avvenne rispetto all'organizzazione del modello produttivo. La grande fabbrica risultava essere il luogo privilegiato dell'esplosione conflittuale: la rigidità, la gerarchizzazione, il preciso coordinamento delle attività ed un sistema di disciplinamento così visibile unito al gigantismo della fabbrica rendevano la stessa molto vulnerabile. L'organizzazione capitalistica cambiava pelle, la parola d'ordine era: deregolamentare. La deregolamentazione divenne la caratteristica principale dell'agire dello Stato e dell'impresa. Se il modello fordista-keynesiano aveva visto, fino a quel momento, una presenza forte dello Stato per quanto concerne la programmazione economica e la tutela previdenziale, con l'esaurimento di quel modello “occorreva che il capitale si sganciasse dalla sua dipendenza dallo Stato e allentasse gli obblighi sociali; occorreva che lo Stato si mettesse al servizio della competitività delle imprese accettando la supremazia delle leggi del mercato”. Fino a quel momento, infatti, lo Stato, sposando il modello keynesiano, stimolava l'espansione della produzione e della domanda con misure fiscali e monetarie e ridistribuiva una parte crescente della ricchezza prodotta. Questo sistema andò in crisi durante i primi anni '70 quando i mercati erano saturi e non giustificavano ulteriori grandi investimenti. In un contesto simile risultò più utile alle imprese, per allargare o conservare le loro rispettive fette di mercato, sostituire il modello rigido e dirigista keynesiano fordista con la più grande mobilità e flessibilità possibili. Mobilità di capitali e di investimenti: perché l'unica possibilità per le imprese di accrescere i profitti dipendeva dall'aumento delle sue esportazioni. Tutto ciò esigeva la liberalizzazione degli scambi e, soprattutto, dei capitali. Il processo di ricomposizione del dominio capitalistico avrà le sue solide basi in un uso sistematico del potere statale ammantato dal velo ideologico del non-interventismo. In questo nuovo paradigma il ruolo degli Stati diviene quello di trasferire alle istituzioni finanziarie globalizzate la capacità di influenzare e controllare i livelli e la composizione di investimenti, produzione e occupazione. La finanziarizzazione impone specifiche forme di disciplina ad agenti sociali chiave: agli Stati di restringere il più possibile spesa pubblica e welfare, alle Banche Centrali di attuare politiche monetarie restrittive allo scopo di tenere a bada l’inflazione, al capitale industriale di spingersi sempre più verso la competizione globale, al capitale finanziario di rispondere alle spinte competitive di integrazione internazionale regolate dalle istituzioni di governance quali la World Bank, l’Fmi e il WTO. C’è da sottolineare, però, che la forma più stringente di disciplina – secondo questo modello - debba essere incessantemente imposta ai lavoratori di tutto il mondo in quella che si profila come una prolungata e sistematica lotta di classe dall’alto. Nel complesso è stata messa in campo una strategia atta a diminuire gli spazi di resistenza


al neoliberismo. In Italia questa strategia ha portato l'erosione dei sistemi di welfare e il peggioramento delle condizioni lavorative, l'abbassamento dei salari e l'emergere del lavoro precario. La competizione globale tra le aziende si gioca sul terreno dei costi. Ciò significa due cose: far produrre ai lavoratori più valore per unità di tempo (peggioramento dell’attività lavorativa) o delocalizzazione degli investimenti in aree geografiche in cui vi è più sfruttamento dei lavoratori, i salari sono bassi e non esistono tutele. L’impatto sul lavoro è atroce: le aree caratterizzate su salari relativamente alti e con sindacati dei lavoratori forti sono destinate a soccombere; per non perdere occupazione, l’aumento della produttività diventa ovunque un imperativo. Tutto ciò, inoltre, è destinato ad accompagnarsi con l’aumento della disoccupazione.

10.2 – L'ATTACCO AI DIRITTI DEI LAVORATORI IN ITALIA: DAL NUOVO MODELLO CONTRATTUALE A POMIGLIANO E MIRAFIORI Ci troviamo oggi a dover affrontare un cambiamento del sistema delle relazioni industriali derivato dal contrasto tra lo scenario che va delineandosi e l’ispirazione originaria del diritto del lavoro. Gli orientamenti di una parte della classe imprenditoriale legata alla grande produzione industriale puntano a mettere in discussione alcune delle conquiste fondamentali della classe lavoratrice, imprimendo un’accelerazione al processo di decentramento della contrattazione e andando ad amplificare il livello aziendale rispetto ad un contratto collettivo nazionale sempre più depotenziato. Tale atteggiamento è giustificato dalla ricerca della massimizzazione della produttività che comporta, alle condizioni economiche e sociali attuali, un quasi inevitabile attacco ai diritti dei lavoratori. Questa logica è pienamente recepita dell'accordo quadro per la riforma degli assetti contrattuali firmato il 22 gennaio 2009 da governo, Confindustra, Cisl, Uil e Ugl. L’impianto dell’accordo quadro separato cancella il modello contrattuale universale: infatti il CCNL si riduce ad essere solo un luogo di applicazione delle decisioni assunte nelle intese o nei comitati interconfederali. Il primo dato grave da sottolineare è quello di aver sancito un’intesa non unitaria, con la volontà di isolare una parte fondamentale del movimento sindacale – la Cgil – e di avere, di fatto, abbassato le tutele di tutti i lavoratori. In più, con questo accordo si va ad intaccare il mezzo di contrattazione più efficace nelle mani dei lavoratori: viene sancito che nel secondo livello dei servizi pubblici locali sono solo i sindacati rappresentativi della maggioranza dei lavoratori che possono proclamare scioperi. L’Accordo Quadro separato esplicita la possibilità per il secondo livello di agire in deroga rispetto al contratto collettivo nazionale: si apre la strada alla possibilità che il secondo livello di contrattazione si sostituisca al primo. Emerge quindi la volontà di indebolire il contratto nazionale oltre che la possibilità che a livello di impresa prendano forma fenomeni di dumping, ovvero di competizione al ribasso che nuocerebbe ai lavoratori. L’accordo quadro riduce fortemente il potere contrattuale dei lavoratori rispetto ai salari perché prefigura – indebolendo il ruolo dei sindacati – l’individualizzazione del rapporto tra datore di lavoro e singolo lavoratore. Questo succede quando l’accordo va a regolare i “premi di produttività” che, oltre ad essere calcolati in base alla redditività delle imprese (in una situazione di stagnazione economica i salari verrebbero ridotti), nella contrattazione decentrata in deroga, vengono stabiliti nel confronto tra l’azienda e il singolo lavoratore. È sotto questa luce che si deve guardare alle vicende di Pomigliano e Mirafiori, rivelatesi l’emblema del processo descritto. In questo quadro, infatti, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne può offrire un investimento di 700 milioni di euro chiedendo in cambio condizioni inaccettabili agli operai. L’alternativa è fuori dall’Italia, in una moltitudine di altri potenziali siti sparsi nel globo che la Fiat manifesta di poter liberamente scegliere. Marchionne guarda a quella transizione al neoliberismo ancora non completata in Italia per via degli ostacoli interposti dai diritti e dalle libertà sanciti dalla nostra Costituzione e dalle tante conquiste portate orgogliosamente a casa dal movimento dei lavoratori fino ad oggi. La convergenza politica


