Recycland

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Recycland

Recycland è il quarto volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. La ricerca è fondata sulla volontà di far cortocircuitare il dibattito scientifico e le richieste concrete di nuove direzioni del costruire, di palesare i nessi tra le strategie di ridefinizione dell'esistente e gli indirizzi della teoria, di guardare al progetto quale volano culturale dei territori.

recycland

Recycland fonde due questioni: la prima insiste sulla revisione del progetto a fronte della crisi della modernità e del conseguente dialogo del progetto stesso con termini e concetti quali re-cycle o new cycle e con gli universi economici e biologici da cui derivano i due termini, la seconda investe la terra, il nuovo terreno di riferimento del progetto o meglio come questo oggi non possa prescindere dal waste che il precedente ciclo ha lasciato sul campo. Postproduzioni ed altri cicli oltre la crisi della modernità e per un nuovo metabolismo urbano sono le due tracce che, a partire dalla revisione degli strumenti dell’architettura e dell’urbanistica e dall’osservazione delle macerie che caratterizzano il paesaggio contemporaneo, direzionano lo sguardo verso la definizione e la necessità di un pensiero per la città futura.

isbn

978-88-548-6270-8

Aracne

euro 24,00

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RECYCLAND

A CURA DI SARA MARINI VINCENZA SANTANGELO

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Progetto grafico di Sara Marini e Vincenza Santangelo Copyright © MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978-88-548-6270-8 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: settembre 2013

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PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università IUAV di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Università degli Studi di Napoli “Federico II” Università degli Studi di Palermo Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino

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INDICE

INTRODUZIONE Recycland

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POSTPRODUZIONI ED ALTRI CICLI OLTRE LA CRISI DELLA MODERNITÀ Post-produzioni. O del problema della scelta Sara Marini

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Déjà vu: ovvero il pericoloso riciclo del perduto Alberto Bertagna

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Progettare l’amnesia Giovanni Corbellini

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Il ciclo dell’architettura Gabriele Mastrigli

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La post-produzione in architettura Orazio Carpenzano

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Il riciclo dell’evento Umberto Cao

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A partire da quel che resta. Riciclare frammenti d’architettura Giulia Menzietti

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Recycle come atto politico. Un processo condiviso di attivismo sensibile Raffaella Fagnoni

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Life cycle thinking Massimo Angrilli

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Il riciclo in approccio “life-cycle” Adriana Del Borghi, Carlo Strazza

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Architettura digitale partecipata Andrea Vian

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Il rosso e il nero. Territorio come processo e spazio come soggetto Irene Guida

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Emblematica del riciclo: suoli, tessuti e manufatti produttivi Andrea Gritti, Marco Bovati

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Tra rovina e soglia. Ipotesi di up-cycling dei paesaggi industriali residuali Fabrizio Zanni

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Fatti per non durare Luigi Coccia

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Au Bon Marchè Marco D’Annuntiis

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Ri-ciclo immateriale. *li Uf±ci Tecnici delle aziende italiane Vincenza Santangelo

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PER UN NUOVO METABOLISMO URBANO No waste Rosario Pavia

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Riciclo paesaggio Gianni Celestini

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Re-cycling in the garden. Note a margine della ricerca Re-cycle Italy Luigi Latini

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Piani±care per nuovi cicli di vita territoriali. &onsiderazioni preliminari Ignazio Vinci

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=ero consumo di suolo: prime ri²essioni sul re-cycle Valeria Scavone

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Acqua, uomo e territorio: un rapporto da ripensare Gianfranco Becciu, Carlotta Lamera, Anita Raimondi, Umberto Sanfilippo

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Annotazioni sul restauro ²uviale Vittorio Amadio

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Il territorio retrostante Giambattista Reale

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Realismo e riciclo. Ri-abitare i paesaggi dell’abbandono Francesca Pignatelli

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Re-landscape: la rigenerazione dei paesaggi di margine Daniele Ronsivalle

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Territori fragili, territori duttili Stefania Camplone

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“Diversità” come risorsa per i sistemi umani e territoriali “fragili” Giuseppe Di Bucchianico

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Il branding per abilitare i territori fragili Stefano Picciani

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Orditure del “terzo spazio”. Riuso delle aree produttive agricole: premesse per la ricerca Paola Misino

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Un paesaggio agricolo per la città diffusa. Indirizzi di ricerca Andrea Bruschi

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Disegnare la città del futuro Piero Orlandi

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RECYCLAND

Recycland fonde due questioni: la prima insiste sulla revisione del progetto a fronte della crisi della modernità e del conseguete dialogo del progetto stesso con termini e concetti quali re-cycle o new cycle e con gli universi economici e biologici da cui derivano i due termini, la seconda investe la terra, il nuovo terreno di riferimento del progetto o meglio come questo oggi non possa prescindere dal waste che il precedente ciclo ha lasciato sul campo. Postproduzioni ed altri cicli oltre la crisi della modernità e per un nuovo metabolismo urbano sono le due tracce che a partire dalla revisione degli strumenti dell’architettura e dell’urbanistica e dall’osservazione delle macerie che caratterizzano il paesaggio contemporaneo direzionano lo sguardo verso la definizione e la necessità di un pensiero per la città futura.

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POSTPRODUZIONI ED ALTRI CICLI OLTRE LA CRISI DELLA MODERNITÀ

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Sissi Cesira Roselli, Instaproject, Brescia 2012

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POST-PRODUZIONI O DEL PROBLEMA DELLA SCELTA Sara Marini >IUAV

Il termine “post-produzione” connota oggi sia i territori europei, dopo il fordismo e il post-fordismo si assiste alla “rinuncia” a produrre prodotti concreti, sia l’idea di progetto, progettare non è più sufficiente: a seguito della realizzazione di una o più opere servono interventi altri, altre sovrascritture. Come nella prassi cinematografica, raramente la presa diretta esaurisce il momento di formalizzazione di un film: è necessario applicare un complesso di operazioni – raccolte appunto nel termine “post-produzione” – quali il doppiaggio, il montaggio, il missaggio che seguono la fase delle riprese e precedono la commercializzazione. Importare il termine “post-produzione” nel dizionario architettonico e urbanistico implica rivedere il processo progettuale alla luce di una sua estensione o di una rinnovata attenzione a tutto il suo arco di sviluppo. Sostengono questa direzione il fallimento evidente di una mera associazione architettura e ciclo unico di sua definizione e la necessità, altrettanto chiara, di iniettare, spesso a posteriori attraverso un ciclo successivo, connotati culturali a quelle che appaiono sulla scena come banali operazioni speculative. L’estensione del progetto a fasi di revisione post, il moltiplicarsi delle strategie e il loro articolarsi in base alle diverse fasi di modificazione del “materiale”, l’appello

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a termini quali “curatela” – come possibile sostituto di “progetto” –, piuttosto che l’evidente necessità di ragionare sugli strumenti di produzione dell’architettura, della città, del territorio prima di definire nuove realtà sono segnali che convergono a disegnare un nuovo mondo, un mondo che probabilmente è già. Post-produzioni “Postproduzione” e “riciclaggio” s’incontrano nell’ammissione che il mero processo di produzione, di presa diretta non è sufficiente a dare senso al progetto. S’incontrano quindi in un territorio lessicale e procedurale comune cicli di progettazione di varia natura, dinamiche fisiche e biologiche. L’inorganico e l’organico sono sospinti in condizioni di convivenza, come già raccontava il padiglione tedesco nella Biennale di Venezia del 2006 mettendo in mostra un mondo vegetale tenuto in vita artificialmente o, attuando un controcampo, una vita artificiale che si nutre di dinamiche ed energie naturali. “Riciclare” implica la moltiplicazione dell’utilizzo dell’oggetto, la sua aspirazione ad una sorta di ossessiva possibilità di recupero perenne attraverso la ripetizione di una sequenza fissa di eventi o l’istituzione di diversi processi. Se la produzione ex-novo è costretta a seguire un tracciato obbligato in cui i singoli materiali convergono alla definizione del prodotto finale, una successione di operazioni e passaggi che conduce l’insieme bruto dei materiali alla configurazione finale, ovvero all’affermazione dell’utilitas, le strategie di riciclaggio si attestano sulle diverse fasi, si declinano a mettere a nudo il processo stesso. È possibile schematizzare il ciclo produttivo nei seguenti momenti: la preproduzione che termina con la definizione delle materie prime necessarie all’attivazione del processo, la produzione che si conclude con la definizione del prodotto, l’utilizzo che si chiude con la dismissione dell’oggetto e infine lo stadio in cui ciò che resta del progetto versa in condizioni di abbandono. Upcycle, hypercycle, subcycle e from cradle to cradle sono solo alcune delle possibili procedure – su cui si concentra una bibliografia multidisciplinare – che ragionano su precise fasi del ciclo di vita del prodotto. L’architetto William McDonough e il chimico Michael Braungart dopo il fortunato libro &radle to &radle: Remaking the :ay :e Make Things (North Point Press, New York 2002) scrivono nel 2013 The Upcycle: Beyond Sustainability. Designing for Abundance (North Point Press, New York 2013) ribadendo così la necessità di riconfigurare gli strumenti e il lessico della

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trasformazione continua della materia. L’upcycle sottende la costruzione di un nuovo ciclo di vita a partire dall’oggetto che ha concluso la sua precedente “missione”, quella che ne ha dettato la produzione, l’azione è quindi tesa a restituire un nuova qualità, un ulteriore senso a ciò che versa in condizioni di inutilizzo. L’hypercycle investe la fase di produzione e presuppone l’immissione nella stessa di uno o più cicli di vita, come sottolineato nel testo The Hypercycle: A principle of natural self-organization (di Eigen M. e Schuster P., Springer, Berlin 1979), la procedura nasce da principi di fisica prefigurando punti di contatto tra produzione e organizzazioni proprie alla natura. Il subcycle agisce nella fase di utilizzo, l’obiettivo non è il miglioramento delle capacità del materiale ma l’esplorazione delle possibilità date dal suo sotto-utilizzo per costruire diversi significati o nuove economie (si veda a questo proposito Wheelwright S. C., Managing New Product and Process Development, Simon and Schuster, New York 2010). Infine lo slogan di un possibile passaggio da culla a culla, dell’istituzione di un moto perpetuo del ciclo produttivo presupporrebbe un'ideale sconfitta dell’entropia, dispersione di energia sottesa alla modifica della materia. Molte altre azioni simili sono ipotizzabili a partire dai presupposti che il progetto investa il processo e il suo fluire, da qui si ha una sostanziale modifica del prodotto, e che città e territorio non possano evitare di restituire le conseguenze fisiche del processo stesso e delle sue alterazioni. Come recita il titolo, e non solo, del testo di Nicolas Borriaud Postproduction: &ulture as Screenplay: How Art Reprograms the :orld (Sternberg Press, Berlin 2002) la questione oltrepassa i meri problemi di mercato, le risposte insistono su un’ulteriore compromissione: l’arte si fa vettore della produzione e trasmette dispositivi propri a meri passaggi logici e consequenziali. Traiettorie Nella letteratura tre traiettorie insistono sul solco della revisione dei processi: i paesaggi dell’abbandono, il riciclaggio dell’esistente e la città e il suo metabolismo. Queste tre tracce, spesso tangenti e a volte in parte coincidenti, mettono insieme le due nature del termine “post-produzione”: si guarda ai “rifiuti” presenti nei territori – spazi, architetture, infrastrutture inabitati, abbandonati, mai utilizzati – quali brandelli di senso che chiedono un ripensamento del progetto che li ha generati; gli stessi frammenti si offrono quale “materia prima” da riciclare; una nuova metafora biologica

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vorrebbe che la città sviluppasse una capacità di autorigenerazione, che il ciclo produttivo virtuosamente fosse un cerchio perfetto in cui lo scarto si autotrasforma in nuova vita. Le interpretazioni e le visioni non sono tutte convergenti: nel suo libro :asting Aways Kevin Lynch narrava, con una sorta di favola nera dal sapore ballardiano, un mondo senza spazzatura in cui utilità perenne e pulizia si affermano quali nuove regole perentorie per la “gestione” e il disegno del mondo. Il paesaggio letterario si articola sommariamente in due grandi campi: il primo strutturato negli anni settanta del secolo precedente, il secondo a ridosso della nuova crisi ecologica ed economica. Se i due tempi disegnano paesaggi simili – teorie da concetti nomadi e di ritorno, come testimoniato ad esempio dall’imbarazzante “somiglianza” tra le &olline di spazzatura per la città di pianura disegnate dagli Archizoom nel 1969 e il Landscape :aste descritto con strumenti digitali nel testo Meta&ity Datatown pubblicato nel 1999 dal gruppo olandese MVRDV – le differenze restano sostanziali. Una delle maggiori distanze tra i due paesaggi letterari e progettuali è l’assenza nel contemporaneo di immaginario, è l’incapacità di costruire nuovi mondi a partire dallo scarto, incapacità dettata dall’interpretazione sostanzialmente scientifica, tecnologica ed ecologica, del “nuovo materiale” con il quale si progetta e dal suo dilagare senza sosta, dalla sua concretezza che sembra addomesticare interpretazioni oltre il reale. Il problema della scelta Il paesaggio dell’abbandono ha prima intaccato nervi vitali della città quali i grandi insediamenti industriali, facendo però al tempo stesso presupporre modalità di produzione meno inquinanti, poi ancora i luoghi del lavoro sparsi nel territorio, ma qui non si è fermato: procede ora a nuove e vecchie abitazioni, attività commerciali, spazi d’uso quotidiano. Il paesaggio dell’abbandono sembra voler coincidere con il paesaggio ordinario, con quei luoghi che offrono le funzioni primarie della città: se fino a pochissimi anni fa le seconde case si trasformavano in luoghi per nuove realtà abitative o lavorative oggi sono solo e semplicemente in vendita, la città è in ferie non solo nei luoghi della vacanza, si tratta infatti di una vacanza congenita. Il tutto annuncia una trasformazione radicale, che prescinde da possibili riprese economiche, appunto un nuovo mondo che forse è già, un mondo nel quale il progetto non coincide più e soltanto con il segno più, con un

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incremento di cubatura, ma, a monte, torna a coincidere con una scelta. Si tratta di scegliere cosa salvare, su cosa investire, da quale brandello partire per scrivere un’altra storia, diffusamente si tratta di indicare cosa togliere, cosa perdere. L’opera di Bas Jan Ader e i dipinti Founding ceremony e The Death of Marat di Yue Minijun – esposti, probabilmente non a caso, in contemporanea nel 2013 il primo al MAMbo di Bologna e le tele del pittore cinese alla Fondation Cartier di Parigi – investono sulla definizione di un’estetica della sparizione (all’Esthétique de la disparition Paul Virilio dedica un libro pubblicato nel 1989, Editions Galilées, Paris). Bas Jan Ader progetta e mette in atto scomparse, fino alla propria in mare (In search of the miraculous), concentrandosi in quasi tutta la propria produzione su assenze e sottrazioni. Yue Minijun ci offre la possibilità di guardare alla scena che narra la Storia senza i suoi principali protagonisti: Mao e Marat sono cancellati dalle tele originali, lo sfondo è chiamato a riorganizzarsi a partire dalla loro sparizione. La scelta che attende il progetto potrebbe appunto non coincidere più e soltanto con incrementi di quantità ma con la sfida di affermarsi confermando o agendo attraverso demolizioni. Sembra paradossale ma l’assenza di Marat, del principale protagonista, libera il paesaggio. Il progetto è doppio: è decidere cosa cancellare, è offrire la propria presenza in forma di cavità.

