Documento Politico 2014 - Rete della Conoscenza

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Siamo il cammino, dobbiamo proseguire

V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza Lecce, 31 luglio-2 agosto 2014

documento politico



V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico

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Parte A – Il modello democratico 5

Tesi 1 – La democrazia 10

Tesi 1.1 - Tra crisi della democrazia rappresentativa e nuove forme di partecipazione La democrazia in Italia è sotto attacco, si tratta di un dato di fatto, ma le questioni che ci dobbiamo porre sono molteplici: chi la sta attaccando? Cosa dobbiamo difendere? Cosa dobbiamo rivendicare? In sintesi cosa intendiamo noi con la parola democrazia?

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Per noi la democrazia è il controllo di tutti gli uomini e le donne sulla propria vita, il diritto ad autodeterminarsi a prescindere dalle condizioni economiche in cui ognuno di noi versa, e uno dei fondamenti di questa possibilità di scelta e controllo dev’essere quello della partecipazione di ognuno di noi a un processo che coinvolga ogni ambito dell’agire e del vivere comune. La democrazia si è spesso espressa in modi diversi anche se una caratteristica comune da negli utlimi secoli a questa parte è l’essere espressione di precisi rapporti di forza che hanno creato un compromesso tra quello che sono le forme partecipative e gli interessi economici dominanti. Negli ultimi anni, abbiamo visto questo compromesso incrinarsi, il nesso tra le istanze sociali e la capacità delle istituzioni di rispondervi è andato a esaurirsi con una svolta dal rischio autoritario. Nell’Assemblea Nazionale di Genova nel marzo 2012 facevamo la fotografia di un Paese che da pochi mesi era sotto gli attacchi speculativi della finanza e dal novembre 2011 conosceva l’emergere del Governo tecnico di Monti. Da allora si sono visti gli attacchi di Jp Morgan alle costituzioni antifasciste e i diritti dei lavoratori, il terzo Governo consecutivo che non è espressione della sovranità popolare ma degli interessi politici ed eco nomici di una stretta minoranza, un’Europa che continua ad essere distante dalle istan ze dei movimenti sociali e la cui unica risposta che sa dare a un disagio sempre più forte soprattutto delle soggettività in formazione è l’austerità e l’incapacità di dialogo.

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Con le elezioni dell’anno passato ci siamo ritrovati in un quadro in cui la vera novità, a prescindere dalle coalizioni e dalle maggioranze di governo, è stato il MoVimento 5 Stelle, novità che va letta più che come malattia come sintomo dell’emersione dell’antipolitica. Beppe Grillo ha saputo arrivare direttamente alla pancia dei cittadini interfacciandosi senza diaframmi con loro senza l’operato di quei corpi intermedi fondamentali all’interno di uno stato democratico. Tale aspetto è quello fondamentale, perché disvela la debolezza generalizzata della politica organizzata di oggi, sia di quella partitica sia di quella sociale e di movimento. Oggi esiste in Italia una forza che ha intercettato il consenso di un’ ampia fetta degli elettori (seppur il risultato nelle ultime elezioni europee si è ridimensionato), costruendo un modello comunicativo basato sull’interazione virtuale (blog) e spesso unilaterale (comizi), proponendo forme inconsuete di radicamento (come i meet-up americani) e sostituendo quindi quelle tradizionali (sezioni federazioni ecc.), senza appoggiarsi a forze organizzate della società civile. Di fatto Grillo ha raccolto, in termini elettorali, tantissimo consenso dalle generazioni scese in piazza con l'Onda nel 2008 e con il movimento contro la Riforma Gel mini nel 2010, nonché dalle diverse lotte territoriali sul terreno dei beni comuni che si sono prodotte negli ultimi anni; questo fenomeno è dovuto in gran parte al fatto 6


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che tali movimenti si sono spesso scontrati con un'incapacità di dialogo e una sordità da parte dei partiti tradizionali alle istanze che venivano portate in piazza. Occorre rebbe però non ridurre questo fenomeno ad una mera capacità di Grillo nel rappresentare determinate necessità, quanto nell’inserire il suo successo tra le giovani generazioni come frutto di un processo di crisi della forma partito novecentesca, della conseguente liquefazione dei blocchi di elettorato e dalla crisi della partecipazione politica diretta a favore di forme di partecipazione passive come quella telematica.

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Un altro elemento a cui Grillo da una parte e la sconfitta di Bersani dall’altra hanno dato un’accelerazione profonda è il personalismo e l’emersione della figura del capo carismatico. Questo processo si era avviato come prettamente di destra con la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi nel 1994 ma possiamo dire che si sia esteso recentemente al partito democratico, con l’elezione a Segretario del Partito Democratico di Matteo Renzi e come confermato dal dato delle europee . Oggi ci troviamo nella situazione per cui Berlusconi, Grillo e Renzi rappresentano la maggioranza assoluta dell’elettorato e impersonificano la figura dell’uomo solo al comando: il partito-persona è una realtà maggioritaria ed egemone, consolidando conseguentemente un modello che consegna forte rilevanza nelle campagne elettorali a finanziatori di natura privata e a grup pi di potere che fanno del controllo del territorio la loro forza, spesso portatori di precisi interessi economici in grado di condizionare la politica stessa. Oggi il rischio vero è quello di una torsione autoritaria nel nostro Paese che potrebbe avere una forza propulsiva dalla riforma della Legge Elettorale, legge che esclude le minoranze e, in nome della governabilità, assurge a maggioranza assoluta forze politiche che non solo sono maggioranza relativa tra gli elettori, ma a causa dell’astensionismo sempre crescente rischiano di diventare minoranza nel Paese reale. La direzione verso cui bisognerebbe andare è invece quella opposta, dare piena partecipazione politica a tutti quei pezzi della società oggi esclusi dal quadro democratico del Paese. Quello dell’astensione è infatti un sintomo problematico delle contraddizioni insite nella democrazia rappresentativa, tuttavia esso è sempre stato trattato in maniera semplicistica dall’informazione e dal dibattito politico. Va però evidenziato come l'astensione sia un fenomeno composto da più elementi come ad esempio la crisi subita dai grandi partiti, la mutazione delle forme della governamentalità verso la tecnocrazia, la degenerazione prodotta dalle larghe intese nel rapporto tra società e partiti, la spoliticizzazione crescente e l’avanzare di un vero e proprio analfabetismo politico, nonché la mutazione profonda introdotta con l'affermarsi dei partiti pigliatutto nelle strategie elettorali.

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L'astensione è cresciuta alle elezioni Europee, elezioni che hanno sancito la legittimazione popolare di Renzi per due motivi fondamentali: da una parte per l'indebolimento delle altre compagini politiche, non viste in questa fase come portatrici di alternativa, dall'altra per la capacità di Renzi di imporsi nel dibattito come un leader anti-austerità, l'unico leader capace di incarnare un modello riformatore basato sulla velocità e sulla certezza dell'azione. Tale legittimazione elettorale rischia di essere un elemento che andrà a velocizzare i rischi autoritari come stiamo assistendo per la discussione sulle Riforme Costituzionali. Le elezioni europee, se lette su scala continentale, mostrano una polarizzazione dello spazio politico non più sull'asse destra-sinistra ma sistema-antisistema e alto-basso facendo prevalere in ogni Paese quelle forze che nella campagna elettorale sono apparse come portatrici di istanze dichiaratamente contrarie all'austerità e alternative all'attuale modello di governance. In questo quadro il successo di Renzi, che ha coperto anche uno spazio occupato altrove e in particolare nel Sud Europa dalle forze della sinistra 7

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico d'alternativa, si può spiegare anche con il tentativo riuscito di sfilarsi dalla dicotomia alto-basso. 110

Sul fronte delle (scarse) forme di democrazia diretta previste dal nostro ordinamento, la nostra democrazia raggiunge l’apice della sua irrealizzazione: dalla sostanziale irrilevanza nella quale sono stati relegati i risultati referendari degli ultimi anni - ultimi quelli sull’acqua - all’istituto mai di fatto applicato e reso operativo della legge di iniziativa popolare.

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La crisi della democrazia si configura anche come un autoritarismo crescente nella nostra vita quotidiana, le lotte di Pomigliano, dell’Electrolux, la privatizzazione di scuole e università, le lotte a tutela dei beni comuni (Tav, Muos, Terra dei Fuochi) ci aiutano a comprendere la tendenza complessiva di restringimento di tutti i luoghi di democrazia. In questo quadro un compito fondamentale è affidato all’imposizione di logiche di privatizzazioni, deregolamentazioni e restrizione dei bilanci pubblici.

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In questa fase, in cui i luoghi di interazione tra i movimenti e le istituzioni si dimostrano inefficaci, spesso specchio della propaganda elettorale, mancano quei processi che consentono di tradurre le istanze dei movimenti in vittorie concrete, che portino ad un’inversione da parte delle istituzioni.

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Tesi 1.2 – Conflittualità sociale, aggregazione delle istanze, pratica della democrazia Il nostro Paese è attraversato da un crescente malessere sociale, destinato ad aumentare di pari passo con l’inasprirsi delle politiche di austerità e le relative ricadu te negative sulle condizioni materiali delle persone. Gli ultimi anni hanno messo in luce un’evoluzione nelle dinamiche di opposizione sociale al potere neoliberista: la microconflittualità, tanto spontanea quanto organizzata, è cresciuta sia nei luoghi della formazione, sia nei luoghi di lavoro, sia nei territori, e la prospettiva generale che esce rafforzata da tali fenomeni è quella del populismo aconflittuale e individualizzato. A questa crescita della microconflittualità ha corrisposto una riduzione della conflittualità generale, anche dovuta alla crescita dei dispositivi repressivi messi in campo dagli ultimi governi. Dopo il 15 ottobre 2011 i movimenti sociali italiani non hanno ritrovato un luogo unitario, mentre le forze sindacali dopo lo sciopero generale europeo del 14 Novembre 2012 non ha proseguito sulla strada di una conflittualità sindacale su scala continentale.

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Dopo il vasto movimento del 2012 nelle scuole superiori contro il PDL Aprea la compo nente studentesca non è più riuscita ad emergere e guidare la conflittualità sociale in Italia. 150

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Contemporaneamente l’ascesa di Grillo ha reso ancora più evidente l’incapacità delle organizzazioni sociali di svolgere il loro storico ruolo di “cinghia di trasmissione”. Oggi i corpi intermedi non hanno più la legittimazione popolare per trasmettere consenso, di fatto sono sempre più ceto politico e sempre meno autentiche organizzazioni di massa. La crisi dei corpi intermedi è causa ed effetto della crisi della democrazia, risolvere tale crisi deve essere compito di tutti con tutti e parte della sua risoluzione, negli ultimi anni, è stata data dalla nascita e crescita di coalizioni sociali: si pensi al Referendum sull’acqua a livello nazionale o quello per la scuola pubblica a Bologna, si pensi ad Uniti contro la Crisi nel 2010. 8


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico Nell’Assemblea Nazionale di Genova, nel 2012, davamo tanta importanza alle coalizioni sociali: dobbiamo compiere una forte autocritica nel non essere riusciti a compiere un processo di unificazione che potesse unire e guidare le lotte nel nostro Paese. E’ altret tanto vero che è inutile attribuirci tutte le colpe: nell’autunno passato si è assistito ad una sclerotizzazione dei movimenti sociali che hanno costruito una dicotomia tra le date del 12 e del 19 ottobre, assolutamente controproducente per la costruzione di un’opposizione sociale ampia in grado di generalizzare le questioni sociali aperte nel paese. Questi elementi hanno posto rilevanti difficoltà nel rilancio dell’autunno, a riprova della necessità di porci nell’ottica di favorire l’incontro anziché lo scontro, fra le diversità dei diversi soggetti sociali e di movimento, per tutelare la qualità, la forza e la capacità aggregativa delle mobilitazioni . A questa dicotomia si è sommata l’incapacità del comitato promotore della data del 12 per l’attuazione della costituzione di proseguire tale percorso, costruendo un fronte ampio contro il pareggio di bilancio in costituzione e contro le politiche di privatizzazione di beni e servizi.

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Oggi quello spazio è ancora percorribile, ma serve farlo su scala continentale come su scala territoriale, connettendo la microconflittualità che sta prendendo vita nel Paese per portarla ad una maggiore incisività. Le esperienze di Blockupy Frankfurt o dello sciopero Generale Europeo del 14 Novembre 2012 già rappresentano precedenti positivi. Oggi è compito della nostra organizzazione aprire uno spazio continentale che sia in grado di superare la dicotomia tra la contestazione fine a se stessa e il corporativismo e costruire un fronte ampio di opposizione sociale alle politiche europee.

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La scala europea è necessaria con l’allontanamento dei luoghi decisionali. Infatti le Istituzioni nazionali perdono di peso verso strutture sovranazionali delegando gran parte delle proprie competenze. La Rete della Conoscenza, in conformità alla propria ragion d'essere e al contesto nella quale si ritrova oggi ad operare, deve trovare strategie orientate a far convergere la rappresentanza dei soggetti in formazione e la lotta sociale su temi non direttamente connessi alla Scuola e all'Università. Le prospettive della nostra pratica, di fronte ai suddetti problemi derivanti da riduzione e delega delle competenze delle Istituzioni che ci rappresentano direttamente, devono essere quelle della difesa dei diritti acquisiti ma soprattutto della rivendicazione decisa della partecipazione dei soggetti sociali a processi realmente democratici nell'elaborazione delle politiche di governo e nell'amministrazione della cosa pubblica e di tutto ciò che costituisce un interesse collettivo.

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Tesi 2 – Le derive reazionarie Tesi 2.1 – I neo populismi come movimenti reazionari 200

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Le elezioni politiche dello scorso anno e l’emergere del fenomeno definito “movimento dei forconi” sono indice di vari cambiamenti che stanno attraversando la società italiana nell’ultimo ventennio. I successi dei 5 Stelle alle elezioni politiche e del PD di Renzi alle Europee vanno letti in primis come diretta conseguenza della crisi della forma partito classica novecentesca. Non solo i partiti non hanno saputo rispondere alla crisi della loro forma, alla loro incapacità di rispondere alle istanze sociali, ma hanno favorito una tor sione oligarchica e personalistica della rappresentanza politica, allontanandosi sempre più dai bisogni concreti. In questo contesto, dove i blocchi elettorali si sono fluidificati e al contempo con la crisi economica che morde con più forza, cambiano i contorni della democrazia liberale. Se la distanza tra rappresentanti e rappresentati non si arresta si preferisce cedere il passo alla spettacolarizzazione della politica, dove viene meno la suddivisione tra rappresentanza e opinione pubblica, ma allo stesso tempo si ripersonalizza la politica diventando un mercato dove vince l'imprenditore “politico” più bravo. È una democrazia passiva, dove l'unica alternativa sembra essere un tipo di democrazia immediata telematica apparentemente diretta. L’affermazione del fenomeno del grillismo parla chiaro: grazie alle grandi capacità di Grillo e Casaleggio sul lato comunicativo si è prodotto un grande movimento politico che è riuscito a raccogliere gran parte del malcontento e del bisogno di partecipazione di una larga fetta del Paese sfruttando una illusoria idea di democrazia e partecipazione virtuale, che ha facile prese su una società atomizzata ed individualista. Interessante analizzare i dati sull’elettorato di Grillo: in maggioranza, a sostenere il Movimento, sono giovani professionisti, partite Iva, studenti, ma anche disoccupati, lavoratori impoveriti. Tutte categorie sociali che soffrono la crisi, senza rappresentanza e scarsamente sindacalizzate. La risposta del M5S è stata appunto quella di dare un’illusione di un cambiamento possibile e immediato superando definitivamente la contraddizione politica fra destra e sinistra a favore della contrapposizione tra il bene (il “popolo”) contro il male (la “casta”). Attraverso una nuova forma di democrazia plebiscitaria digitale, Grillo è riuscito a costruire consenso e a dare l’illusione di una massima partecipazione politica dei “cittadini”, nascondendo invece la grande subordinazione al leader.

Nel fenomeno del grillismo possiamo dunque leggere l’apice della tensione antidemocratica e verticistica che attraversa trasversalmente, in un contesto di spettacolarizzazione e digitalizzazione della politica, tutto il quadro partitico italiano: il leader è superiore alla rappresentanza politica perché agisce per il bene oggettivo, in nome dei cittadini. Altro elemento degno di nota degli ultimi mesi è stato il cosiddetto Movimento dei For coni. Un movimento differente da quello di due anni fa, in primis per la maggiore diffusione nel Paese, in secondo luogo per la composizione sociale dello stesso. Mentre nel 2012 era principalmente espressione di istanze corporativistiche di autotrasportatori e aziende agricole, oltre ad essere rigidamente legato al contesto siciliano, quello che si è espresso negli ultimi mesi presenta una maggior complessità. Le piazze dei “forconi” sono state animate da giovani senza lavoro, lavoratori autonomi, giovani delle curve, piccola imprenditoria in crisi, studenti, in generale ceto medio impoverito, in parte strumentalizzato populisticamente. 10


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico Come dall’ultimo rapporto realizzato dalla Fondazione Unipolis, rispetto a otto anni fa, quando il 60% delle persone intervistate si collocava nel ceto medio, oggi la maggioranza si colloca nella classe medio bassa. Non si tratta solo di percezione, bensì di un reale processo in atto di impoverimento generale che produce sfiducia verso la politica, individualismo e frammentazione sociale. Il nostro Paese sta diventando un teatro di guerre tra poveri, di facili capri espiatori, di ricerca di risposte semplici, di populismi di varia natura. Le piazze dei “forconi” sono soltanto la massima espressione di tutto questo: un pezzo di marginalità sociale diffusa che, non avendo alcuna rappresentanza, essendo in progressiva espulsione dal perimetro della società del lavoro e dalle forme di tutela sociale, individua come unica soluzione la lotta alla “casta”. Non si sono creati processi di soggettivazione di parte, di coscienza della propria subalternità, ma il profilo è rimasto interclassista, con rivendicazioni conservatrici e reazionarie. Per un’organizzazione che fa rappresentanza sociale come la nostra è d’obbligo interrogarsi su come raccogliere e indirizzare il malessere, per non lasciarlo cavalcare dai populismi “virtuali” o da i nuovi fascismi, che peraltro hanno trovato terreno fertile in questi ultimi mesi. Anche nelle scuole e nelle università non si può lasciare lo spazio politico dell’alternativa e del cambiamento al qualunquismo e al populismo. Occorre sporcarsi le mani, leggere le contraddizioni e provare a rispondere alla disperazione sociale e alla diffusa domanda di partecipazione dotandosi di nuovi metodi di aggregazione, rinnovando i linguaggi, provando a costruire coalizioni sociali di scopo per aprire delle macro-vertenze sui territori. Non provare a rispondere alle istanze partecipative - pur avendo difficoltà oggettiva nell’intercettarle attualmente per il loro indirizzo reazionario - significherebbe non cogliere la grande questione democratica e sociale aperta nel nostro Paese. Per questo consideriamo prioritario un nostro impegno - politico ma soprattutto operativo - ad assumere il tema delle periferie come centrale nel nostro agire, provando a sperimentare luoghi, momenti e modalità di dibattito che favoriscano la partecipazione delle studentesse e degli studenti dei quartieri periferici delle grandi città, dei piccoli centri di provincia, degli istituti tecnici e professionali e dei percorsi di professionalizzazione. Una partecipazione volta a costruire spazi reali di autorappresentazione e autodeterminazione e strumenti formativi e politici a disposizione degli stessi studenti.