(compreso il centrosinistra), sindacale (l’entusiasmo di Cisl e Uil e le poco tempestive reazioni di una parte della Cgil), governativa (si pensi alla proposta di Sacconi sullo “Statuto dei lavori”) e ovviamente padronale (la Confindustria) al diktat di Marchionne si fa stringente: produttività e competitività sono gli imperativi della modernità che l’amministratore delegato vuole insegnare a tutti. Quella di Marchionne è una modernità eversiva che non si accontenta di modificare ma che mira a cancellare le relazioni industriali. Perché Pomigliano come esperimento? Perché a sud (facile la retorica e la stigmatizzazione della forza lavoro operaia, accusata quasi di essere la responsabile della crisi) e perché in Campania, regione tra le più povere in Italia, in cui la minaccia della chiusura dello stabilimento sarebbe una doccia gelata per la già malandata economia locale. Si parte da Pomigliano (emblema del conflitto operaio) per rieducare l’intero Paese alle sfide della competitività globale. È in nome di questa decantata “modernità” che diviene socialmente accettabile la brutalizzazione del lavoro e della società tutta. Dietro poche pagine di accordo si nascondono molteplici dispositivi sotterranei di intensificazione della prestazione lavorativa e di depotenziamento politico degli operai. “Nella Pomigliano immaginata da Marchionne non c’è il sindacato, né il diritto dei lavoratori a coalizzarsi per arginare l’abissale distanza di forza tra il capitale e il singolo operaio. Il conflitto è inibito con il consenso alla retorica aziendale o con la minaccia di sanzioni disciplinari o licenziamenti.” (Fondazione Centro per la Riforma dello Stato – “Nuova panda schiavi in mano – la strategia Fiat di distruzione della forza operaia”). Secondo il coro della propaganda pro-accordo, nell’ex stabilimento dell’Alfa vi erano gli elementi di eccezionalità per giustificare la stretta disciplinatoria avanzata da Marchionne. Pomigliano sarebbe stato un caso isolato, ripetevano i sindacati collaborativi ed il mondo della politica, dalle destre fino al Pd. Alcuni mesi dopo, il mantra del “ogni accordo fa storia a sé” si sarebbe invece trasformato nello slogan “dieci, cento, mille Pomigliano” di Raffaele Bonanni e subito dopo il frame elaborato dalla Fiat per lo stabilimento campano sarebbe stato riproposto a Mirafiori, con l’aggiunta di condizioni ancor più feroci: nessun margine di rappresentanza all’interno della fabbrica per i sindacati non firmatari e trasformazione delle RSU nelle “vecchie” RSA, non più elette dai lavoratori ma nominate dai sindacati e divise pariteticamente tra Fim, Uilm, Ugl e Associazione Quadri. L’attacco al contratto nazionale e più in generale ai diritti, già sferrato in occasione della vertenza di Pomigliano, nel caso di Mirafiori si articola ulteriormente attraverso l’attentato alla rappresentanza. All’interno della fabbrica non sono concesse dissidenze di alcun tipo: chi non si piega ai diktat dell’azienda è automaticamente escluso dalla possibilità di svolgere assemblee all’interno dello stabilimento e di eleggere i propri rappresentanti. Attraverso il meccanismo della nomina delle RSA, inoltre, il poco potere nelle mani dei lavoratori scivola in quelle delle segreterie dei sindacati firmatari, messi nella possibilità di nominare soltanto i propri fedelissimi e di farsi così garanti della pax sancita attraverso la firma dell’accordo separato (o, per meglio dire, la sottoscrizione del “regolamento aziendale” presentato dall’azienda). Tale provvedimento, che come tanti aspetti dell’offensiva della Fiat rischia di essere presa ad esempio in tante altre aziende all’interno di un quadro complessivo di rivoluzione delle relazioni industriali e di essere esteso più in generale nell’intero settore del lavoro dipendente, rappresenta un’ulteriore tassello di quella torsione autoritaria da tempo in atto nel nostro paese, tesa a minimizzare la libertà di scelta da parte degli elettori nel mondo della rappresentanza politica (pensiamo alla legge elettorale) così come nei luoghi della formazione ed ora in quelli di lavoro, concentrando nelle mani di poche persone il potere di selezione dei rappresentanti dei soggetti sociali attraverso meccanismi di tipo cooptativo. Alla luce di quanto detto, i casi di Pomigliano e Mirafiori non sono quindi catalogabili come semplici vertenze aziendali, bensì come casi paradigmatici: come già accaduto nell’80, la Fiat si è assunta il compito storico di cambiare sé stessa per cambiare tutto il sistema che le sta attorno, praticando forzature anche nei confronti di Confindustria, apparsa in una prima fase addirittura smarrita di fronte ad alcuni passaggi compiuti dall’AD Fiat (come la creazione delle Newco con conseguente uscita da Federmeccanica) e rientrata poco dopo “nei ranghi”, seppur in una posizione di pressoché totale subalternità rispetto alle politiche industriali dell’azienda (sempre meno)


torinese. Sergio Marchionne insomma pare aver lanciato quel medesimo “sasso nello stagno” – metafora non a caso usata da Cesare Romiti a proposito dei fatti dell’80 – con cui rivoluzionare le relazioni industriali nell’intero paese, riassorbendo la spaccatura “orizzontale” determinata dal conflitto storico tra capitale e lavoro al fine di erigere una spaccatura “verticale” tra vere e proprie comunità combattenti, in cui i lavoratori, una volta interiorizzata la missione aziendale, svolgono il ruolo di soldati semplici nel campo di battaglia della cosiddetta competitività globale contro altrettanti generali e soldati semplici di altri gruppi industrial-finanziari. Il pericolo reale e concreto è nell’eventuale processo di imitazione da parte del resto del mondo produttivo nella direzione tracciata da Marchionne, che porterebbe a un ulteriore livellamento verso il basso delle condizioni di vita dei lavoratori, anche dei cosiddetti “garantiti”, sempre meno protetti e tutelati da un sistema di regole uguali per tutti.