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Giorgio Bombieri, Genova, 2011

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DÉJÀ VU: OVVERO IL PERICOLOSO RICICLO DEL PERDUTO Alberto Bertagna >UNIGE

Un incidente misterioso. Un uomo costretto a ricostruire se stesso. Due fasi di ricomposizione della sua “normalità”: una lenta riabilitazione fondata sulla comprensione della meccanica dei movimenti; il tentativo di restituire loro naturalità e fluidità. Un indennizzo milionario che consente all’uomo la sua ricerca di verità: nei gesti, nelle parole. Questa la trama del romanzo d’esordio di Tom McCarthy, Déjà vu, trama che al di là del proprio dispiegarsi può dire qualcosa di utile per quanto qui si intende affermare. “Dopo l’incidente (...) ho dovuto imparare a muovermi. La parte del cervello che controlla le funzioni motorie del lato destro del corpo si era danneggiata. Aveva subìto danni irreparabili, quindi il fisioterapista doveva procedere a una sorta di rigermogliazione neuronale che chiamava “reinstradamento”. Il reinstradamento è proprio quello che suggerisce il termine: trovare una nuova strada nel cervello per far passare i comandi. (...) Il fisioterapista doveva instradare il segnale che trasmette i comandi agli arti e ai muscoli lungo un’altra parte del cervello: una parte inutilizzata, infruttuosa (...).” Esiste certo una semplice trasposizione possibile, fra l’attraversato del

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protagonista e ciò che il riciclo deve compiere per la "rigermogliazione" delle parti di città che hanno perso funzionalità: un collegamento deve essere ripristinato. Come il cervello nel romanzo, il riciclo deve trovare vie per veicolare nuovi comandi, nuovi significati o nuovi eventi in un tessuto senza alcun ricordo di sé, immemore della propria capacità. Ma questa è la prima fase della ricostruzione del proprio io che cerca l’uomo del romanzo, quella in qualche modo “istituzionalizzata” dalle procedure mediche; così come quella accennata è la via più scontata del riciclo: la tattica immaginabile con più facilità o immediatezza. Il protagonista di Déjà vu, ufficialmente “guarito”, o almeno riconsegnato alla porta del mondo attivo, avverte però una sorta di irrealtà nei propri movimenti (“Da quando avevo reimparato a muovermi, mi ero sentito come se tutte le mie azioni fossero doppioni, artificiose, acquisite a posteriori”), quasi non fossero, i propri come gli altrui, quelli che rileva nella sua nuova quotidianità come quelli che – scopre ora – compiva prima dell’incidente, per nulla diversi dai gesti e dagli atti che la terapia gli imponeva durante la rieducazione. Esiste, dice, una sorta di imperfezione che ordina ogni azione umana, rendendola per nulla spontanea: dunque in definitiva falsa, irreale. Un pensiero, un ab origine; consuetudini, o ragioni, che traducono ogni azione in contraffazione, sviluppando un sintetico continuo. Tutto è pre-costituito, mediato, niente è davvero libero. Solo un attore come De Niro, seppur proprio nella finzione cinematografica, riesce ad essere disinvolto nei movimenti: “Non ci deve pensare, non deve capirli prima.” Ecco allora il vero corpo del romanzo, che ne dispiega la trama fino all’epilogo: la ricerca di fluidità, la ricerca di naturalezza, di spontaneità, di semplicità che è sincerità, il progetto di un se stesso svincolato dal pensiero, dalla costruzione artata delle proprie azioni. Se la prima fase, quella costretta dall’iter terapeutico, è tutta rivolta alla costruzione di nuove connessioni, tra il cervello e gli arti e i muscoli; la seconda, post-ospedaliera, punta alla sconnessione, ad eliminare il non necessario all’autonomo dispiegarsi di un gesto. La progressiva incongruenza dal mondo del protagonista, il suo isolarsi all’interno della propria ricerca, dimentico dell’altro da sé, diventa, nelle reinterpretazioni, la sconnessione dell’istante rispetto al fluire del tempo: attimi ripetuti, e poi riavvolti, rallentati e infine fermati per riuscire a coglierne, nell’immobilità, nell’assenza di cambiamento, la verità. “Ormai ci muovevamo entrambi talmente piano che eravamo praticamen-

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te immobili. Restammo così per molto tempo; poi, continuando a tenere gli occhi ancorati a quelli della vecchietta (...) con molta attenzione spostai indietro il piede destro, salendo di un gradino. La vecchietta (...) arretrò lentamente la mano verso il sacchetto dell’immondizia. Muovendomi ancora in modo così lento da essere quasi impercettibile, cambiai di nuovo direzione e riportai giù il piede destro. Lei allontanò di nuovo la mano destra dal sacchetto, alla stessa velocità. Ripetei la sequenza, riavvolgendo all’indietro l’episodio sui cui ci eravamo soffermati, fino al punto subito prima del suo inizio; lei mi seguì. Lo rifacemmo varie volte; poi restammo perfettamente immobili, entrambi sospesi nel bel mezzo delle nostre due azioni separate. Restammo lì molto a lungo, a fissarci.” È un déjà vu lo spunto delle ricostruzioni milionarie – di ambienti, contesti, circostanze, situazioni – che l’uomo si concede per trovare la fluidità perduta o forse mai avuta: una crepa, riconosciuta un giorno nel muro di un bagno anche se non ricondotta a un dove e a un quando precisi. Dislocata rispetto al tempo e allo spazio originali, quella crepa riesce per un istante, perché già conosciuta, perché rivissuta, a produrre in lui distacco, e dunque scioltezza. Come inseguendo un bisogno fisiologico, il protagonista inizia a trovare allora una propria dimensione solo nella perenne ripetizione, che diviene motore di un annullamento del pensiero. “Il personale della ristorazione spingeva carrelli. Quand’ero in ospedale aspettavo sempre con ansia quel momento: l’arrivo del carrello. La conversazione con la persona che lo spinge è banale e si può dimenticare all’istante, ma va bene così, perché implica che si può ripetere la stessa conversazione qualche ora dopo, e l’indomani, e il giorno successivo (...).” È un continuo déjà vu la sua seconda cura, che diviene infine coazione a ripetere anche eventi non vissuti. Le reinterpretazioni diventano duplicazioni di cronache altrui di cui si appropria a posteriori, storie di cui conosce già lo sviluppo e che per questo possono essere praticate con disinvoltura, perfezione, autenticità. Ma nel momento in cui gli viene chiesto quando è riuscito davvero a sentirsi reale, il suo ricordo bypassa tutte le ricostruzioni, sia quelle “dal vero”, a scala reale, che quelle rivissute attraverso i perfetti modellini che le riproducevano, sorta di doppio del doppio. Il momento “reale” a cui ritorna con la mente, in cui scorreva tutto “naturalmente”, è quello in cui si è fermato davanti a una folla in movimento, assolutamente slegato dal

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contesto, estraneo al tempo che gli altri stavano vivendo, straniero rispetto allo spazio che gli era intorno, scollegato rispetto all’esterno ma (proprio per questo) connesso al proprio interno, integralmente presente: “Ero da solo: solo, ma circondato di persone. (...) Ero rimasto immobile, rivolto in direzione opposta rispetto alla loro (...) stare in quello spazio specifico, in quel preciso momento, con quello specifico rapporto con gli altri, con il mondo, mi aveva fatto sentire così sereno e così vivo che mi sentivo quasi reale.” Ma all’incalzare delle domande ricorda che non era effettivamente così sconnesso. Con le mani protese, i palmi rivolti verso l’alto, “Avevo cominciato a mormorare: Qualcosa per mangiare... Qualcosa per mangiare... Qualcosa per mangiare...”. Aveva iniziato a pretendere qualcosa: chiedeva soldi, senza peraltro averne bisogno, dato il suo nuovo status di milionario. Risiede qui quel qualcosa, cui si accennava, che pone alcune questioni rilevanti nell’affrontare il tema del riciclo quale processo di riattivazione di connessioni tra sistemi divergenti, siano essi la città e una sua parte dimenticata, o altro. Ma qual è questo qualcosa, atteso che una connessione deve esserci, una connessione che pure si realizzi attraverso la sconnessione? Atteso cioè che non è immaginabile un totale isolamento dell’oggetto di riciclo, di ciò che deve tornare ad essere. Del resto lo stesso protagonista del romanzo ricorda in questo episodio una qualche interrelazione, tra sé e il mondo. E se nell’inseguire questo ricordo, l’idea della richiesta, della pretesa di qualcosa di cui non ha bisogno, il libro procede verso l’ultima messa in scena, quella rapina in banca che avvia la tragica chiusura del dramma, qui forse è il caso di riavvolgere il nastro, e tornare a cercare altrove la fluidità che può offrire un déjà vu. Oggi il riciclo sembra ben più di un’opzione: per urgenze ecologiche, necessità economiche, o solo per praticità, se non ancora per consuetudine. Elevato a paradigma in un contesto – quale quello del nostro agire, che è anche lo stesso del romanzo – che fa del perduto un valore (la funzionalità perduta, la memoria perduta...), il riciclo diviene un tramite – un connettore e un facilitatore, per restare alle figure che l’uomo di McCarthy innalza al vertice della propria scala sociale – grazie al quale ricomporre un contemporaneo complesso, sconnesso, e in stallo. Il protagonista del romanzo ha bisogno di isolare le cose e di far sì che si ripeta all’infinito la stessa azione perché questa riesca ad essere vera, non artificiale, fluida cioè perfetta. Non sono solo repliche, quelle che realizza (rende reali), ma reinterpretazioni ipostatizzate, e dunque escluse dal

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continuo del tempo, fisse in se stesse: non devono pensare, non devono capire, non devono essere avvisate dell’intorno. La fluidità diviene questione di istintività, e dunque di velocità: le repliche rallentano sempre più. Non sono rimesse in scena di un perduto: il déjà vu non può essere una foto-ricordo. Sono la perfezione parcellizzata in istanti che, per paradosso presocratico, fermano e quindi formano la perfezione. Ma, al di là del romanzo, qual è il tempo del riciclo? Come deve collocarsi l’oggetto da riciclare rispetto al suo contorno? È immaginabile un allineamento di istanti successivi, tra il riciclato e la città? Sono possibili istanti slegati, più che tempi storici, come sistemi connettivi? Il riciclo chiede sempre una trasformazione. È nella logica del life cycle in fondo che si imposta. E ogni trasformazione prevede un passaggio, che logicamente fonda un “dopo” su un “prima”. Per quanto se ne discosti, per quanto lo dimentichi. Anche se non lo tiene presente, il passato di quel che diventa è lì. È lì, nell’atto stesso del riciclo, la sua storia; e forse si dovrebbe invece far pulizia della sua invadenza: «Il movimento che volevo fare era già al suo posto, mi dicevo. Dovevo solo eliminare tutta la roba estranea: gli arti e i nervi e i muscoli in eccedenza che non volevo muovere, i pezzi di spazio che non volevo far attraversare dalla mano o dal piede.» Il passo del protagonista – il movimento reiterato che scende le scale dell’edificio ricostruito e popolato di reinterpreti – avanza piano, torna indietro, riprende ad avanzare, sempre più piano. La velocità della vecchietta che incrocia rallenta parallela e trova con la sua un sincronismo. Fino a che il prima e il dopo perdono di significato, sono eliminati. Smarriscono il senso stesso di una cronologia. Non esiste più prima e dopo, quel che succede non ha connessioni con quel che precede: non si trova perfezione, o dannazione, nel ricordo di quel che è avvenuto, nel passo precedente. Tutto è lì, nell’attimo in cui i due sguardi si incrociano. È lì che il riciclo è reale, è lì che un già visto può aver senso: nell’istante fermato, esatto, preciso, perfetto, in cui due sguardi si incrociano. Due corpi, soli l’uno di fronte all’altro, liberi dalla memoria di quel che è stato: vivi senza pensare, vivi senza dover capire. Le citazioni sono tratte da Tom McCarthy, Déjà vu. Il romanzo dei ricordi perduti, Isbn, Milano 2013 (or. 2005).

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Giovanni Corbellini, “Nuovo” marciapiede in via D’Alviano a Gorizia, 2012. Le pietre conservano tracce della loro collocazione precedente

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PROGETTARE L’AMNESIA* Giovanni Corbellini >UNICAM [UNITS]

L’architettura da sempre reimmette in circolo temi, forme, idee, materiali, parti di edifici, interi fabbricati e strutture urbane in una incessante revisione di se stessa. Sembrerebbe quindi che il riciclo sia connaturato alla nostra disciplina e la sua importazione nel dibattito architettonico rappresenti da un lato la conferma di una vocazione intrinseca e dall’altro l’occasione per rinfrescare l’immagine di metodologie consolidate, accostandole a una pratica percepita come intrinsecamente “buona”, necessaria, ampiamente diffusa e comprensibile senza particolari mediazioni culturali anche da un vasto pubblico di non addetti ai lavori. Tuttavia, rispetto alle strategie “re-progettuali” elaborate all’interno della nostra disciplina e con le quali ci confrontiamo ogni giorno tanto nelle pratiche trasformative, quanto nella didattica e nella ricerca, il riciclo comporta una insospettata radicalità, sconosciuta ai più abituali approcci del recupero, riuso, riqualificazione, restauro, ecc. Spingendo l’analogia con i campi nei quali il concetto e i processi di riciclo si sono sviluppati, dalla valorizzazione degli scarti nelle economie povere alle produzioni industriali più avanzate, emergono infatti aspetti potenzialmente destabilizzanti e altrettanto stimolanti. Molto sinteticamente, si possono individuare due

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processi fondamentali di riciclo, assimilabili a una sorta di metempsicosi materiale. Quando vi è una valorizzazione verso forme di vita oggettuali più elevate, attraverso il reimpiego creativo e a basso dispendio energetico di scarti non rilavorati o con lavorazioni molto semplici, si parla generalmente di up-cycle. Una pratica che riguarda principalmente usi artigianali o spontanei, diffusi soprattutto nei paesi in via di sviluppo, ad esempio con la trasformazione di bottiglie in trappole per zanzare o dei bidoni di latta in strumenti musicali. In architettura è un fenomeno che ha attraversato recentemente i numerosi lavori basati su container e altri scarti industriali, proposti e realizzati tra gli altri da Lot/ek (una parte del loro sito web è dedicato proprio alla loro “Upcycle tecnology”), il Rural Studio (scuola estiva della Auburn University che compie vent’anni e che ha realizzato vari edifici usando i materiali più diversi), gli olandesi 2012 Architecten (la loro monografia si intitola appropriatamente Superuse) e vari altri. Più radicali, perché capaci di reimmettere in circolo oltre ai materiali la paura e il disgusto che l’azione dello scarto comporta, sono alcuni progetti di R&Sie, ad esempio il museo di arte contemporanea di Bangkok drappeggiato esternamente da una sorta di sudario in rete metallica caricata elettrostaticamente, in grado di attirare le polveri dello smog, costruire in questo modo un rivestimento di un grigio perfettamente “contestuale” e pulire l’aria nell’immediato intorno. Altro approccio, viceversa, vi è quando si reinseriscono nelle sequenze produttive semilavorati grezzi ricavati da scarti o materie esauste, disponibili a impieghi industriali diversificati, come nei cicli di plastiche, carta, vetro e metalli. L’alta domanda energetica e il processo entropico di degrado che molti materiali subiscono nello loro caratteristiche tecniche in seguito ai cicli di riutilizzo fa sì che si parli, in questo caso, di down-cycle: in termini architettonici, un subciclo classico è il mattone che diventa cocciopesto. In entrambe le circostanze (e anche nel “lavaggio” del denaro operato dalla criminalità organizzata) il valore dei materiali riciclati dipende da un rapporto con la memoria completamente diverso dalle strategie re-architettoniche sopra richiamate. Queste ultime, infatti, sembrano più simili al modello del “vuoto a rendere”, in quanto valorizzano l’attitudine delle architetture a contenere nel tempo anche funzioni diverse, rispettando la continuità con le caratteristiche tipologiche e distributive dei manufatti (una bottiglia rimane una bottiglia indipendentemente dal liquido che la riempie). Una capacità di resistere alle variazioni d’uso sulla quale Aldo Rossi ha fondato parte della

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sua teoria e che è alla base del paradigma tipomorfologico. Il riciclo comporta viceversa un rifiuto più netto e la parallela abilità di scorgere negli oggetti scartati potenzialità radicalmente differenti da quelle per le quali erano stati pensati. Attingendo a procedure quasi dadaiste, se non fossero dettate da una stretta utilità, si realizzano modalità di reimpiego profondamente traditrici delle vocazioni caratteristiche dei manufatti. Sia materialmente che concettualmente si cerca quindi la riduzione a uno stato più basso, generico, disponibile alla trasformazione. L’erosione della memoria che ne deriva (o la sua accelerazione in termini oppositivi) può avvenire attraverso la capacità di individuare e proporre specificità alternative (il vuoto diventa pieno, l’alto basso...), ricorrendo a un processo di estrema diminuzione della specificità: in tutti i casi, maggiore il distacco dalla condizione precedente, più efficace il riciclo, sia in termini quantitativi che qualitativi. Per trovare possibili paralleli nella storia disciplinare bisogna tornare al medioevo, all’uso dei monumenti romani come cave di travertino, ai rocchi di colonne coricati a fare da fondamenta al San Donato di Zara, alle apparecchiature scoordinate di capitelli e altri pezzi di recupero nel San Salvatore di Spoleto, alle inversioni spaziali del duomo di Siracusa, alle brutali stratificazioni del palazzo di Diocleziano a Spalato... Sembra quindi che la prospettiva produttiva, economica ed ecologica del riciclo spinga l’architettura verso una sorta di interessante e inaspettato imbarbarimento, verso una medievalizzazione paradigmaticamente opposta alle idee continuiste e storiciste così radicate nella formazione dei progettisti “moderni” e peraltro ampiamente rappresentate negli stessi schieramenti “verdi” e tra i molteplici difensori di identità e paesaggi. Riciclare in architettura significa allora ripensare il nostro rapporto con la memoria. Significa superare la svolta impressa da Alberti e Brunelleschi (e da Raffaello, con la famosa lettera a Leone X). Significa andare oltre a una visione dell’architetto come depositario di una “corretta” interpretazione dell’antico, di un sapere tecnico separato e autoreferenziale da portare a realizzazione mediante uno stretto controllo verticale. Significa guardare alla trasformazione spaziale (e alla storia) più in termini di processi che di assetti. Significa guardare alle “preesistenze ambientali” per le loro potenzialità qui e ora e non solo per l’inerzia delle volontà progettuali che le hanno espresse. Significa favorire la proliferazione, accettare gli effetti collaterali, provocare incidenti volontari, lasciare spazio a sviluppi aleatori e imprevedibili...