Tesi 2.2 - Il rischio autoritario e l'emergere dei neofascismi Altro fenomeno sempre più preoccupante, soprattutto per la sempre più conclamata crescita nelle metropoli, è la presenza di neofascismi. Fermentano nelle periferie e nei luoghi dove la marginalità sociale e la povertà producono, senza soggetti sociali in grado di rappresentare i bisogni, l’emersione di facili populismi. L'esempio delle curve calcistiche è un tal senso emblematico. Il fascismo ha saputo reinventarsi. Continuano a permanere gruppi che ripropongono il culto del Duce e del ventennio, ma la maggioranza ha assunto nuovi modi di agire, insi nuandosi nelle contraddizioni. Ne è un chiaro esempio Casa Pound Italia, che ha costituito l’immagine di un “fascismo del Terzo Millennio” intelligente, aperto a opinioni differenti, impegnato su temi sociali. Un fascismo che dunque piace non solo nelle periferie, ma che strizza anche l’occhio alle borghesie locali e ad una certa fetta di intellettualità. Forza Nuova invece riesce ad aggregare meno, con una proposta politica più legata al fascismo storico e con una più marcata tendenza xenofoba. Il resto della galassia

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della destra radicale oscilla tra un radicalismo quasi folkloristico minoritario e dall’altro lato dei percorsi più sul versante istituzionale, come la Destra di Storace. Essere radicalmente alternativi sul piano culturale alle logiche dei gruppi fascisti, coniugando prassi democratiche e partecipazione, con nuove forme di partecipazione e mutualismo, è una scelta strategica. Un soggetto di rappresentanza sociale come la Rete della Conoscenza non può permettersi di venir battuto sul piano dell’aggregazione e della risposta ai bisogni materiali e immateriali. Ovviamente non basta: diviene sempre più necessario fare una campagna culturale in grado di smascherare e mettere sotto gli occhi di tutti i contenuti e le pratiche maciste, xenofobe e razziste dei neofascismi. Facendo conoscere le ideologie fasciste e antifasciste tanto sul piano storico quanto attuale, dovremmo aggregare cercando di intercettare ampie fette di popolazione e non solo quelle politicamente già formate. L’antifascismo deve diventare una pratica costante e strutturale delle organizzazioni, non legata rigidamente alla ricorrenza del 25 aprile, ma dilazionata in tutto l’arco dell’anno. Il tema deve entrare nelle sedi delle organizzazioni e deve produrre non solo analisi, ma iniziative mirate che provino ad agire su ogni singolo quartiere, magari riqualificandolo ripulendo le scritte oppure costruendo dei momenti di confronto, cineforum, concerti, presentazioni di libri. Come obiettivo di mandato pensiamo sia necessario rafforzare una collaborazione allargata a tutte le realtà antifasciste presenti nei territori in particolar modo con l’ ANPI e l’ Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre, per realizzare delle campagne sull’antifascismo e la memoria storica. Riteniamo prioritario costruire insieme a questi soggetti una grande campagna nei luoghi della formazione che operi una grande “operazione chiarezza” sui gruppi neofascisti e neonazisti che hanno sempre più agibilità politica nelle nostre città. Oggi parliamo del rischio autoritario e neo fascista anche perché in Europa si stanno formando le condizioni per una recrudescenza dell’estrema destra. Il caso dell’Ungheria in cui una forza nazionalista e ultraconservatrice è andata al governo, ma anche quello dell’Ucraina in cui la destra estrema ha guidato le lotte di EuroMajdan o la recrudescenza di Alba dorata in Grecia la vittoria del Front Nationalle alle Elezioni Europee in Francia dimostrano che oggi l’appiglio xenofobo, conservatore e nazionalista può apparire una via d’uscita dalle politiche di austerità e dall’impoverimento della popolazione. Per questo la battaglia antifascista e antiautoritaria dovrà vivere una dimensione europea e una sua declinazione nazionale.

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Parte B – Il modello produttivo

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Tesi 3 – L'Europa al bivio

L'austerità come ariete per cambiare la statualità. Ricomporre i movimenti oltre le frontiere nazionali.

L’Europa presenta delle forti lacune democratiche, sia nell’assetto istituzionale, sia nel rapporto tra gli stati membri. Da qualche anno, specialmente con l’avvento della crisi e delle politiche di austerità, si parla molto di più di crisi della governance internazionale e di cessione di sovranità verso l’Europa. Per noi la questione fondamentale non è tanto lo spostamento di potere decisionale dal singolo stato membro all’Unione Europea, quanto l’architettura istituzionale dell’Unione Europea, che è concausa dello spostamento decisionale da istituzioni elette e rappresentative che presentano grossi limiti dal punto di vista pratico a istituzioni non elette rappresentanti del potere economico e finanziario . Il problema di questa Unione Europea ad oggi è, infatti, il gap democratico che si è palesato con una sempre maggiore centralità delle decisioni ed delle influenze della Troika non eletta ed una forte marginalità del Parlamento Europeo. A rendere più chiusi ed elitari i luoghi decisionali si aggiunge poi la tecnica dell’approvazione di trattati internazionali: documenti e trattative segrete che vengono concordati unicamente da gli esecutivi sovrastatali, non eletti, ma che diventano vincolanti i tutti gli stati. Il pensiero corre al TTIP con il quale si riducono gli standard internazionali di qualità dei prodotti, si riducono i vincoli di rispetto ambientale, si abbassano salari e tutele dei lavoratori, si liberalizza ulteriormente il mercato. Nonostante l'elezione di Junker alla commissione Europea il blocco PPE-PSE ha subito una forte battuta d'arresto alle elezioni per il Parlamento Europeo. L'emergere di forze anti-sistema, però, non ha consentito il formarsi di una vera opposizione europea a questo blocco di potere. Questo è dovuto al fatto che l'opposizione alle forze di Governo in ogni paese ha avuto conseguenze diverse: in alcuni paesi ha prevalso la destra, in altri la sinistra, in altri ancora le forze populiste. La sinistra è riuscita a crescere solo laddo ve si sono sviluppati, negli ultimi anni, fronti di conflitto sociale che hanno spinto il dibattito pubblico su altri piani da quelli proposti dai media mainstream e dalle forze di governo. Tranne normative di ammodernamento della macchina statale e di alcuni interessi di cittadinanza, frutto di culture sociali più avanzate, non si distinguono in una storia ormai cinquantennale apprezzabili miglioramenti materiali, frutto di decisione concordate in sede europea. Perciò la costruzione dell’UE è di per se stessa funzionale ai processi di accumulazione del capitale, di cui la Germania (o meglio i capitalisti tedeschi) è un esempio tangibile. Ciò può essere riscontrato nella costruzione fallimentare dell’Euro e della disciplina sul funzionamento del precarizzato “mercato” del lavoro. Nel quadro delineato fin ora non si può non tener conto delle forze anti-europeiste e soprattutto anti-euro che da “destra” cavalcano la rabbia verso una costruzione europea che indebolisce i ceti popolari. Riteniamo che non sia un’eresia nazionalistica affermare che i Paesi dell’Europa del Nord tramite lo strumento dell’Euro (unito per di più alle po litiche di austerity) esercitino una pressione verso quelli del Sud, in uno scenario di rin13

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novata divisione internazionale del lavoro a seguito dei processi di globalizzazione mondiale. Il dibattito pubblico sull’Europa e sull’Euro è sempre più formulato e discusso in forma contrappositiva, tra fazioni antitetiche. Da una parte vi è un blocco “pro-Euro” e “proEuropa” miope alle istanze sociali ed alle criticità che sono emerse in questi anni, dall’altro un blocco “fuori dall’Europa” e “fuori dall’Euro” altrettanto netto nelle posizioni. A questo punto è lecito chiedersi se è possibile costruire un’altra Europa fatta di diritti e giustizia sociale che non siano esclusivamente quelle economiche. Noi crediamo che ciò sia possibile solo se l’Europa assume su di sé un nuovo mandato costituente. L’Unione Europea deve infatti dotarsi di diverse priorità politiche, che non siano quelle economiche o dei mercati, ma quelle sociali su cui oggi l’UE non ha mandato diretto. Come Rete della Conoscenza crediamo che democrazia e giustizia sociale siano un binomio imprescindibile e dunque per riuscire a rendere l’Europa realmente democratica non basta modificare l’assetto istituzionale europeo, ma è necessario che L’Europa perda il proprio ruolo di “giudice punitore” verso chi non rispetta i vincoli di austerità del trattato di Maastricht e del Fiscal Compact, ed invece assuma un ruolo di aiuto per livellare verso l’alto la condizione economica e sociale dei diversi paesi. Dal punto di vista delle misure economiche per evitare il gioco al massacro sui diritti dei lavoratori un salario minimo europeo, in misura pari ad almeno il 70-80% della media del salario, deve essere raggiunto innanzitutto rigettando il TTIP che costituirebbe un'impossibilità giuridica di procedere a questa misura. In questo modo sarà impossibile per le imprese multinazionali mettere in competizione “l’operaio italiano” con “l’operaio polacco o rumeno”, fatta salva la necessità di non spostare la competizione al ribasso sulle politiche del lavoro. Per far questo, non solo è importante ribadire pubblicamente questo concetto ma è anche necessario che i sindacati dei lavoratori facciano la loro parte. Riteniamo inoltre fondamentale accompagnare al salario minimo una forma di reddito europeo a sostegno dell’autonomia e dell’autodeterminazione dell’individuo, specialmente per rispondere all'impoverimento generale, ai vertiginosi tassi di disoccupazione, alla precarietà dilagante e all'alta percentuale di NEET. Riteniamo infatti che questi due concetti non siano opposti e inconciliabili, ma che rispondano a necessità diverse del frammentato spaccato sociale della società di oggi.

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Come secondo punto è necessario avviare un profondo ragionamento sulla costituzione di un bilancio federale europeo, che possa funzionare in maniera tale da ridurre gli squilibri economici fra le aree più ricche e quelle più povere. Una migliore ripartizione dei fondi strutturali e un aumento timido del bilancio comune, se si vuole procedere sulla strada della costruzione di Europa sociale e solidale, sono misure pertanto insufficienti. E’ innegabile però che in una fase di debolezza di consenso politico della sinistra, affi dare un bilancio comune a chi ha portato avanti spietatamente le misure di austerity, può essere rischioso ed è indispensabile una grande ponderazione su questo tema, che però è ineludibile.

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E’ fondamentale inoltre che una BCE pubblica diventi prestatore di ultima istanza, creando strumenti di condivisione del debito pubblico (Eurobond) e operando di concerto con i Governi per la determinazione del tasso di interesse, tale da permettere sopratutto lo sviluppo occupazionale, prescindendo quindi dai rigidi parametri anti-inflazionistici vigenti ora. Queste 3 misure (salario minimo - reddito, bilancio e debito pubblico comune e banca centrale non indipendente dal Tesoro) sono irrinunciabili. Inoltre per superare le politiche di austerità, mantenendo però l’euro come valuta comune, è indispensabile innanzitutto cancellare i trattati sulla rigidità fiscale, come quello di Maastri14


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico cht e i trattati successivi come Fiscal Compact, Two Pack e Six Pack, prevedendo così uno sviluppo armonico e convergente fra le varie economie del Continente, basato sul rilancio della domanda interna e sull’occupazione.

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Infine bisogna avviare un processo di nazionalizzazioni bancarie tali da permettere di manovrare i tassi d’interesse sulla base dei quali le banche concedono prestiti alle imprese, in maniera tale da favorire le aree economiche meno “competitive” (PIIGS) e l’accesso al credito, basato su criteri di responsabilità sociale (come il pieno rispetto dei diritti dei lavoratori) e strategie collettive (sostenibilità sociale ed ambientale).

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Dal punto di vista dei saperi, la possibilità di accesso a tutti i gradi di istruzione, è for temente dipendente dai vincoli di austerità esistenti. Sarebbe necessario invece, eliminati questi vincoli, individuare dei livelli essenziali delle prestazioni a livello continentale che garantiscano uguali possibilità di accesso per tutte le studentesse e tutti gli studenti d’Europa, indipendentemente dal loro paese di residenza. Ciò sarebbe realizzabile potenziando il ruolo dei fondi sociali europei (FSE) con una gestione più partecipata e mirata all’infrastrutturazione sociale. Sarebbe inoltre necessario portare anche su un piano europeo il dibattito su cicli, stage, formazione tecnica e professionale e valutazione, puntando alla discussione di buoni modelli riproducibili su scala europea. A questo fine è importante rivendicare l’abolizione dei test di ingresso all’università su scala europea, una discussione democratica sui test standardizzati europei (OCSE-PISA) e nazionali, una omogenizzazione dei cicli didattici con un biennio unitario ed un triennio specializzante, uguali diritti e riconoscimenti per gli stagisti ed i tirocinanti con possibilità di svolgere stage e tirocini internazionali, uguali garanzie di rappresentanza studentesca in scuole e università accompagnate da processi democratici sulle scelte che investono i luoghi della formazione. Nello scenario europeo odierno la capacità di aggregare chi è rimasto indietro in questi anni di Europa iperliberista si fonda indubbiamente su prospettive politiche assai incerte. Riteniamo perciò che solo sciogliendo difficili nodi politici, alcuni esposti in questa analisi, è possibile dare incisività ad un progetto politico realmente popolare su cui ampi strati sociali possano convergere per le loro rivendicazioni. E’ compito della Rete Della Conoscenza porsi come obiettivo la costruzione di relazioni oltre confine, finalizzate alla costruzione di momenti di confronto e analisi della situazione internazionale e di un movimento ricompositivo europeo e delle lotte che si stanno producendo nel bacino del Mediterraneo. Su questo sono stati fatti alcuni passi avanti grazie alla nostra partecipazione al percorso di Blockupy Frankfurt, su cui è necessario investire e qualificarci maggiormente. E’ importante ricordare la coalizione sociale che si è creata contro il TTIP trattato transatlantico USA-UE che mette ancora una volta in svendita i servizi e i beni comuni, come i precedenti AMTA, GATS, Bolkenstein, trattandoli come una merce di scambio da liberalizzare e privatizzare. Il semestre di presidenza italiano del Consiglio ci consegna la possibilità di implementare i nostri ragionamenti sull’Europa, di costruire una coalizione sociale ampia anche in Italia su questi temi. Primo passo necessario è senza dubbio un percorso ampio di formazione interna su ogni livello associativo e l’organizzazione di attività tematiche ed eventi aperti al pubblico. Sarà poi obiettivo della Rete della Conoscenza incidere sul dibattito pubblico durante il semestre di presidenza europeo, ponendo all’attenzione le questioni per noi cruciali e su cui si identifica la nostra azione politica.

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Questo lavoro dovremo compierlo stringendo forti legami nell’OBESSU (dove siamo) ed entrando nell’ESU anche con l’intento di costruire una rete di relazioni stabili con sog getti che, come noi, non si collocano né nell’antagonismo antieuropeista né sono schiacciati su dinamiche di mera advocacy. Il progetto ricompositivo della Rete della Conoscenza che unisce rappresentanza sociale e conflitto, insomma, deve trovare un suo omologo in sede continentale. Senza porci tale obiettivo non saremo mai in grado promuovere analisi e mobilitazioni già pensate e immaginate su scala continentale e che non siano sommatorie di mobilitazioni nazionali.

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Tesi 4.1 – Le politiche sul lavoro e in che direzione invertirle Per uscire dal mantra ideologico delle scelte obbligate nel contesto della crisi economi ca, è necessario inquadrare l'analisi politica sul mercato del lavoro perlomeno nell'ultimo ventennio di trasformazioni dello stesso. Solo così si può dimostrare che il processo di deregolamentazione del lavoro in entrata e in uscita e di flessibilizzazione della prestazione salariata, con la relativa erosione dei diritti dei lavoratori, non siano misure provvisorie per superare la crisi, bensì misure strutturali dell’accumulazione capitalistica in epoca globale. A partire dagli anni ’80 e per tutti gli anni ’90 furono introdotti e promossi contratti part-time, contratti di solidarietà, di formazione-lavoro e di apprendistato, fino all’in troduzione del lavoro a progetto, estendendo progressivamente a tutti i settori lavorativi il contratto a termine: tale processo di sostituzione del lavoro subordinato stabile con il lavoro precario divenne irreversibile con la Legge Treu del 1997, che sanciva la flessibilità totale in entrata nel mondo del lavoro, aprendo al boom della contrattazione ati pica ancora oggi in stato di avanzamento e introducendo le agenzie interinali, che legittimano un tipo di rapporto che è l’ emblema della mercificazione del lavoro. Alla flessibilità contrattuale si accompagnava quella salariale: l'abolizione della scala mobile e l'aggancio del salario a un tasso di inflazione programmato, costantemente inferiore al tasso d’inflazione reale, ha determinato la redistribuzione verso l'alto degli incrementi della produttività, realizzati sempre meno tramite la svalutazione della moneta e sempre più tramite la svalutazione del costo del lavoro; tendenza quest'ultima che peraltro si è affermata sempre più con la crisi economica e con il dumping salariale operato all'interno dell'espansione 'territoriale' dell'Unione Europea.

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Per tutti gli anni ’90 abbiamo assistito alla favola per cui la flessibilità avrebbe favorito l’occupazione (sia per qualità sia per quantità), capace di adeguarsi più facilmente ai desideri degli imprenditori e aprendo così ai lavoratori maggiori opportunità di lavoro: la flessibilità appariva come il colpo di bacchetta magica della mano invisibile che, nel libero mercato, fa convergere domanda e offerta. In sintesi, la complementarità e non il conflitto come cifra del rapporto tra lavoro e capitale, il trionfo dell’ideologia del libero mercato che pone retoricamente lavoro e capitale come elementi paritari, a fronte dello smantellamento reale di ogni misura sociale che tuteli il lavoro dalla fame divoratrice del capitale, determinando in definitiva la sussunzione del primo al secondo.