10.3 – LA METAMORFOSI DEL LAVORO E LA SCHIAVITÙ DELLA PRECARIETÀ Se questo mutamento delle dinamiche di contrattazione nel mondo industriale ha potuto avere luogo, proprio in questo momento, è perché nel nostro paese è stato abbandonato ogni tipo di avanzamento rispetto alla tutela del lavoro e ogni tipo di sostegno alla regolamentazione dello stesso mercato del lavoro. Nell’epoca della new economy in Italia lo sviluppo di tale politica economica ha portato alla precarizzazione di un intera generazione di lavoratori. Il Pacchetto Treu, nel 1997, è stato il primo impegno del legislatore nel riformare tale settore, introducendo normative che hanno portato alla proliferazione di contratti di lavoro più flessibili e più aderenti alle richieste del mercato, così da rendere più competitiva l’offerta a livello internazionale. Questa deregolamentazione del mercato del lavoro ha prodotto nuove forme di contratto, diverse nelle tipologie di orario, di durata, di remunerazione nonché di diritti sociali e previdenziali, che hanno determinato, innanzitutto, una differenza tra i “vecchi lavoratori” con contratti standard e i “nuovi lavoratori” con contratti atipici. Questo tipo di processo aveva l’obiettivo, oltre a quello di garantire condizioni di flessibilità nell’offerta di lavoro, di sostenere un aumento sostanziale del tasso di occupazione. L’idea originaria voleva conciliare l'interessa dell’impresa, che consisteva nell’abbassamento del costo del lavoro e nella possibilità di rispondere più velocemente ed efficientemente alle oscillazioni della domanda, e l'interesse del lavoratore, che, teoricamente, avrebbe avuto la possibilità di ampliare la propria esperienza di lavoro e aspirare a remunerazioni e condizioni di lavoro sempre migliori. Ma la realtà è stata ben diversa: la legge 30/2003 e il decreto legislativo 276/3003 hanno prodotto la proliferazione smodata e multiforme di tali contratti atipici, senza alcuna regolamentazione e limitazione. Ciò che voleva essere “flessibilità” si è manifestata come “precarietà”: precarietà delle esistenze, delle condizioni di vita, andando a modificare le aspirazioni al futuro, gli stili di vita e le relazioni sociali, incrementando, in definitiva, la disgregazione del tessuto sociale. E in aggiunta a questo ci troviamo di fronte all’aumento della disoccupazione giovanile che attualmente si attesta sul 30%, toccando in alcune regione vette del 50%. Di conseguenza, la trasformazione del mercato del lavoro negli ultimi decenni, caratterizzata dalla crescita smisurata dei rapporti di lavoro precario, da un lato ha fortemente sbilanciato l'equilibrio dei rapporti tra capitale e lavoro, indebolendo drasticamente la posizione dei lavoratori, sottoposti continuamente al ricatto del mancato rinnovo del contratto, dall'altro ha completamente scardinato il sistema di welfare italiano, tradizionalmente costruito intorno al contratto di lavoro a tempo indeterminato. Chi non ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato non ha, di fatto, diritto all'assenza per malattia, alla maternità, allo sciopero, alla cassa integrazione, alla pensione. Un'intera generazione di italiani sa per certo che oggi non può accendere un mutuo e domani non averà una pensione. Un'intera generazione di italiani si trova a ritenere normale il lavoro gratuito, a


considerare generosi regali i propri diritti fondamentali, a chiamare “gavetta” lo sfruttamento. La crisi ha definitivamente svelato questi due fenomeni: gli effetti del tracollo finanziario e industriale sono stati scaricati prima di tutto su centinaia di migliaia di precari, espulsi rapidamente dal mercato del lavoro in quanto anello più debole della catena, senza oltretutto che si dovesse ricorrere ad alcun meccanismo di tutela o ammortizzatore sociale. La funzionalità delle riforme del mercato del lavoro promosse da centrodestra e centrosinistra negli scorsi decenni alla ristrutturazione in senso autoritario delle relazioni sociali e l'insufficienza del nostro sistema di welfare sono ormai sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi mesi, inoltre, con il caso Fiat, prima a Pomigliano e poi Mirafiori, è stato chiaramente dimostrato come il livellamento verso il basso dei diritti e delle condizioni di lavoro e di vita non risparmi nessuno: ciò che è stato sperimentato nel corso degli ultimi due decenni sui precari, cioè il ricatto continuo e la flessibilità obbligatoria, coinvolge ora strati sempre più ampi della popolazione. Il ricatto della delocalizzazione rende precari, di fatto, anche molti lavoratori a tempo indeterminato, facendo saltare ogni distinzione tra garantiti e non garantiti. L'ultima chicca che ci ha regalato il governo è il cosiddetto “collegato lavoro”. Un documento che aumenta il grado di precarizzazione del mondo del lavoro, eludendo il diritto dei lavoratori precari a ricorrere contro il proprio datore di lavoro nel caso in cui le clausole del proprio contratto vengano violate. In particolare la parte più importante di questo provvedimento riguarda la riduzione da 5 anni a 2 mesi del tempo entro il quale un lavoratore può ricorrere a un tribunale ordinario per farsi reintegrare nel posto di lavoro in seguito ad un licenziamento illegittimo o ad un proprio impiego “abusivo” da parte del datore di lavoro. In due mese un legale medio non riesce a preparare gli atti necessari a preparare una causa, e così molte persone rinunceranno a far valere i propri diritti perché non riusciranno a preparare i documenti per le cause in tempo. Inoltre tale documento introduce per il lavoratore al momento della firma del contratto la possibilità, in caso di controversia con il datore di lavoro, di poter ricorrere alla giustizia ordinaria o al cosiddetto “arbitrato”. L'apparente libertà di scelta è in realtà minata alla base dal rapporto intrinsecamente non paritario vigente al momento della firma del contratto tra lavoratore e datore di lavoro. Tale soggetto privato, che dovrebbe essere “terzo ed imparziale”, sarebbe pagato a metà dal padrone e dal precario e sarebbe nominato da quegli “enti bilaterali” composti per metà dai sindacati che hanno pubblicamente legittimato l'uso di questo strumento e per metà dai delegati scelti da Confindustria.