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Significa, di fatto, progettare l’amnesia. Per quanto questa interpretazione possa essere accostata alle più varie intenzioni distruttive, siano esse espressione di rigurgiti di vitalismo neofuturista, delle pulsioni del capitalismo “avanzato” e dei suoi spiriti animali o, peggio, dei furori iconoclasti di fondamentalismi tribali, essa potrebbe offrire paradossalmente la possibilità di una più efficace azione di salvaguardia. Non si può sostenere infatti che le molteplici reazioni resistenziali e i controlli sempre più stretti da parte delle soprintendenze e di altre autorità siano riusciti a contrastare le minacce degli sviluppi economici, tecnologici e sociali agli assetti fisici consolidati e alle identità che vi si proiettano. Guardando alla situazione italiana, gli ultimi cinquant’anni di scempio del territorio sono stati accompagnati da una storia ancora più lunga di prevalenza dei valori della memoria nel dibattito politico e culturale: la tutela del paesaggio è scritta nella Costituzione, è sostenuta da una opinione pubblica largamente maggioritaria (indipendentemente, almeno in termini retorici, dal colore delle parti politiche che la rappresentano), unanimemente promossa dai giornali, insegnata nella scuola, rafforzata da vincoli legali e base fondativa dell’“identità italiana dell’architettura” (siamo tutti più o meno figli e nipoti disciplinari di Ernesto Rogers). È lecito quindi chiedersi se questa ossessione di ricordare tutto non porti all’effetto contrario, come per il protagonista del racconto di Borges, Funes el memorioso, incapace di dimenticare e condannato a una sorta di impotenza operativa e, in definitiva, alla stessa impossibilità di trattenere memorie significative. Che dimenticare sia necessario alla stessa sopravvivenza della cultura è al centro di una recente serie di conferenze e articoli di Umberto Eco (vedi, tra l’altro, il suo Dall’albero al labirinto, Bompiani, Milano 2007), il quale rammenta come il problema dell’oblio nasca insieme alla formazione delle prime mnemotecniche nel mondo greco. Tuttavia, sottolinea il semiologo, se costruire macchine per ricordare risulta relativamente facile e ampiamente praticato fin dall’antichità, meno fattibili sono i dispositivi atti a cancellare la memoria. È quindi interessante notare come alcune tra gli approcci teorico-progettuali più controintuitivi e innovativi degli ultimi trent’anni abbiano fondato la loro efficacia proprio su meccanismi di disconessione, diagrammi aleatori, logiche indeterminate. La sovrapposizione di layer non cordinati nei progetti per il parco della Villette di Oma (esemplare l’“indifferenza” della grande hall del mattatoio a essere attra-

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versata dalle fasce funzionali) e Tschumi (le cui folie intersecano inopinatamente preesistenze e opere di altri progettisti) costituisce al riguardo uno delle strategie più chiare e un precedente di ricerche più recenti, dai sistemi aleatori e interattivi delle neo-utopie di R&Sie, fino a molte delle proposte riunite nella mostra Re-&ycle del Maxxi. Lo stesso Tschumi, con Architecture and Disjunction (Mit Press, 1996), propone una sorta di manifesto preventivo dell’architettura del riciclo, sondandone molti degli aspetti fondamentali (non ultimo la violenza). Certo, si tratta di ricerche che hanno trovato terreni di coltura più favorevoli in paesi troppo poveri per soffrire di nostalgie o abbastanza ricchi da avere fiducia nel futuro. Tuttavia, è proprio all’interno di esperienze nelle quali la sperimentazione della modernità ha avuto modo di dispiegarsi più liberamente che anche il “paesaggio” ha potuto difendersi meglio dagli inevitabili processi di modernizzazione. *Il presente articolo ricicla il mio Architettura e riciclo: ovvero progettare l’amnesia, in «Paesaggio urbano», n. 3, 2012, pp. 6-9.

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Superstudio, Salvataggi di centri storici italiani, Firenze 1972. Fotomontaggio

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IL CICLO DELL’ARCHITETTURA Gabriele Mastrigli >UNICAM

Da sempre l’architettura opera in regimi di “riciclo”, ovvero di utilizzo consapevole di risorse esistenti che hanno avuto una o più vite precedenti – dai semplici materiali ad intere porzioni di città. Ma è solo quando il tema della trasformazione e riuso di manufatti esistenti ha iniziato ad assumere un carattere eminentemente quantitativo – la stragrande maggioranza dell’ambiente costruito nel mondo è stato realizzato negli ultimi 100 anni – che si rende necessario mettere a punto un ruolo specifico per il progetto. È ciò che è accaduto alla fine dell’Ottocento con la messa a punto del restauro architettonico in vista della manutenzione sistematica del patrimonio storico o, dagli anni ‘60 in poi, con le varie categorie del recupero e del riuso per affrontare il tema della trasformazione dell’edilizia di minor pregio. Ma il tema più rilevante e controverso del riciclo in architettura appare oggi quello della modalità cosiddetta C2C (cradle to cradle), secondo la formula proposta da William Mcdonough, Michael Braungart, il primo architetto e il secondo chimico, cioè il caso in cui la fine “senza sprechi” di un oggetto sia parte integrante del suo progetto. Ciò non tanto in virtù del potenziale innovativo di tanti aspetti tecnologici dei manufatti architettoni-

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ci odierni, quanto della visione sistemica proposta dalla formula C2C che nega la stessa nozione di “rifiuto” in favore di quella di “metabolismo”, sia biologico che tecnologico (Mcdonough W., Braungart M., Dalla culla alla culla. &ome conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni, Torino 2003). Sul piano teorico non è un discorso nuovo. Già il pensiero materialista aveva individuato nella categoria del lavoro la dimensione ciclica dei sistemi produttivi moderni. Marx descrivendo il lavoro come il “metabolismo dell’uomo con la natura”, nel cui processo “il materiale della natura è adattato con un cambiamento di forma ai bisogni umani”, non solo anticipa la celebre definizione di architettura di William Morris, in cui l’architettura è vista come “l’insieme delle modifiche e delle alterazioni introdotte sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane”, ma prefigura la dimensione produttiva in termini ciclici, dove produzione e consumo sono due aspetti necessari e indissociabili del medesimo processo (Arendt H., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964, p. 70). Tuttavia se questo ragionamento può apparire sensato e auspicabile nella maggior parte degli oggetti e dei manufatti di uso comune – un computer, una lavatrice, un’automobile, un capannone industriale – il discorso diventa più complesso quando tali oggetti portano con sé quel plusvalore simbolico che impedisce di accettare di buon grado la scomparsa totale degli oggetti in questione e, dunque, di ciò che essi rappresentano. Vi è da chiedersi dunque se e quando l’architettura rientri in questo caso. Quando infatti per architettura si intenda non semplicemente edilizia di qualità, ma qualcosa che appartiene ad una delle tante possibile forme di arte, ecco che la questione del riciclo integrale implica la necessità di un vero e proprio scarto teorico, che non può essere risolto seguendo la logica C2C, ovvero in termini di “efficacia” del sistema di produzione. Se dunque, da una parte, il C2C è l’unico caso che valga la pena di prendere in considerazione perché è quello che interroga più in profondo il significato stesso del fare architettura, dall’altra si tratta di capire quale sia la pertinenza di un approccio squisitamente scientifico a ciò che in realtà può non avere, a rigore, alcun carattere scientifico, ma eminentemente artistico. La scientificità del problema si pone semmai in merito alla ricerca in sé, ai suoi linguaggi e alle sue regole, come archivio delle forme

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il cui l’arte registra l’attività del pensiero. Come ricorda Hanna Arendt, gli uomini non hanno bisogno dell’homo faber soltanto per edificare dimore sulla terra. Piuttosto hanno bisogno “delle attività superiori dell’homo faber – dell’artista, dei poeti, degli storiografi, dei costruttori di monumenti o degli scrittori, perché senza di essi il solo prodotto delle loro attività, la vicenda che interpretano e raccontano, non potrebbe sopravvivere” (Arendt H., Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964, p. 124).

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Orazio Carpenzano, Post-produzione_Google Earth Pro-Coda della Cometa, Roma 2012

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LA POST-PRODUZIONE IN ARCHITETTURA Orazio Carpenzano >UNIROMA1

La post produzione come nuova fase della progettazione Non spendersi per fare il nuovo ma lavorare, o ri-lavorare l’esistente, attraverso differenti processi, in tutte le scale in cui l’architettura si declina e per i diversi habitat e contesti cui è destinata a vivere altri cicli di esistenza, in piena osmosi con le sostenibilità che dovranno essere garantite d’ora in poi per onorare il patto che l’umanità del terzo millennio ha iniziato a istituire con gli habitat. È una fase in cui l’architetto diviene figura di coordinamento e di regia dei lavori di ri-organizzazione e gestione delle principali componenti di questo nuovo processo, dove è necessario re-inventare altri strumenti e metodi d’azione. Nulla di strano, si tratta di ri-montare, sempre attraverso un progetto, ciò che si decide di ri-utilizzare per uno scopo analogo o diverso a quello del suo primo ciclo di vita. Se, dopo aver consumato un’architettura, trascorso un certo periodo di tempo, non sappiamo cosa farne dei suoi spazi, delle sue forme, dei suoi ingombri, delle sue funzioni oramai desuete, sottoutilizzate, inadeguate alle nuove esigenze, per non dire poi dei suoi costi di mantenimento e della totale assenza di un suo funzionamento, del suo inevitabile degrado che può, anzi sicuramente contagia il suo intorno… cosa fare?

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Sia che essa faccia parte di un sistema di valori che decidiamo di mantenere sia che, per contro, la sua fisicità, seppur non all’altezza delle attese estetiche del momento, ci impedisse di optare per la sua distruzione, quand’anche decidessimo di smobilitarla o demolirla, mentre pensiamo a come stoccare i materiali che la compongono, dovremmo anche trovare una soluzione per mantenerla o sostituirla. Re-inventarci un nuovo ciclo di vita di quel manufatto e di quel luogo. L’unica soluzione sarebbe cercare di trasformarla finché è possibile ricavarne qualcosa, in termini di valori o di economia, che può rimetterla nelle condizioni di essere sostenibilmente riutilizzata. Diviene pertanto indispensabile selezionare componenti ancora di qualità da ri-valorizzare, in termini di possibile nuovo ciclo o inventare nuove modalità compositive che possono prevedere l’aggiunta di nuove componenti, il montaggio, la sincronizzazione delle varie parti e dei vari pezzi per ri-formare un nuovo sistema che nel suo nuovo stato possa trovare un posto significativo e necessario nel mondo. Questo comporta una serie di conseguenze: abolizione di ogni feticcio, accentuazione del valore delle relazioni dinamiche, di atti percettivo/tattili che indeboliscano le dimensioni contemplative, che eliminino ogni forma di metafora o di simbolismo. L’architettura diviene così processualmente performativa e le sue immagini e figure saranno interfacce (su cui due o più entità qualitativamente differenti s’incontrano esponendo i loro protocolli di comunicazione a dispositivi che, interposti fra esse, renderanno condivisibili i loro limiti). Quando l’architettura, attraverso un lavoro di post-produzione, tematizzerà la trasfigurazione, scoprirà che trasfigurare è un processo che non ha bisogno di codificazioni ma che comporta strategie di mutazione delle qualità e una continua interrogazione del senso, attraverso la performatività dell’esistente (Viola, Bertusi, Canaletto, Le Corbusier, Dada). Natura metamorfica della post-produzione dell’architettura L’architettura si fa simbolo di una nuova esperienza culturale dove si rende necessario intervenire dopo che si è realizzato un suo consumo insostenibile. Il sistema architettonico globale, testimoniato da una parte dalla nuova iper-scala di progetti, dall’aura degli edifici, dai materiali innovativi, dalle trasformazioni paesaggistiche, e dall’altra, da una nuova morfologia degli spazi altri, da una variabilità iconografica e da una visione dinamica, da una prospettiva puntata sull’esistente. Diventa perciò

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importante conoscere sempre più d’ora in poi, i meccanismi che regolamentano i processi produttivi e verificarli secondo il doppio criterio della qualità e del risparmio (in senso lato). C’è sempre, ovviamente, un legame forte tra qualità e produzione che ha a che fare con i costi. Il solo fatto di prevenire delle non conformità attraverso sistemi (oramai di natura informatica) dotati di piani di campionamento e conseguenti dispositivi che misurano gli andamenti della produzione, significa prevenire la generazione di scarti e le conseguenti possibili rilavorazioni. Questa tendenza alla riduzione di scarti e rilavorazioni, peraltro può essere continua, una volta avviato il controllo e il monitoraggio, e comporta la riduzione allo zero di rischi di derive e non conformità. Allarghiamo ancor più l’analisi: aggiungiamo ad un controllo effettuato a campione sul processo edilizio, che delinea i trend del processo medesimo, un controllo effettuato sui materiali che si usano e che devono passare i test di approvazione per varcare la soglia dello stoccaggio. Ecco che i controlli fatti sui materiali, una volta portati a regime, gestiti con il giusto strumento informatico, abbattono il costo di investimento iniziale. A livello produttivo ciò significa produrre con materie prime di qualità, che non genereranno problemi nella loro trasformazione. Il sacrificio che si fa per iniziare a controllare la qualità è ripagato da un futuro risparmio e da una produzione che sarà più fluida, con meno problemi, meno errori, meno scarti e rilavorazioni. Il prima e il dopo delle cose Modificare tutta la materia accumulata non deve essere vissuto come forma di abdicazione, ma come una straordinaria possibilità per tentare di prendere in considerazione altre strategie capaci di far ri-vedere e ri-vivere l’esistente in modo diverso per poi proiettarlo in un futuro (imprevedibile) del prima e del dopo delle forme. L’equivalente di ciò che ha fatto Duchamp trasfigurando un oggetto banale in un oggetto estetico, in architettura lo ha forse tentato Venturi (per esempio, nel suo progetto per il ponte dell’Accademia) nel ri-fare, nel ri-estetizzare. Altre modalità sono quelle di Warhol, Bacon... La vita di un’architettura ha un suo corso che è pressappoco divisibile in un inizio, una fase centrale ed una fine. In genere, ogni progetto che tenta di ostacolare la fine di un’architettura le impone un nuovo inizio, tentando di correlare il punto in cui quell’architettura si trova nel corso della sua vita con il tipo di compiti che è chiamata a fronteggiare nella sua rigene-

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razione (per esempio nel cambiamento della sua destinazione d’uso aldilà della sua identità morfologica, o un importante intervento consolidativo che ne muta di fatto il carattere, o il tipo di risorse di cui dispone per affrontare i nuovi compiti, ed infine, il tipo di “disturbo” o perturbazione che potrebbe sviluppare qualora non riuscisse a fronteggiarli adeguatamente). Questo concetto implica non solo il fatto che esistano diverse fasi della vita per un’architettura, ma enfatizza anche l’ipotesi che ogni volta, ogni sua nuova fase si costruisca stratificandosi su quelle precedenti. Per intenderci questo significa che, per esempio, nel diagnosticare la difficoltà di un’architettura a resistere ai terremoti, o al cambio di destinazione o dell’ambiente nella quale era radicata prima che questo mutasse, l’architetto tenterà in primo luogo di capire qual’è la fase che non riuscirebbe a superare con successo per correggerne i deficit creati dall’inadeguato sviluppo subito da una precedente fase del suo ciclo vitale. Metamorfosi del riciclo Siamo di fronte ad una specie di retroversione o autoreverse delle cose, una spirale teoricamente infinita, in cui poter far risorgere, in termini di mercato, di moda e di estetica, qualunque opera esistente, qualunque stile del passato, qualsiasi tecnica o processo produttivo, di un riciclaggio continuo. Forse in questo senso occorre ri-toccare il concetto di progressione, e puntare su quello della sparizione di una forma nell’altra (Baudrillard), una forma di metamorfosi del riciclo. Un gioco completamente diverso da quello del comporre, perché ha a che fare con strategie che nel nuovo ciclo di vita non dovranno più esistere per mostrare qualcosa ma per fornire una prestazione necessaria e non il mezzo per conseguirla. La cosa che interessa la post-produzione è il fatto che essa possa aprire l’architettura ad una prospettiva di “azione essenziale” almeno quanto quella di una creazione dal nulla (Scarpa). Cosa distruggo e cosa conservo? Certamente non “distruggo tutto” o non “conservo tutto”. L’esistente viene reso adattivo attraverso il progetto di architettura. Adattività è un’idea strumento utile, ci fa pensare al mantenimento di uno spazio durante il cambiamento delle condizioni ambientali. Quante architetture esistenti sono in grado di essere adattive? Questo tema ha a che fare con quello che in altri ambiti di ricerca rappresenta l’autoadattamento dei nodi alla variabilità della rete. Nel post prodotto sarà forse possibile fare un’architettura intelligente, attraverso una serie di informazioni sulla

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base delle quali farle apprendere e affrontare diverse situazioni e magari, farle ottenere ricompense nel superarle. Oppure, chissà un giorno, insegnarle ad essere capace di tradurre l’esperienza di interazioni dinamiche con l’ambiente in forme sistematizzate da impiegare a loro volta in una sorta di ri-generazione di comportamenti in ambienti ancora sconosciuti o quantomeno imprevedibili.