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La diffusione dei contratti atipici esenta gran parte del precariato dal processo di contrattazione collettiva: da un lato il lavoro subordinato è mascherato come lavoro autonomo, dove la contrattazione è per definizione diretta e senza intermediari, dall’altro 16


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico la produzione in grande sviluppo di beni immateriali (lavoro cognitivo, relazionale, fondato sulle tecnologie postfordiste di linguaggio e di comunicazione) non va a definire un ciclo produttivo ripetitivo, e dunque esce dagli schemi del contratto unico collettivo tipico del lavoro industriale fordista. L’individualizzazione del rapporto di lavoro, la frammentazione delle forme contrattuali e la conseguente precarizzazione, risulta così essere lo sfruttamento capitalistico massimo del lavoro, funzionale, tra l’altro, a mistificare quella condizione di lavoro comune, che, nella forma della coscienza di classe, ha spaventato il padronato per tutto il ’900. Il modello FIAT applicato a Pomigliano e Mirafiori si basa proprio su questa ricetta. Deregolamentato il salario e il meccanismo di assunzione, toccò infine, in tempi più recenti, alla legislazione sui licenziamenti. Dopo i diversi tentativi falliti del II Governo Berlusconi dagli anni 2000 in poi, l'introduzione dell'art. 8 della Finanziaria 2011 e la Riforma Fornero del 2013 hanno sostanzialmente smantellato le tutele previste per il lavoro dipendente a tempo indeterminato, riducendo notevolmente i costi di licenziamento a carico dell’azienda ed eliminando quasi del tutto il reintegro del lavoratore, in caso di violazione dell’articolo 18 stesso. La politica del Governo Renzi sul mondo del lavoro, della quale il Jobs Act rappresenta solo il primo passaggio, pare delineare un modello nel quale la flessibilità lavorativa perde definitivamente la formalità della definizione di causalità, le tutele in entrata vengono ulteriormente indebolite, il ruolo formativo e di inserimento nel mondo del lavoro legato al percorso di apprendistato vengono radicalmente compromessi, il sistema degli ammortizzatori sociali risulta interessato da una ristrutturazione inadeguata perché ancora più escludente, e si incrementa ulteriormente il lavoro precario ed in nero con l'utilizzo dei vaucher. I decreti attuativi che saranno presentati entro sei mesi dall’approvazione della legge delega nel Consiglio dei Ministri saranno in tal senso cruciali: sarà su questo piano che dovremo sviluppare il confronto con il sindacato dei lavoratori e le forme aggregate dei precari nel prossimo autunno. In questo contesto anche la programmazione europea sul tema appare insufficiente: la cosiddetta Youth Guarantee non è una misura strutturale perché si pone l'obiettivo di migliorare l'incontro tra domanda e offerta, assumendo la disoccupazione giovanile come problema di inerzia del mercato del lavoro. In realtà, per risolvere un problema strutturale come quello della disoccupazione giovanile bisognerebbe interrogarsi su come l'offerta di lavoro può influenzare e modificare una domanda troppo rigida, arretrata, carente nell'innovazione tecnologica, insomma su come la conoscenza può mutare il modello produttivo e di sviluppo. Sarebbe necessario dunque un forte protagonismo del pubblico nell'orientamento dei modelli di produzione e la strutturazione di forme di welfare universale. All'interno del programma della Youth Guarantee, ferma restando la nostra critica complessiva all'impianto del programma stesso, il nostro obiettivo sindacale è quello di trasferire i finanziamenti fissati dalle singole Regioni sui capitoli di spesa più apprezzabili della misura, come quelli per l'orientamento formativo e lavorativo, ampliandone anche la fascia di beneficiari. Siamo di fronte a una proposta politica che persegue nel diffondere precarietà e renderla ancor più strutturale e che non si prende per nulla carico di fronteggiare la disoccu pazione giovanile dilagante nel nostro Paese, una proposta disinteressata tanto di quei giovani il cui contratto a prestazione o a progetto spesso non supera il mese o due, quanto dei NEET, giovani che non trovano lavoro né risultano iscritti a corsi di formazione una volta usciti dai percorsi formativi, fenomeno sempre più drammaticamente italiano che coinvolge più di due milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni. Il Jobs Act va in realtà attaccato alla sua base, e cioè nella convinzione di creare lavoro soltanto con il taglio del cuneo fiscale, senza un reale intervento pubblico nell'economia. Da anni affermiamo che senza un generale orientamento del mondo della forma17

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zione verso una ridefinizione dello sviluppo produttivo del Paese, e senza un contestuale rafforzamento dell'intervento pubblico in economia, non è possibile uscire da una crisi che non è solo finanziaria ed economica, ma che interessa aspetti multidimensionali (il più emblematico è quello ambientale).

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La dimensione della precarietà tuttavia non si limita solamente alle condizioni materiali (contrattuali, salariali) ma riguarda anche quelle immateriali ed esistenziali. La condizione di precarietà nelle sue varie forme porta a una sistematica svalutazione di sé e delle proprie capacità, a depressioni, a condizioni di marginalità e dunque a una disarticolazione della propria vita sociale e un progressivo appiattimento sociale e culturale. La precarietà esistenziale è dunque un’identità sociale decostruita e marginalizzata che colma il vuoto di identità lasciato dal tramonto del fordismo. Queste complessità rendono difficile riuscire a rappresentare le soggettività che vivono la condizione di precarietà: difficoltà con cui si sono scontrate, spesso fallendo, le organizzazioni sociali – di rappresentanza dei lavoratori e non solo – che si sono poste questo obiettivo. Noi vogliamo continuare a porcelo, non per supplire al ruolo del sindacato, ma perché la precarietà, lavorativa ed esistenziale, è la condizione vissuta anche dal soggetto in formazione. Cruciale per l'azione politica della nostra organizzazione è dunque l'indagine attorno a queste identità ibride e spesso definite in negativo che oggi stanno a cavallo tra il lavo ro e il non lavoro, tra la formazione e la non formazione, e che sono il risultato diretto della frammentazione materiale e della rottura del framing fordista del lavoro. I NEET, per esempio, hanno oggi un’identità negativa, ovvero definita per ciò che non fanno, a cui si lega un’immagine sociale tipica di fannulloni, schizzinosi e altre aggettivazioni susseguitesi in questi ultimi anni. La condizione 'oggettiva' di inoccupazione o di costante alternanza precarietà-disoccupazione non può essere separata dalla percezione e rappresentazioni sociali che ne si hanno e che a loro volta costituiscono quella condizione stessa. Tentare di rappresentare questa drammatica condizione generazionale ci impegna dunque a costruire campagne pubbliche e comunicative sulla condizione di giovani precari o disoccupati che sappiano aprire dal basso un dibattito alternativo alla re torica dominante con il quale restituire loro dignità e riconoscimento sociale, rivendicarne i diritti fondamentali e mettere in luce come la responsabilità sia delle politiche neoliberiste sul lavoro e non pigrizia, scarsa formazione o eccessiva ambizione da parte dei giovani. Ma questo impegno non è certo sufficiente. Contribuire a rappresentare (o, per meglio dire, dare gli strumenti per autorappresentarsi) i Neet e cogliere le sfide della condizione giovanile attuale significa soprattutto costruire in città spazi collettivi – intesi non solo nel senso fisico del termine – di aggregazione in cui ritrovare collettivamente socialità, accesso alla cultura, realizzazione personale: embrioni alternativi di società in cui costruire coworking, assistenza e mutualismo per la costruzione dei percorsi di conflitto.

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Tale progetto, tanto ambizioso quanto necessario, non si può tuttavia realizzare compiutamente senza una strategia di costruzione di coalizioni sociali, con le realtà già attive nei percorsi di soggettivazione da una parte con forme innovative all'interno del mondo del lavoro precario, dall'altra con vertenze più tradizionalmente sindacali, con l'obiettivo di mettere in campo mobilitazioni condivise intorno a rivendicazioni 18


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comuni quali quelle per l'introduzione di forme di welfare e tutela universale del reddito. La possibilità e le prospettive di queste coalizioni andranno valutate all'interno dei singoli nodi territoriali, costruendo momenti di confronto e deliberazione a livello nazionale. 660

La soggettività ibrida e spesso definita in negativo di chi si muove tra i confini della società frammentata dalla precarietà può essere infatti interpretata in maniera comples siva solo attraverso un lavoro di confronto, condivisione e contaminazione tra i soggetti che finora, spesso, si sono affidati a categorizzazioni più chiare e definite, meno sovrapposte tra loro. La nostra prospettiva, quella del sapere come strumento di emancipazione personale e collettiva, e di miglioramento delle proprie condizioni materiali, prospettiva messa a dura prova dall'attuazione in senso capitalista della 'società della conoscenza', è al ser vizio di un progetto più ampio di quello della Rete della Conoscenza e della rappresentanza dei soggetti in formazione: la ricomposizione di un fronte sociale ampio e composito che sappia affermare, nel dibattito pubblico e nei rapporti di forza tra capitale e lavoro, capitale e ambiente, capitale e salute, capitale e saperi, le proprie istanze e le proprie aspirazioni.

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Tesi 5 – Contro la crisi ambientale beni

I saperi per un nuovo modello di sviluppo e per la tutela dell’ambiente e dei comuni.

Negli ultimi anni, con l’intensificarsi ed il moltiplicarsi dei conflitti legati all’ambiente ed al territorio, non è più possibile ignorare la relazione tra l’economia capitalista e il mancato rispetto dell’ambiente e della qualità della vita: non è più possibile negare la crisi ambientale come la parte più evidente, ma forse meno indagata della crisi politica, economica e sociale che stiamo attraversando. È fondamentale riconoscere che ad oggi continuare a mettere alla base delle nostre azioni la sussunzione della sfera sociale nella sfera economica rischia di diventare li mitante rispetto ad un capitalismo e ad un sistema produttivo che mettono in discussione, in contesti che frequentiamo tutti i giorni, la possibilità e lo sviluppo del la vita stessa. In questa cornice, che rende ogni giorno più precari aspetti centrali della nostra esistenza, è quantomai necessario individuare nel processo di riconnessione delle lotte ambientali una priorità assoluta. In tal senso è di primaria importanza, per la nostra organizzazione, costruire una mappatura delle mobilitazioni in difesa dei territori e farsi promotori di una rete che attraverso la ricerca dell’incontro e il confronto tra esperienze diverse, possa rilanciare una mobilitazione unitaria nazionale, e costruire le necessarie connessioni anche a livello internazionale. Questo processo si è già attivato, e anche la Rete della Conoscenza, in particolare a partire dallo scorso autunno, ne ha preso parte attivamente. Lo scoppio dell’emergenza rifiuti nella Terra dei Fuochi in Campania, che ha portato alla nascita del Comitato Fiume in piena - una realtà che ingloba diverse tipologie di associazioni e realtà sociali e cittadini - rappresenta un importante passo in avanti rispetto alla ricostruzione di relazioni tra soggetti che spesso non sono stati in grado di trovare un punto d’incontro sul ruolo da attribuire al rapporto tra attività umane e ambiente. Se questa convergenza nei movimenti sta finalmente avvenendo è grazie alla nuova cen19

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tralità che le tematiche ambientali stanno assumendo nelle lotte: la capacità di riconoscere, nelle devastazioni ambientali, una nuova frontiera di accumulazione e abuso perpetrato da pochi a danno di molti, ha permesso negli ultimi anni ai movimenti di mettere a sistema la questione ambientale in tutta la sua centralità politica e sociale. È quindi esemplare, in questo senso, la lotta No Tav, che ha saputo individuare, dietro la devastazione ambientale che il progetto dell’alta velocità comporta, il movente economico e l’interesse delle grandi aziende e che, soprattutto, in questi anni si è avvalsa di pratiche diverse, adatte alla complessità del conflitto, dalle marce alle azioni di sabotaggio. Sui temi ambientali forte è stata la connessione tra la Rete della Conoscenza e le associazioni ambientaliste, specialmente Legambiente, si veda la campagna sull’edilizia scolastica, e ASud. Questi rapporti andranno perfezionati e migliorati, a livello nazionale come a livello locale, per rafforzare le lotte e i conflitti in difesa del territori. È inoltre fondamentale riconoscere come, in Campania come in Valle e come in tantissime altre esperienze, i comitati territoriali abbiano rappresentato, nel panorama delle mobilitazioni nazionali, un importante luogo d’incontro e contaminazione capace di produrre mobilitazione, politicizzazione e consenso. È necessario riconoscere come prioritario un investimento organizzativo organico all’interno di questi luoghi di partecipazione dal basso, anche attraverso la promozione diretta di nuovi co mitati. È diventato ormai evidente che, quando trattiamo ad esempio il problema dei fusti di rifiuti tossici trovati nei terreni della Campania e provenienti dalle industrie del Nord Italia, non ci stiamo focalizzando su un problema relativo ad una zona circoscritta d’Italia, ma stiamo esemplificando il fallimento del modello di sviluppo neo-liberista interessato al solo guadagno tramite una produzione spesso sovradimensionata in rapporto all’inquinamento che essa causa, allo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, all’impatto ambientale insostenibile. Un altro esempio emblematico in tal senso è quello della costruzione del gasdotto transatlantico (TAP) in Salento: un'opera che va esattamente nella direzione opposta a quella, auspicabile, di una messa in discussione radicale del modello di sostenibilità e di approvigionamento energetico della nostra società. La questione ambientale è altresì connessa in svariati casi con quella delle servitù militari, un aspetto di grande importanza nella difesa del territorio e nella composizione di coalizioni sociali ampie che vadano ad intersecare il tema dell'ambiente con quello del disarmo. Per questi motivi rivendichiamo che il pubblico, le comunità locali come lo Stato, controllino i livelli e le tipologie di produzione e li rendano compatibili con le esigenze sia dei consumatori sia dell’ecosistema. Il fallimento dell’attuale modello di sviluppo trova molteplici esplicitazioni: un tipo di sfruttamento della biosfera del nostro Pianeta non più redditizia e totalmente avulsa dalla natura (allevamenti e pesca intensivi, monocolture, deforestazioni massicce), uno sfruttamento delle risorse sempre più esasperato e fuori controllo, la sistematica messa in discussione della salute umana come parametro inalienabile. Questo paradigma di sviluppo e civilizzazione non ha nulla a che vedere con il concetto di giustizia ambientale e porta naturalmente ad affiancare al termine biocidio quello più ampio di ecocidio, un termine che ben denota la condanna alla quale sono sottoposte le forme viventi e le risorse del pianeta. La forza di tale modello è tuttavia racchiusa nella sua capacità di mettere in contrapposizione tra loro diritti fondamentali come il lavoro, la salute, l’ambiente, al fine di con20


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico solidare la propria legittimazione e ineluttabilità in un contesto di ‘guerra tra poveri’. Il caso dell’ILVA di Taranto è in tal senso emblematico: ove l’interesse privato è lasciato libero di operare senza freni, l’accumulazione e il profitto sono realizzati con la negazione di uno o più dei diritti sopra citati. Per questo una presenza regolativa, normativa e di intervento attivo in economia da parte del pubblico, nelle sue varie forme, risulta sempre più necessaria. Tale presenza rende centrale il ruolo dei saperi nell’ottica della riconversione ecologica, per conoscere, affrontare e scardinare il sistema in cui le popolazioni si trovano calate. Per noi, oggi, la vera necessità è di dotarsi di strumenti di analisi e di conflitto, di prassi politiche nuove, volte ad aumentare la partecipazione e la consapevolezza delle persone, ma anche di consolidamento ed espansione delle azioni vertenziali e della rappresentanza. Investire in un sapere libero da condizionamenti e dallo status di merce a cui viene relegato dal pensiero unico consentirà a chi subisce le situazioni di disastro e conflitto am bientale di prendere posizione e sostenere l'idea di giustizia ambientale e sociale come punto imprescindibile per una necessaria ridefinizione democratica del concetto di benessere, in cui la vita sociale ed economica degli individui siano in armonia con il Piane ta.

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Nonostante i limiti strutturali che da sempre hanno contraddistinto i sistemi di welfare nel nostro Paese, derivanti da un'impostazione rigidamente familista e profondamente assistenzialista, l'imporsi delle ricette neo-liberiste in ambito europeo e nazionale prima, e l'inasprirsi della crisi economica e delle politiche di austerità ad essa seguite dopo, ha dato inizio ad un feroce processo di smantellamento delle tutele sociali tradizionalmente garantite dallo Stato. Se dunque fino a qualche anno fa la battaglia sul welfare e sui diritti si giocava sul piano dell'espansione dell'esistente, oggi quella stessa partita va giocata in primis sul piano della difesa dagli attacchi che i Governi di ogni colore politico continuano a sferrare, complici le indicazioni della Troika e la pressione dei grandi gruppi privati, interessati a fare nuovi profitti sui beni di prima necessità. Contemporaneamente, l'aumento della disoccupazione, la precarizzazione del mercato del lavoro, la riduzione dei salari e l'impoverimento progressivo che stanno subendo fasce sempre più ampie della popolazione, necessiterebbero un ripensamento generale degli strumenti di welfare del nostro Paese, tali da garantire non solo la pura assistenza a chi non gode di autonomia economia, ma anche e soprattutto una piena capacità di autodeterminazione rispetto ai propri percorsi personali, formativi e lavorativi. In questa fase più che in ogni altra, con la mobilità sociale praticamente bloccata e con la riduzione delle possibilità occupazionali, si fa infatti urgente la creazione di un sistema di welfare volto a garantire la possibilità per ciascuno di emanciparsi dal nucleo familiare di provenienza e di poter, a prescindere dalla propria condizione formativa o lavorativa, accedere a una serie di beni e servizi che consentano di decidere autonomamente della propria vita, liberandosi dal ricatto della precarietà, intesa come condizione materiale ed esistenziale, e della miseria – che ormai è subita da oltre 12 mln di persone – e della povertà di lavoro. In questa direzione e all’interno di questo contesto, va assunta la battaglia per l’istituzione oltre che di strumenti di reddito indiretti, anche di forme di reddito dirette. Tale battaglia non può che essere concepita nell'ottica della ridefinizione dei confini e del significato della cittadinanza in termini fortemente estensivi.

Dentro la questione più generale del welfare, vi è oggi un'urgenza senza precedenti. Il processo di trasformazione di scuola, università, accademie stanno rendendo la formazione come un percorso non rilevante e i saperi come una "merce per pochi". Questi spazi diventano il terreno della fuga, dove le soggettività sono sottoposte all'abbandono e all'espulsione. In questo contesto, in continuità della lotta all'apertura dei saperi, le soggettività in bilico vanno libertate dai bisogni e dotate di un'autonomia sociale. Liberata dal ricatto di dover lavorare per poter studiare o, ancor peggio,scegliere se studiare o lavorare. In tal proposito, il reddito di formazione si costituisce come uno strumento, a diversi livelli di espressione, dal municipale al continentale, in cui i soggetti in formazio ne vengono riconosciuti per la loro essenziale funzione sociale, superando i limiti 22


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dell'attuale diritto e dotandoli di cittadinanza. Infatti, non è mai disgiunta la condizione reddituale del soggetto (indipendentemente dalle condizioni familiari) con quella dei diritti dei soggetti in formazione. Il reddito di formazione non può essere contrappositiva all'attuale sistema di diritto allo studio, ma sussumerla per comprenderne i limiti e rinnovare il welfare studentesco in un senso universalistico. Questo terreno è in contiguità ad altri, che esprimono oggi il superamento di un modello di welfare familistico e lavorista, in un senso universalistico e sovracategoriale. La realizzazione di un sistema di welfare universale e volto a garantire una reale autodeterminazione dei singoli passa necessariamente per un ripensamento delle politiche di redistribuzione della ricchezza all’interno dell’ambito nazionale ed europeo e del ruolo del pubblico, da intendere non come mero arbitro di dispute fra più interessi privati, ma come spazio in cui le disparità economiche che si generano in seno alla società si appianano per consentire l’inclusione e il benessere di tutti. Immaginare un nuovo sistema di welfare significa immaginare un nuovo modello di società, più equa, più solidale, più inclusiva, in cui l’istruzione, il lavoro, la salute, l’abi tare, la mobilità, la cultura e l’ambiente vengano garantiti come diritti per tutti e non siano trattati alla stregua di merci a cui si può accedere o meno solo a seconda delle proprie possibilità economiche. Proprio perché è su questi campi che si gioca il conflitto fra beni comuni e profitti privati, la battaglia per un nuovo welfare è elemento centrale dello scontro contro l’avanzare spietato del capitalismo e dei poteri che lo sostengono e va assunta come elemento strutturale e permanente della nostra azione politica.

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Welfare e austerità Il welfare è il terreno per eccellenza su cui agiscono le politiche di austerità e sul quale, di contro, va quindi in primo luogo condotta la battaglia contro di essa. La necessità di tagliare sulla spesa pubblica, la retorica dell’inefficienza e sugli sprechi, lo spettro della crisi e del giudizio dei mercati, sono stati utilizzati dai Governi che si sono succeduti in questi anni per giustificare il progetto di ristrutturazione del sistema sociale del nostro Paese in senso fortemente liberista e autoritario, in cui il cittadino è concepito non come soggetto portatore di diritti, ma utente a cui vendere un servizio.