10.4 - LA GENERAZIONE DELLA STABILE PRECARIETÀ Noi, studentesse e studenti, siamo consapevoli di non poter condurre da soli questa battaglia, ma qualcuno la deve lanciare, e, se non noi, chi? Il ruolo dei soggetti in formazione in questo contesto è centrale. Negli ultimi mesi abbiamo saputo porre all'opinione pubblica la questione generazionale come questione sociale, raccontando in tutte le piazze la nostra condizione di studentesse e studenti che vivono quotidianamente a contatto con la schiavitù della precarietà: nelle scuole e nelle università, dove il personale è sempre più spesso esternalizzato, a termine, interinale; nei bar, nelle pizzerie e nelle aziende, dove andiamo a lavorare per permetterci di continuare gli studi; nell'immagine che abbiamo del nostro futuro, dove sembra non esserci più spazio per l'autodeterminazione, per percorsi di vita dignitosi e soddisfacenti, per un mondo all'altezza dei nostri sogni. Il lavoro di analisi, confronto ed elaborazione su questi temi sarà lungo e complesso, ma non parte da zero. Da anni riflettiamo sui grandi cambiamenti che hanno sconvolto il nostro mondo negli ultimi tre decenni: l'integrazione della conoscenza nei processi produttivi ha raggiunto un grado inedito, e i luoghi della formazione sono stati pienamente coinvolti dall'ondata di privatizzazioni, di esternalizzazioni e di precarizzazione che ha caratterizzato la ristrutturazione del capitalismo globale. Oggi le disuguaglianze nell'accesso ai saperi e agli strumenti della formazione non coinvolgono una piccola minoranza in difficoltà, ma rappresentano la condizione generale di buona parte della nostra generazione. Allo stesso modo, il processo di mercificazione del sapere e di


parcellizzazione della sua produzione si estende a tutti gli ambiti della conoscenza, dalle scuole alle università, dai centri di ricerca alle accademie, puntando a fare del sapere socialmente prodotto una risorsa scarsa, da contendere e commerciare. Noi soggetti in formazione siamo, come soggettività sociale, il prodotto di questi processi. L'estensione nel tempo e nello spazio dei processi formativi rende questo soggetto articolato e multiforme: studenti lavoratori, studenti part-time, lavoratori che rientrano nel ciclo continuo della formazione per reagire all'espulsione dal mercato o per migliorare la propria condizione, apprendisti che passeranno la loro vita in officina e dottorandi che fanno il lavoro dei docenti. Ad attribuire a questa miriade di soggettività una condizione comune sono, da un lato, l'accesso al sapere, e quindi la possibilità di entrare a contatto con gli strumenti culturali in grado di costruire una coscienza collettiva avanzata, e, dall'altro, l'esposizione ai processi di mercificazione di cui sopra, che hanno livellato verso il basso le condizioni materiali di vita dei soggetti in formazione, avvicinando tra loro, pur nella frammentazione apparente, le esperienze quotidiane e le prospettive di vita di ognuno. La precarietà lavorativa, la mercificazione dei saperi, la privatizzazione di parti sempre più significative della società sono quindi parte di un unico processo, cioè la progressiva colonizzazione da parte delle logiche del mercato e del profitto di ogni ambito dell'esistenza umana. La nostra battaglia per la dignità del lavoro è quindi solo una parte, per quanto fondamentale, del percorso di lotta contro la precarietà esistenziale e la ripubblicizzazione dei saperi. Noi non siamo solo i precari di domani, già oggi viviamo la precarietà in forma propedeutica nei luoghi della formazione. I tempi di vita che ci vengono imposti, i crediti formativi, la necessità di lavorare per pagarsi un affitto, l'impossibilità di accedere liberamente alla cultura, di vivere città e spazi che non siano ghetti, tutte questi fattori precarizzano le nostre esistenze nello stesso modo di come i contratti atipici di cui ci vogliamo liberare, almeno quanto la negazione dei diritti sindacali come nel caso dei metalmeccanici e del nuovo contratto nazionale per il commercio e i servizi.

10.5 - GLI SPECCHIETTI PER LE ALLODOLE DELLA MELONI Sintomo dell'inefficacia delle politiche italiane in materia di precarietà è l'attuale inconcludenza e inconsistenza dei pochi provvedimenti presi nel merito. Prova emblematica è il DM emanato a dicembre 2010 dal Ministero delle politiche giovanili con il titolo di “Diritto al Futuro” al cui interno si inserisce un fondo per i lavoratori atipici. Questi decreti hanno come destinatarie le nuove generazioni e riguardano i temi del lavoro, della casa, della formazione e dell'auto-impiego. Per tale ragione sono stati stanziati 300 milioni di euro di cui 216 messi in campo dal Ministero e la restante parte da enti pubblici e privati impegnati in opere di cofinanziamento. Nello specifico, il decreto sulla precarietà ha l'obiettivo teorico di fornire un lavoro stabile a giovani con meno di 35 anni, genitori di figli minori, disoccupati o occupati con contratto atipico (collaborazione coordinata e continuativa). La previsione ipotetica di 10.000 posti di lavoro a tempo indeterminato reca in sé la problematizzazione dello strumento del contratto atipico, simbolo fin troppo luminoso di un liberismo sregolato che regna incontrastato nelle decisioni delle istituzioni politiche e all'interno dell'opinione pubblica. La semplice messa in campo di risorse senza interventi strutturali nel campo del mercato del lavoro e senza un chiaro indirizzo di politica economica non fa altro che sottolineare come questo decreto rappresenti sostanzialmente un palliativo posto in essere dal legislatore, incapace di mettere in seria discussione la funzionalità dei contratti atipici. Servirebbero piani strategici, non manovre saltuarie di natura prettamente pubblicitaria a favore del Governo. Ovviamente nel campo sociale questo orientamento risulta essere ancora più contraddittorio a fronte di un ridimensionamento sempre più accentuato del sistema di protezione sociale. Se si volesse realmente, come si presume essere l'orientamento del legislatore, combinare l'utilizzo di contratti atipici corretti con una dose di stabilizzazione, certamente si dovrebbe agire alla fonte, intervenendo direttamente sulle leggi.