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Umberto Cao, Spazi vuoti, Forum 2004 Barcellona

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IL RICICLO DELL’EVENTO Umberto Cao >UNICAM

In cinquant’anni di dibattito, alla grande come alla piccola scala, nella città come nell’architettura, gli interventi di trasformazione dell’esistente hanno sempre avuto bisogno di tecniche differenziate e spesso integrate tra loro, dal restauro alla ristrutturazione, dal riuso alla modificazione, sino alla ricostruzione parziale o totale. Peraltro gli slittamenti di significato e le mutazioni terminologiche che hanno accompagnato questo dibattito vanno analizzati e capiti, perché hanno reali radici semantiche che seguono le grandi trasformazioni materiali ed immateriali del pianeta. Riunirli tutti sotto l’unica definizione di recycle indubbiamente aiuta, anche se appare un’operazione di marking piuttosto che un effettivo avanzamento metodologico. Dunque l’esito della “MAXXI-mostra” che ha dato l’avvio a questa ricerca, insieme alle riflessioni che ne hanno caratterizzato il dibattito iniziale, confermano una interpretazione del concetto di “riciclo” molto ampia che, sebbene non si limiti a trasferire nei campi dell’architettura, dell’arte e della comunicazione la necessità di evitare le dispersioni di materiali e manufatti, guarda con attenzione agli stessi principi di salvaguardia dell’ambiente e di riduzione dello spreco. Sarà bene mettere in evidenza due significative novità. La prima è che, nel-

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la storica alternanza tra l’associazione dell’architettura alla “macchina” o alla “natura”, dopo il razionalismo della macchina per abitare case e città che ha pervaso due terzi del XX secolo, in questi ultimi decenni prevale una visione dell’architettura e della metropoli come corpo organico. Era inevitabile che la sfiducia nel progresso tecnologico e la crisi ambientale restituissero un’idea dell’architettura molto vicina alla natura. La seconda novità, collegata alla prima, è che viene introdotto nel pensiero sull’architettura e la città un principio nuovo, quello di “durata”. Prevalendo la bigness sulla venustas e lo speed-up sulla ±rmitas, la misura dello spazio ha ceduto il passo alla misura del tempo. Per questo mi piace accostare il concetto di riciclo al concetto di rigenerazione, termini in qualche modo simili e opposti: entrambi presuppongono il riavvio di una sequenza temporale di vita, ma il primo induce una sostanziale modifica dei caratteri di questo ciclo di vita, mentre il secondo ne propone il ritorno allo stadio nativo, ma ad un livello superiore. Ovviamente la schematizzazione è forzata e rischiosa, molto più frequenti sono i casi di interpolazione o contaminazione tra i due procedimenti. Nel catalogo della Mostra Pippo Ciorra scrive: “La strategia del riciclo appare come un approccio che consente di tenere insieme memoria e innovazione radicale, realismo e tabula (quasi) rasa (...) L’idea di riciclo appare quindi in questo scenario come una specie di forma omeopatica della modernità, capace di assorbire il passato, il contesto, le identità preesistenti senza imitarle e senza lasciarsene sopraffare” (Ciorra P., Per una architettura non edi±cante, in Re-cycle, a cura di Ciorra P., Marini S., Electa, Milano 2011, p. 25). Proseguendo la metafora, passato contesto e identità tra gli anni sessanta e ottanta sono stati la terapia d’urto per rispondere al Movimento Moderno e alla internazionalizzazione della cultura architettonica: una overdose di storia, luoghi e localismo che ha avuto termine solo quando ci si è accorti che città e paesaggio seguivano processi di trasformazione al di fuori di ogni controllo. Così oggi, sull’onda anomala di un corale rifiuto del consumo di energie e di suolo, dobbiamo tornare a considerare il passato, il contesto e l’identità attraverso somministrazioni controllate di modernità. In questo senso diventa interessante il tema di parti urbane progettate e realizzate per una occasione limitata nel tempo, che conservano un deposito di memorie, ma hanno perso identità. Sono luoghi o spazi che talvolta non hanno valore storico né qualità architettonica, ma sempre rilevanza urbana e ambientale, che hanno consumato il loro ciclo esistenziale, ma

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conservano un valore patrimoniale e culturale chiedendo di essere restituiti ad un nuovo ciclo di esistenza. Sono gli “spazi dell’evento”. Per intendersi, a livello internazionale sono le grandi esposizioni del XIX secolo: quelle storiche da Parigi del 1900 a Barcellona del ‘29; quelle del protocollo internazionale del ’33, da Parigi del ’37 a Okinawa del ‘75; del protocollo del ’72 da Plovdiv dell’81 ad Hannover del 2000, sino alle ultime di Saragozza, Shanghai e Yeosu per restare confinati nell’arco di un secolo. Poi, naturalmente, le enclave dei Giochi Olimpici, una ogni quattro anni. In Italia anche spazi fieristici realizzati per emergenze economiche e infine le realizzazioni celebrative collegate a congiunture politiche soprattutto di carattere centralista e nazionalista, tra cui l’ex Foro Mussolini, oggi Foro Italico, a Roma o la Mostra d’Oltremare a Napoli. Cosa fare, allora, quando è terminato un ciclo di vita programmato nella nascita e nella morte esattamente con giorno ora ed anno? Una vita in alcuni casi molto breve (pochi mesi per le Esposizioni Universali, due settimane per i Giochi Olimpici), ma drammaticamente breve in relazione agli anni necessari per la gestazione, la progettazione e agli alti costi di costruzione. In altri casi, come i fori o gli spazi fieristici, un ciclo di vita di cui si programma l’inizio misurandolo su contingenze particolari, ma non si prevede l’inevitabile declino. Ma le difficoltà sono tante e diversificate da caso a caso. A prescindere dal degrado in cui molti di questi spazi sono caduti (due esempi per tutti sono l’Expo di Siviglia del ’92 e l’area olimpica di Atene del 2004) la difficoltà, in generale, è nella necessità di riassegnare un ruolo a spazi ed edifici tutti pensati per la stessa destinazione d’uso: superfici aperte difficilmente ripopolabili e piccoli o grandi contenitori monofunzionali destinati a manifestazioni espositive o sportive. Queste aree, per quanto riguarda le relazioni con la città, mantengono un carattere di enclave che ne rende difficile il reinserimento anche solo per parti. Sino ad oggi, la qualità del loro destino è stata salvaguardata solo quando è stato ribaltato il principio della loro realizzazione, ovvero sono stati realizzati per il “dopo” ed il “prima” è stato utilizzato in emergenza temporanea (il recente caso dei Giochi Olimpici di Londra sembra esemplare, ma è ancora tutto da verificare). Ritengo interessante un censimento di “spazi dell’evento” in degrado o declino presenti in Italia e l’individuazione di tecniche e procedure per il loro riciclo, anche sulla base di esperienze condotte all’estero.

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Istituto Marchiondi Spagliardi (1954-57) V. Viganò; Centro studi e Convento dei padri passionisti (1957-71) G. Gresleri; Colonia Estiva ENEL-SIP (1961-1963) G. De Carlo; Complesso Marchesi (1972) L. Pellegrin; Teatro Popolare di Sciacca (1976) G., A. Samonà; Casa dello studente (1976) G. Grassi, A. Monestiroli; Chiesa Madre di Gibellina (1980-2010) L. Quaroni, L. Anversa; Stazione di S. Cristoforo (1983-1989) A. Rossi, G. Braghieri; Palasport Cantù (1987-1992) V. Gregotti © Giulia Menzietti, 2012

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A PARTIRE DA QUEL CHE RESTA* RICICLARE FRAMMENTI D’ARCHITETTURA Giulia Menzietti >UNICAM

Il termine “riciclare” indica il “riutilizzare materiali di scarto o di rifiuto di precedenti processi produttivi” (Duro A., Vocabolario della lingua italiana, Treccani, Roma 1989). L’atto del riciclo si colloca dunque nel campo della salvaguardia dell’ambiente e delle materie prime a disposizione. La trasposizione di questo termine da un contesto ecologico alla disciplina dell’architettura colloca la pratica tettonica in uno scenario altro, in cui alle costruzioni si riconosce un processo vitale, con delle fasi biologiche precise che si alternano a partire dalla nascita fino alla morte. Gli elementi naturali, una volta terminato un ciclo vitale, hanno la possibilità di oltrepassare la fine, rigenerandosi in una dimensione altra. Nella pratica architettonica riciclare significa dunque riattivare l’oggetto costruito e non più in vita, aprendolo alla possibilità di trasformarsi in altro, mutando il senso e la funzione specifica per cui era nato. La città contemporanea mostra una grande quantità di materiali che hanno ormai terminato il ciclo vitale. Ad un contesto di paralisi produttiva, dovuta alla crisi economica e alla mancanza di superfici disponibili, si aggiunge un progressivo processo di dismissione e abbandono dei contenitori esistenti. Alcuni di questi processi sono legati ad aspetti meramen-

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te economici: la crisi finanziaria e la conseguente cessazione d’imprese costituisce la causa principale dello smantellamento di buona parte di strutture produttive; altri contenitori legano la propria dismissione a logiche funzionali, in cui il mutare dei contesti rende inutile e obsoleta la destinazione per cui l’architettura era stata pensata; in altri casi il rigetto e l’abbandono si legano a ragioni insite nel progetto, al mutare del senso e dei significati che la collettività attribuisce all’opera. All’interno di questo paesaggio dell’abbandono, emerge una categoria specifica dei materiali depositati, che si ravvisa in una serie di architetture pubbliche, tutte costruite nel ventennio che va dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta, tutte opere celebri, appartenenti ad una produzione d’autore e iper-pubblicate in testi e riviste d’architettura: l’Istituto Marchiondi Spagliardi (1954-57) di Vittoriano Viganò, la Colonia Estiva ENEL-SIP (1961-1963) di Giancarlo De Carlo, il Teatro Popolare di Sciacca (1976) di Giuseppe e Alberto Samonà, la Casa dello studente (1976) di Giorgio Grassi e Antonio Monestiroli, la Chiesa Madre di Gibellina (19802010) di Ludovico Quaroni e Luisa Anversa, la Stazione di S. Cristoforo (1983-1989) di Aldo Rossi, ecc.. Si tratta di opere mai terminate, o finite e mai usate, alcune in condizioni di degrado e abbandono, altre demolite o in via di demolizione, che consegnano alle città contemporanee il lascito problematico di una stagione specifica dell’architettura italiana. Questo patrimonio di architetture in disuso si apre al possibile intervento di strategie capaci di riattivare nuovi cicli vitali. Le pratiche del re-cycle e la prefigurazione di cicli e scenari futuri si carica, in questo caso, di ulteriori gradi di complessità, dovuti alla natura ambigua dei materiali da riciclare. Collocati sulla linea di confine tra il patrimonio monumentale e quello dell’ordinario, questi resti d’autore sfuggono ad una definizione specifica, e dunque alla scelta della strategia d’intervento. La fortuna critica dei progetti e la notorietà degli autori sembrano consegnare questi materiali alle pratiche del restauro del moderno; allo stesso tempo la consistenza di queste opere, ridotte a brandelli e lacerti, spesso mai finite e mai entrate in funzione, rende labili i contenuti legati alla memoria, alla storia dell’opera e alla fama dell’autore. Le pratiche consolidate del recupero tendono a ripristinare l’edificio facendo riferimento a un tempo zero, riportando l’edificio alla sua condizione iniziale, prima del degrado e dell’abbandono. Per gli interventi sui materiali in questione, al contrario, l’attenzione va orientata non tanto alla necessità di riportare il manufatto

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allo stadio originale, trattandosi spesso di realtà neanche mai entrate in funzione, quanto piuttosto alla possibilità di sovrascrivere l’architettura, rendendone leggibili le storie, i tentativi di utilizzo, i periodi di abbandono, le forme di riappropriazione o rigetto che hanno coinvolto l’opera, nell’immediato presente e nel recente passato. Per tali frammenti d’architettura, congelati nell’attesa di un’eventuale demolizione o di un possibile riconoscimento del vincolo di tutela e di un intervento di restauro, il re-cycle può costituire un’opportunità per attivare un nuovo ciclo vitale e restituire un significato altro a partire da quel che resta. Le vicende degli edifici sopra citati mettono in luce aspetti e questioni comuni, che si rivelano cruciali per la produzione architettonica di quegli anni. L’interesse e il metodo usato nell’indagine su tali opere possono essere estesi ad altri celebri ruderi del tardo moderno italiano, alcuni dei quali, come la &olonia ENEL di Giancarlo De Carlo, la stazione di Ralph Erskine ad Ancona e la casa parcheggio di Carlo Aymonino a Pesaro, si trovano oggi all’interno di quella porzione di città costiera italiana che va da Rimini a Vasto, e che costituisce l’ambito geografico d’interesse dell’Unità di ricerca di Camerino. * Pirazzoli E., A partire da quel che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Belino, Diabasis, Reggio Emilia 2010.

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Giorgio Bombieri, Genova, 2011

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RECYCLE COME ATTO POLITICO UN PROCESSO CONDIVISO DI ATTIVISMO SENSIBILE Raffaella Fagnoni >UNIGE

Ogni luogo è un giacimento di linguaggi inesauribile, un ready made generativo. Ugo Locatelli, Atlante Areale. *eogra±a dello sguardo oltre la realtà apparente

Nel divenire della città vivono quei luoghi densi di storie, in sospeso fra la memoria e l’uso quotidiano. Quelli che un tempo erano alberghi, ospedali, case, sale per immagini di celluloide, officine e centri di produzione, stabilimenti, e che sono oggi luoghi di abbandono in attesa di un futuro. Luoghi interessati da studi e progetti rimasti nel limbo dei lunghi iter della burocrazia, dimenticati per scarso interesse degli imprenditori, o rovinati per incompetenza sulle questioni etiche e ambientali. Luoghi che sono parte viva della nostra condizione urbana, che fanno parte delle relazioni, delle reti, dei sistemi, dei micro-climi, delle informazioni, delle strutture percettive che generano un complesso di relazioni sensoriali. La permanenza di rovine nella città si trova ovunque, frequentemente citata in molti passaggi del cinema, della letteratura. Da Blade Runner al recente Skyfall, la città si manifesta attraverso il grigiore, l’abbandono, la mancanza di vita. Mentre Asimov descrive l’immagine di New York fra tremila anni come un unicum coperto privo di strade o edifici, senza contatto alcuno con l’aria. E ciò che

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colpisce nella narrazione è il pullulare di milioni di individui su strade mobili, dei quali si percepisce “il rumore che è inseparabile dalla vita: il suono di milioni di persone che parlavano, ridevano, tossivano, si chiamavano l’un l’altra” (Asimov I., Abissi d’acciaio 1953, Mondadori, Milano 1986). Sono le azioni delle persone che determinano l’identità di un luogo. # Co.co. co. Condivisione contrasto correlazione Le persone difendono la loro voglia di incontrarsi, parlare, condividere. L’ambiente urbano, come una sorta di ipertesto vivente, è lo scenario in cui si sperimenta la relazione fra il progetto ed i comportamenti umani. Con le possibilità offerte dalle tecnologie digitali, ormai normali e quotidiane, strumentalmente semplici, di accostare, collegare in un unico processo quanto la realtà passata teneva sconnesso, si attivano processi dinamici, ciclici, coinvolgendo tutti gli elementi del sistema in una prospettiva di ricerca illimitata. L’abbattimento di confini e barriere, la capacità di sperimentare accostamenti fino ad oggi inverosimili, innescano processi per ri-attivare la città, ovvero ri-mettere in moto, mettere in rete, connettere una serie di buone iniziative nella città partendo dai suoi abitanti. Le risorse provengono dall’intelligenza dei suoi cittadini, tutti attori e fruitori allo stesso tempo, e permettono di vedere, di sentire, facendo emergere una realtà sinaptica prima inimmaginabile. Si riparte dalla vita dunque, dall’abitare, per ricreare il senso dei luoghi, per ristabilire un rapporto fra territorio, spazio fisico, e coloro che lo abitano. "Abitare è un gesto che precede la progettualità, l’organizzazione, la reificazione e l’organizzazione di oggetti artificiali in cui mettere in scena lo stare e l’agire, i ricordi e i desideri” (Fiorani E., *eogra±e dell’abitare, Lupetti, Milano 2012, p. 255). L’energia motrice si sviluppa attraverso le azioni e gli interventi di singoli e/o gruppi, attraverso la loro propagazione, attraverso il lavoro interdisciplinare, attraverso intrecci metodologici che portano al coinvolgimento dell’utente fruitore nel processo. Un ri-ciclo generativo che punta ad uno sviluppo basato non sulla fagocitazione delle risorse, che assorbono l’energia dei loro stessi contesti, ma capace di crearne nuove, attraverso la condivisione delle conoscenze e dei modi di operare, sul coinvolgimento attivo che parte spesso da piccoli interventi. È percepibile, in questo, un ribaltamento di valori e dei rapporti fra i singoli episodi e i rispettivi collegamenti. Le relazioni, i link sono il segno tangibile di una trasformazione continua che accomuna l’intero sistema. Si va oltre la dimensione fatta di