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La costituzionalizzazione in Italia del vincolo del pareggio di bilancio mina infatti fortemente non solo la possibilità che ogni ulteriore politica sociale venga realizzata, ma anche l’esistenza stessa in futuro dello stato sociale per quel poco che fino ad oggi l’ab biamo conosciuto. Non è un caso che in questi ultimi anni gran parte delle vertenze portate avanti dai soggetti in formazione e non solo si siano scontrate con ostacoli struttu rali all’ottenimento di miglioramenti materiali e immateriali sul welfare, derivanti dai vincoli di bilancio imposti tanto a livello nazionale quanto soprattutto a livello locale. Stiamo parlando, per fare un esempio, di più di 31 miliardi di euro bloccati dal Patto di Stabilità solo per il 2014 considerando i Comuni, le Province e le Regioni a Statuto Ordi nario. Se consideriamo il ruolo che gli Enti Locali hanno nel garantire beni e servizi e quanto da essi dipenda buona parte del welfare (diritto allo studio, sanità, asili nido, trasporti, ecc.), possiamo immaginare la portata del danno che tali vincoli hanno sulla vita dei singoli. Le disparità in termini di livelli di prestazione delle Regioni già prodotte dalla modifica del titolo V della nostra Costituzione, che di fatto avevano realizzato una vera e propria territorializzazione dei diritti, non solo quindi persistono, ma vengono di fatto livellate verso il basso.

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La scarsità di risorse disponibili, unita alle politiche di esternalizzazioni, svendite e privatizzazioni con cui lo Stato e le amministrazioni locali tentano di far cassa, determina sempre più la reale impossibilità di garantire il mantenimento e l’estensione dei sistemi di welfare esistenti, generando esclusione sociale e producendo una vera e propria guerra fra poveri, che alimenta xenofobia, disperazione individuale e discriminazioni di vario tipo. Emblematico da questo punto di vista quello che avviene negli studentati nei con fronti degli studenti stranieri o la disparità di trattamento riservata agli studenti in sede e fuori sede da molti enti regionali. Non solo: spesso la necessità di far quadrare i conti porta gli amministratori locali a dover scegliere fra il garantire un servizio piuttosto che un altro, con una coperta sempre più corta che inevitabilmente lascia fuori qualcuno o qualcosa. La questione non è soltanto di natura economica o sociale, ma anche e soprattutto politica e democratica. Lo svuotamento della capacità decisionale dei luoghi costituzionalmente deputati a governare sui livelli locali e nazionali, se accompagnati dall’introdu zione di vincoli economici così stringenti come quelli imposti dalla Troika, producono un commissariamento de facto della democrazia e della possibilità per i cittadini di poter prendere parola sulle scelte che riguardano le loro vite presenti e future. Le amministrazioni locali, nel caso in cui volessero investire per implementare i sistemi di welfare del proprio territorio, sarebbero impossibilitate a farlo proprio a causa della necessità di rispettare il Patto di Stabilità. Ugualmente succederebbe a un qualunque Governo che volesse mettere fine alle politiche di austerità e avviare un programma di investimento di spesa teso a finanziare le prestazioni di welfare per garantire continuità e rafforzamento delle tutele e delle protezioni sociali durante le fasi di recessione (in cui le entrate fiscali inevitabilmente diminuiscono) . Oggi l’unica possibilità per uscire dalla logica del pareggio del bilancio e del there is no alternative risiede nella disobbedienza ai vincoli imposti dal Patto di Stabilità e alla ricontrattazione sul livello europeo degli accordi che l’hanno imposto sul piano nazionale. Nessuna vertenza sul welfare può non tenere conto di questa questione, nel momento in cui si pone come battaglia non corporativa ma funzionale a un modello di società radicalmente alternativo. Welfare e democrazia La questione di quale modello di welfare rivendicare interroga in maniera ineluttabile il rapporto fra pubblico e privato. È all’interno di queste due sfere che si gioca infatti lo scontro fra l’idea di diritti per tutti e quella dei profitti di pochi, cosa che rende il campo del welfare nevralgico nella battaglia contro l’avanzare sfrenato del capitalismo. Se l’ipotesi di parteggiare per il privato è facilmente scartabile, perché del tutto incompatibile con la nostra visione di società, non altrettanto semplice risulta oggi scegliere di stare tout court dalla parte del pubblico, o almeno, di quel pubblico che abbiamo conosciuto fino ad ora, troppo spesso ugualmente lottizzato da poteri politici ed economici, non sottoposto a nessun sistema di controllo da parte delle comunità e incapace di ri spondere pienamente alle esigenze e ai bisogni della collettività. Immaginare un nuovo modello di welfare deve oggi interrogarci anche sulle sue modalità di gestione e funzionamento e sul rapporto democratico che intercorre fra la statualità e le comunità, nell’ottica di un superamento dei limiti che il sistema pubblico oggi presenta e che non possono essere ignorati in nome di una mera opposizione al privato. Le battaglie sociali che hanno animato gli ultimi anni, da quella sull’acqua pubblica a quella del Teatro Valle o di simili spazi pubblici autogestiti, molto hanno riflettuto sul possibile superamento della dicotomia pubblico-privato in virtù di una nuova categoria, oggi forse più idonea a rispondere alle contraddizioni che continuano ad esistere nella gestione statale dei beni e dei servizi: il pubblico partecipato. L’idea, ancora in attesa 24


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico di una sua definitiva concettualizzazione politica, semantica e soprattutto giuridica, è che da una parte possa esistere un accordo fra il pubblico tradizionalmente inteso e l’iniziativa privata di singoli cittadini che si conforma agli stessi interessi che lo Stato dovrebbe tutelare, ovvero quello della garanzia di beni, servizi e diritti per tutti; dall’al tra prevede il ripensamento nella gestione dei servizi statali del ruolo delle comunità su cui quei servizi insistono, attraverso l’introduzione di sistemi non solo di controllo della qualità e dell’operato dell’ente che li eroga, ma anche e soprattutto di una capacità decisionale nelle scelte da assumere. Insomma, il rafforzamento di forme di autogoverno democratico e partecipato dei beni e dei servizi di interesse pubblico da parte di quelle stesse comunità che giovano di tali beni e servizi, è una prospettiva sulla quale è neces sario provare a compiere dei passi avanti in termini concreti, di rivendicazione e pratica su più livelli, oltre la mera teorizzazione. Approfondire queste questioni e soprattutto mettere in campo proposte e pratiche di sperimentazione di modelli alternativi di gestione del patrimonio e dei servizi pubblici, che mirino al superamento della gestione del pubblico effettuato unicamente dalle burocrazie e lottizzazioni statali, rimane una priorità che la nostra organizzazione deve provare a darsi, in vista della rivendicazione di un sistema di welfare alternativo a quello attuale e a partire dal radicale ripensamento della fiscalità generale fino alla garanzia di tutele, servizi e diritti sempre più inclusivi, possa invertire il processo di autoritarismo e verticismo che lo stabilizzarsi dell’austerity come piano di governance, e non più come un processo fatto di “politiche di austerità”, ha imposto alla nostra democrazia.

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Welfare e generi Se assumiamo la battaglia sul welfare come battaglia per l’autodeterminazione reale di ciascuno sulla propria vita, diventa indispensabile approfondire il ruolo che il welfare deve assumere nel garantire l’emancipazione e la completa autonomia sociale delle donne. La crisi, lo sappiamo, non è neutra e colpisce in primis le donne, anche e soprattutto a causa del mancato sviluppo storico di un sistema di welfare attento alle diversità fra i generi. Rivendicare le stesse tutele per uomini e donne, senza tener conto delle differenze biologiche, ma soprattutto sociali, culturali ed economiche che ancora esistono nella nostra società, ha significato negli anni produrre un sistema che ha reso strutturali le disuguaglianze in nome di una finta uguaglianza e di cui a farne le spese è stata naturalmente soltanto la componente femminile. Lo smantellamento dello stato sociale colpisce in primo luogo le donne, su cui ancora si riversa gran parte del lavoro di cura che lo Stato non riesce a garantire e sono gli stessi dati sull’occupazione femminile (in Italia ferma al 46%, ma che scende sotto il 40% nel Sud, rispetto ad una media euro pea che si aggira intorno al 60%) a indicare come ancora oggi le donne siano costrette a scegliere fra lavoro e famiglia, in assenza di politiche sociali che favoriscano la concilia zione. Se a tutto questo aggiungiamo la situazione che si sta verificando nel mondo del lavoro, fra riduzione delle possibilità occupazionali e completa precarizzazione di quelle esistenti, la questione diventa emergenziale: o si agisce subito sul piano delle tutele sociali e dei diritti, o c’è il rischio che la possibilità di scegliere il proprio percorso personale, formativo e lavorativo per una donna diventi sempre più un’utopia che una reale possibilità.

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È necessario dunque che ogni vertenza sul welfare sia analizzata in un’ottica di genere e che si assuma in maniera strutturale la capacità di leggere ogni questione alla luce delle implicazioni materiali che essa ha sulla vita di coloro che compongono la società e delle

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differenze sociali e culturali che ancora oggi determinano in maniera disuguale il loro ruolo e le loro possibilità. E’ fondamentale andare contro alle politiche di genere attivate dagli ultimi governi che hanno posto il problema su basi puramente quantitative, mediatiche e formali, comportando un’immobilità sulla reale battaglia culturale, screditando il nostro modello di lotta di genere.

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L’ottica LGBTQI va considerata anche nel ragionamento che portiamo sul tema del Welfare. Il nostro modello di Welfare infatti, interamente centrato sulla condizione lavorativa e sull’istituzione della famiglia è particolarmente escludente rispetto ai soggetti LGBTQI che da un lato non possono accedere all’istituto del Matrimonio, dall’altro subiscono una forte discriminazione in ambito lavorativo. Oltre ad utilizzarel’ottica LGBTQI nel portare avanti le nostre rivendicazione sul welfare, dobbiamo porci l’obiettivo di allargare queste rivendicazioni al movimento LGBTQI, superando la tradizionale divisione tra diritti civili e diritti sociali.

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Che fare?

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Proprio a causa della drammaticità della situazione che si sta verificando sul fronte delle politiche sociali, negli ultimi mesi abbiamo messo in discussione il modello della campagna nazionale pura sul welfare, tradizionalmente lanciata in Primavera e portata avanti sui territori in maniera discontinua e poco incisiva. Poiché nodo nevralgico su cui si esplica il conflitto fra diritti e profitti e poiché terreno di costante attacco da parte delle politiche di speculazione e privatizzazione, la battaglia in difesa e per un nuovo modello di welfare deve diventare elemento strutturale e quotidiano della nostra azione politica. Contemporaneamente è necessario invertire il rapporto fra nazionale e territoriale: la dismissione dello stato sociale, a causa della diversità delle situazioni regionali e locali, avviene con tempi, modi e intensità differenti a seconda della situazione politica ed economica del territorio. Essendo la Rete un soggetto di rappresentanza sociale che prova a costruire vertenzialità a partire dai bisogni materiali dei soggetti che rappresenta, è evidente come all’interno della nostra organizzazione abbiano priorità le diverse battaglie territoriali che ciascun nodo porta avanti, nel momento in cui provano a dare una risposta a un’istanza avvertita rispetto alle proprie esigenze. Il salto di qualità sta nella capacità di ricollegare tutte le vertenze locali all’interno di una cornice gene rale nazionale ed europea, in grado di mettere in luce i nessi fra le politiche di austerity e il progetto neo-liberista di dismissione dello stato sociale e la mancata tutela di un diritto che si verifica all’interno di un territorio. Ogni battaglia sul welfare può essere condotta in maniera differente a seconda del risultato che ci si presuppone di raggiungere: da questo punto di vista, non esiste un manuale delle pratiche preconfezionato a cui fare riferimento, ma ciascuna dev’essere valutata di volta in volta unicamente in relazione all’efficacia rispetto all’obiettivo. È questo a determinare non solo gli strumenti necessari da mettere in campo, ma anche la possibilità o meno di costruire alleanze sociali e interlocuzioni politiche di vario tipo.

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Tesi 7 – I saperi 1040

Tesi 7.1 – Per una critica dei saperi nella contemporaneità Il dibattito costituitosi in Italia, e non solo, intorno al ruolo e alla funzione di scuole e università non si è mai di molto distaccato da quello della produzione, dell'industria e del terziario in particolare, affermando un nesso inscindibile tra sapere ed economia (nel caso in questione tra sapere ed economia capitalista). Tale nesso ci dà la cifra di quale sia in questa fase storica il ruolo attribuito alla conoscenza tutta, la sua riduzione a tecnica, la posizione subalterna rispetto al primato scientifico dell'economia, i limiti costruiti intorno al sapere e gli strumenti, legislativi e non, con cui si riproduce tale rapporto e la sua ideologia. I saperi per la loro natura sono aperti ed estensivi. Nel linguaggio della civiltà egizia, il geroglifico della conoscenza coincide con quello dell'acqua, attribuendo al primo e al secondo le stesse caratteristiche di fluidità e di ruolo vitale per una società. La conoscenza nasce e si sviluppa dall'esperienza, dall'incontro, dal rapporto con l'ambiente e con la storia. Ogni codificazione è per ogni sapere il segno di una nuova fase nel processo continuo di interpretazione e falsificazione, dubbio e applicazione, fede ed eresia, in cui dagli atti degli uomini si producono nuovi strumenti culturali (dati, infor mazioni, simboli, significati e sensi) e dunque nuovi fini. Risulta, dunque, che la stessa natura dei saperi sia refrattaria alla perimetrazione, ma che allo stesso tempo tale perimetrazione sia necessaria alla codifica per la tramandabilità, in quanto bene essenziale dell'uomo. Dall'avvento della rivoluzione industriale la funzione storica dei saperi si è evoluta in funzione produttivista, con la prima apertura in termini più ampi della riproduzione ed accessibilità dei saperi, come strumento indispensabile allo sviluppo economico, l'ammodernamento produttivo, la gestione economica. Da questo momento in poi la tendenza alla scolarizzazione di massa e successivamente all'università di massa assume una li nearità progressiva. Questo non significa che si realizza un processo di liberazione dei saperi, anzi questi vivono quasi esclusivamente in un'ottica nozionistica e disciplinante, ma, soprattutto nel corso del '900, non si può negare che assumano una funzione di strumento di emancipazione personale e collettiva. È invece con il declino del "fordismo" che si determina un'ulteriore novità nel rapporto tra saperi ed economia, laddove, con la delocalizzazione produttiva e lo smantellamento della grande fabbrica totalizzante, nell'Occidente ampi spazi dell'accumulazione si ricollocano dalla produzione materiale a quella immateriale. La modernizzazione dei processi produttivi ha imposto a bene di consumo i valori immateriali ed i processi di produzione ad essi connessi. Se un simbolo, una capacità di organizzazione o una tratto di personalità sono valore economico, la sua valorizzazione in ricchezza viene sussunta dal capitale, da una parte, mentre si parcellizzano, scompongono e vincolano le conoscenze alla loro utilità economica. Per questo si è affermata, accanto alle forme più tradizionali di valorizzazione capitalista che ancora permangono e si riproducono, una vera e propria messa a produzione della vita o dell'esistenza nel cosiddetto "capitalismo cognitivo". All’interno di tale processo è possibile rilevare inoltre un’ulteriore tendenza, quella che ha lentamente affermato l'economia come scienza forte, e il liberismo come impianto teorico per una nuova scienza di governo (governamentale). La sostituzione delle cono27

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scenze della ragion di stato a cavallo tra il sec. XVIII e XIX ci consegna quindi una condizione in cui la politica sembra essere scomparsa, svuotata di senso, e sostituita da tecnici omologati nelle fondamenta teoriche liberiste e neoliberiste, e una cultura umanista fortemente depotenziata o lentamente imbrigliata dentro i dispositivi di codifica e valorizzazione economica, per estrarre dalla sua produzione ricchezza per pochi. Se lo studio e il pensiero è subalterno all'utile, l'ordine sociale riprodotto sarà espressione dell'ordine economicistico.

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Dunque, la subalternità dei saperi all'economia capitalista riproduce subalternità delle condizioni di esistenza delle persone, attraverso, da una parte la riduzione dei diritti e della precarizzazione delle condizioni materiali, dall'altra attraverso l'ordinamento dei comportamenti attraverso un ampio sistema reticolare di gestione (governance), in cui la tecnica dei comportamenti è valutazione e autovalutazione del prodotto intellettuale teso alla competizione dei profitti sul mercato, in cui il merito sembra configurarsi come metro di misura e dispositivo di segnalazione dell'errore. Uno degli esempi più chiari su questo risulta essere il mercato della produzione delle pubblicazioni negli ambiti scientifici. Costruire un altro rapporto tra saperi e mondo della produzione, che sostituisca le regole auree dell’economicismo, dell’utilitarismo e del consumismo con altri paradigmi costituenti di una nuova società più giusta, è dunque necessario. E’ la strada che abbiamo provato a tracciare con il documento E’ ora di sapere, è ora di decidere, che va ripreso, ampliato, approfondito e reso strumento utile all’interno e all’esterno della nostra organizzazione.

Quest’ottica aggredisce anche la concezione del lavoro che la nostra società si costruisce; a netto della differenza tra quantità di lavoro (tempi di lavoro – non lavoro) e qualità del lavoro (spazio dei diritti e del salario) quello che si è perso è il sen so del contenuto del lavoro. Il contenuto complessivo del lavoro di una società e quindi il sapere che lo sostanzia, imprime la direzione della società stessa. E questo è un dato imprescindibile da analizzare, per comprendere in tutta la sua forza, la rivendicazione per cui liberare i saperi significa costruire meccanismi di alterità al modello unico neoliberista vigente. I saperi sono recintati, ostacolati, privati. Dunque è necessario combattere per la liberazione dei saperi, come la loro stessa natura impone. Affermare che la conoscenza è un bene comune significa rilevare due elementi fondanti: da un lato il ruolo per lo sviluppo autonomo della persona e delle comunità, quindi riferendosi come presupposto di diritto di cittadinanza, dall'altro la sua gestione, indipendentemente dalla proprietà, e quindi una capacità di ribaltare il rapporto tra capitale e saperi, liberando la società stessa. Assunto questo, è opportuno che la conoscenza sia riconosciuta come diritto assoluto, quindi diritto non suscettibile a valutazioni economiche. I grandi luoghi collettivi che sono scuole ed università devono trasformarsi in vere e proprie comunità che si autogovernano in maniera partecipativa, spazi in cui si sperimenta un modello di società alternativo, riaffermando un senso nuovo del valore della proprietà pubblica, in contrasto ai processi cui sono stati sottoposti in particolar modo negli ultimi anni. La pubblicità e la gratuità dei saperi devono essere la conseguenza sostanziale del loro riconosci mento come bene comune e pertanto devono diventare per noi il nucleo centrale delle nostre rivendicazioni, il fulcro intorno cui far girare il nostro modello di società, anche indagando quei modelli in cui la conquista di un sistema di istruzione gratuito e legato ad una complessiva alterità di politiche sociali.

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico La parola stessa sapere ci palesa il carattere permanente ed estensivo, tanto della conoscenza quanto dell'atto dell'apprendere. Nel conoscere, nell'apprendere, nel acquisizione di un dato o nella sua elaborazione verso un nuovo sapere, è sempre in gioco il sapere tutto, come l'intero campo di conoscenza. Lo statuto stesso dei saperi rifiuta la perimetrazione e la misurabilità di essi. Il Manifesto per la Liberazione dei Saperi ha cer cato l'anno scorso di tracciare un discorso nuovo su come si liberano le conoscenze e le persone dalle gabbie in cui attualmente si tenta di recitarle. L'organizzazione deve assumere quel Manifesto come base - implementabile e ampliabile - della costruzione di un terreno di battaglia politica permanente, come elemento di generalizzazione delle vertenze che realizziamo nelle scuole, nelle università, nelle città, come idea di società verso cui vogliamo tendere.