10.6 – UNA MOBILITAZIONE PERMANENTE PER LIBERARCI DALLA PRECARIETÀ Il percorso di intersezione e contaminazione tra le mobilitazioni di questi mesi ha posto le basi per una mobilitazione che tenga insieme la rivendicazione di un welfare universale, in grado di dare risposte alla domanda di dignità che viene da una parte sempre più ampia della nostra generazione, e la battaglia per l'eliminazione della precarietà tramite l'immissione nel mercato del lavoro di regole e tutele, quelle “rigidità” cancellate dall'avanzare della “flessibilità”. Dobbiamo porci il problema di come migliorare qui e ora le condizioni di vita di migliaia di lavoratori e lavoratrici, di studenti e studentesse ma anche di tanti giovani disoccupati che hanno bisogno di risposte immediate sul piano della continuità del reddito e dei servizi, e al tempo stesso non possiamo accettare che la conquista di una vita dignitosa per i precari diventi l'alibi per giustificare a posteriori e perpetuare in eterno la loro condizione di precarietà. I due percorsi non vanno mai scissi: estensione dei diritti e continuità del reddito non sono due concetti in contrapposizione, tutt'altro. Lanciamo quindi a tutto il movimento studentesco, al sindacato dei lavoratori e a tutta la società civile in movimento un appello alla mobilitazione sul tema della precarietà, intorno ai seguenti punti, come prima piattaforma minima per aprire la discussione: • difesa del contratto nazionale come strumento fondamentale per la tutela dei diritti dei lavoratori e la costruzione di legami reali di solidarietà, da salvaguardare e rilanciare sul piano europeo e internazionale; • no a logiche di scambio e guerra tra poveri tra precari e “garantiti”, come quelle previste dallo statuto dei lavori di Sacconi e da molte proposte del centro-sinistra; non è liberalizzando i licenziamenti che migliorerà il nostro orizzonte di lavoro e di vita; • eliminazione delle tipologie contrattuali atipiche che travestono da lavoro autonomo quello che è lavoro subordinato a tutti gli effetti, legalizzano il caporalato, privano di diritti centinaia di migliaia di lavoratori; • riconoscimento a tutti i lavoratori e le lavoratrici, a tempo indeterminato o determinato, degli stessi diritti, delle stesse tutele e degli stessi ammortizzatori sociali ; • istituzione di un reddito minimo (fissato al 60% del salario medio nazionale, come stabilito dal Parlamento europeo) come forma di welfare universale, che assicuri la continuità di reddito ai precari e liberi almeno in parte dal ricatto del posto di lavoro; • istituzione di un reddito per i soggetti in formazione, una misura integrata di servizi e contribuzione economica per garantire libertà e autonomia sociale a chi è inserito nei percorsi formativi. Sia il reddito minimo che di formazione potrebbero essere finanziati dal “fondo per il futuro”, misura di scopo finanziata dalla tassazione delle rendite e delle transazioni finanziarie, da parte delle spesi militari e dalla sottrazione dei fondi alle scuole e università private; • rilancio degli investimenti sulla formazione e sulla ricerca con l'obiettivo di un lavoro qualificato e gratificante per una sempre maggiore quota della popolazione e per realizzare una produzione di qualità, razionalmente orientata verso la sostenibilità sociale ed ambientale.

10.7 NUOVI STRUMENTI PER UN NUOVO WELFARE: REDDITO DI BASE E REDDITO PER I SOGGETTI IN FORMAZIONE Il dibattito pubblico sul reddito, in Italia, ha finalmente l'opportunità di uscire dalle paludi ideologiche in cui è impantanato da decenni e accompagnare alle discussioni teoriche sul ruolo del general intellect nella produzione della ricchezza sociale e sull'evoluzione del rapporto tra lavoro e retribuzione un ragionamento serio tra tutti i soggetti impegnati nella battaglia contro la precarietà,


in grado di indicare obiettivi rivendicativi e vertenziali chiari fin da subito. In questo senso, le aperture fatte negli ultimi mesi dalla Fiom o da intellettuali come Luciano Gallino rappresentano un'occasione da non perdere, così l'approvazione da parte del Parlamento europeo della risoluzione 2010/2039(INI), che invita la Commissione e i singoli paesi a stabilire forme di reddito minimo pari almeno al 60% del salario medio nazionale, con l'obiettivo di promuovere l'inclusione sociale e il diritto a un'esistenza degna. La stessa campagna Il nostro tempo è adesso, del resto, ha inserito la continuità del reddito e una riforma del welfare in senso universalistico tra le proprie rivendicazioni, cercando di portare il dibattito sul piano concreto dell'individuazione di singoli strumenti necessari alla risoluzione di problemi reali. Il reddito non è la panacea di tutti i mali e, anzi, se non si accompagna la vertenza sul nuovo welfare a una seria battaglia per la cancellazione delle forme contrattuali atipiche, si rischia di aprire la strada a tentativi strumentali di utilizzare il reddito come pannicello caldo per rendere accettabile la precarietà. Ma esistono tre questioni fondamentali, che, oggi, richiedono di essere affrontate: l'esclusione dalle forme tradizionali di welfare di chi non ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato; la mancanza di continuità del reddito di chi lavora con contratti a termine; il livellamento verso il basso dei diritti e dei salari sotto il ricatto della disoccupazione. Forme di basic income, integrate in una rete universale di servizi pubblici e diritti fondamentali, possono rispondere a queste esigenze, migliorare le condizioni di vita di centinaia di migliaia di persone, fermare il dumping sociale e salariale e rilanciare la forza contrattuale dei lavoratori. All'interno di questa rete universale, dev'essere prioritario l'investimento sui servizi pubblici e i consumi collettivi finanziati dalla fiscalità generale, e le erogazioni monetarie dirette vanno viste come integrazioni a tali servizi per coprire gli spazi che il pubblico lascia al mercato. Un caso particolare è rappresentato dalla rivendicazione di un reddito per i soggetti in formazione, che non va messo in contrapposizione ciò che già esiste: il diritto allo studio, fatto di borse e servizi, legati al reddito familiare, è fondamentale per abbattere le barriere di classe che limitano all'accesso alla formazione, e va difeso e potenziato; il reddito risponde a un'altra esigenza, cioè la conquista di un'autonomia sostanziale dello studente dalla famiglia, e va quindi concepito come un sistema di servizi ed erogazioni monetarie su base universalistica, in grado di dare a tutti l'opportunità di costruire liberamente un proprio percorso di vita.