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luoghi, in cui si vive, si abita, e di connessioni, aree di transito. Lo spazio e il tempo da attraversare può e deve essere uno spazio da vivere. Le singole azioni sono importanti per chi le vive, ma soprattutto per il sistema di relazioni che generano, stimolando nuove pratiche di riuso. Ciò che appare più debole, è il considerare lo sviluppo tecnologico come una possibile risposta alla complessità, piuttosto che parte integrante della stessa, con il banale risultato di rimpiazzare “pezzi” vecchi con “pezzi” nuovi. # Attivismo sensibile Dal senso all’azione, l’attivismo è un carattere del progetto. L’approccio metodologico si disconnette dall’immagine, dal rapporto diretto con il prodotto tangibile, oggetto di progettazione è l’innovazione sociale attraverso la dimensione interdisciplinare, plurilogica e connettiva del design. Ciò cui si aspira, attraverso i progetti, è sperimentare cose per creare cultura, per cambiare i comportamenti, per vivere meglio. Il progetto di riciclo non può dirsi virtuoso o malvagio in sé, si distingue piuttosto per logos (dialettica) pathos (incisività) ethos (credibilità): alla base del suo ruolo politico e culturale vi è dunque un problema morale. Creare qualcosa – da un prodotto immateriale a un complesso urbano – è interrogare se stessi sul valore del lavoro, la natura della proprietà intellettuale, l’etica del consumo, i limiti della tecnica, l’input del potere. Il progetto è l’azione di osservare, interiorizzare, interrogarsi e ripensare soluzioni a questi quesiti, sfruttando la capacità di dare forma, alla vita quotidiana e agli spazi collettivi, ma senza ridurre il tutto solo ad una questione di forma. Strategie di riuso e riciclo che diventano pratiche estetiche e fanno parte di una narrazione continua e collettiva, anche a micro-scala, con un moltiplicarsi di interventi di riciclo urbano auto-rigenerati, ad hoc. # Ad-hoc Il progetto si spinge oltre la dimensione autoriale, oltre l’approccio topdown dell’industrialismo gerarchico, trovando espressione attraverso il processo: strumenti che si avviano per auto-organizzazione, reti di produzione che coinvolgono gli utenti stessi nella progressiva definizione del prodotto finale, piattaforme di collaborazione indipendente, attivazione di sistemi aperti. “Design is on the move: it is migrating from the rigid domain of bureaucracy towards the rhizomatic realm of adhocracy” scrive

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Grima, presentando la mostra Adhocracy all’Istanbul Design Biennal nel dicembre 2012. L’attualità dell’approccio ad-hoc, esaltato già dalla controcultura americana degli anni sessanta, ricompare nei periodi di crisi, di rottura della tradizione, dei cambi di paradigma, come quello che stiamo vivendo. Parlavano di Adhocracy già nel 1968 Bennis e Slater per indicare un nuovo sistema di relazioni a rete, flessibile e reattivo, non burocratico, in antitesi ai principi classici del management e della cultura di impresa. Un concetto ripreso e sviluppato da A. Toffler, e poi da C. Jenks, per traslare l’adhocismo dalle teorie organizzative nelle pratiche progettuali (Bennis W., Slater P., The Temporary Society, Harper & Row Publishers In, NY 1968; Toffler A., Future Shock, Random House, New York 1970; Jencks, C., Adhocism on the South Bank, in «Architectural Review», Vol. 144, 1968, London; Jenks C., Silver N., Adhocism: The Case for Improvisation, in «Architectural Design», n. 42 (10), 1972, pp. 604-607). Uno stile quasi improvvisato, per alcuni tipicamente latino, mediterraneo, dei sud del mondo, ma in realtà diffuso ormai ovunque, in cui le pratiche DIY (Do It Yourself) non si configurano come esercizio più o meno professionale, moda radicale, ma come necessità, azioni di sopravvivenza, di adattamento alle avversità, o meglio re-azioni alle crisi ambientali, sociali, economiche. Una sorta di rivoluzione tecnologica ma anche ecologica, culturale e sociale, le cui origini escono dai confini disciplinari entrando nella cultura di massa, proponendo una propria dimensione estetica, se pur opaca e non sempre gradevole, secondo i canoni tradizionali della bellezza. È un terreno che si dimostra assai fertile, anche se nelle nostre realtà urbane il fenomeno non emerge così forte come altrove. # Ready made generativo Seguendo la logica dell’agire, le proposte si diffondono con una tensione culturale che interpreta la politica e la poetica delle relazioni, come contributo alla costruzione di una rete del valore, puntando soprattutto sul senso. Sulla scia del ready-made duchampiano è il fruitore-osservatore che attribuisce il senso, il progetto è malleabile: parte da ciò che già esiste, si ricicla, si riusa, si re-inventa, si rinnova agendo in modo sensibile sulle peculiarità dei luoghi, sulle leve strategiche a disposizione degli operatori, sulle possibili configurazioni alternative dei modelli di business effettivamente collegati alle prioritarie esigenze di utilizzazione. La storia del riciclo urbano si inserisce in questa prospettiva, ed oggi è consapevol-

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mente diffusa. È necessario però andare oltre. Lo spirito del tempo, quando è recepito da tutti, è ormai passato. Per questo serve guardare a quell’oltre cui non si riesce ancora bene a dare una forma o un nome, ma che già fa avvertire la sua presenza, cercando un possibile equilibrio, da culla a culla. Il senso della ricerca è innescare processi che vivono di vita propria. La ricerca non è indagine preliminare, né il motore principale che alimenta il progetto in tutte le sue fasi: essa ne è il senso più profondo. Ogni punto di arrivo finisce con il prospettarsi come un nuovo punto di partenza. Un nuovo ciclo, una nuova storia (dove nuovo non significa per forza migliore), nuove situazioni che, nel momento stesso in cui sono riconosciute come tali, presentano elementi di spinta verso successivi punti di crisi. Le risposte che non generano domande non sono risposte. Si vive immersi nel cambiamento, una condizione all’insegna di un continuo divenire, in una ridefinizione globale che coinvolge passato, presente e futuro in cui il tempo non è rettilineo.

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Allies & Morrison Architects, a sinistra il Parco Olimpico di Londra disegnato per i giochi; a destra dopo le trasformazioni previste dal Masterplan della Legacy, 2010 (fonte: London Legacy Development Corporation)

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LIFE CYCLE THINKING Massimo Angrilli >UNICH

Questo contributo tenta di impostare le risposte a due domande che i temi del riciclo e del ciclo di vita, insieme alla scelta del campo di applicazione, quello dei territori fragili nel caso dell’Unità di Pescara, pongono ai ricercatori coinvolti nel programma PRIN Re-cycle Italy. I ragionamenti qui avviati cercheranno in particolare di circoscrivere i significati che assumono nelle discipline progettuali dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio i concetti di riciclo e ciclo di vita e contestualmente di coglierne i nessi specifici con i territori fragili. Traslare gli approcci consolidati provenienti da altri ambiti disciplinari, come ad esempio quello delle politiche di marketing del prodotto (in cui il progetto del prodotto non è mai disgiunto da una attenta valutazione del suo ciclo di vita), al mondo del progetto architettonico/urbanistico/paesaggistico non è né semplice né sempre appropriato. Le complessità di un singolo manufatto architettonico o infrastrutturale, per non parlare poi di un territorio, sono tali da rendere molto difficili eventuali operazioni di trasferimento, senza gli opportuni adattamenti, delle metodologie e delle prassi maturate altrove.

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La prima domanda che ci si pone è: come cambia il progetto di architettura e urbanistica se si assume un approccio life cycle thinking, basato cioè sul ciclo di vita di un’opera architettonica, di una infrastruttura o di un ambito urbano? Può aiutarci a circoscrivere meglio i concetti più pertinenti per le strategie progettuali nei campi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, l’avvio di una ricerca empirica da svolgersi sulle best practices che provengano dal nostro stesso mondo, tra quelle esperienze di progetto cioè che, più o meno consapevolmente, si siano misurate con i concetti di riciclo e di ciclo di vita. Un progetto che potrà essere utilmente preso in esame è quello della sistemazione dello spazio aperto e dei parcheggi delle usines Thomson a Guyancourt (1991-92) ad opera dei paesaggisti Desvigne & Dalnoky. Il programma di impianto della grande fabbrica (disegnata da Renzo Piano), prevedeva un parcheggio per un migliaio di autovetture il cui impianto vegetazionale viene organizzato secondo una successione di due fasi: nella prima un impianto di filari di salici e pioppi garantisce il “pronto effetto” al parcheggio, oltre che la sua ombreggiatura; la seconda, che prevede l’introduzione di specie a lento accrescimento (querce e faggi) pone le basi per la costruzione di un parco destinato a subentrare alla fabbrica quando a termine del suo ciclo di vita questa sarà dismessa, insieme al suo vasto parcheggio. La coincidenza tra i tempi medi di obsolescenza di un’industria e i tempi di sviluppo di un parco ha consentito di progettare contestualmente il primo ed il secondo ciclo di vita del sito, rispettivamente un parcheggio alberato ed un bosco urbano, da destinarsi a parco per le generazioni future. Questo caso illustra con chiarezza il significato che la categoria progettuale cosiddetta cradle to cradle & & può assumere nelle nostre discipline e che potrebbe dare luogo ad un approccio definibile con l’espressione multi-cycle design. Si intende alludere alla opportunità, non del tutto nuova peraltro, di ipotizzare, già in fase di progetto, gli ulteriori usi che di uno spazio o di un manufatto si potranno fare in futuro per assicurarne l’inclusione in un nuovo ciclo di vita dopo che sarà giunto a conclusione il primo. Se nel caso del parcheggio/bosco urbano di Desvigne & Dalnoky il tema del mutamento di ciclo di vita copre un arco di tempo molto ampio (circa quaranta anni) il caso recente del Parco Olimpico di Londra, che ha fatto sua la regola ecologica delle 3R Riduci/Riusa/Ricicla in tutte le attività

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di progettazione, dal master plan fino alla scelta dei materiali, l’arco di tempo coperto dalle previsioni progettuali è molto più breve e si riferisce sostanzialmente al passaggio dal primo ciclo di vita, che ha inizio e conclusione entro i tempi di svolgimento dei giochi olimpici, al secondo, quello che si presume essere molto più lungo, in cui il parco e le attrezzature sportive assumeranno il ruolo di attrezzature urbane e di quartiere. La piena consapevolezza di questa singolare quanto rapida mutazione ha spinto l’Olympic Delivery Authority (ODA), l’ente cioè incaricato della gestione del Parco Olimpico nonché del processo di adattamento del sito alle future esigenze della città, ad elaborare un complesso master plan di tutto il Parco improntato alla definizione di aree e attrezzature “mutanti” in rapporto ai rispettivi ruoli e funzioni durante e dopo i giochi. Il progetto dei Giochi è stato pertanto articolato in tre Masterplan: il primo riferito ai Giochi Olimpici; il secondo alla fase cosiddetta di Transizione ed il terzo alla fase definite della Legacy (eredità). Il primo si occupava delle Olimpiadi vere e proprie, dettando i tempi e gli spazi legati al periodo di svolgimento dei giochi. Il secondo si occupava della “mutazione” (fase di transizione) da Parco Olimpico a zona urbana dotata di residenze, uffici, negozi, esercizi commerciali, laboratori industriali, alberghi. Il terzo – il Masterplan della Legacy – si poneva obiettivi di lungo periodo, per la trasformazione dell’area della Lower Lea Valley nell’East London (una tra le più degradate del Regno Unito) in una zona urbana verde ad elevata qualità. Il tema dell’adattamento al mutare di ruolo e del passaggio da un ciclo di vita all’altro ha interessato anche le singole attrezzature sportive, tutte con un comune obiettivo, quello di conciliare la domanda immediata, legata allo svolgimento dell’evento di breve durata (meno di un mese), con la domanda di lungo periodo, quella della Legacy, quando cioè gli impianti sportivi assumeranno il ruolo di attrezzature urbane. Questa doppia modalità ha imposto ai progettisti un approccio inusuale al progetto, costringendoli a pensare contemporaneamente alle prestazioni dell’edificio durante la fase dei giochi ed in quella ordinaria. Il più noto e patinato delle venues, l’Aquatics Centre disegnato da Zaha Hadid, è stato progettato per avere due configurazioni, quella adeguata alle esigenze dell’evento (17.500 posti a sedere) e quella per la fase postolimpiade, quando parte dell’edificio, le ali laterali, saranno smantellate e riciclate in altri impianti e l’edificio raggiungerà la sua forma climax, per avere una capienza di soli 2.500 posti, quelli cioè effettivamente necessari

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allo svolgimento di eventi sportivi ordinari. Oltre alla metamorfosi fisica l’edificio è stato predisposto per subire anche mutamenti funzionali, divenendo un centro sportivo per la comunità locale con clubs e scuole di nuoto. La seconda domanda è: perché adottare le strategie del riciclo nei territori fragili? Le condizioni di marginalità (geografica, fisica, sociale, ecc.) che determinano la fragilità di un territorio sono condizioni che impediscono alle comunità di disegnare le proprie traiettorie di sviluppo secondo modalità convenzionali, attraverso cioè strategie di programmazione e pianificazione sostenute e finanziate nei modi e nei tempi tipici dell’intervento pubblico. Conclusa, oramai da tempo, la stagione dei grandi progetti per le aree arretrate o marginali, finalizzati a sostenerne le deboli economie ed a fornire le infrastrutture o le opere indispensabili al loro sviluppo (si pensi alle bonifiche o alla riforma agraria) la condizione di marginalità si è acuita e, complici le difficoltà congiunturali della crisi, difficilmente sarà possibile immaginare una nuova stagione di rilancio basata su investimenti pubblici, fatta eccezione per i finanziamenti straordinari disposti in occasione di calamità naturali. Accettando di poter applicare alcuni paradigmi interpretativi in uso nell’economia urbana per spiegare l’arresto della crescita demografica e manifatturiera delle grandi aree urbane, in particolare quello che lega il ciclo di vita delle città al ciclo di vita dei suoi prodotti industriali (modello “degli stadi di sviluppo” o del “ciclo di vita urbano”) si potrebbe affermare, anche per le aree interne, che il ciclo di vita della “industria di base”, quella delle produzioni agricola e della pastorizia, è ormai da tempo giunto all’ultimo stadio del suo ciclo di vita, quello del declino, e con esso si è chiuso anche il ciclo di vita del territorio inteso come macchina per la produzione. Dunque le chance per avviarne uno nuovo sono legate alla capacità di “inventare”, in assenza del supporto tradizionalmente svolto dal governo centrale nelle campagne di rilancio economico, un nuovo “prodotto”, e con esso far ripartire il territorio. É allora utile riscoprire l’atteggiamento mentale del bricoleur, (nell’accezione che ne dà Claude Lévi-Strauss) che di fronte ad un problema elabora la soluzione rivolgendosi “ad un insieme già costituito di utensili e di materiali, (...) per impegnare con esso una sorta di dialogo per inventa-

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riare, prima di sceglierne una, tutte le risposte possibili che può offrire al problema che gli viene posto” (Lévi-Strauss C., La pensée sauvage, Plon, Paris 1962, trad. Il pensiero selvaggio, Il saggiatore, Milano 1964). Come per il bricoleur la regola del gioco per progettare nuovi cicli di vita per i territori fragili consiste nell’adattarsi alla situazione che ci si trova di fronte, risolvendo il problema senza subordinarne la soluzione all’applicazione di modelli precostituiti, ma rielaborando continuamente ciò che ci offre il contesto ed escogitando sempre nuove possibilità combinatorie e creative. Gli approcci connotati dal riciclo e dalla reinterpretazione dei manufatti e dei territori sono dunque particolarmente pertinenti, se non gli unici possibili, in contesti in cui sono da escludersi interventi assistiti nella classica formula top down. Anche in questo caso la ricerca di buone pratiche di riciclo dal basso sarà di fondamentale importanza, soprattutto se saprà orientarsi verso quelle iniziative caratterizzate da un approccio creativo e informale che, interpretando le condizioni offerte dal contesto, abbiano saputo reinventare la realtà dischiudendo inedite possibilità di sviluppo dei territori.