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Tesi 7.2 – Contro la retorica del merito e la valutazione, per nuovo processo pedagogico

Quotidianamente sentiamo ripetere tanto dai media quanto nei luoghi del sapere la parola “merito”. Ma cosa significa realmente e qual’è la logica ad essa sottesa? Impostasi ormai anche all’interno del dibattito su scuola e università la meritocrazia è uno strumento di selezione, frutto del pensiero neoliberale. Affermatosi inizialmente nel mondo del lavoro come “correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori” si è progressivamente esteso fino a palesarsi nella sua matrice repressiva in ogni aspetto della vita di una persona. Oggi con la retorica del merito il meccanismo della competizione si innesca a partire tra i banchi di scuola, con l’imposizione di un modello tutto individualista che spinge gli studenti a “far da sé”, ad accumulare sapere che diventa fine a se stesso e a vedere nell’altro una potenziale minaccia nel raggiungimento del successo personale (il premio, il voto, la classificazione). L’inserimento della valutazione numerica sin dalle scuole elementari ha comportato l’inserimento del meccanismo della competizione fra studenti sin dai primi passi della formazione primaria. La mera didattica frontale, volta ad un approfondimento puramente mnemonico, unita ad una valutazione che vive solo in funzione concorrenziale, stanno facendo diventare la scuola in tutto e per tutto uno degli ingranaggi meglio oliati del sistema capitalista. Tali logiche concorrenziali rispondono perfettamente alle richieste del mercato, che non soltanto subordinano il sapere all’economia ma introducono dinamiche di contrapposizione ed una rincorsa all’eccellenza perpetuando l’idea del self made man, comportando la fine della dimensione collettiva dei luoghi della formazione. A questa cornice ideologica si accompagna una pressione ansiogena, in un’ottica produttivistica secondo cui se non rientri in determinati parametri o non realizzi dei risultati immediati sei giudicato, marginalizzato se non direttamente escluso. Ciò a cui assistiamo è la riproposizione di un processo valutativo-repressivo che, come nel caso dei test INVALSI per la scuola e degli ANVUR per la ricerca, svilisce le conoscenze e valorizza la competizione. Con gli ultimi decreti AVA (Autovalutazione, Valutazione, Accreditamento) nell'università su questo tema assistiamo ad un cambio di passo devastante: infatti non solo si rende più difficoltoso avere un offerta formativa vasta, ma si lega la semplice e chiara volontà di chiudere corsi di laurea ad un uso strumentale ed escludente della valutazione della ricerca e della didattica. Dal punto di vista della valutazione individuale, lo studente si sente frustrato e demoralizzato, sente su di sé il peso della valutazione e gli insuccessi, che certo non “stimolano 29

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a fare meglio” come i profeti del merito sostengono, al contrario lo scoraggiano spesso anche nel proseguire il proprio percorso di studi. Ad una didattica sempre più mnemonica e standardizzata si aggiunge la totale mancanza di programmi di recupero nelle scuole e strumenti estremamente restrittivi ed escludenti nelle università. Come i numeri programmati si stanno espandendo a macchia d’o lio in tutte le facoltà universitarie, il mostro del test si avvicina anche nelle scuole superiori, infatti in numerosi istituti italiani sono in corso sperimentazioni di test d’ingres so. Partendo da quanto avviene ad ognuno di noi nell’attuale sistema formativo, dunque, sorge spontanea un’altra domanda: a cosa serve studiare? Lo facciamo solo per noi stessi? Cosa significa valutare? Così com’è la valutazione risulta essere un efficace strumento di controllo che tende a restringere il campo entro cui lo studente può muoversi, nella valorizzazione di nozioni asettiche. Essa diventa “una pratica di verità funzionale all’instaurazione di regimi di ‘conoscenza amministrata’, cioè regimi di ‘quasi-mercato’, dove si tratta di creare vincoli di mercato pure in assenza di merci”. A ben guardare, paradigmatiche del pensiero meritocratico sono le giustificazioni poste all’introduzione del numero chiuso. Presentato come mezzo indispensabile ai fini di garantire un’università qualitativamente superiore, tarata su singoli soggetti selezionati, ritenuti aprioristicamente “capaci” di sostenere un percorso pluriennale sulla base di un test d’ingresso. Ma come può un test a crocette decidere della nostra vita? Perché siamo noi a doverci adattare a queste scelte politiche? Dov’è scritto che ci siano dei tempi di apprendimento standardizzati? Ci chiediamo da anni se non sia più sensato avviare dei processi di studio collettivo, all’interno di scuole e università che oppongano la cooperazione alla competizione, il senso del lavorare assieme, che finalizzino lo studio al raggiungimento di risultati comuni mettendo a sistema competenze e intuizioni, che rendano possibile la creazione di un nuovo processo pedagogico fondato sul cooperazione e condivisione dei saperi in cui si parli di “autovalutazione” cioè una delle tappe dell’apprendimento.

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Oggi serve che la Rete si faccia portatrice di un concetto forte quanto il merito ma contrario nelle sue implicazioni. Una società basata sul concetto di meritocrazia non tiene conto delle condizioni socio economiche di partenza e mette in competizione le persone, piuttosto si dovrebbe pensare ad una società nella quale ognuno possa essere messo in condizione di mettere a frutto le proprie capacità. Oggi proprio il concetto di capacità, collegato a quello dei diritti e della cooperazione, si contrappone a quello del meritori, legato a quello del bisogno e della competizione.

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Tesi 8 – Costruire l'alternativa al controllo sociale

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Tesi 8.1 – Uscire dal ricatto delle mafie: i saperi come strumento di cittadinanza ed emancipazione 1245

Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono un vero e proprio sistema economico che reinveste, riciclando, il denaro da attività criminali, traendone profitto.

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico Le mafie italiane e il loro fiorentissimo indotto di illegalità e riciclaggio nelle sue diverse forme - dall'usuraio di quartiere, alle società finanziarie, ai broker assicurativi - lavorano infatti in un mercato dei capitali aperto che cammina assai più rapido degli strumenti legislativi o amministrativi costruiti per aggredirlo. L'economia nera divora il Paese con percentuali di crescita spettacolari. Infatti, il denaro sporco immesso nel nostro circuito finanziario ha abbondantemente superato (nel 2013) il 10 per cento del PIL ed è stimato in 170 miliardi di euro l'anno, solo la 'Ndran gheta fattura il 3,5% del PIL italiano, per un pari di 53 miliardi di euro di fatturato, su periore a quello di Deutsche Bank e McDonald's messi insieme (dati Demoskopika). Al primo posto per redditività dell'economia criminale c'è il narcotraffico, con margini di ricavo che oscillano tra i 17,7 e i 33,7 miliardi di euro, seguito da estorsioni (4,7 miliardi), sfruttamento della prostituzione (4,6 miliardi) e contraffazione (4,5 miliardi). Va poi da sé che in un quadro di crescita dell'economia criminale di questa portata, ab bia rotto ogni argine la forma più antica e odiosa del riciclaggio, l'usura, che non è più solo affare di antichi "cravattari", ma ormai attività imprenditoriale nella forma di società finanziarie. Inoltre, le mafie producono ed estraggono profitti anche dai territori in cui agiscono. Un esempio è il traffico e lo smaltimento illegale dei rifiuti. Questa attività ha portato a quello che oggi definiamo “biocidio”, un termine che inquadra perfettamente ventidue anni di rifiuti tossici seppelliti nelle discariche abusive uccidendo e avvelenando persone e territori in tutto il Paese. Le attività criminali incidono sul tessuto sociale e culturale, oltre che sul modello di sviluppo, e molto spesso coinvolgono le istituzioni stesse. Quasi la metà delle Regioni Italiane (a partire da Campania, Calabria e Sicilia) sono interessate dallo scioglimento di enti locali per infiltrazioni mafiose. Fino ad ora sono stati sciolti solo Comuni e quattro aziende sanitarie.

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Dopo la grandissima partecipazione alla manifestazione contro il biocidio, le mafie, per un altro modello di sviluppo del 16 novembre 2013, a Napoli, “#Fiumeinpiena – Hai il co raggio di far finta di niente?”, il Governo italiano ha varato un decreto-legge d'emergenza n. 136/2013 più noto come “Decreto Terra dei fuochi” e successivamente il DecretoLegge n. 145/2013, meglio noto come “Destinazione Italia” che deludono le aspettative dei cittadini che hanno partecipato attivamente, sperando in una risposta e in uno schieramento netto e concreto dello Stato contro il malaffare e la distruzione, ormai ventennale, del nostro territorio. I due decreti-legge, infatti, sono uno specchietto per le allodole. In particolare “Destinazione Italia” è un condono tombale sulle bonifiche. Si acconsente ad un vero e proprio “furto” di soldi pubblici, di cui gli inquinatori potranno usufruire, tramite un accordo di programma, per avviare la messa in sicurezza e la bonifica dei siti. Non solo il danno, ma anche la beffa per tutte le comunità colpite negli ultimi sei anni da inquinamento, tumori e morti e mafia.

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I beni confiscati alle mafie sono un’altra preziosa risorsa di riscatto sociale e alternativa alla cultura e subcultura mafiosa. Una grande vittoria è stata ottenuta il 25 febbraio scorso quando è stata approvata, tramite una Direttiva della Commissione europea, la Legge italiana n° 646/82 meglio nota come Legge Rognoni-La Torre, che introduce per la prima volta nel codice penale italiano il delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso, il sequestro e la confisca dei beni alla criminalità organizzata. Il percorso di riqualificazione dei beni parte dalla definizione del loro riutilizzo sociale. Essi possono diventare, biblioteche, studentati o comunque dei luoghi dove alimentare giustizia sociale attraverso il mutualismo, la solidarietà e un’idea di economia sociale non finalizzata al profitto.. Una volta restituiti alla collettività, i beni confiscati diventano beni comuni e 31

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pertanto vanno difesi, come è successo durante l’autunno passato con la Tenuta di Suvignano (Siena). Intendiamo restituire i beni confiscati ai giovani e agli studenti, il futuro del nostro Paese, aderendo alla Campagna “Libera il welfare” tramite il fondamentale aiuto e impegno di LIBERA - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie.

La cultura mafiosa, incentrata sul mantenimento di rapporti di potere e di un ordine sociale gerarchico, parte da interessi economici che, dalla difesa della proprietà privata e degli interessi delle classi dirigenti locali, arriveranno alle istituzioni, attraverso corruzione, appalti e voto di scambio. La cinghia di trasmissione degli ordini e degli interessi dei vertici della mafia è costituita da elementi reclutati nei ceti più bassi, in cui si riproduce questa cultura in quanto unica forma di protezione economica e sociale. La cultura e la subcultura mafiosa partono tessuto sociale più periferico per poi diramarsi verso le zone centrali delle città. Nascono laddove il tasso di dispersione e abban dono scolastici sono preoccupanti, dove la povertà è protagonista quotidiana della vita dei cittadini. Le misure di austerità, il restringimento delle forme di welfare, la precarizzazione del lavoro e delle vite, l'assenza sostanziale di democrazia e di partecipazione nelle scelte politiche, il definanziamento di scuola e di università, sono tutte misure che rafforzano la presenza mafiosa sui territori, addirittura il suo riconoscimento e la sua accettazione da parte di quelle fasce della popolazione più in difficoltà e con meno strumenti di emancipazione economica, sociale e culturale. È per questo che abbiamo deciso di sostenere ed aderire alla Campagna di LIBERA “Miseria Ladra”, prevedendo il reddito di cittadinanza come strumento potentissimo di prevenzione alle mafie. Ad avere un importanza fondamentale nel prossimo anno sarà la campagna Riparte il Futuro, lanciata da Libera e Gruppo Abele per le elezioni del 2013 come campagna di pressione sui temi legati alla corruzione, alla trasparenza e alla partecipazione democratica. Da settembre i temi principi della campagna saranno quelli legati alla corruzione in scuole e università: come già avvenuto per la sanità verranno messe sotto lente d'in grandimento tutte le storture nella gestione dei luoghi della formazione. Sappiamo che la gestione delle università risulta sempre più opaca con il processo di privatizzazione e autonomizzazione degli atenei. Parallelamente le scuole saranno probabilmente oggetto di investimenti in edilizia scolastica. L'arrivo della campagna Riparte il futuro nei luoghi della formazione è un occasione per noi per accrescere la nostra forza vertenziale contrastando i meccanismi corruttivi. L’impegno delle nostre basi territoriali non si ferma a queste due campagne ma prosegue, anno dopo anno, promuovendo percorsi all’interno delle scuole, nei dipartimenti e in città che ci portano a ricordare le vittime innocenti di tutte le mafie nella Giornata della Memoria e dell’Impegno del 21 marzo, promossa da LIBERA.

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Tesi 8.2 – Contro repressione e proibizionismo 1350

Carceri sovraffollate e profitti alle stelle per le grandi organizzazioni criminali e mafiose, questi sono i veri risultati prodotti da oltre 50 anni di politiche repressive e proibi zioniste a livello internazionale. Le prime leggi proibizioniste hanno fatto la loro apparizione negli States durante gli anni ’30 per volontà di alcuni grandi industriali e capitali sti, proprietari di società petrolchimiche, imprenditori, banchieri e azionisti industriali. 32


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico La canapa era il nemico principale di questi grandi uomini politici e capitalisti in diversi modi minacciati dallo sviluppo ad uso industriale della cannabis. Queste prime leggi e le campagne mediatiche basate su stereotipi razzisti, sessisti e puritani hanno guidato il resto del mondo su questa scia di criminalizzazione. Il proibizio nismo divenne quindi un fenomeno mondiale, a cui pochissimi paesi al mondo sono sfuggiti. Si è costruito un sistema repressivo poliziesco, basato su argomentazioni moraliste e dati scientifici approssimativi, che non ha né arrestato né indebolito la diffusione del la cannabis anzi è riuscito nel suo scopo implicito di aumentare i profitti di quei pezzi di potere che sulla guerra alla droga hanno investito. Il rapporto “Ascesa e declino della proibizione della cannabis”, rilasciato a Marzo 2014 dal Transnational Institute e dal Global Drugs Policy Observatory, ci dice esplicitamente che la domanda per la comunità internazionale non è se vi è la necessità di rivedere il sistema di controllo della droga delle Nazioni Unite, ma piuttosto quando e come farlo. La vendita di marijuana, entrata nella clandestinità e parificata dalla Fini-Giovanardi allo spaccio di eroina e cocaina, è divenuta la fetta più consistente della speculazione criminale e mafiosa. Ad oggi il tasso di crescita della criminalità che si registra è spesso e volentieri infatti legato al possesso e all’uso di canapa. Stando ai dati del “4^ Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi” 4 detenuti su 10 sono in carcere per l’articolo 73 che punisce la detenzione e non il traffico di stupefacenti. E’ evidente e non più trascurabile la connessione tra criminalizzazione della cannabis e sovraffollamento del nostro sistema carcerario, oggetto quest’ultimo di diverse sanzioni europee che duramente hanno denunciato il sovraffollamento e le pessime condizioni di vivibilità delle nostre carceri. La detenzione è la pena più utilizzata e la meno adatta per punire spacciatori e consumatori il più delle volte solo presunti. Restituire dignità e libertà ai tanti uomini e donne arrestati e costretti a vivere ai margini della società a causa di una cultura benpensante e borghese di cui tutti siamo vittime indiscusse è invece la strada corretta. Nel corso degli ultimi mesi il dibattito pubblico e politico nel nostro Paese riguardo il tema della cannabis è nuovamente esploso per via delle tantissime persone con problemi di salute il cui solo sollievo e terapia efficace è rappresentato dall’assunzione dei principi attivi presenti in essa e delle forti campagne di sensibilizzazione messe in campo dalle associazioni antiproibizioniste. La combinazione di questi ed altri fattori ha portato il 12 Febbraio scorso ad una storica sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la Fini-Giovanardi. L’abrogazione ha non soltanto riaperto un dibattito politico sul tema per anni soffocato dalle ideologie proibizioniste, ma ha anche spianato la strada alle liberalizzazioni a livello regionale della cannabis a scopo terapeutico. I tentativi di questi ultimi mesi da parte della Ministra Lorenzin e del governo Renzi tutto di scavalcare la sentenza di incostituzionalità reintroducendo per decreto la Fini-Giovanardi sono, seppur ridimensionati rispetto agli intenti originari, una minaccia reale cui continuare a dare battaglia. Come organizzazione nazionale dobbiamo infatti sentire la necessità e l’esigenza di batterci con forza per l’abolizione delle restrizioni al consumo e alla produzione di cannabis. Tra i più giovani il tasso di consumo supera di molto il 20% e politicizzare e costruire una scommessa aggregativa attorno a questa condizione deve essere per noi una priorità. Regolamentare la produzione e l’uso di marijuana significa quindi innanzitutto rivedere radicalmente le previsioni penali e sanzionatorie del T.U. sulle sostanze stupefacenti, nell’ottica di liberare i consumatori di cannabis tanto dal rischio di criminalizzazione penale e morale da parte della retorica pubblica quanto dalle vessazioni amministrative.

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Bisogna ripartire dalla legalizzazione dell’autoproduzione personale per trarre fuori dalle logiche di mercato e dalle maglie della criminalità organizzata le persone che scelgono di consumare. Bisogna rivendicare immediatamente la scarcerazione e l’amnistia sociale di tutti quei soggetti coinvolti in processi legati all’uso e al consumo di marijuana e dei reati sociali. La piaga mafiosa e criminale che ruota attorno al circuito della droga non è imputabile infatti a piccoli spacciatori e a tutti quei soggetti che ad oggi affollano le nostre carceri, bensì alle scelte politiche ed economiche delle classi dirigenti e politiche dell’ultimo secolo che non hanno fatto del contrasto fattivo alla criminalità organizzata una priorità politica. Abbiamo partecipato in questi anni alla campagna a sostegno di 3 proposte di legge d’iniziativa popolare su tortura, carceri e droghe; queste ad oggi aspettano d’attraversare il proprio iter legislativo ma segnano per i movimenti un terreno di rivendicazioni comuni da ridiscutere e per cui continuare a battersi. La repressione è il tratto caratteristico delle risposte date ai movimenti sociali del Pae se, alle loro rivendicazioni e al loro impegno in questi anni. La violenza fisica delle forze dell’ordine nelle piazze (pensiamo al 14 Novembre 2012 durante lo sciopero generale europeo) ma anche la criminalizzazione in sé della protesta e delle sue pratiche da parte di media e politica così come l’istituzione di ampissime zone rosse durante le mobilitazioni studentesche dal 2008 ad oggi sono elementi che nel corso degli anni abbiamo puntualmente criticato senza però ricostruire il quadro analitico in cui leggiamo il fenomeno della repressione.

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Se da un lato per fare questo occorre prendere atto della sistematicità con cui si sono attaccati i movimenti in difesa dei beni comuni, anche politicizzando a scopi repressivi strumenti come il voto in condotta e il numero di assenze per gli studenti medi, dall’al tro serve considerare seriamente la trasformazione e l’intensificarsi delle forme di controllo dei comportamenti e delle manifestazioni di pensiero di tutte e tutti. La repres sione è figlia infatti di una crisi democratica profondissima, una scollatura tra Stato e cittadini che sistematicamente vede ormai il primo utilizzare strumenti legali per attaccare proteste politiche collettive il cui portato non può essere né rimosso né risolto senza una volontà di connessione e confronto tra parti. Le iniziative penali che hanno colpito il movimento studentesco, i NOTAV della Val Susa o il movimento NOMUOS in Sicilia, gli attacchi ad esperienze di liberazione e riqualificazione di spazi nelle città come l’ex colorificio di Pisa, sono esempi lampanti di questa deriva. Denunciare tutto ciò è certo giusto ma non ci pone fuori dallo schema proprio della repressione, uno schema in cui il dissenso e la critica sono ridotti ad atti di disobbedienza sterile. L’obiettivo per noi deve essere pertanto costruire pratiche e coalizioni sociali capaci di imporre la legittimità delle battaglie politiche di questi anni di contro ad una legalità solo formale e incapace di cogliere le esigenze e i bisogni reali delle popolazioni.