11UNA QUESTIONE DEMOCRATICA

SOCIALE,

UNA

QUESTIONE

Nel luglio del 2001, gli 8 sedicenti “grandi” barricati nel centro storico di Genova promettevano al mondo cosa ben precisa: un governo mondiale della globalizzazione, in grado di tenere sotto controllo i processi economici, sociali e ambientali che sconvolgevano il pianeta e di trasformarli in benessere e prosperità. 10 anni dopo, possiamo ufficialmente constatare che quella promessa non è stata mantenuta. La crisi economica scoppiata nel 2008 ha svelato esattamente ciò che allora denunciavamo, insieme alle centinaia di migliaia di manifestanti che assediavano il G8 di Genova, cioè lo svuotamento di legittimità e di efficacia delle forme di rappresentanza della politica, scavalcate sul piano globale da nuovi soggetti e nuovi poteri: il Wto, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, ma anche e soprattutto il quadro di relazioni informali tra i grandi soggetti multinazionali economicofinanziari, a cui sempre più spesso è demandata la programmazione dei processi globali. La debolezza dei governi nazionali di fronte a questa crisi rappresenta la prova evidente di questo fenomeno: questa crisi poteva essere l'occasione per rimettere in discussione un modello di sviluppo insostenibile dal punto di vista sociale come da quello ambientale, invece ha solo palesato la subordinazione della politica alla logica del profitto. Il caso greco e quello irlandese lo dimostrano: la sfera della rappresentanza politica sembra essere ormai incapace di prendere decisioni


coraggiosamente autonome da quella dell'élite economica e finanziaria. Ciò è reso possibile dal fatto che lo smantellamento della democrazia non avviene solo a livello internazionale. La crisi della partecipazione politica investe pienamente le dinamiche interne; gli stati sono deboli perché la democrazia è debole, perché la sfera politica è stata svuotata da ogni contenuto potenzialmente conflittuale o comunque riformatore. Il nesso tra crisi economica, crisi sociale, crisi ambientale e crisi democratica è particolarmente evidente in Italia, e il berlusconismo ne è l'incarnazione. La crisi delle forme di rappresentanza e organizzazione politica che stiamo vivendo sembra ancora più dirompente di quella all'inizio degli anni '90, segno che le risposte fornite dalla cosiddetta “seconda repubblica”, sia sul piano politico sia su quello sociale, non sono più sufficienti, se mai lo sono state: ma il problema è generale. Una politica debole e autoreferenziale è funzionale agli interessi del grande profitto, così come l'indebolimento degli organi di garanzia e tutela costituzionali - con l'accentramento dei poteri nei mani dell'esecutivo e delle sue braccia operative pubbliche e private - è funzionale alla riscrittura della costituzione materiale del paese. La tendenza della politica attuale si sta esprimendo, con inquietante chiarezza, nei continui tentativi di eliminazione dei contratti collettivi nazionali, attraverso progetti di privatizzazione dei beni comuni e della conoscenza. Ad esempio, l'eliminazione degli spazi di contrattazione all'interno delle fabbriche, come nelle scuole e nelle Università, lascia terreno fertile ad un lavoro privato delle garanzie basilari, alla negazione dei diritti e della democrazia. Com'è avvenuto tutto questo? Non c'è stato nessun golpe militare, le istituzioni democratiche (più o meno) sono ancora lì, in Italia come altrove. Si continua a votare, anno dopo anno. Il problema è che la democrazia non si riduce al momento elettorale. Le democrazia, invece, è fatta di pratiche costanti, di soggetti sociali organizzati, di spazi di cittadinanza. La democrazia ha delle basi materiali, che sono i diritti sociali, civili ed economici dei cittadini. La rivoluzione conservatrice iniziata ormai 30 anni fa da Reagan e Thatcher è tale perché ha cambiato profondamente il nostro tessuto democratico, riducendone gli spazi. Privatizzare significa ridurre i campi d'applicazione delle scelte democratiche. Ridurre i diritti dei lavoratori significa limitare la loro possibilità di accedere alla sfera pubblica. Tagliare i salari significa peggiorare le condizioni di vita delle persone, e quindi tendenzialmente escluderle dalla comunità, renderle incapaci di esercitarne i diritti, sottoporle ad un costante ricatto. E così, privatizzando e frammentando la società, si è indebolita la democrazia. Assistiamo quindi a un processo di erosione dei legami sociali e di svuotamento della sfera pubblica intrapreso dalle forme più o meno organizzate del potere, con l'obiettivo di fare un deserto e chiamarlo pace sociale. Dinanzi a tale processo di vera e propria egemonia a-culturale la risposta non può essere una mera contestazione. La banale cacciata del Rais di turno non può dimostrarsi la strategia risolutiva; i tiranni si sostituiscono e si susseguono qualora non ci sia un reale cambiamento nel tessuto sociale in cui questi si alimentano. Questo sistema ha crepe evidenti, esattamente dove il movimento, 10 anni fa, le aveva indicate: nel Sud del mondo, su cui vengono scaricate tutte le contraddizioni dell'Occidente, dallo smaltimento dei rifiuti alla gestione delle migrazioni, sostenendo oppressione e povertà lì per poter garantire “libertà” e benessere qui. In una connessione globale tra le mobilitazioni, allora, vedevamo l'unico spiraglio. Oggi quello spiraglio si è aperto, al Cairo come a Londra, e sta a noi lavorare per allargarlo. Ricostruire continuamente spazi di legittimità per il conflitto sociale, praticare l'alternativa, immaginare, proporre e realizzare continuamente il futuro che sogniamo. Il 14 dicembre si è celebrato a Roma il funerale della democrazia parlamentare italiana. Un governo privo di una maggioranza politica se l'è comprata al mercato. La distanza siderale che separa le istituzioni rappresentative della Repubblica dalla realtà quotidiana degli uomini e delle donne di questo paese era nota ormai da tempo, e il voto di fiducia, palesemente falsato da mercanteggiamenti che nulla hanno a che vedere con le istanze sociali che il Parlamento dovrebbe rappresentare, equivale alla certificazione notarile di questo processo. In un momento di crisi, la politica istituzionale dovrebbe avere la saggezza di aprire grandi dibattiti collettivi e di valorizzare i meccanismi di partecipazione di cui le parti più attive della società autonomamente si dotano. Ma i


movimenti sviluppatisi sui temi dei saperi, del lavoro, dei beni comuni non hanno mai trovato interlocutori all'altezza all'interno di un Palazzo sempre più avviluppato in un dibattito autoreferenziale e incapace di riflettere ciò che si muove nella realtà. La compravendita dei voti parlamentari ha reso evidente quanto i nessi della delega e della rappresentanza siano ormai saltati, e il fossato tra istituzione e realtà è stato ben rappresentato dallo spropositato schieramento di polizia che ha blindato la città facendo il vuoto intorno ai palazzi del potere. Il parlamento assediato più volte negli ultimi giorni, il centro di Roma trasformato in una «zona rossa» per impedire agli studenti di portare la propria voce sotto alle finestre di Montecitorio. Questa immagine è l'istantanea della democrazia italiana così come 15 anni di ristrutturazione capitalista e neooliberista, condotta da schieramenti di centrosinistra e di centrodestra, di cui il berlusconismo rappresenta una degenerazione ulteriore, l'hanno ridotta. Ma qualcosa si è mosso in quest'autunno. Il silenzio di una politica muta e sorda è stato riempito dalle voci di centinaia di migliaia di studenti, mobilitati in difesa dell'università pubblica e determinati a riprendersi il presente per costruire il futuro. L'unica risposta alla crisi della democrazia è il protagonismo dei soggetti sociali, nel contesto italiano come in quello globale. La partita del cambiamento, nel nostro paese, si gioca esattamente qui. O l'opposizione sociale e politica di questo paese riuscirà a mettere in campo una mobilitazione programmaticamente alternativa, in grado di dire parole nette sul lavoro, sui saperi, sui beni comuni, in grado di rovesciare i rapporti di forza e di rendere concreta l'alternativa che predichiamo, o la fine di Berlusconi non sarà la fine del berlusconismo come fase storica contraddistinta da un bipolarismo di facciata dietro cui si nasconde la stessa élite finanziaria e mediatica. In questo senso la politica dei partiti è svuotata. La partita ora è su chi la riempirà: i media e i poteri che li controllano, con la scelta di un nuovo fantoccio, o i soggetti sociali in movimento. Sta a noi rifiutare ogni strumentalizzazione e ogni becero dibattito sulla “cacciata del tiranno” e riempire l'agenda di questioni sociali che facciano emergere i conflitti sociali che lacerano questo paese, con l'obiettivo di costruire un'alternativa sociale, culturale e democratica.