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Giorgio Bombieri, Genova, 2011

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IL RICICLO IN APPROCCIO “LIFE-CYCLE” Adriana Del Borghi, Carlo Strazza >UNIGE

Per definire in quali termini il processo di riciclo di aree urbane possa essere definito conveniente dal punto di vista ambientale risulta necessario un percorso di sviluppo di criteri di sostenibilità. A fronte di una valutazione qualitativa preliminare della fattibilità tecnica ed operazionale l’Unità di Genova si propone di identificare gli effetti “cross media”, affrontando il tema del trasferimento degli impatti ambientali tra diverse sfere ecologiche. L’approccio proposto si allinea al cosiddetto Life Cycle Thinking (LCT), ovvero una metodologia che consideri l’intero ciclo di vita di processi e prodotti e che ne riporti i carichi ambientali secondo diverse categorie di impatto. Secondo un approccio LCT possono essere quindi identificate e classificate le criticità ambientali attraverso la selezione degli indicatori più opportuni per il monitoraggio delle prestazioni ambientali. Parallelamente si mira all’identificazione dei diversi soggetti istituzionali coinvolti (produttori, trasportatori, distributori, consumatori, comunità locali, ecc.), al fine di individuare i campi e le modalità di azioni condivise. In questo modo si rende possibile un processo di identificazione delle prassi migliori e degli interventi integrati che sia effettivo ed efficace in senso progettua-

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le, attraverso la definizione delle azioni di politica ambientale da intraprendere e degli strumenti da adottare per le varie fasi del ciclo di vita, comprendendo strumenti già in uso, utilizzabili e nuovi. Il tema del riciclo e riattivazione degli spazi dismessi o sottoutilizzati delle infrastrutture ferroviarie liguri rappresenta un proficuo esempio di applicazione di un approccio innovativo di ecodesign nel settore urbanistico in coerenza con i principi del LCT. A questo scopo l’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment, LCA) rappresenta uno strumento ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica per misurare in termini oggettivi i costi ed i benefici associabili ad un processo di progettazione in ottica di ecodesign, considerando tutti gli aspetti ambientali lungo l’intera filiera dei processi coinvolti. Tutti gli elementi di cui un sistema necessita per sviluppare la sua funzione (materiali da costruzione, fornitura energetica, beni di consumo, ecc.) dovranno essere presi in considerazione. Per ciò che concerne la valutazione degli effetti ambientali, si può parlare di un vero approccio “multi-criteria”: tutti i differenti impatti ambientali che siano generati da un sistema di prodotto lungo il suo ciclo di vita verranno valutati al fine di evitare il trasferimento tra le differenti categorie considerate, come consumi di risorse materiali ed energetiche e potenziali impatti ambientali. Il LCA si basa sull’analisi dell’inventario del ciclo di vita, che consiste nella raccolta e analisi dei dati in ingresso ed in uscita negli scenari di riciclo considerati, quantificando l’utilizzo di flussi di energia e materie prime e le emissioni in aria, acqua e nel suolo (in ingresso ed in uscita) associati al sistema in analisi, non solo per il sistema intero, ma anche scomposto nelle sue unità di processo. Ciò consente anche l’identificazione delle unità di processo che utilizzano le maggiori quantità di flussi di energia e materie prime e che generano le maggiori quantità di emissioni, in un'ottica di ottimizzazione delle prestazioni in termini di sostenibilità ambientale. Attraverso la metodologia LCA sarà quindi possibile effettuare valutazioni dei carichi ambientali connessi alle azioni individuate per il riciclo di aree dismesse o sottoutilizzate, identificando e quantificando i flussi di energia e materia, nonché i flussi di rifiuto. All’interno delle fasi del ciclo di vita di un insediamento possiamo in primis una evidenziare una distinzione tra fase di costruzione, fase operativa e fase di fine-vita. La prima comprende, tra le altre costruzione di edifici, reti, infrastrutture, realizzazione di aree verdi. La seconda comprende

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sotto-fasi come consumi energetici, consumi idrici, produzione e smaltimento di rifiuti, manutenzione di edifici e reti, traffico individuale, trasporto collettivo. La fase di fine-vita include invece la dismissione di edifici, reti e infrastrutture. Il percorso di analisi prevederà anche l’inclusione di valutazioni sull’eventuale convenienza del mantenimento della connessione con la rete ferroviaria. Tuttavia un confronto del carico ambientale tra trasporto su rotaia e trasporto su gomma dovrà essere necessariamente legato alle implicazioni derivanti dalla dimensione aziendale degli stakeholders fruitori della rete logistica interessata. In questo senso l’applicazione di criteri di ecodesign risulta effettivamente in grado di presentare benefici per business e cittadino allo stesso tempo, poiché risponde ad un interesse comune, quello della ricerca della maggiore efficienza sia dal punto di vista ambientale, che da quello economico e quello sociale, ovvero i tre pilastri della sostenibilità.

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Giorgio Bombieri, Genova, 2011

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ARCHITETTURA DIGITALE PARTECIPATA Andrea Vian >UNIGE

Le profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali che hanno interessato le città italiane negli ultimi decenni hanno lasciato veri e propri vuoti funzionali nei tessuti urbani. Qualunque processo di individuazione, definizione e riconversione di tali spazi richiede la raccolta, l'analisi la sistematizzazione e la condivisione di un'enorme mole di dati grafici, visuali e testuali. Dati che muovono dalla semplice collocazione geografica, alla successione temporale di destinazioni d'uso stratificata nell'identità della città e nella memoria collettiva, esprimono gli interessi economici di tutti i soggetti coinvolti, descrivono le implicazioni di natura normativa, ambientale e sociale collegate alla ridefinizione degli spazi in oggetto. Tale mole di dati è tipicamente raccolta, organizzata e processata tramite Geographic Information System (GIS): strumenti software di gestione di informazioni digitali strutturate, progettati per catturare, immagazzinare, manipolare, analizzare e rappresentare dati di tipo geografico. I GIS permettono di operare su cartografie complesse, creando analisi statistiche interattive, analizzando informazioni spaziali, modificando dati georeferenziati e presentando visivamente gli esiti di tutte queste operazioni.

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Così il ruolo dei GIS nella gestione del territorio è di sostenere la comunicazione, la cooperazione, la simulazione e l'ottimizzazione di un progetto di gestione del territorio. La gestione di tale complessità ha comportato la nascita di strumenti software sempre più specifici e articolati ma ne ha relegato l'utilizzo nell'ambito della pubblica amministrazione e degli studi professionali. Ha cioè escluso completamente i cittadini non professionisti dalla creazione e dalla gestione dell'informazione spaziale riguardante il loro stesso territorio. Ma mentre i GIS si sono via via articolati in sistemi sempre più complessi ed elitari, Internet e l'elettronica di consumo hanno imboccato la direzione opposta. Con l'affermarsi dell'insieme di tecnologie note come WEB 2.0, l'internauta è passato da consumatore a creatore di contenuti e la Rete si è riempita di siti atti ad ospitarli: sono nati i Blog e i Forum per le opinioni, i Wiki per le informazioni strutturate, Flickr per le foto, Youtube per i video. Infine i cellulari hanno superato in numero i computer e, divenendo Smart, hanno armato gli utenti di un unico strumento con cui generare contenuti e caricarli sulla Rete, istantaneamente e automaticamente. Ma se l'intento originale degli utenti è in genere legato soltanto alla conservazione e alla condivisione sociale dei contenuti generati, i sistemi di immagazzinamento digitale si sono evoluti fino a consentire operazioni estremamente complesse tanto sui singoli contenuti, quanto su interi insiemi di dati. Grazie ai servizi web dei giganti dell'informatica e le relative Application Programming Interfaces (API) che consentono di accedere a tali servizi e personalizzarli, sono nati i mashup che incrociano dati e funzionalità di diversa provenienza. Spesso l'interfaccia con cui tali incroci di informazioni sono resi fruibili è una mappa: le foto georeferenziate dei turisti si giustappongono sulle mappe di Google in Localize.us, i tweet relativi a una specifica località danno forma a Trendmap.com e i dati demografici statunitensi di Data.gov sono resi fruibili da ThisWeknow.org. Seppure con modelli di business molto differenti, i servizi di online mapping di Google e di Microsoft sono in grado di giustapporre automaticamente contenuti generati dagli utenti di vario tipo, realizzando una sorta di database geografico dove le sole coordinate danno accesso a mappe, immagini satellitari zenitali e fotografie aeree a volo d'uccello, modelli tri-

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dimensionali, foto turistiche, ricostruzioni storiche, flussi video in tempo reale e rappresentazioni grafiche georeferenziate di innumerevoli tipologie di dati numerici e testuali. Ai servizi di online mapping proprietari si affiancano iniziative come WikiMapia e OpenStreetMap che si fondano sull'adozione di standard aperti, sulla condivisione gratuita delle informazioni e sull'utilizzo di codice sorgente aperto. A testimonianza del livello di completezza raggiunto, Yahoo utilizza mappe di OpenStreetMap nel suo servizio di Flickr per varie città del mondo, incluse Baghdad, Pechino, Kabul, Sydney e Tokyo. Così, tramite i siti e i servizi online fondati sull'aggregazione dei contenuti generati dagli utenti è possibile raccogliere una grandissima quantità di dati spaziali circa uno specifico contesto territoriale, in pochissimo tempo, riducendo i costi e la complessità. Dal momento che i servizi di online mapping (e relativi mashup) e i GIS sono integrabili, diviene non solo possibile ma anche estremamente conveniente realizzare per ogni intervento urbano complesso, una piattaforma online che costituisca elemento di democrazia e partecipazione nel mondo digitale e comporti incremento di efficienza nel mondo reale.

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Irene Guida, Dopolavoro, Taranto 2013

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IL ROSSO E IL NERO TERRITORIO COME PROCESSO E SPAZIO COME SOGGETTO Irene Guida >IUAV

Il paradigma indiziario Edgar Allan Poe scrive The Murders in the Rue Morgue a Baltimora nell’aprile del 1841. Segna l’inizio di un genere letterario: il noir. Nell’incipit Poe distingue l’abilità del giocatore di scacchi, l’ingegno, da quella del giocatore di whistle (un gioco di carte comune nell’ottocento), l’analisi. Mentre un giocatore di scacchi ritiene il numero di mosse dell’avversario, elabora una strategia, considera tutte le sue e le altrui possibilità, il giocatore di whistle, in più, è anche un osservatore attento di ogni sbavatura del gioco. Osserva il modo in cui la carta cade o sbatte sul tavolo, il nervosismo o la leggerezza di ogni espressione della faccia, propria e altrui. L’immaginazione è messa al servizio della costruzione di una strategia, di cui una parte costitutiva è sapere cosa, quando, come e dove osservare, incluso ciò che non fa strettamente parte delle regole interne al gioco. Il salto di Poe è di mettere in situazione questa proposizione in un racconto noir ambientato a Parigi, in cui l’unico testimone è il luogo del delitto. Bernardo Secchi (Secchi B., Tra Letteratura e Urbanistica, Giavedoni, Pordenone 2011) richiama l’importanza del genere noir per un sa-

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pere specifico che il racconto investigativo è in grado di portare, dove la descrizione dei luoghi e degli spazi è costitutiva del racconto. Per Bernardo Secchi, come per Edgar Allan Poe, questo genere di conoscenza è una conoscenza analitica e immaginativa insieme (Secchi B., Il racconto urbanistico, Einaudi, Torino 1984). Il genere di descrizione narrativa prodotta da un urbanista, attraverso microstorie situate, come accaduto per i progetti di Bernardo Secchi e Paola Viganò a Prato (Secchi B., Laboratorio Prato PRG, Firenze, Alinea 1996) e ad Anversa (Secchi B., Viganò P., Territory of a New Modernity, Centraal Boekhuis, Antwerp 2009), racchiude un progetto. Non perché lo scopo delle narrazioni sia ottenere consenso sui contenuti del progetto, ma per la costruzione di un sapere specifico. Come per l’investigatore del duplice assassinio della Rue Morgues, lo sguardo esperto dell’osservatore riconosce una struttura in uno stato di cose a prima vista disordinato. La differenza di sguardo fra il reportage e il racconto dell’urbanista è la stessa fra giocatore di scacchi e il giocatore di carte: il racconto dell’urbanista è fondato su un’osservazione che include la virtualità di azioni future. Il rosso: dal territorio come palinsesto al territorio come processo In Future is back (Viganò P., Storie del futuro, Quaderni del Dottorato di ricerca in Urbanistica 4, Officina, Roma 2008, pp. 9-17) Paola Viganò sostiene l’importanza della descrizione associata a un pensiero del futuro, ripercorrendo l’epistemologia dello scenario, sottolineando l’importanza e la centralità dell’osservazione per la sua costruzione. Se per Bernardo Secchi (Secchi B., Il progetto di suolo, «Casabella», n. 520, 1986) il disegno di suolo non è solo una mappa che segna confini, ma un insieme vivo di fattori che continuamente e nel tempo si ricombinano fra loro, allora per comprendere il territorio è necessaria un’immaginazione musicale, più che visiva, capace di intendere come musica il silenzio (Cage J., Silence: Lectures and :ritings, Wesleyan University Press, 2010) e di entrare nella natura del suono, ampliando il registro delle note e il concetto di armonia (Schönberg A., Manuale di armonia, il Saggiatore, Milano 2008). L’urbanista conosce i materiali del progetto in modo analitico, ma questa conoscenza è prospettica (Arasse D., L’annunciazione italiana. Una storia della prospettiva, La casa Usher, Milano 2009), dunque permette di osservare anche le intenzioni degli attori e le sa spazializzare. Questa è una conoscenza specifica portata dal progetto (Viganò P., I territori dell’urbani-

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stica: il progetto come produttore di conoscenza, Officina, Roma 2010). Non si tratta semplicemente di mappare e geo-referenziare attori e costruire contesti, ma di immaginare un futuro insito nei luoghi e nei dispositivi che li costituiscono come territori, e immaginare quali storie possano raccontare, al futuro. La conoscenza dell’urbanista sorge dall’osservazione immaginativa, dove l’immaginazione temporale assume un ruolo rilevante e costitutivo. In definitiva una carta produce una conoscenza progettuale quando nelle sue pieghe, in senso bergsoniano, si legga la temporalità della costruzione e della modificazione dei suoi elementi. Se il territorio è un palinsesto (Corboz A., Il territorio come palinsesto, in Ordine sparso, Franco Angeli, Milano 1998), questo vuole anche dire che non è un insieme inerte, ma che nel residuo è contenuto un futuro potenziale (Marini S., Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodlibet, Macerata 2011). Dunque il territorio si può osservare come processo, come una successione in climax di cicli di vita (Fabian L., Giannotti E., Viganò P., Recycling &ity, Giavedoni, Pordenone 2012). Il nero: lo spazio del territorio come soggetto Pascale, un agronomo favorevole alle biotecnologie e all’energia nucleare, (Pascale A., Questo è il paese che non amo, Minimum Fax, Roma 2010), ripercorre in modo autobiografico, dunque temporale e situato, la sua avventura di lettore nella cornice temporale degli “ultimi trent’anni di un’Italia senza stile”, ovvero di un paese che ha la sua debolezza costitutiva nel non sapere riconoscere l’altro e nel cercare sempre conferme narcisistiche e autoferenziali dell’identico. Descrive una debolezza di sguardo, espressa in forma di violenza visiva e narrativa. L’atteggiamento che propone è, per dirla con Serge Daney, Lo sguardo ostinato che non prende in prestito il linguaggio della violenza nemmeno per raccontarla e rifiuta di invadere l’altro, preferendo la manutenzione ordinaria alla cura. Per fare questo è necessaria una riconfigurazione dei saperi di chi osserva. Rudolph Arnheim, (Arnheim R., Entropia e arte, Einaudi, Torino 1974) parla della tensione continua nel concetto di forma delle avanguardie artistiche, fra tendenza all’ordine e tendenza al disordine, sottolineando l’importanza dell’analogia con le teorie coeve elaborate dai fisici a proposito dell’entropia. Il disordine produce scarti, e disperde energia, mentre

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l’ordine è una forma di conservazione dell’energia. Lo sguardo che sappia fornire una sintesi strutturale di configurazioni differenti nel tempo è uno sguardo che ha superato la contraddizione fra ordine e disordine, uscendo dalla narrazione ottocentesca lineare e progressiva. Questo sguardo richiede uno spostamento del concetto di forma, da statico a dinamico, dove l’unica unità riconoscibile sia una struttura. Arnheim esorta a non diventare, per paura dell’entropia, difensori dell’ordine perché l’ordine è una tendenza fisica di qualsiasi sistema, esattamente come l’entropia. Quello che emerge dalla sintesi di queste letture è che esiste una relazione di tipo biografico fra gli attori, i dispositivi fisici e non che costituiscono e trasformano i territori e i loro supporti (Munarin S., Tosi MC., Tracce di città: Esplorazioni Di Un Territorio Abitato: L’area Veneta, Franco Angeli, Milano 2002). Nessuno di questi elementi è statico e inerte, dunque per comprenderli è necessario parlare di cicli di vita; per coglierne la struttura è fondamentale una narrazione che sappia arrivare anche al primo piano, ma rimanendo distante e partecipe allo stesso tempo, rifiutando di aderire alle cose e non rimanendo estranea ad esse. Questo tipo di sguardo è portatore di un sapere specifico non nascosto. Inoltre il supporto fisico delle trasformazioni è portatore di inerzie ed è una forma dinamica, per leggere la quale è importante una descrizione dello spazio come contenitore di tempo, a partire dalle sue strutture costitutive di sistema ecologico (Pickett S.T. A. and White P. S., The Ecology of Natural Disturbance and Patch Dynamics, Academic Press, New York 1985). Per dirla con Deleuze (Deleuze G., Immagine – tempo, Ubulibri, Milano 1989), una faccia è un paesaggio e un paesaggio è una faccia, e non si dà osservazione senza il montaggio che deterritorializza il primo piano del ritratto staccandolo dal campo lungo della panoramica sul paesaggio, e viceversa che riterritorializza il primo piano del ritratto nel campo lungo della panoramica e il ritratto potrebbe anche non riguardare esseri umani. Una descrizione che ambisca a una narrazione del futuro come virtualità presente, qui e ora, non può non includere questo montaggio che permette allo spazio di diventare soggetto e non oggetto di una narrazione. La descrizione dei cicli di vita è la biografia di uno spazio vivente, colto in un momento della sua evoluzione e raccontato nelle sue potenzialità, dove lo scarto è già descritto come la virtualità di un riciclo. È essenziale riconoscere le strutture dei cicli di produzione dello spazio e comprende-

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re quali siano gli attori e i modi della continua riconfigurazione spaziale, descritta nel tempo del suo farsi. Un ritratto e una fotografia di paesaggio montati in questa relazione strutturale non hanno nulla in comune con la veduta settecentesca o con il ritratto picaresco o lombrosiano, o con i ritratti di Atget o dei nuovi topografi. Il significato non è nella singola immagine e nemmeno nella sequenza, ma nella loro temporalità e nella relazione con lo spazio reale. Si potrebbe dire che uno sguardo che ambisca a descrivere l’ecologia di un ciclo di vita non può che contenere lo sguardo dell’altro, raccogliendo la voce dello spazio come soggetto, e che l’elemento fondamentale per compiere questa descrizione sia la capacità di immaginare un futuro situato. Gli elementi di questo tipo di descrizione costituiscono uno scenario e un progetto di riciclo.