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Tesi 9 – La fortezza Europa in un mondo che cambia

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I migranti: soggettività frammentata da rappresentare. La cooperazione internazionale e i conflitti armati.

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Attraverso l’analisi del contesto geopolitico attuale e dei conflitti esplosi negli ultimi mesi, citando i più noti, quello ucraino e palestinese, emerge l’inadeguatezza delle scelte di politica estera e diplomatiche che hanno interessato l’Europa, sia in qualità di soggetto sopranazionale che internazionale. E’, infatti, evidente come dalla caduta del muro di Berlino, con conseguente dissolvimento dell’URSS, l’Europa sia incapace di determinare le proprie posizioni ed i propri indirizzi, tanto economi34


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ci quanto politici, risultando al contempo vittima e complice della strategia imperialista dell’unico blocco superstite a quella fase storica. In opposizione all'egemonia degli USA, negli ultimi anni, si sono rafforzate altre polarità in particolare nei Paesi emergenti (i cosiddetti BRICS). Molti dei conflitti sorti negli ultimi anni dimostrano che tale polarità sta producendo uno scenario nel quale l'Europa continua a non svolgere un ruolo di mediazione che sarebbe assolutamente auspicabile. Avendo dato priorità assoluta alla definizione di una comune volontà economica che consentisse di individuare e definire i singoli Stati come appartenenti alla Comunità, sono i mercati, e non pertanto istituzioni munite di mandato politico, ad intervenire nelle scelte di politica estera, dentro e fuori i confini dell’Europa, agendo tramite il condizionamento sui canali di governance, o ancora richiedendo interventi laddove sussistano interessi di tipo strategico. D’altronde la costante frizione tra aree differenti fra loro, per dati politici, economici e culturali, ha generato processi di destabilizzazione interna a numerosi Stati ai confini del Continente europeo. Questo fenomeno è alla base del progressivo aumento dei flussi migratori che hanno investito la Comunità Europea. Risulta, quindi, essenziale oggi rivendicare l’importanza del ruolo dell’Unione nella cooperazione internazionale tesa alla promozione del principio di autodeterminazione dei popoli, che abbia come fine il raggiungimento della coesistenza non belligerante di tutte le popolazioni ed etnie e nel perseguimento del loro stesso benessere. In misura eguale è necessario che l’Unione Europea, anche per quel che attiene le dinamiche interne fra Stati, abbia l’ambizione e la volontà politica di combattere le diseguaglianze, la povertà e l’ingiustizia sociale. Riteniamo che solo in questa maniera essa possa tener fede a quanto stabilito nei punti programmatici della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea. In quest’ottica va letto l’impegno della Rete per la formazione e la fondazione della Rete della Pace e per lo sviluppo della campagna Taglia le Ali alle Armi contro l’acquisto degli F35 e nella promozione di una sempre più assente cultura pacifista. Inoltre è da sostenere il rilancio del servizio civile come pratica di una società votata al principio di solidarietà praticando l’obiettivo della rimozione dei fattori di disuguaglianza ed ingiustizia sociali. E’ importante che il nostro Paese sviluppi la propria soggettività politica in campo internazionale in funzione del perseguimento della coesione fra i popoli, al fine di organizzare un’alternativa alla risoluzione armata dei conflitti. Alla luce di ciò rivendichiamo che vi sia un progressivo disarmo e che l’Italia costituisca un Dipartimento per la Difesa Civile, a cui afferisca la gestione del Servizio Civile (con copertura finanziaria per tutti i richiedenti), dei corpi Civili di Pace e di un futuribile Centro Studi sulla Pace. Tali rivendicazioni, lanciate dall’Arena della Pace e Disarmo svoltasi il 25 aprile, devono essere portate in scuole ed università affinchè si radichi un modello culturale fondato non solo sul diritto di ogni popolo e di tutte le etnie a veder riconosciuta la propria identità, ma soprattutto sul dovere di impegnarsi nella diffusione e tutela di tale stesso valore. All’aumento delle guerre attorno all’Europa hanno comportato crescenti flussi migratori. Ad oggi le trasformazione subite dai confini nazionali e sovranazionali, anche in virtù dell’ impatto delle migrazioni, mettono in crisi l’ assunto che, nello Stato Nazionale, ha fatto della Cittadinanza la categoria entro la quale declinare l’uguaglianza dei diritti e del Territorio una realtà fisica abitata da una comunità con sede fissa. Lo spazio euro peo palesa queste trasformazioni poiché il processo di integrazione dei confini nazionali ha rinunciato a costruire una territorialità co-originaria a quella degli Stati membri. 35

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Tale rinuncia comporta che la cittadinanza europea sia una cittadinanza di secondo li vello (riservata a chi è già cittadino dello stato membro) e tale rinuncia comporta che i criteri di espulsione e di ammissione ai singoli territori siano lasciati alla determinazione degli Stati dell’UE. A riguardo, bisogna evidenziare come la ‘Circolazione’ costituisce sicuramente la cifra caratterizzante e più innovativa della cittadinanza europea, tuttavia la ‘libertà di circolazione’ nella governamentalità neoliberale, è stata tradotta in un discorso normativo che riconcettualizza il termine ‘libertà’ come 'velocità' di attraversare i confini, con una confusione che nasconde la selezione dei soggetti che ne sono titolari. Inoltre l’illegalizzazione di massa dei movimenti umani è complementare, e non certo in contraddizione, con il modello della circolarità delle migrazioni. Possiamo dire che per cogliere la cifra distintiva della cittadinanza europea converrebbe parlare più che di circolazione di persone, di circolazione di status. Non solo quello dei cittadini ma anche quello dei migranti che una volta illegalizzati in uno dei paesi membri, rimangono tali in tutto lo spazio Schengen, garantendo così quella possibilità di espulsione che costituisce un aspetto fondamentale del sistema di circolarità. E’ necessità per la Rete della Conoscenza interrogarsi sulla condizione che, in particolar, modo gli studenti migranti si trovano ad affrontare, ossia l’ essere non-cittadino nella città, nei luoghi di formazione, negli spazi di aggregazione sociali e culturali. Ciò implica avviare un’inchiesta sugli studenti migranti; potenziare, nelle scuole e nelle università, il lavoro vertenziale rivolto alla risoluzione delle problematiche quotidiane che gli studenti migranti si trovano ad affrontare, promuovendo una loro partecipazione attiva; avviare dei rapporti di collaborazione con altre realtà che si occupano del fenomeno (es: ASGI/MELTINGPOT). Quest’anno abbiamo partecipato al percorso, creatosi con diverse associazioni, per la realizzazione della ‘Carta di Lampedusa’. Si tratta di un progetto ambizioso che, rifiutando le attuali politiche migratorie europee, intende affermare l’importanza di un’Europa senza confini, in cui si possano trovare realmente cittadinanza i diritti di libertà.

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Pensiamo sia essenziale continuare, ad impegnarci su questa tematica, sostenendo la lotta per la reale abolizione del reato di clandestinità, per la chiusura dei centri di identificazione ed espulsione, per l’ effettivo esercizio del diritto di asilo, per riformare la legge sulla cittadinanza e sul diritto di voto. Crediamo inoltre che l’Organizzazione debba porsi come obiettivo più ampio quello di riuscire ad aprire un ragionamento su quale modello di cooperazione immaginare, nell’era del totale definanziamento del settore della cooperazione internazionale, sapendo immaginare metodi e mezzi di cooperazione e solidarietà che nascano e vivano nei luoghi della formazione, come abbiamo provato a fare l’anno scorso con la campagna “Free Minds, Free World”, durante la quale abbiamo portato avanti una carovana di iniziative con due giovani palestinesi e abbiamo raccolti fondi, con la Fondazione Frammartino, per contribuire al pagamento di borse di studio per le studentesse e gli studenti di Gerusalemme Est.

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Tesi 10 – Che genere di società?

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La questione di genere come paradigma per il cambiamento Da sempre il nostro impegno sui temi di genere ha come obiettivo la parità di genere non in termini di previsione di quote di rappresentanza, ma intesa come parità di diritti 36


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico e possibilità verso la dignità del riconoscimento della propria identità di genere e sessuale che parte necessariamente dall'eguaglianza tra gli stessi. Questo obiettivo viene perseguito guardandolo dall’ottica della politica della differenza, quindi nel riconoscimento dell'esistenza di differenze biologiche, antropologiche e sociologiche che è alla base del conflitto sempre esistito, ed ancora attuale, tra uomo e donna. Si tratta di un conflitto dall’espressione multiforme: dalla violenza di genere, alla politica dai toni alle volte machisti, dalle relazioni interpersonali a quelle collettive e di organizzazione. Proprio dal riconoscimento di questo conflitto si può partire per costruire nuovi modelli di società che si basino non di certo su un'omologazione delle personalità sessuali ma sulla valorizzazioni delle diverse personalità in senso cooperativo al di là dei sessi. La nostra pretesa di eguaglianza tra i sessi si fa così rivendicazione necessaria per l'eguaglianza delle persone. L'analisi di genere della nostra organizzazione non deve tenere nessuna strada esclusa a priori: a partire dalla teoria Queer dobbiamo necessariamente confrontarci con nuove modalità di intendere il genere e la sessualità e i rapporti che tra questi si creano. In Italia, solo il 46,5 % delle donne, ad oggi, lavora. Conciliare i tempi di cura con quelli di lavoro, risulta, ancora oggi, difficile. La pratica delle dimissioni in bianco, nel mondo del lavoro, è una consuetudine, una spada di Damocle, riservata specie alle giovani lavoratrici. Il ricatto della produttività sui tempi biologici di vita è inaccettabile, come inaccettabile rimane il congedo di paternità legato esclusivamente ai casi di morte o grave infermità della madre, abbandono del figlio da parte della madre o affidamento esclusivo del bambino al padre. La Riforma Fornero, tuttavia, ha previsto che i lavoratori padri, entro i primi 5 mesi di vita del bambino, avranno il diritto di richiedere tre giorni consecutivi di assenza dal lavoro senza decurtazione di stipendio. Consideriamo briciole questi tre giorni di assenza, se si considerano nella coppia entrambi i genitori parte del processo di cura e di crescita del bambino. In un Paese in cui più di una donna su tre subisce violenza psicologica, fisica, verbale e non verbale, il nostro impegno verso il contrasto del fenomeno non può venire meno. Senza mai cedere a derive vittimistiche o repressive e senza mai individuare nei metodi punitivi la possibile soluzione, a partire dal valore primario che dà alla cultura e alla costruzione di una coscienza critica, dovrà farsi baluardo di altri modelli di rapporti tra i sessi e di sessualità. Proprio nel campo della sessualità si apre un'altra grande lotta al bigottismo, alla costrizione e all'imposizione di modelli machisti che le donne continuano a subire. La battaglia per un aborto libero e gratuito è l'esempio di quanto sia ancora necessario lottare per il diritto delle donne a decidere sul proprio corpo ed autodeterminare la propria vita, e la difesa della legge 194 deve rimanere una priorità assoluta nelle nostre rivendicazioni. Tutto questo si tramuta, sul piano vertenziale, nel richiedere tavoli con gli Assessori alla Sanità delle nostre Regioni, per avere un quadro chiaro sulla situazione di accesso dei consultori e della diffusione della RU486 e della piaga dei medici obiettori di coscienza. La liberazione sessuale è una battaglia che non è stata minimamente conclusa, e grazie alle presenza della nostra organizzazione nelle scuole e nelle università abbiamo la possibilità di costruire dal basso un'altra educazione alla sessualità, irriverente libera e rivoluzionaria: si tratta di una sfida che, nella costruzione di una società più giusta e mi gliore, non possiamo permetterci di perdere. Il piano vertenziale tuttavia non può non essere calato anche dentro i luoghi della formazione. In particolare riteniamo necessario indagare la condizione degli studenti, di medicina e delle professioni sanitarie, e degli specializzandi per verificare che questi non vengano forzati ad assumere posizioni antiabortiste per non compro mettere il loro percorso formativo ed eventualmente mettere in campo un'azione sindacale per tutelarli.

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In un momento di crisi occupazionale e generazionale, diventa sempre più difficile intraprendere la carriera universitaria e/o lavorativa, specie se questa è accompagnata dalla scelta di avere un bambino. All'interno di molte università in Italia manca, infatti, una reale politica di conciliazione dei tempi di vita, di lavoro e di studio delle studentesse e delle lavoratrici precarie dell’Ateneo. In alcune università non esistono nidi d'infanzia, oppure esistono ma non è consentito l'accesso ai figli di studentesse e precarie. Inserire o migliorare i nidi d’infanzia all’interno degli Atenei significa eliminare gli ostacoli sociali che non permettono alle studentesse e agli studenti di continuare il proprio percorso universitario in totale armonia con le scelte personali, come può essere quella di avere un figlio. In uno Stato dove il welfare è sempre sotto attacco, in cui il tasso di natalità nel nostro Paese è pari al 9,18% dal 2003, quartultima nella lista degli Stati Europei, pensiamo che incentivare servizi che non penalizzino la scelta di vivere la maternità, possano alimentare i processi evolutivi del nostro Paese. La poca attenzione a queste politiche sociali la si percepisce nell'atteggiamento verso quelle ragazze che, da madri, vogliono approcciarsi alla vita universitaria. Oltre una mancata diversificazione rispetto all'assegnazione delle borse di studio, la mancanza di abbonamenti per i trasporti agevolanti e l'assenza di carte di cittadinanza studentesca, le ragazze madri universitarie si vedono anche private del poter conciliare la loro aspirazione accademica al ruolo di cura per il proprio figlio. Crediamo sia necessario inoltre considerare la situazione delle ragazze madri borsiste che, anche avendo diritto all’alloggio, o vi rinunciano, oppure devono totalmente allontanarsi dal proprio bambino esercitando il proprio diritto e continuando, in maniera limitata, il percorso di studi. Bisognerebbe, per questo, pensare ad un numero di stanze all’interno degli alloggi studenteschi che siano adibiti alle necessità di una ragazza madre e del proprio bambino.

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Queste sono solo alcune delle motivazioni per convincerci ancor di più di quanto sia ne cessario passare per i luoghi della formazione e di quanto sia indispensabile che l’offerta formativa ed i programmi didattici rivalutino e diano il meritato protagonismo ai sa peri di genere da sempre esclusi dalla didattica scolastica ed accademica. E’, quindi, necessario riattivare, su questo, il piano vertenziale e, richiedere, di conseguenza, nelle commissioni paritetiche sulla didattica nelle scuole e nei dipartimenti, l’inserimento nei programmi di un’ottica di genere, nella letteratura, nella storia, nella filosofia, nell’e conomia e nell’educazione civica, fino a diventarne parte integrante dell’offerta formativa ordinaria.

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Tesi 11 – LGBTQI, una battaglia di tutt* per tutt*

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Per una società capace di garantire i diritti a tutt*, contro ogni bigottismo

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Sappiamo che la crisi economica porta con sé disoccupazione, povertà, precarietà ed i paradigmi dominanti nell’economia penetrano in maniera forte nell’approccio alla vita quotidiana di ogni individuo, provocando una crisi dei valori per cui il rispetto per l’altro e la ricerca della collettività sono stati sostituiti da una modello di società competitivo dove regnano la prevaricazione e la violenza. Come chiavi per la costruzione del benessere esistono, ormai, solo le formule dell’utili tà e del consumo. In questo contesto bisognerebbe ripartire dai diritti negati e non rispettati, affinché siano restituite dignità e libertà a tutti in ogni ambito del vivere quotidiano. 38


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico Sostenendo e rivendicando il diritto dei cittadini gay, lesbiche, bisessuali e trans a ricevere un trattamento giuridico pari a quello di cui godono tutti i cittadini eterosessuali sia in termini di diritti e doveri che in termini di tutele e di garanzie -, riteniamo centrale l’effettiva tutela sul piano giuridico delle situazioni esistenti nel panorama sociale nazionale. Anche grazie ai riconoscimenti giuridici si potranno distruggere tutti i muri dell’emarginazione e della discriminazione in cui troppi soggetti che vivono nelle suddette condizioni sono relegati. Unioni civili, adozioni, matrimoni, diritto all’identità di genere rappresentano dei veri e propri traguardi nell’avanzamento di un Paese sul piano dei diritti civili. La necessità di dotarsi di pratiche che possano evitare ogni tipo di atteggiamento che possa risultare escludente o etichettante è fondamentale all'interno dei luoghi della formazione nei quali l’individuo, nella maggior parte dei casi, acquista le prime consapevolezze sulla propria identità sessuale e di genere. Per questo i luoghi di formazione, le scuole e gli Atenei, possono diventare particolarmente ostili e destabilizzanti, soprattutto se sono accettati atteggiamenti omofobi e transfobici, sia culturalmente che socialmente, da docenti e coetanei. Se lasciate intatte tali condizioni, il soggetto tende a reprimere la propria identità, accettando dei principi di presunta normalità che non rispondono alla sua natura. Il soggetto in formazione omosessuale, bisessuale, transgender e transessuale, il più delle volte, diventa vittima di bullismo e violenza, non solo fisica, oltre a non trovare in alcun luogo di aggregazione un tessuto sociale in cui espri mere e maturare la propria sessualità o identità di genere. Scuole e Atenei assumono un ruolo primario laddove, in primo luogo, già l’ambito fami liare, talvolta, non crea un clima di protezione identitaria. È, quindi, necessario che nell’ambito degli eventi, delle assemblee e dei luoghi e negli spazi di aggregazione locali studenteschi, il soggetto possa trovare un ambiente sereno e di riferimento in cui vivere la propria identità sessuale o di genere con spontaneità e naturalezza. L’organizzazione territoriale deve, quindi, diventare promotrice di un modello socioculturale in cui l’omofobia e la transfobia non abbiano cittadinanza, diffondendolo in tutti i microcosmi con i quali il soggetto omosessuale, bisessuale o transessuale interagisce e non dimenticando che l’obiettivo non è quello di proteggere, ma di far valere il principio di uguaglianza.

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Uno dei disagi più importanti con i quali i soggetti LGBTQI devono convivere durante il loro periodo di formazione scolastico-accademica è la discriminazione. Compagni di classe, di corso e professori svolgono un ruolo fondamentale per agevolare o complicare lo sviluppo, l’elaborazione e la maturazione dell’orientamento sessuale e dell’identità sessuale e/o di genere. Ciò che dello stereotipo rende la discriminazione particolarmente virale e consolidata è proprio la sua natura colloquiale. Spesso, soprattutto nel suo utilizzo gergale, lo stereotipo non è accompagnato da effettive intenzioni discriminanti o di esclusione, pur avendone lo stesso effetto. Pensiamo che ciò sia dovuto alla mancanza di luoghi e momenti formativi in cui un soggetto di qualsiasi età possa comprendere e conoscere le insicurezze e le complessità derivanti dalla maturazione di una identità sessuale o di genere diversa da quella “normale”. La sconfitta delle precarietà dei diritti, emotive e collettive passa anche attraverso la costante riproposta di un contromodello comunitario per concepire e comprendere le complessità esistenziali ed affettive dell'essere umano. Dobbiamo essere in grado di non solo condannare ogni forma di discriminazione, ma anche di seminare nuovi processi di maturazione sociale, di natura politica e individuali, laddove c'è stata. La conquista di un reale programma ministeriale per l'educazione sessuale l'educazione civica come anche la battaglia per l'approvazione del doppio libretto e della Carta dei diritti “Nessuno

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Escluso” devono essere orizzonti di priorità politica per tutta l'organizzazione e per l'intorno cittadino ed istituzionale. Il nostro impegno all’interno del movimento LGBTQI deve provare a valorizzare la caratterizzazione studentesca della nostra organizzazione portando un contributo di peso all’interno dell’analisi e delle iniziative politiche che si mettono in campo, uno fra tutti i pride sia a livello territoriale che nazionale. Dare un senso nuovo a quello che sembra essere diventato un rito inefficace, contribuendo al piano di rivendicazione politica e ai percorsi di preparazione ai pride, rappresenta per noi un’opportunità da cogliere. Chiediamo a noi stessi, alla collettività e alla classe politica reale ascolto, formazione e concretezza per raggiungere davvero la libertà di essere e di amare.