12 - LE ALLEANZE SOCIALI L'ALTERNATIVA DI SISTEMA

PER

L'OPPOSIZIONE

E

LINK-Coordinamento universitario si deve porre, come ogni organizzazione sociale, il tema delle alleanze: come e con chi confrontarsi e lottare assieme per raggiungere gli obiettivi che ci si è prefissati. Fin dalla nostra fondazione abbiamo respinto un modello basato sulla predeterminazione a tavolino del quadro dei rapporti politici, preferendo costruire relazioni frutto di analisi e di condivisione di alcuni percorsi e collaborazioni a livello locale e nazionale. Le alleanze sociali si determinano sulla base degli obiettivi comuni di medio e lungo periodo che l'organizzazione si dà, non certo sulla base di tattiche politiche o convenienze. La nostra storia, inoltre, ci ha insegnato il valore dell'indipendenza politica ed economica, che dev'essere la nostra bussola nei rapporti con l'esterno, senza però diventare autoreferenzialità o presunzione di autosufficienza. La questione delle alleanze sociali si pone con particolare forza nella presente fase politica. Il quadro di estrema frammentazione che le politiche sociali degli ultimi due decenni ci consegnano, con la crisi delle appartenenze collettive e il dilagare dell'individualismo e della guerra tra poveri, rendono necessario un lavoro collettivo per ricostruire i legami sociali che i poteri politici ed economici logorano ogni giorno. Costruire legami che sappiano tenere insieme italiani e stranieri, studenti e lavoratori, precari e pensionati significa mettere in discussione la logica della guerra tra poveri, tassello fondamentale nel livellamento verso il basso delle condizioni di vita scientificamente perseguito dal governo e dall'élite finanziaria. Per questo riteniamo la costruzione di coalizioni tra i soggetti sociali una necessità prioritaria per la resistenza alla crisi che stiamo vivendo e per l'alternativa che vogliamo. L'autunno ci consegna un quadro abbastanza chiaro di alcuni rapporti che siamo riusciti a costruire sia per la crescita e la formazione dell'organizzazione sia per la realizzazione del movimento


studentesco e dell'opposizione sociale nel suo complesso. All'interno del campo universitario nell'opposizione al ddl Gelmini si sono formate reti organizzate dei ricercatori (Rete29aprile) e dei precari (Cpu), rendendo possibile per Link la costruzione di campo di relazioni stabili insieme a queste organizzazioni, all'Adi e all'Flc. Ciò ci ha permesso di mantenere un livello avanzato di analisi e di intervento su tutte le questioni universitarie durante tutto il periodo della mobilitazione, riuscendo spesso a organizzare iniziative coordinate tra tutte le componenti attive dell'università. Tali relazioni sono ovviamente variabili tra i diversi territori, in particolare per quanto riguarda l'Flc e la Rete29aprile, ma stiamo riuscendo sempre di più a costruire relazioni solide sul piano nazionale, con l'obiettivo di sostenere anche l'azione dei territori dove queste risultano più complesse. In particolare, iniziative come l'AltraRiforma e la piattaforma comune sugli statuti ci indicano come la relazione con le altre componenti organizzate del mondo universitario possa farci compiete decisi passi in avanti sul piano dell'analisi e dell'incisività. L'esempio dell'AltraRiforma, del resto, ci indica anche la possibilità di costruire relazioni sempre più profonde con i soggetti studenteschi territoriali con cui ci troviamo a condividere un percorso, come Ateneo Controverso di Cosenza, Sinistra Per di Pisa, Studenti di Sinistra di Firenze, l'Unione degli Universitari di Lecce, l'Osservatorio Indipendente d'Ateneo di Udine, il Movimento Studenti di Macerata e l'Assemblea Permanente di Urbino. Le alleanze di un'organizzazione studentesca, parte della Rete della Conoscenza, non si possono però limitare all'ambito delle organizzazioni presenti nel mondo della formazione. Questo autunno non ci ha visto mobilitarci esclusivamente contro una riforma universitaria, come è stato nel 2008 contro la legge 133: il movimento si è politicizzato molto e si impegnato contro le politiche di attacco al mondo della formazione nel suo complesso, mettendo al centro delle sue rivendicazioni la questione generazionale come questione sociale. Come LINK siamo stati tra gli artefici di questo percorso, a partire dalla manifestazione del 16 ottobre con la FIOM a Roma e alla successiva assemblea del 17 ottobre alla Sapienza. Rivendicando il nostro ruolo nel movimento e le scelte che abbiamo compiuto, ci rendiamo conto di come una serie di alleanze che abbiamo creato abbiano oltrepassato i confini del mondo della conoscenza, con l'obiettivo generale di costruire un'alternativa a questa società, insieme a tutte quelle organizzazioni che da anni compongono il vasto mondo della sinistra sociale. I rapporti che abbiamo con Libera, Arci, Legambiente, Sbilanciamoci e il Forum dei Movimenti per l'Acqua sono importanti per la costruzione di quel vasto quadro di alleanze da contrapporre a questo governo, come lo sono per la crescita e la formazione di tutti i compagni sui territori che dal confronto sistematico con queste organizzazioni crescono in termini di analisi e competenze. In questi mesi abbiamo inoltre stabilito una relazione solida con la Fiom, legata non solo alle particolari vicende di cui sono stati protagonisti quest'anno i metalmeccanici o al vecchio slogan “studenti e operai uniti nella lotta”, ma a un comune percorso di elaborazione sui temi del lavoro, del welfare, dei beni comuni e della riconversione ambientale dell'economia. Nei confronti del sindacato abbiamo tenuto per tutto l'anno un atteggiamento di confronto serio e incalzante sui contenuti, riconoscendo come interlocutore politico, in continuità con le lotte di questo autunno, la Cgil, alla quale abbiamo chiesto, insieme a tutto il movimento, la convocazione dello sciopero generale. Non abbiamo risparmiato critiche alla Cgil sulla tardiva convocazione dello sciopero, che non ha intercettato le istanze poste dal movimento dello scorso autunno, o sul suo ritardo sul tema della precarietà, ma allo stesso tempo abbiamo condiviso occasioni di iniziativa comune con essa, che oggi si ritrova sempre più isolata dalle politiche del governo e dalla strategia filo-governativa di Cisl e Uil. Auspichiamo che il sindacato, di fronte a un bivio, metta da parte le tentazioni neo-concertative e scelga la strada di un percorso di mobilitazione sociale profonda e determinata. Intendiamo proseguire sulla strada della costruzione di un proficuo rapporto politico con la Cgil, nella battaglia comune contro l'attacco ai diritti dei lavoratori e lo smantellamento dello stato sociale. Questo rapporto, per noi, va costruito a partire dal presupposto della nostra autonomia e indipendenza politica ed economica, e va vissuto come un sincero confronto tra organizzazioni sui contenuti, senza barriere ideologiche e strumentali. Particolarmente importante, in questa fase, è il nostro lavoro all'interno dei comitati referendari su