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Giovanni H채nninen, La stazione, Milano 2012

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EMBLEMATICA DEL RICICLO: SUOLI, TESSUTI E MANUFATTI PRODUTTIVI Andrea Gritti, Marco Bovati >POLIMI

I. Suoli consumati e territori abbandonati Il consumo di suolo e l’abbandono di spazi urbanizzati sono processi che investono, in forma simultanea e in modo contraddittorio, i territori più popolati e attivi del Paese. Suoli dedicati all’agricoltura o comunque liberi transitano irreversibilmente verso usi residenziali, industriali e commerciali. Spazi urbanizzati, tipologicamente e tecnologicamente inadeguati, degradano verso stati di obsolescenza sempre più profondi e aggravano una crisi ecologica già acuta. Le ragioni che dovrebbero spiegare la convivenza di processi orientati in senso opposto sono molteplici e in gran parte dipendenti da fattori di ordine socio-economico, spesso trascurati dalle discipline del progetto. Il ruolo della rendita fondiaria e della speculazione edilizia, l’inerzia indotta dal regime dei suoli, i limiti dell’intervento pubblico in assenza di politiche fiscali efficaci sono gli argomenti di un testo di Hans Bernoulli su cui varrebbe la pena di ritornare – come fece Aldo Rossi ne L’architettura della città (Bernoulli H., La città e il suolo urbano, Vallardi, Milano 1951). Negli ultimi 50 anni i fallimenti delle strategie che hanno cercato di argi-

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nare la presenza di “suoli consumati” e di “territori abbandonati” («Rassegna», n. 42, 1990) si devono anche alla sottovalutazione dei legami che, rendendo complementari questi fenomeni, li hanno connessi alla crisi dei modelli insediativi nel “capitalismo maturo”. Equiparati ad altre merci e servizi, sempre più specializzati, soggetti alle regole ferree delle prestazioni e dei rendimenti economici, i “prodotti” dell’architettura, da tempo, vengono “lanciati sul mercato” per consumare nuovi suoli o “ritirati dal mercato” per abbandonare quelli non più redditizi, generando residui, rifiuti e scarti dei processi di trasformazione (Kolhaas R., Junkspace, Quodlibet, Macerata 2006). A queste pratiche, tutt’altro che recenti, un dibattito disciplinare, quasi sempre costretto ad inseguire, ha contrapposto parole d’ordine dalle alterne fortune: restauro, riuso, recupero, rigenerazione, e ora, riciclo. Lo schema sotteso a questi transiti terminologici è facilmente tracciabile sia in termini quantitativi che qualitativi: si va da un minimo (restauro) ad un massimo (riciclo) di interventi sulla materia costruita e sull’energia incorporata; ovvero da un massimo (restauro) ad un minimo (riciclo) di valore attribuito all’opera di architettura e al diritto di permanenza nei luoghi d’origine. Sullo sfondo di questi avvicendamenti si agita una tormentata riflessione sulla durata dell’architettura (o quantomeno dei suoi “prodotti”) che forse oggi trova nel concetto di “ciclo di vita” l’occasione per manifestarsi senza contraddizioni. II. Flussi e luoghi iper-industriali Il micro-viaggio (o macro-atlante) proposto nel 2004 ai visitatori della mostra la &ittà in±nita era una promenade sopra la riproduzione zenitale del territorio padano e pedemontano e sotto “i simboli dell’ipermodernità”. Quell’allestimento metteva plasticamente in scena l’artificiosa separazione tra flussi (“di merci e simboli che si sollevano dal territorio come merci per volare nel mondo”) e luoghi (“rappresentati nel continuo mutare di questo territorio”) (La città in±nita, a cura di Bonomi A. e Abruzzese A. Bruno Mondadori, Milano 2004). Mentre Bernoulli si era concentrato sulla “marea delle case” che dilagava in un territorio dove le città erano da circa un secolo senza mura, i curatori della mostra milanese riconoscevano il significato determinante di un altro crollo simbolico: quello delle “mura delle fabbriche” dove erano state collocate “la classe operaia e le funzioni produttive”.

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Aldo Bonomi non attribuiva la scomparsa del “modello concentrazionario” tipico del sistema industriale maturo ad un ciclo post- ma ad uno iper- nel quale la fabbrica si era “rotta” ed aveva “mangiato il territorio”. L’effrazione dei recinti è ancor oggi la spiegazione migliore di come il consumo di suolo abbia reso potenzialmente “infinita” la trama urbana, nonché la ragione che ha indotto l’abbandono di territori urbanizzati senza che si siano innescate efficaci azioni di contrasto. Quello che forse non si era presagito, all’epoca della mostra milanese, è che la separazione tra flussi e luoghi era la rappresentazione di un destino che avrebbe avuto significative influenze sui “cicli di vita” di suoli, tessuti e manufatti, soprattutto produttivi. “Flussi senza luoghi” e “luoghi senza flussi” sono oggi formule efficaci per descrivere gli effetti di quella speciale bulimia che stimola il consumo dei suoli agricoli e produce l’abbandono dei territori urbanizzati. Ma i processi che hanno permesso ai flussi di “sedurre e abbandonare” i luoghi, si sono spinti talmente in là che le discipline del piano e del progetto non possono più evitare di assumere nei loro confronti una posizione intransigente. Servono sforzi autentici per intendersi sulle parole e sulle cose necessarie allo sviluppo di sperimentazioni progettuali che non vogliano più apparire superflue. III. Il ribaltamento dei termini nella prassi architettonica “Del ribaltamento del termine riuso nella prassi architettonica” è il titolo della relazione che Giancarlo De Carlo presentò ad un convegno ospitato dal Politecnico di Milano nel 1980 (AA.VV., Riuso e riquali±cazione edilizia negli anni ‘80, Franco Angeli, Milano 1981). In questo intervento De Carlo discute i termini “riuso, recupero e riciclaggio”: “positivamente ambiguo” il primo; “rozzo” il secondo; “meccanico, tecnologico” che “paventa un destino miserabile dell’opera architettonica” il terzo. Per De Carlo il termine “riuso” è resistente agli assalti della teoria, è appropriato rispetto all’esigenza di misurarsi con i problemi reali di ogni intervento, “non è indifferente all’applicazione normativa”. “Riuso vuol dire qualcosa ma non tutto, contiene ambiguità al punto giusto; corrisponde alle contraddizioni di propositi che l’operazione sottende”. Dell’intervento di De Carlo stupiscono l’anticipazione di temi e problemi oggi attuali e la capacità di districarsi con le ancora embrionali gerarchie delle 4-R: riduzione, riuso, riciclo, recupero.

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“Si dice che è tempo di essere austeri (…) e non si fa caso al fatto che talvolta il riuso risulta più costoso del demolire e ricostruire. Si sostiene che bisogna risparmiare energia (…) e non si tiene conto che il riciclaggio di vecchi materiali può assorbire tante risorse quanto servono per farli nuovi. Si ammonisce che bisogna fermare l’espansione urbana (…) per pervenire finalmente all’agognata 'meta zero' (…) assumendo che il patrimonio esistente e distribuzione della popolazione si corrispondano ancora in modo equilibrato”. Nel suo intervento De Carlo demolisce i luoghi comuni sul riuso e si concentra sui pochi fatti che glielo fanno apprezzare. Il riuso permette di prendere coscienza di come “l’ambiente fisico sia ricco di qualità architettonica” e svincola “l’architettura dalle esigenze banali del cosiddetto sviluppo”. Sotto la bandiera del riuso egli cerca di vincere quella “vecchia dipendenza che ha sempre dannato l’architettura” e che l’ha trasformata in “strumento di produzione”, in “merce” e infine “in soggetto ed oggetto di consumi artificialmente indotti”. L’architettura cui si riferisce De Carlo è al contrario un processo continuo e ininterrotto i cui “cicli di vita” non sono rivolti solo alla rianimazione di energie quasi estinte ma misurano tutti gli aspetti della durata (sociali, culturali, economici, ambientali). “La generazione di un evento architettonico non si limita al breve spazio di tempo in cui viene progettato e costruito: comincia prima, quando sul filo della memoria degli eventi che lo hanno preceduto, si decide di metterlo in atto; e continua dopo, nell’uso, nelle trasformazioni che subisce, nelle memorie che suscita e che si trasferiscono in altri eventi che seguiranno”. Per De Carlo questa consapevole visione deve guidare la “prassi architettonica” e consentirle di utilizzare liberamente i termini di cui si avvale, se necessario ribaltandone il significato. Valeva per il riuso trent’anni fa, può valere per il riciclo ora. IV. Gli emblemi del riciclo Emblematica della tecnica è un saggio che Ezio Bonfanti ha dedicato a un interrogativo: perché l’architettura del Movimento Moderno non ha mai posto in discussione le istanze ideologiche della tecnica, condannando l’atto progettuale ad un’inevitabile subalternità verso il modo di produzione industriale? («Edilizia Moderna», n. 86, 1965).

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“La prima e la seconda emblematica della tecnica” sono per Bonfanti le tappe attraverso cui descrivere “l’involuzione del programma razionalista” e infine la resa dell’architettura moderna rispetto al “principio egemonico” implicito in ogni “forma tecnica”. Il trionfo della tecnica è descritto da Bonfanti attraverso l’indiscutibile successo di alcuni “emblemi”: “il prestigio dell’elemento costruttivo”, “la struttura”, “l’apologia del processo industriale”. Il saggio è la conclusione di una ricerca che Bonfanti aveva dedicato alle “convenzioni espressive” dell’architettura moderna. Come gli ammonimenti di De Carlo, anche le analisi di Bonfanti possono rivelarsi utili a chiarire il ruolo assunto dal riciclo nel dibattito contemporaneo sull’architettura. Strettamente dipendente dalle logiche e dalle distorsioni proprie del sistema industriale anche il concetto di riciclo applicato al progetto architettonico e urbano può infatti celare “principi egemonici” o ridursi allo stadio di “convenzione espressiva”. Evitare queste insidie è uno specifico compito della ricerca progettuale. Farlo non è cosa semplice. Occorrerà vigilare sul rapporto tra i nuovi paradigmi assunti dal sapere ecologico e forme “di comunicazione, di potere e di contropotere” che orientano le “società in rete” e non smettono di influire sulla “questione urbana”. Bisognerà soprattutto dotarsi di una specifica “identità progettuale”, rinunciando a forme parassitarie di conoscenza e costruendo, se e dove possibile, significati autentici e “non convenzionali” (Castells M., The Information Age: Economy, society and culture, vol 1-3, Cambridge, MA 1999).

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Lorenzo Giacomini, Rovina, 2013

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TRA ROVINA E SOGLIA IPOTESI DI UP-CYCLING DEI PAESAGGI INDUSTRIALI RESIDUALI Fabrizio Zanni >POLIMI

La città diffusa che si estende nelle pianure, lungo i litorali, nelle valli del nostro Paese è costituita da almeno tre insiemi tipologico-funzionali di base: tessuti edificati residenziali a bassa densità, centri commerciali, tessuti industriali. Queste tre componenti urbane si contrappongono e interferiscono tra di loro e con il supporto antropogeografico secondo infinite modalità di frammentazione e di adattamento morfo-tipologico alle differenziate condizioni insediative. La rottura delle loro dequalificate invarianti tipologiche mediante l’innesto di nuclei “generativi” di modificazione ed ibridazione è, in generale, una prima e fondamentale operazione progettuale strategica. Nel caso dei tessuti industriali residuali una possibile strategia di up-cycling deve tenere conto di due condizioni di partenza differenziate. Un primo caso è costituito dagli impianti archeologico-industriali. In molti casi la loro grande dimensione rende difficile la gestione di una loro “riqualificazione” insediativa. Siamo di fronte a veri e propri monumenti, reperti di una condizione produttiva e socio-culturale storica che, in quanto “memorie rovinose” inscritta nel paesaggio, rientrano nella categoria del “sublime”. È difficile, non impossibile, attuare strategie di re-cycling senza cancellarne l’“aura”, senza depauperare quel rapporto

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tra rovina e paesaggio che le rende significative. L’innesco di processi di rifondazione/rinaturalizzazione potrebbe passare attraverso la demolizione di parti edificate di carattere secondario e l’inserimento di nuovi spazi architettonicamente definiti, per giungere a una complessiva strategia di ibridazione secondo il classico binomio artificio/natura. Infatti, come afferma Augé la rovina “conferisce alla natura un segno temporale e la natura, a sua volta, finisce col destoricizzarlo traendolo verso l’atemporale” (Augè M., Rovine e Macerie, Bollati Boringhieri, Torino 2004). Louis Kahn aveva proposto una interessante strategia per la Meeting House dei laboratori Salk: “wrapping ruins around buildings”. In questo caso si potrebbe proporre una modalità di intervento in-between: operando “to insert buildings in-between ruins”, in modo da generare una interazione tra paesaggio propriamente detto e “paesaggio interno” ai nuclei di intervento. È possibile sia proporre un intervento “piranesiano”, in cui passaggi e spazi intermedi divengono la nuova struttura connettiva e “contemplativa” della rovina industriale, dall’interno, e, dall’esterno avvolgendola e penetrandola, anche con l’elemento naturale, sia pensare ad una intersezione tra preesistenze e nuovi spazi “parassitari” in modo che i secondi siano in qualche modo “gemmati” dai primi. Si giunge, in questo caso, ad un manufatto che non è più la rovina preesistente e nemmeno il nuovo tout court, posto in intima coesione con essa, come nei noti casi del teatro di Marcello, dell’anfiteatro di Arles, del teatro di Sagunto di Giorgio Grassi. Questi impianti, disposti nel territorio lungo linee ordinamentali riconoscibili (tracciati, sequenze, assialità) possono divenire, attraverso l’operazione progettuale, luoghi di soglia inseriti nelle strutture antropogeografiche locali, funzionando come nuclei “generatori” di una più ampia trasformazione insediativa, nei quali dovrebbero confluire anche una serie di volumetrie sottratte alla indiscriminata distruzione del suolo non edificato. Un secondo caso è costituito da insiemi o porzioni di tessuto industriale di piccola – media dimensione a bassa qualità insediativa, sparsi senza un ordine apparente sul territorio della città diffusa, dismessi o in attesa di riutilizzo. In questo caso una strategia progettuale di interposizione e rottura dei tessuti dequalificati può essere sviluppata su diverse linee d’intervento: migliorando la qualità dei manufatti con tecniche di sostituzione/inserzione di nuovi componenti architettonici o, quando possibile, demolendo porzioni di tessuto industriale diffusivo. L’obiettivo è favorire una maggiore mixité funzionale e formale, in modo da innescare proces-

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si di sostituzione, ibridazione, rifunzionalizzazione nella piccola e media industria locale, favorendo l’insediamento nel bacino di attività di servizio e supporto come gli incubatori d’impresa. Essa deve inoltre riguardare la struttura morfologica e tipologica degli insiemi industriali, di cui rompere la monofunzionalità e la mono-tonia insediativa, per favorire l’innesto di spazi di connessione, “filtri” porosi, naturali e artificiali. Questi obiettivi necessitano di un duplice approccio: morfologico complessivo, alla scala vasta e intermedia, e tipologico insediativo, alla scala locale ed a livello del singolo tipo edilizio. Una possibile strategia di up-cycling può contemplare simultaneamente un rinnovato rapporto tra Monumento e Paesaggio e tra Paesaggio e Tessuto.