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Parte D – Le nostre nuove frontiere 1740

Tesi 12 – Ricomporre il mondo del sapere frammentato L’Università e la scuola pubblica sono oggetto da anni di un durissimo attacco. E’ dagli inizi degli anni ’90 che si è avviato un graduale processo di de-strutturazione del nostro sistema formativo pubblico ed è indubbio il fatto che le politiche degli ultimi 20 anni abbiano raggiunto uno scopo ben preciso, ossia quello di mortificare il ruolo della conoscenza all’interno dell’attuale società. Non a caso il sapere non è più visto come uno strumento di emancipazione del singolo, come una ricchezza per l’intera collettività. Il calo drastico delle immatricolazioni e il tasso altissimo di abbandono scolastico (18%) palesano l’involuzione che sta avvenendo attualmente all’interno della società italiana, una società che vede una mobilità discendente o, bene che vada, un immobilismo sociale. Basti pensare che solo il 14% dei figli con genitori non laureati si iscrive all’università. Davanti a tale drammatica situazione, di centrale importanza risulta essere il ruolo che la Rete della Conoscenza dovrà assumere all’interno di questa difficile fase.

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In un contesto storico in cui i saperi sono stati posti a servizio delle logiche del mercato e del profitto, incanalati in percorsi funzionali all’attuale sistema economico, la vera sfida è quella di rilanciare il ruolo della conoscenza come uno strumento di emancipa zione individuale e collettiva, come strumento capace di sovvertire l’attuale modello sociale e produttivo. Per fare ciò, risulta essenziale partire da un’analisi dei soggetti che oggi vivono lo spazio della formazione. Nelle elaborazioni degli ultimi anni abbiamo posto in evidenza come non sia più possibile interpretare i soggetti in formazione all’interno di una visione olistica. Non a caso abbiamo definito i soggetti in formazione non come una classe ma come una soggettività sociale, una rete di condizioni diverse.

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Dinanzi ad una frammentazione sempre più ampia della storica categoria studentesca, la Rete della Conoscenza deve continuare a perseguire il dibattito sulla necessità di ampliare le tutele e i diritti di tutti i soggetti in formazione, anche non studenti. È quello che abbiamo fatto rivendicando, nelle scuole, nelle università e a livello nazionale, l'approvazione dello Statuto delle studentesse e degli studenti in stage, che garantisse innanzitutto il diritto a stage di qualità, senza costi per gli studenti, coerenti con il pro prio percorso formativo per tutte e tutti. Nel contesto italiano ed europeo, appare ormai evidente la consistente avanzata di una fascia di soggetti non più inquadrabili nella classica categoria studentesca, ma neanche assimilabili in tutto e per tutto ai lavoratori; soggetti che, ad esempio, necessitano di periodi ulteriori di specializzazione o completamento di conoscenze lato sensu, ma che sin da subito hanno la possibilità, più o meno voluta, di intervenire direttamente in mansioni e questioni di carattere lavorativo. Oltre alla specifica e ancora non del tutto definita categoria dei NEET, alcuni esempi di ibridi studentesco-lavorativi sono gli iscritti ad Istituti Tecnici Specialistici, apprendista-

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ti, partecipanti a Tirocini Formativi Abilitanti, praticanti avvocati, medici specializzandi. La cifra comune tra tutti i soggetti in formazione è la precarietà, reddituale (mancata erogazione di borsa di studio o di retribuzione) ed esistenziale (impossibilità di avere una prospettiva di vita stabile) che impedisce l'affermazione di un reale protagonismo all'interno della società. Dunque, l'evoluzione del mondo del lavoro e la frammentazione delle soggettività in essa contenute non ha risparmiato neanche il segmento della conoscenza ormai scomposto in svariati tasselli, per questo è necessaria una importante evoluzione del nostra azione politica. Se da una parte sarà impossibile per noi poter incidere nell'ambito contrattuale, aspetto senz'altro da lasciare al sindacato dei lavoratori, potrà essere concretizzabile l'organizzazione di campagne politiche (specie per rivendicare l'immediata introduzione di forme di reddito minimo garantito) per migliorare le condizioni materiali di vita tanto dello studente ITS , tanto del praticante, tanto di chi ha un contratto di apprendistato.

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Tesi 12.1 – Nel mondo della formazione: ITS, formazione professionale, Conservatori e Accademie 1810

1815

ITS e Formazione Professionale Nel 2008, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,gli Istituti di Formazione Tecnica Superiore (IFTS) vengono sostituiti dagli ITS, Istituiti Tecnici Superiori. Queste scuole ‘ad alta specializzazione tecnologica’ sono percorsi post-secondari, non accademici, finalizzati ad integrare istruzione, formazione e lavoro, intendendo integrazione come ‘interconnessione funzionale tra soggetti della filiera formativa e le imprese della filiera produttiva’ sul territorio, che influisce infatti nel determinare la filiera di appartenenza di ognuno dei 63 ITS italiani, tramite la determina di alcune priorità e punti focali da parte delle Regioni.

1820

La Formazione Professionale, invece, attraverso i Centri di Formazione Professionale (CFP) sono funzionali all’ottenimento di una qualifica professionale attraverso un bien nio/ triennio di studi con prevalenza di materie pratico specialistiche. 1825

1830

1835

Sia gli ITS sia la Formazione Professionale si muovono all’interno di una dimensione regionale ed introducono un nuovo modello di governance caratterizzato da un’interazione pubblico-privato, con una maggior incidenza del ruolo del privato, che trovandosi ad operare all’interno di dinamiche di mercato predomina rispetto ad un pubblico molto meno competitivo. Inoltre, soprattutto per gli ITS, bisogna evidenziare come è presente la totale subalter nità del mondo formativo al mondo produttivo: la formazione che lo studente riceve an ziché essere fonte di innovazione e ricerca per il mondo produttivo, appare funzionale solo ed esclusivamente all’esigenza di una singola azienda. Il problema che come Rete della Conoscenza ci dobbiamo porre è quello di aggregare e organizzare anche queste soggettività, partendo dal fatto che si tratta di soggetti che subiscono la totale mancanza di diritti sia come studenti (mancanza del diritto di assemblea e di rappresentanza), sia come lavoratori (con tirocini che si trasformano in strumento di sfruttamento). Risulterà, allora, essenziale cercare di rappresentare chi, 42


V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico in un sistema di governance di questo tipo, non ha voce in capitolo; ponendoci come obiettivo quello di essere parte integrante della discussione che riguarda questa materia a livello Regionale e Nazionale.

1840

Conservatori e Accademie

1845

Le conoscenze, competenze e abilità che non vengono considerate come necessarie al mercato del lavoro vengono poste ai margini di un dibattito mainstream a livello europeo che vede nel Vocational Education and Training (istruzione e formazione professionale) l’unica via di uscita dalla problematica della disoccupazione giovanile. Non è un caso che i percorsi formativi para-accademici come i conservatori e le accademie delle belle arti vengano definanziati e addirittura non considerati quando si parla di Istruzione e Formazione. In questi anni le riforme e i tagli lineari che hanno colpito scuole ed università hanno trasformato tuttavia radicalmente questi luoghi della cultura artistica che sono tradizionalmente un vanto italiano: si sono lasciate all'incuria le strutture, si è reso l'intero comparto AFAM una fucina di precarietà e si è reso più restrittivo e complesso l'accesso e il proseguimento delle carriere accademiche per gli studenti. La strutturazione in 2 livelli dei conservatori e la parificazione dei titoli alle lauree triennali e specialistiche da un lato hanno per esempio reso impossibile la frequentazione di corsi di strumento prima della fine degli studi superiori (l'introduzione dei licei musicali avrebbe dovuto supplire a ciò), dall'altro hanno creato rallentamenti e problemi di riconoscimento della carriera a tutti quegli studenti che si sono trovati a vivere a cavallo della riforma. Ciò che sicuramente le ultime dirigenze MIUR e tantissime amministrazioni d'istituto di accademie e conservatori hanno messo sotto scacco in questi anni è la democrazia: a livello d'istituto non rari sono i casi di ripetuti mancati rinnovi degli organi e ci si affida in tantissimi casi a gestioni autoritarie, e a livello centrale il CNAM (Consiglio Nazionale Alta Formazione Artistica e Musicale) è ad oggi vittima degli stessi processi ed occorre rivendicarne una celere rielezione.

1850

1855

1860

1865

1870

Compito della Rete della Conoscenza dovrà essere quello di interrogarsi sulle modalità di aggregazione e organizzazione di queste soggettività poste ai margini del dibattito sul tema dell’Istruzione, immaginando nuove forme di partecipazione che sappiano valorizzare le competenze artistiche e musicali di tali studenti. Centrale, però, sarà anche strutturare un’analisi completa sul funzionamento delle Accademie e dei Conservatori, sul loro stato di privatizzazione, su quali diritti si possono rivendicare, su quali tutele costruire. Investire politicamente in questi processi a livello nazionale e territoriale è centrale per dare completezza e spazio a quelle intuizioni per cui la Rete della Conoscenza nasce e su cui finora non è riuscita a lavorare con continuità.

1875

1880

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico

1885

Tesi 12.2 – Tra formazione e lavoro: apprendistato, praticantato, tirocini, specializzazioni e dottorati Apprendistato

1890

1895

1900

1905

1910

1915

Alla stessa maniera, gli obiettivi formativi presenti nei percorsi di formazione-lavoro (ad es. quelli regolamentati dal contratto di apprendistato) stanno per essere pesantemente intensificati, in particolare con l’eliminazione dell’obbligo per l’azienda di formulare il c.d. “piano formativo individuale”. Di fatto l'apprendistato diventa un contratto come un altro senza obiettivo chiaro di formazione, snaturando la ratio stessa della forma contrattuale dell’apprendistato. Viene ribadita la necessità di un 35% di ore di formazione sul totale del monte ore di la voro, dopodiché se le ore di lavoro sono poche saranno pochissime quelle di formazione. In più non c’è più l’obbligo di integrare la formazione svolta in azienda con una forma zione pubblica extra aziendale. Tale cambio incide ancora di più sulla vita degli apprendisti visto il D.l. 34/14 modifica la Legge 92 del 2012 che imponeva alle aziende di assumere il 30% degli apprendisti, tale percentuale viene cancellata, così l'azienda non ha nessun obbligo di assumere a tempo indeterminato gli apprendisti. L’apprendista si ritroverà a dover cercare un nuovo lavoro con competenze e conoscenze che, magari, erano utili solo nel campo o nell’azienda in cui si è formato. Per quello che concerne l’apprendistato deve essere solo per chi ha compiuto i 18 anni e che non deve essere sostitutivo dei percorsi scolastici, riteniamo che si debba porre una percentuale del 75% di assunzioni alla fine del percorso. L’apprendistato, infatti, rischia di essere solo l’ennesimo contratto precario se le aziende non lo intendono come un investimento che non va disperso. Ribadiamo questo anche perché nell’apprendistato si impara una mansione specifica, non sempre utile al di fuori dell’azienda in cui si è appresa. Per questo le proposte del c.d. “Decreto Poletti” vanno totalmente respinte per immaginarsi invece forme di lavoro stabile e continuative e introdurre in Italia forme di tute le come l’estensione dei sussidi di disoccupazione e forme di Reddito Minimo Garantito. Praticanti

1920

1925

1930

Un esempio di soggetti ibridi con cui la nostra organizzazione è entrata in contatto a più riprese nel recente passato è stato quello dei praticanti. Tali soggetti hanno conseguito la laurea, ma non hanno la possibilità di esercitare la professione (ad esempio forense o di commercialista) senza lo svolgimento di 18 mesi di un percorso di praticantato presso uno studio legale o commercialista. Il periodo in questione è caratterizzato dall’assenza totale di una normativa che preveda diritti in materia retributiva, previdenziale o assicurativa. Questa assenza di diritti coinvolge migliaia di giovani privi di contratti di lavoro dopo aver terminato il percorso di studio accademico che dedicano, più o meno a tempo pieno, il loro tempo in studi di professionisti o in Scuole di specializzazione (esempio quelle forensi). La nostra organizzazione può senz’altro contribuire a rilanciare la lotta di questi sogget ti, se non tanto per l’inserimento formale degli stessi nell’area regolamentata dal Con tratto Collettivo nazionale di Studi professionali, certamente potrà farlo nell’ambito di

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico una rivendicazione più ampia sull’esigenza di vedere riconosciuto e retribuito il loro lavoro. Tale rivendicazione non è per nulla distante dall’azione già intrapresa negli ultimi due anni con Link nell’ambito della campagna “Con il contratto“, oppure dalle attività di pressione mediante social networking costruita nel luglio del 2013 (emendamenti al D.L. 69/13 c.d. “Decreto del Fare”) con i compagni e le compagne di Io Voglio Restare, visto che essa rappresenta il risvolto normale della nostra richiesta di approvare subito una convenzione quadro tra il CNF, la Conferenza nazionale dei Presidi di Giurisprudenza e il MIUR che consenta l’anticipo di 6 mesi di praticantato all’interno del percorso di studio. La convenzione e l’anticipo esistenti tutt’ora per gli studenti iscritti nei Dipartimenti di Economia che presentano un piano formativo in conformità con la Convenzione quadro stipulata tra il CNDCEC (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili) e il MIUR a seguito dell'approvazione della L. 1/12; essa consente l’eliminazione di parte dell’esame per l’abilitazione professionale.

1935

1940

1945

1950

Tirocini Formativi Abilitanti/ Percorsi Abilitanti Speciali SSIS, TFA, PAS: da anni il tema dell’assunzione dei docenti è oggetto di una normativa schizofrenica. Una normativa che ha avuto il ‘merito’ di produrre un precariato strutturale nel mondo della conoscenza. Attualmente il Tirocinio Formativo Attivo (TFA) ha sostituito la vecchia SSIS (sospesa dalla Legge Gelmini). Si tratta di un concorso a cattedra - senza la cattedra - bandito dal Ministero e poi gestito dai singoli Atenei, che abilita ma non colloca i nuovi insegnanti. Le tre prove, svoltesi tra luglio e ottobre del 2012, hanno selezionato circa 20.000 aspiranti docenti in tutta italiana, ne sono rimasti fuori 80.000. Questi 20.000 aspiranti docenti , pagando la cifra di 3.000 euro, hanno avuto la “fortuna” di accedere a tali corsi abilitanti, corsi che si sono rivelati del tutto inutili non for nendo competenze aggiuntive di pedagogia o di didattica disciplinare e che prevedevano, inoltre, 250 ore di tirocinio, troppe volte gratuito. Il dramma di questi aspiranti docenti è quello di essersi laureati, esserci abilitati (pagando il TFA) e di non avere alcuna prospettiva reale di assunzione. A questa schiera di pretendenti al posto dietro una cattedra, si aggiungono i quasi 70.000 docenti che a breve ultimeranno le iscrizioni al PAS (precedentemente nominato TFA speciale), corsi riservati, senza la tripla prova di selezione iniziale, a quegli insegnanti che tra il 1999 e il 2011 hanno ottenuto almeno tre anni di supplenze (anche nelle scuole paritarie e nei centri di formazione professionali) pur non avendo un'abilitazione. Gli aspiranti docenti continuano ad essere divisi in un gran numero di categorie, il tutto immerso in un sistema di graduatorie sovvertibile ad ogni cambio di governo. Compito della Rete della Conoscenza dovrà essere quello di interrogarsi su come rappresentare queste soggettività che caratterizzano il precariato della conoscenza, soggetti posti per anni in un limbo tra formazione e lavoro, privi di diritti e tutele.

1955

1960

1965

1970

1975

Dottorandi

1980

Un caso emblematico della situazione nazionale è quello dei dottorandi: il valore del loro titolo rappresenta una commistione fra studente e ricercatore/docente; questo, definito come più alto grado di titolo di studio all’interno dell’Università come dichiara to dal Processo di Bologna del 1999, rappresenta fonte di confusione riguardo al suo ruolo e da ciò deriva grande sfruttamento da parte del sistema universitario stesso. Per questo motivo il loro lavoro, nei casi di mancanza di borsa di studio, non è remunerato. Difatti è necessario a tal proposito eliminare le tasse per i non borsisti, creare una Carta

1985

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico

1990

1995

2000

2005

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dei Diritti dei Dottorandi, superare il precariato nella ricerca e valorizzare la figura del dottorato in aziende, imprese, scuole ed amministrazioni. È necessario, onde persecuzione di tali cambiamenti, proseguire una forte collaborazione, con L’ADI, nata dall’Onda, che ha avuto risvolti sempre positivi. In tal senso la Rete deve porre le basi per un coinvolgimento sempre maggiore di tale associazione, unendo le lotte riguardanti la chiusura di biblioteche, mancanza di fondi per le università e trasporti, per fare alcuni esempi. Condividere vertenze di lotta non comuni può essere un mezzo di crescita per ambedue le associazioni, che così riuscirebbero ad appoggiarsi vicendevolmente amplificando l’eco delle proprie rivendicazioni. I territori non si sono ancora mossi riguardo la cosiddetta alta formazione artistica dei Conservatori e delle accademie. I due luoghi hanno subito severi tagli al pari delle altre istituzioni di formazione e sconvolgimenti strutturali attraverso varie riforme. Avendo la Rete, come uno dei nodi focali, la difesa della cultura resta necessario muoversi in difesa di tali luoghi di apprendimento. Bisogna però fare un’analisi su quali siano i metodi di funzionamento di tali istituti, quale sia il rapporto con il privato, per poter capire quali possano essere le rivendicazioni da portare avanti come associazioni. Questi istituti sono stati valorizzati molto poco da noi in questi anni, nonostante la grande importanza che hanno all’interno del mondo studentesco. Nei prossimi mesi dovremo preme affinché venga data maggiore importanza al tema partendo necessariamente dai territori stessi. Medici Specializzandi

2015

2020

2025

Anche la situazione dei nuovi medici è critica. La vertenza degli specializzandi ha acceso i riflettori su un problema che tra l’altro rischia di portare al collasso l’intero sistema sanitario pubblico. A fronte di più di 7.000 laureati l’anno, il trend dei posti di specializzazione messi a disposizione dal MIUR è in costante discesa. Ciò configurerà, nel prossi mo decennio, una carenza di specialisti negli ospedali di circa 15.000 unità, con un enorme impatto sul già penalizzato sistema sanitario pubblico. Mancano i dati, però, dei professionisti rimasti fuori dalle specializzazioni negli anni passati, al netto degli emigrati (soprattutto verso la Francia) e di coloro che sono rien trati nel corso di formazione specifica in medicina generale. Senza una specializzazione, il futuro di questi medici resta comunque precario, non potendo lavorare nel SSN e non potendo aprire uno studio in proprio, lasciando in un limbo di incertezza persone sulle quali il sistema formativo italiano ha comunque investito decine di migliaia di euro. Si tratta di una situazione di precariato assolutamente nuova, che colpisce una fascia di persone che storicamente non ha mai avuto bisogno di una rappresentanza perché ritenuta, erroneamente, "garantita".