acqua e nucleare, di cui siamo stati parte fin dall'inizio attraverso la Rete della Conoscenza. Nell'attuale quadro di crisi della rappresentanza, l'indipendenza delle organizzazioni sociali dai partiti politici va ribadita e salvaguardata. Per noi, da sempre, autonomia non significa autoreferenzialità, e per questo scegliamo di promuovere rapporti dialettici e di confronto sui contenuti sia con i partiti come organizzazioni politiche sia con i loro rappresentanti nelle istituzioni. Nel quadro delle alleanze sociali costruite durante l'autunno va inserita anche la vicenda di “Uniti contro la crisi”, a partire dall'assemblea del 17 ottobre, che ha segnato l'inizio di un percorso di allargamento dell'opposizione sociale da noi immagino fin da Riot. In un momento in cui l’opposizione istituzionale non si è dimostrata all’altezza di recepire le istanze provenienti dal mondo dei saperi, del lavoro e dei movimenti sociali per la difesa del territorio e dei beni comuni, la nascita di un percorso capace di connettere le varie lotte all’interno di un progetto più ampio di rivendicazione si è rivelata una necessità imprescindibile. “Uniti contro la crisi”, di cui siamo stati tra i promotori, ha avuto la capacità durante l’autunno di essere un moltiplicatore della portata mobilitativa delle singole lotte sociali, mostrando che una reale opposizione dal basso, in grado di incidere in maniera complessiva sulla società, trova spazio soltanto quando si nutre di movimenti ampi e reali. Proprio questa scelta di non costituirsi come soggetto organizzato, ma di fungere da catalizzatore di varie e diverse lotte sociali ha permesso a “Uniti contro la crisi” di svolgere una funzione centrale durante i mesi autunnali. Con il venir meno dei grandi momenti di mobilitazione studentesca che ne hanno costituito la principale linfa vitale, tale percorso ha mostrato i suoi limiti: l’incapacità di far vivere sui territori percorsi di connessione delle diverse esperienze e la difficoltà di sviluppare dibattito pubblico e partecipato intorno ai suoi temi e di rendersi permeabile a nuove istanze. Già all'assemblea del 17 ottobre dichiarammo la nostra contrarietà a ogni forzatura organizzativa su “Uniti contro la crisi”, ritenendo che le sue potenzialità stessero nella valorizzazione dei percorsi messi in campo dai differenti soggetti sociali, rifiutando ogni velleità di frustrare l'autonomia del movimento studentesco e la sua l'irriducibilità nei ristretti confini di un'area politica. La realtà nei mesi successivi, ci ha dato ragione: quando “Uniti contro la crisi” accenna a rinchiudersi in recinti ristretti di area, diventa un fattore di divisione all'interno del movimento, mentre quando riesce a tenere un quadro di ricomposizione sociale e politica ampio e legato al movimento reale, come il 17 ottobre o come nell'assemblea verso lo sciopero generale del 25 marzo, diventa un fattore di aggregazione e connessione. Intendiamo quindi continuare su questa prospettiva, sottoponendo costantemente a verifica la capacità di “Uniti contro la crisi” di funzionare come efficace strumento di connessione tra le lotte. I limiti di questo percorso non costituiscono una ragione valida per abbandonare il progetto di costruire un fronte comune dei movimenti sociali, che anzi deve essere rafforzato quanto più possibile, ma ci invitano a proseguire la discussione sulle modalità, le pratiche, le forme e gli obiettivi per un’opposizione dal basso realmente efficace e capace di puntare a un cambiamento. Fare rete con movimenti, associazioni, sindacati a partire da alcuni spazi sociali che abbiamo sul territorio può essere la risposta a chi ci vorrebbe chiusi all'interno di quattro mura universitarie e può essere per noi l'inizio dell'allargamento dell'opposizione sociale a partire dai territori, che devono essere i primi a creare sinergie e collaborazioni politiche sul territorio, che ricadano sul piano nazionale. LINK, come organizzazione nazionale di ispirazione sindacale ha il compito difendere i diritti degli studenti e di allargare il suo raggio d'azione alla società e alla creazione di un'alternativa possibile da contrapporre al modello capitalista esistente. Dobbiamo porci quest'obiettivo anche nelle lotte che condurremo insieme agli altri soggetti sociali nei prossimi mesi, rifiutando il modello imposto da alcuni quotidiani nazionali, Repubblica in testa. Un modello di manifestazione, legittimato anche da alcune organizzazioni studentesche, che punta a eliminare le differenze scendendo in piazza per la Costituzione insieme ai post-fascisti di FLI. Il nostro obiettivo non può essere quello di creare alleanze trasversali senza basi e condivisione politiche, ad uso puramente mediatico, senza una reale capacità di incidere nella società o di mutare i rapporti di forza. Il nostro compito deve essere invece quello di allargare lo spettro d'analisi a temi di ampio respiro:


la precarietĂ , il welfare, l'ambiente, all'interno della Rete della Conoscenza, per confrontarsi con altri soggetti e costruire per l'anno prossimo un'opposizione sociale ampia e coesa, che veda la partecipazione di associazioni, movimenti, sindacati e tutti gli altri soggetti interessati a cambiare questa societĂ .


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