2030

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La sfida della Rete è testimoniata da una interlocuzione con FederSpecializzandi e da iniziative che connettono la vertenza sul numero chiuso e l’accesso alla professione medica anche in ragione della gigantesca crisi di organico del personale medico-sanitario. Provare a difendere i diritti degli specializzandi vuol dire anche non lasciare a soggetti politici come Comunione e Liberazione la problematica dell’enorme precarietà esistente nella sanità pubblica, essendo a cavallo tra la formazione universitaria classica e il mondo del lavoro e che, per questo, non può godere di quelle forme storiche di sindacato e protezione.

2040

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico

Tesi 13 – Praticare nel presente ciò che rivendichiamo per il futuro

2045

Mutualismo, aggregazione, riappropriazione nella pratica sindacale

La crisi economica e sociale scoppiata nel 2008 continua a dispiegare i propri effetti. Le politiche economiche di gestione della crisi, improntate a seguire la logica della stabilità, del rigore e dell'austerità, hanno progressivamente messo in discussione pezzi di welfare e aggravato le diseguaglianze sociali, rafforzando gli ostacoli di ordine economico che limitano nei fatti libertà e uguaglianza. Viviamo quotidianamente questo processo nei luoghi della formazione scolastica e universitaria, nelle relazioni costanti con un modello economico-sociale che offre a un'intera generazione un orizzonte precario e di incertezza sul futuro. Il nostro radicale rifiuto di questo stato di cose e la nostra azione politica devono pog giare non soltanto sulla capacità di costruire mobilitazioni e mettere in campo una vertenzialità diffusa e conflittuale tesa a rivendicare nuove forme di welfare e di redistri buzione. Risulta cruciale una riflessione ampia sul mutualismo che ne valorizzi il significato e il ruolo che può giocare in relazione agli obiettivi della nostra organizzazione. Se non possiamo permetterci di degenerare le pratiche mutualistiche in relazioni condizionate da paternalismo e assistenzialismo o di fraintendere l'obiettivo politico, da rivolgere sempre alla pressione sulle istituzioni per la risoluzione dei problemi sociali, al tempo stesso non dobbiamo cedere alle trasformazioni che queste pratiche hanno subito nel settore operaio e sindacale, sempre più orientato all'erogazione di servizi altamente qualitativi. La sfida che abbiamo di fronte è quella di riscoprire la forza e le potenziali tà delle esperienze solidaristiche insite negli scambi e nelle relazioni mutualistiche.

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È necessario ripartire dalla consapevolezza che la debolezza del singolo può essere arginata e talvolta ribaltata attraverso relazioni fra individui in grado di evidenziare la con divisione di bisogni comuni, la forza collettiva e gli strumenti per vincere le difficoltà. Dobbiamo andare oltre la mera erogazione di un servizio e proseguire sulla strada che ci ha visto costruire negli anni esperienze di scambio caratterizzate da un rapporto di reale reciprocità. Nel praticare relazioni di questo tipo è possibile promuovere un modello di socialità, di solidarietà e di rete sociale orizzontale opposto e antitetico all'individualismo imperante figlio del mantra neoliberista e delle sue leggi di mercato che abbiamo conosciuto a nostre spese negli ultimi trent'anni.

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Oggi il mutualismo per come lo abbiamo sempre inteso incontra problemi nuovi che vengono posti dal progresso tecnologico e dalla congiuntura particolare che stiamo attraversando. Abbiamo la necessità di interpretare lo spazio del mutualismo come laboratorio di sperimentazione e di innovazione delle pratiche. Oltre alle forme più consolidate di esperienza mutualistica, come il mercatino del libro usato o lo sportello su affitti e calcolo dell'ISEE, ci poniamo l'obiettivo di promuovere la circolazione di idee, informazioni e conoscenze, anche attraverso le possibilità di comunicazione e interazione garantite dalla rete, nell'ottica della condivisione e della tutela dei diritti d'autore in maniera alternativa al copyright. Inoltre, dobbiamo esplorare le situazioni che nella crisi economica risultano a maggior rischio di esclusione sociale e marginalizzazione: il successo nel nostro percorso di ri-attualizzazione del mutualismo passa anche dalla capacità di individuare pratiche e strumenti per affrontare questioni del genere, come le nuove forme di precarietà per l'abilitazione all'insegnamento (Tfa e Pas) e l'integrazione nel ciclo formativo dei migranti.

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico 2095

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Dobbiamo, infine, rafforzare il nesso profondo che salda il mutualismo con la nostra prospettiva sindacale e vertenziale. Le battaglie per il miglioramento della condizione dei soggetti in formazione hanno bisogno della coscienza diffusa dell'esistenza di settori in cui si percepiscono le pesanti conseguenze dovute all'intervento assente o insufficiente delle istituzioni. Al tempo stesso, tali battaglie traggono forza dalla consapevolezza della forza collettiva che possiamo esprimere come componente sociale: in un contesto di progressiva esclusione sociale da scuole e università, in un'Europa che vede le istituzioni rispondere più a equilibri finanziari e stringenti vincoli di bilancio piuttosto che ai biso gni della cittadinanza, questo elemento risulta centrale per qualificare e potenziare la nostra conflittualità sindacale.

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Proprio nel quadro e nella prospettiva descritti nel paragrafo precedente dobbiamo porci un tema fortemente innovativo, generatosi nelle pratiche conflittuali adottate sui territori per portare avanti battaglie e rivendicazioni sociali nell'ultimo autunno. Le occupazioni di case dello studente e mense svoltesi quest’anno sono in piena continuità politica con le prassi consolidate del mutualismo ma ne rappresentano un’innovazione dal punto di vista storico e pratico. Queste pratiche si inseriscono in un preciso contesto storico, segnato dal dominio delle politiche di austerity e dei vincoli di bilancio e di spesa ad esse collegate: come organizzazione dobbiamo porci il problema di come dare continuità alle nostre vertenze e mobilitazioni, costruendo presidi mutualistici formali ed informali che si pongono all’esterno delle logiche convenzionali dell’austerity. In questo senso, costruire spazi cittadini a tal scopo deve diventare una pratica consueta della Rete della Conoscenza per rispondere ad una doppia esigenza: accrescere innanzitutto la forza vertenziale, imponendo alla controparte nuovi rapporti di forza e dare d'altra parte risposte immediate e concrete. Inoltre queste pratiche, come il mutualismo nel suo complesso, non rinvigoriscono solamente la nostra forza contrattuale per riconquistare welfare, ma ridisegnano i contorni stessi del welfare che andiamo a rivendicare: un welfare che non sia la concessione dello stato visto come padre buono, ma welfare come complesso di servizi gestiti dal basso dalle comunità di “aventi diritto” e utenti. Con il mutualismo le buone pratiche dell'organizzazione non sostituiscono lo Stato inadempiente, ma attivano processi di partecipazione e co o autogestione delle risorse: con tali pratiche, come è stato fatto con il Referendum sull’acqua, abbiamo l'ambizione di disegnare un nuovo concetto di autonomia dei soggetti sociali, un diverso concetto di pubblico, un nuovo modo di vedere e rivitalizzare la democrazia. Per fare ciò serve, però, una cabina di regia che riesca da una parte a coordinare quello che già è presente sui territori, dall’altra a incentivare e dare gli strumenti per compie re una crescita costante sul fronte mutualistico e della riappropriazione di welfare e, con esso, di reddito e diritti.

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico

Tesi 14 – Un nuovo conflitto per la costruzione dell'alternativa

Ripensare l’azione politica tra attivazione individuale e inclusione collettiva 2145

La crisi nelle sue diverse dimensioni ha mutato nettamente e con una rapidità inedita le modalità di espressione del conflitto nel nostro Paese. Tale mutazione è assieme di tipo quantitativo e qualitativo, ed è necessario considerare entrambi questi aspetti per avere un quadro realistico della situazione. 2150

Se si considerassero solo gli aspetti quantitativi, infatti, si potrebbe giungere alla facile conclusione che in Italia il conflitto si è dispiegato con sempre maggiore intensità negli ultimi anni. Per citare un dato esemplificativo, tra il 2011 e il 2012 l’Autorità di garanzia per gli scioperi ha registrato un aumento del 5% delle agitazioni dei lavoratori, cifra che non tiene conto dei numerosi scioperi spontanei che hanno animato i luoghi di lavoro di tutta la Penisola. Tuttavia, è necessario notare come la morfologia del conflitto sia profondamente mutata in direzione di una maggiore frammentazione, segmentazione individualizzazione dello stesso: spesso scioperi e agitazioni nel mondo del lavoro sono relegate a singole aziende; le lotte contro le grandi opere e le devastazioni ambientali sono caratterizzate da una forte territorializzazione dagli esiti contraddittori; in scuole e università l’attivazione, soprattutto quella spontanea e autorganizzata, ha spesso durata temporale breve e si caratterizza su questioni di retroguardia, come problemi legati a inefficienze amministrative. Nello scorso autunno le lotte più radicate e radicali hanno coinvolto segmenti ben identificati della popolazione, come i migranti. La propensione a livelli di conflittualità più alti sembra andare di pari passo con modalità di attivazione non tradizionali e spesso individuali, come nel caso del Movimento dei Forconi a Torino.

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E’ possibile coniugare la dimensione collettiva che è propria della politica con momenti di attivazione individuale? E’ possibile immaginare altre modalità di conflitto che prevedano l'aumento della radicalità senza dover cercare lo scontro frontale, ‘militarizzato’ e testimoniale con l’apparato repressivo dello Stato?

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Non è più possibile applicare schemi di lettura, anche strategica, di quanto si muove nel nostro Paese, senza individuare un assunto fondamentale: rispetto alla questione cruciale dell’organizzazione del conflitto, siamo ormai usciti dalla fase espansiva attraversata dal movimento studentesco dal 2008 al 2011. In quella fase la “pratica dell’obiettivo” e la “costruzione del consenso” erano i cardini sui quali orientare la riflessione sul ‘che fare’. Oggi forse è necessario compiere un supplemento di riflessione sul tema dell’attivazione e dell’inclusione nei processi di costruzione del conflitto.

2175

I tentativi che i movimenti sociali hanno praticato per allargare il raggio di azione della conflittualità e quindi per provare a produrre conflittualità generale hanno prodotto risultati prevalentemente nella sfera comunicativa, risultati marginali e manchevoli di continuità. Il paradigma dell'”indignazione” nella sua articolazione iperpopulista sviluppatasi in Italia, così come quello dell'”assedio”, si sono dimostrati in questi anni fortemente manchevoli. Questo si è spesso sostanziato in una retorica ininfluente, sia nella generazione di processi realmente incisivi dal punto di vista materiale, sia nell'obiettivo di dare una continuità e una progettualità politica all'opposizione sociale.

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V Assemblea Nazionale della Rete della Conoscenza – Documento Politico

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L’attualità delle domande di cui sopra è dunque determinata da un lato dalla crisi nella sua dimensione sociale, nella cancellazione di ogni segno di autoriconoscimento collettivo, categoriale e o di ‘classe’ (anche a causa dell'alfabetizzazione debole), e nella contestuale crisi dei corpi intermedi della società; dall’altro dalla crisi nella sua dimensione istituzionale, con la mutazione delle forme di governance che di fatto svuota gli Stati nazionali di molte delle loro funzioni, riducendoli spesso a strumenti esecutori delle misure di austerità configurate in maniera antidemocratica a livello europeo.

La sfida che ci si pone è nell’avvicinamento della sfera collettiva ai bisogni individuali: è necessario assumere la centralità dello sviluppo degli interessi e delle conoscenze dell’individuo, quadrando questi in una prospettiva cooperativa e collaborativa. Dobbiamo dotarci di strumenti in grado di valorizzare l’individualità, nella prospettiva di metterla al servizio della pratica dell’obbiettivo collettivo, il nodo sta nell’immaginare strumenti collettivi capaci di integrare e valorizzare le capacità di ogni individuo. In questo contesto di crisi pratiche come la disobbedienza civile, il boicottaggio e la contestazione possono essere strategiche per la ricostruzione di un conflitto sociale diffuso e vincente. È necessario ripensare anche al senso politico dei momenti di astensione dalle attività formative nelle scuole e nelle università: sono semplici atti funzionali alla partecipazione a manifestazioni, cortei, presidi, assemblee, occupazioni etc. oppure si configurano in maniera più complessa come ‘scioperi’ della formazione, dove al significato fordista dello sciopero come blocco della produzione si sostituisce lo ‘sciopero alla rovescia’? ‘Boicottando’ il sistema tradizionale di trasmissione dei saperi è infatti possibile produrre spazi e momenti autogestiti di pratica dei saperi alternativi, sia nei contenuti che nelle modalità di produzione e condivisione. La prospettiva è dunque nell’intreccio di pratiche storiche come il conflitto e il mutualismo. Un conflitto frammentato nei luoghi, nei tempi e nella composizione sociale rischia di involvere nella testimonianza e nella sostanziale inefficacia. Raccogliere la sfida della radicalità oggi significa ragionare oltre categorie dicotomiche come violenza/non violenza, personale/collettivo, massa/avanguardia per sperimentare pratiche virtuose di attivazione, di connessione tra le lotte territoriali, di durevolezza nel tempo e di autonarrazione.

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La storia del principio e della fine Già da tempo il ieri era diventato vecchio e stava solo in un angolo del mondo. Da tempo ormai i più grandi dei, quelli che hanno creato il mondo, i primi, erano rimasti addormentati. Si erano stancati molto di ballare o di percorrere strade o di farsi domande. Perciò erano rimasti addormentati i primi dei. Avevano già parlato con le donne e gli uomini autentici ed erano fra tutti giunti all'accordo che si doveva continuare a camminare. Perché è camminando che il mondo vive, così avevano detto i più grandi dei, quelli che hanno creato il mondo, i primi. - Fino a quando continueremo a camminare? - si domandarono gli uomini e le donne di mais. - Quando ricominciamo di nuovo? - si risposero le donne e gli uomini autentici perché così avevano appreso dai primi dei, che a una domanda si risponde sempre con un'altra domanda.

Dalla terra sono nati Però alla fine i primi dei si svegliarono. Perché i più grandi dei, quelli che crearono il mondo, non possono restare addormentati quando sentono una domanda e allora si svegliarono e si misero a suonare la marimba e composero una canzone con le domande e ballavano e cantavano: "Fino a quando continueremo a camminare? Quando ricominciamo di nuovo?". E sarebbero ancora lì, a ballare e a cantare, se non che le donne e gli uomini autentici si irritarono e dissero loro che era stato bello il ballare e il cantare ma che volevano risposte alle loro domande e allora i primi dei si fecero seri e dissero: - Fanno domande gli uomini e le donne che abbiamo fatto di mais. Non ci sono venuti molto saggi questi uomini e queste donne. Cercano la risposta fuori, senza rendersi conto che ce l'hanno dietro e davanti. Non molto saggi sono questi uomini e queste donne, sono come una pannocchia acerba - dissero i primi dei e dai che iniziarono di nuovo a ballare e a cantare e ancora una volta le donne e gli uomini autentici si indispettirono: va bene prenderli in giro, ma com'è che la risposta ce l'hanno davanti e dietro e i primi dei risposero che alle spalle e nello sguardo ci sono le risposte e gli uomini e le donne di mais si guardarono tra loro e tutti sapevano di non capire niente, però restarono zitti e i più grandi dei dissero loro: - Dalla schiena hanno avuto inizio gli uomini e le donne di mais perché sono nati sdraiati e sono nati dalla terra, dato che sono di mais. Sulla schiena hanno iniziato a muoversi. La loro schiena resta sempre dietro al loro passo o al loro restare fermi. La loro schiena è l'inizio, il ieri del loro passo. E le donne e gli uomini autentici non capirono molto però come l'inizio fosse già cominciato e il ieri fosse già passato, ma non si preoccuparono di ciò e ripeterono: - Fino a quando continueremo a camminare? - Questo è più facile da sapere - dissero gli dei che crearono il mondo -. Quando il vostro sguardo potrà guardare alle vostre spalle. Basta che camminiate in circolo, fino a fare un giro e raggiungere voi stessi. Quando avrete camminato abbastanza e sarete riusciti a guardarvi alle spalle, benché da lontano, allora avrete finito, fratellini e sorelline - dissero i primi dei mentre cominciavano già ad addormentarsi. E le donne e gli uomini autentici furono molto contenti perché ormai sapevano che dovevano solo camminare in circolo fino a riuscire a guardarsi alle spalle. E trascorsero un po' di tempo così, camminando per raggiungere la loro schiena, poi si sono fermati un momento a pensare perché non smettevano di camminare e si dissero: - Costa molto raggiungere l'inizio per arrivare alla fine. Non si smette mai di camminare e si prova molto dolore nel pensare a quando arriveremo all'inizio per dare termine al nostro passo -. E alcuni e alcune si scoraggiarono e così si sedettero, annoiati perché il cammino verso l'inizio per arrivare alla fine non terminava mai.

Saluto di addio del Vecchio Antonio Però altri e altre continuarono a camminare molto volentieri e smisero di pensare solo a quando


sarebbero arrivati all'inizio per raggiungere la fine e invece si misero a pensare al cammino che stavano compiendo e, siccome era in circolo, ad ogni giro volevano compierlo meglio e ogni volta che giravano, dato che il passo riusciva meglio, erano sempre più contenti e tanta contentezza dava loro il camminare che un bel po' camminarono e, senza smettere di camminare, si dissero: - E' allegro questo cammino che siamo, camminiamo per fare migliore il cammino. Siamo il cammino perché altri camminino da una parte all'altra. Per tutti c'è un principio e una fine nel proprio cammino, per il cammino no, per noi no. Per tutti tutto, niente per noi. Siamo il cammino, dobbiamo proseguire. E per non dimenticarsi, disegnarono un circolo per terra e camminando in cerchio percorrevano e percorrono tutto il mondo, gli uomini e le donne autentici. Non finiscono né esauriscono la propria lotta per migliorare il cammino, per migliorarsi. Per questo gli uomini hanno creduto che il mondo fosse rotondo, però così è questa palla che è il mondo: non è altro che la lotta e il cammino delle donne e degli uomini autentici, che continuano a camminare e vogliono sempre che il cammino riesca meglio dei passi che lo percorrono. Camminando sempre, non c'è né inizio né fine nella loro camminata. Né possono stancarsi le donne e gli uomini autentici. Vogliono sempre raggiungere se stessi, sorprendendosi nel cercare alle spalle l'inizio e così arrivando alla fine del loro cammino. Però non lo troveranno, lo sanno e non importa loro. L'unica cosa che importa loro è di essere un buon cammino che cerca sempre di essere migliore... Tace il Vecchio Antonio, però la pioggia no. Io gli stavo per chiedere quando sarebbe finita questa pioggia, però sembra che l'ambiente non sia propizio alle domande su inizi e fini. Saluto il Vecchio Antonio e me ne vado. Esco nella pioggia e nella notte, anche se le batterie nuove della mia pila non riescono a distinguere l'una dall'altra. Il rumore dei miei stivali nel fango mi impedisce di ascoltare le parole di addio del Vecchio Antonio: - Non stancarti domandando quando finirà il tuo cammino. Lì, dove il domani e il ieri si uniscono, lì finirà... Mi è costato molto iniziare a camminare, sapevo che sarei scivolato nel fango più avanti, però, pur sapendolo, dovevo camminare verso questa caduta. Questa e le altre che seguiranno. Perché camminare è anche inciamparsi e cadere. E questo non me lo ha insegnato il Vecchio Antonio, me lo insegnò la montagna e, credetemi, l'esame non è stato per niente facile.



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