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Alessandro Gabbianelli, La vita dei capannoni nella cittĂ adriatica, 2013

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FATTI PER NON DURARE Luigi Coccia >UNICAM

La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti, Roy. Da Blade Runner di Rydley Scott, 1982

La caducità delle forme sembra costituire una delle cifre distintive della contemporaneità: gran parte delle opere di recente realizzazione sono destinate a non durare a lungo, molte di esse mostrano una evidente labilità, una precarietà latente impressa nella loro struttura costitutiva. Tra gli innumerevoli manufatti che hanno invaso il territorio negli ultimi vent’anni, trasformando estesi contesti geografici in aree urbanizzate, i capannoni sono le forme più ricorrenti e sono anche quelle che esprimono, più delle altre, una sorta di innato decadimento associato agli scadenti requisiti costruttivi. I capannoni sono generalmente forme senza qualità, opere edilizie realizzate in tempi brevi per far fronte ad una domanda in alcuni casi reale, in molti altri solo presunta, di spazi per il lavoro. Essi insistono su “aree omogenee” intese come ambiti circoscritti e rigorosamente monofunzionali, espressione di una tipica zonizzazione urbanistica come sancito dal

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D.M. 1444 del 1968. I capannoni non sono dunque l’effetto di una edificazione incontrollata del territorio, ma piuttosto la risposta, adeguata e coerente, ad un atto pianificatorio che ha previsto la loro presenza predisponendo, per ogni circoscrizione comunale, una o più aree destinate ad insediamenti produttivi. L’assenza di un coordinamento intercomunale ha generato spesso una dispersione degli spazi del lavoro, come si evince dalla polverizzazione di capannoni su vaste aree del territorio innervate dalla rete infrastrutturale. Ciò che connota il capannone è la spiazzante ordinarietà dello spazio interno racchiuso da una scatola prefabbricata, uno spazio neutro, disponibile a molteplici usi. Analoga ordinarietà si riscontra nel disegno dello spazio esterno, derivante da quelle imprescindibili opere di urbanizzazione primaria che hanno dotato le aree produttive di sottoservizi, strade e parcheggi, interventi necessari all’attuazione del piano eseguiti senza alcuna attenzione formale e, ancor più, senza alcuna relazione con la specificità dei contesti locali. Assolvendo ad esigenze puramente funzionali, i capannoni sono stati per circa un ventennio il fulcro delle attività di piccole e medie imprese che hanno contribuito a delineare un modello di sviluppo economico tipicamente italiano, il cosiddetto fenomeno della “Terza Italia”, alternativo al sistema produttivo basato sulla grande industria. Oggi però il capannone è uno spazio vuoto e costituisce il segnale più evidente della profonda crisi che sta investendo il nostro paese, laddove l’interruzione o la delocalizzazione all’estero di numerose attività produttive hanno trasformato i luoghi del lavoro in territori abbandonati. Di fronte a questo scenario desolante, segnato da manufatti di scarso valore e sempre più spesso in disuso, considerando tra l’altro il drammatico calo della domanda di spazi per il lavoro sul mercato immobiliare, ci si interroga sul destino del capannone. Un progetto di demolizione costituirebbe la risposta più immediata, l’inizio di una ambiziosa operazione di risanamento del territorio che potrebbe partire dalla cancellazione di tutto ciò che non ha più una sua utilità e che non ha mai espresso una qualità architettonica. Ma qualsiasi progetto di demolizione ha un costo, insostenibile in un momento di crisi economica come quello che stiamo vivendo. La sparizione dei capannoni dunque non potrà che essere affidata all’azione disgregatrice del tempo, al progressivo deperimento delle strutture che condurrà al completamento del loro ciclo vitale.

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Una angolata e circoscritta azione progettuale potrebbe inscriversi in questo inevitabile processo degenerativo mettendo in atto una sorta di “iperciclaggio” del capannone, ovvero un esperimento di innalzamento della qualità dello spazio contenuto nel suo involucro mediante adeguate operazioni di intromissione architettonica. Un esperimento che non potrà essere esteso a tutti i capannoni in disuso dispersi sul territorio, ma richiederà innanzitutto l’individuazione di alcuni casi studio rintracciando quelle situazioni strategiche che avranno, più di altre, la capacità di innescare processi rigenerativi del territorio urbanizzato. L’analisi del ciclo vitale del capannone opportunamente selezionato costituirà un imprescindibile esercizio conoscitivo finalizzato alla individuazione di un intervallo temporale entro il quale l’azione progettuale dovrà agire. Tra la sua costruzione e la sua dissoluzione, più o meno programmata, il progetto tenderà dunque a dare forma ad una frazione di tempo del ciclo di vita del capannone attraverso la sperimentazione di uno spazio che potrebbe segnare un nuovo inizio, proiettandosi oltre i limiti spaziali e temporali del capannone. Sarà proprio questa la peculiarità di un’azione di riciclo, distinta dalle più tradizionali operazioni di restauro o di riuso, in quanto fondata sul consapevole riconoscimento della fine delle cose piuttosto che sulla fiducia nella loro eterna durata, per cui il progetto di riciclo produrrà nuove spazialità all’interno di gusci preesistenti rinunciando palesemente ad operazioni di consolidamento delle strutture originarie. L’esperimento di hyper-cycle, inteso come potenziamento di un intervallo vitale dell’organismo edilizio, richiama le sperimentazioni condotte sugli androidi, organismi geneticamente modificati, narrati da Philip Dick e tradotti in immagini da Rydley Scott in Blade Runner. Il potenziamento della qualità di un capannone, ottenuto mediante una mutazione del suo genotipo, determinerebbe una accelerazione nel suo ciclo di vita, o meglio di una frazione di esso, e, come il mitico Roy Batty, il capannone potrebbe andare incontro ad una riduzione del suo tempo di vita. Ma perché non intendere questo limite come il vero punto di forza di una possibile azione di riciclo architettonico da mettere in atto su quei manufatti anonimi che connotano il paesaggio della quotidianità?

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Marco D’Annuntiis, Au bon Marchè, 2013

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AU BON MARCHÈ Marco D’Annuntiis >UNICAM

Non è certo nuovo il tema del riuso e/o riciclo, nelle sue diverse forme e applicazioni architettoniche e urbane. Lo stesso utilizzo di citazioni nel progetto di architettura potrebbe intendersi come tale. Ma ciò che oggi sembra porlo con maggiore forza è il fatto di essere diventato così tanto centrale nella società da far transitare l’attribuzione del suo valore, senza alcun tipo di mediazione, dalla dimensione etica a quella estetica. Ciò che è “politicamente corretto”, in quanto prodotto di riuso/riciclo, risulta per ciò stesso anche dotato di senso e quindi: “bello”. Nella trasposizione della questione nel campo degli studi urbani, tuttavia, appare preliminarmente opportuno problematizzarne il consueto approccio. In primo luogo revocando in dubbio l’interpretazione che generalmente tende a far coincidere, quindi a confondere, la giusta prospettiva della “sostenibilità” nelle trasformazioni dell’ambiente con procedure e modelli assunti sempre più acriticamente, a volte addirittura moralisticamente, e quindi ad essere coralmente imposti come nuovi dogmi. Una riflessione che poi transiti proprio dal pragmatico interrogativo circa l’esistenza di una “soglia di convenienza” di cui tenere conto nelle tecniche del riuso/ riciclo; fino al dubbio che tale strategia sia da perseguirsi “a priori”, al di là

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di una qualsiasi attribuzione di “valore” in sé del materiale da recuperare, tecnico o estetico che sia. Perché se da un punto di vista tecnologico la nozione di “materia prima” – il cui uso è da ridurre – è abbastanza chiara, qual è invece essa per chi si occupa in primo luogo di spazi? (Senza però buttarla nella interpretazione estensiva che “tutto è materia prima”, altrimenti è altrettanto vero che prima o poi “tutto scorre”, scorie comprese.) In che modo e fino a che punto è legittimo, quindi, che il paradigma del riuso/riciclo incida nelle nostre scelte, che si sperano comunque tendenti ad una costruzione della città più sostenibile? In quale modo il riuso/riciclo inteso come strategia fondativa può segnare diversamente il progetto di architettura, rispetto al modo che ognuno (si spera) ha già di rapportarsi con ciò che pre-esiste all’azione progettuale? Portata al suo estremo – ma, ancora, senza ricadere faziosamente negli opposti estremismi della tabula rasa e della rinaturazione – tale strategia non dovrebbe prevedere anche la cancellazione, totale o parziale, di segni e materiali esistenti per riciclare ancora una volta il palinsesto territoriale, riscrivendo o sovrascrivendo su di esso un nuovo discorso? Certo è, comunque, che il riuso/riciclo presuppone la considerazione di prodotti dall’azione dell’uomo. E dal punto di vista del discorso architettonico non può che trattarsi degli esiti dei processi di costruzione dell’ambiente che lo stesso avrebbe messo in atto per meglio vivere, o delle teorie che questi riguardano. Attività che perseguendo ormai una progressiva riduzione della qualità e della durata dei beni prodotti – tanto nella produzione industriale quanto in quella edilizia – ne ribalta di fatto i caratteri una volta ritenuti fondamentali. Un rovesciamento che vede la sopravvivenza degli artefici sui manufatti, delle persone sulle proprie cose, degli abitanti sulle loro case. Cose e case che terminano il loro ciclo vitale non per deterioramento – dato che potrebbero essere veramente indistruttibili – ma per obsolescenza programmata: perché progettati in modo da non durare troppo e poter essere agevolmente sostituiti, da altre cose ed altre case. “Allo scopo di far durare se stessa, si dice, la società dei consumi deve distruggere le cose durevoli” (Bodei R., La vita delle cose, Laterza, Roma 2011, p. 58). Che ciò dovesse accadere per gli oggetti prodotti in serie era già scritto nelle teorie di alcuni economisti francesi allievi di Bastiat che all’inizio dell’ottocento diedero impulso alla nascita dei Grandi Magazzini allo scopo di ridurre la forbice tra sovrapproduzione di merci e sottoconsumo.

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Su tali presupposti nacque a Parigi, nel 1852, il primo Grande magazzino, Au bon marché, per agevolare l’acquisto dei beni in modo da assorbire il surplus produttivo e ridurre i preoccupanti tassi di disoccupazione, in R. Bodei, in Ibidem, cap. Per coprire un vuoto). Ma il discorso diviene molto diverso nel momento in cui la “proliferazione del superfluo” ha finito con il contagiare anche l’industria delle costruzioni. Come accaduto anche in Spagna, infatti, negli ultimi decenni i territori adriatici hanno subito gli effetti della “bulimia speculativa” di immobiliaristi e istituti bancari che, attivando perversi meccanismi finanziari per il controllo del mercato, hanno lucidamente separato le dinamiche di sfruttamento del territorio dai bisogni, anche se superflui, di abitanti ed imprenditori. Risultato: una sovra-produzione di edifici mai acquistati e mai usati. Centinaia e centinaia di oggetti edilizi, capannoni ed appartamenti, smodatamente accumulati, di fronte ai quali risulterebbe vano qualsiasi tentativo di sminuirne gli effetti negativi: di “smaltire” le eccedenze ricollocandole nei cicli virtuosi e gioiosamente condivisi della natura terza. Un immenso patrimonio di beni “immobili” che, in quanto tali, non possono essere in alcun modo trasportati Au bon marché, per essere esposti, venduti e poi coerentemente sostituiti e riciclati. Così come, d’altro canto, non possono godere di grande considerazione trattandosi di oggetti edilizi inerti, spesso banali per localizzazione e forma, senza mai alcuna memoria da alimentare o cancellare, privi di tracce di significati e relazioni precedenti. Il problema del ri-ciclo di questi oggetti assume quindi un riflesso paradossale e nuovo, un significato autonomo ed assoluto, costituendone esso stesso il primo utilizzo e la dotazione di senso iniziale.

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Vincenza Santangelo, “Galaxies Forming along Filaments” di Tomás Saraceno. Biennale d’Arte di Venezia, 2009

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RI-CICLO IMMATERIALE GLI UFFICI TECNICI DELLE AZIENDE ITALIANE Vincenza Santangelo >IUAV

L’attuale condizione di crisi, la globalizzazione dei mercati, la finanziarizzazione dell’economia segnano il consolidarsi di cicli produttivi fondati sulla frammentazione internazionale della produzione e, di conseguenza, l’innesco di un processo di ritrazione delle aziende dal territorio italiano (Marini S., Bertagna A., Gastaldi F., L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto, Quodlibet Studio, Macerata 2012). Dal 2000 ad oggi sono infatti oltre 27.000 le aziende italiane che hanno deciso di trasferire all’estero gran parte dell’attività produttiva. La Fiat sposta i suoi stabilimenti in Polonia, Serbia, Russia, Brasile, Argentina; la Bialetti in Cina; la Ducati in Croazia e India; la Dainese in Tunisia; la Geox in Brasile, Cina e Vietnam. Si configura una nuova geografia economica (Mutamenti nella geografia dell’economia italiana, a cura di Filuppucci C., Franco Angeli, Milano 2006), contraddistinta da cicli produttivi imperniati sulla segmentazione e delocalizzazione della realizzazione di beni e servizi in altri paesi, in genere in via di sviluppo, per ridurre i costi di lavorazione e per affrontare, con prezzi più vantaggiosi, l’assedio della Cina. L’architettura, che dovrebbe immaginare e progettare spazi che rispondano alle esigenze di uno

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specifico modello economico, è disorientata dalla crisi del modello fordista e dalla conseguente affermazione di un modello economico liquido (Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2003), dove una pluralità di modelli si ibridano senza mai giungere ad una forma definitiva. Lo spazio del lavoro si sposta, si smembra, si ridefinisce al ritmo del processo di transizione verso nuovi modelli produttivi (Micelli S., Futuro artigiano. L’innovazione nella mani degli Italiani, Marsilio, Venezia 2011), in una condizione di perenne trasformazione e rimodellazione. Questo processo dislocativo produce inevitabilmente degli scarti, tra cui lo svuotamento, anche di senso, degli stabilimenti delle aziende italiane (Chiarvesio M., Di Maria E., Micelli S., Modelli di sviluppo e strategie di internazionalizzaione, in Andarsene per continuare a crescere. La delocalizzazione internazionale come strategia competitiva, a cura di Tattara G., Corò G., Volpe M., Carocci, Roma 2006). Uno scenario di oltre 9.000 ettari di aree inutilizzate, corrispondenti al 3% del territorio italiano, che nell’insieme costruiscono un vasto e molteplice patrimonio materiale dismesso, dai nodi delle grandi piattaforme industriali alle minute costellazioni di capannoni medio-piccoli. A questa dismissione materiale degli spazi del lavoro, rispetto alla quale sono stati messi in campo molteplici ragionamenti e affrontate diverse sperimentazioni progettuali, si affianca in maniera latente, ma pervasiva, un intenso processo di dismissione immateriale delle competenze specifiche maturate nel corso dei decenni in questo ambito, tra cui la preziosa attività progettuale svolta nel XX secolo all’interno delle grandi aziende italiane dagli Uffici Tecnici, che rappresentano all’interno dell’eroico ciclo del Made in Italy un segmento rimasto nell’ombra, da molti ignorato e da troppi sottovalutato. Nati nei primi del ‘900 per gestire i processi produttivi all’interno delle prime grandi aziende industriali italiane (Fiat, Pirelli, Olivetti, Ducati, ecc.), gli Uffici Tecnici, sull’onda delle esperienze statunitensi e dei principi del taylorismo, diventano negli anni ’30 il baricentro dove convergono la razionalizzazione dell’iter produttivo, la specializzazione delle competenze professionali e la progettazione di tipo integrale. Gli Uffici Tecnici avviano uno straordinario processo di progettazione degli spazi del lavoro e delle relative infrastrutture di servizio, ma anche di modernizzazione del territorio, configurando l’azienda come dispositi-

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vo di progetto e strutturazione di paesaggi nazionali e internazionali. Il ventaglio degli ambiti di intervento è quanto mai ampio: si passa dal progetto degli impianti industriali a complessi residenziali, complessi turistici, colonie, palazzi per esposizioni, scuole, uffici, complessi sportivi, istituti di ricerca, piani di ricostruzione post-terremoto, oltre che imponenti e pervasivi sistemi infrastrutturali della mobilità. Progetti che vanno oltre il confine italiano, internazionalizzando ed esportando le competenze attraverso una miriade di interventi in Spagna, Russia, Africa, Asia, Medio Oriente e Sud America. Gli Uffici Tecnici diventano i luoghi dove una folla anonima di disegnatori, capi progetto, direttore dei dipartimenti, tecnici, architetti, ingegneri, geometri mettono continuamente in gioco le loro competenze e il loro approccio spesso artigianale per esplorare contesti e situazioni differenti. Si metto in campo ogni volta una creatività e una capacità di reinvenzione delle regole del gioco, proponendo dispositivi e progetti che non sono una semplice risposta tecnica alle questioni in campo. Si ibrida il saper fare dell’esercito di “burocrati” degli Uffici Tecnici, lontani dai riflettori e solitamente ignorati, con le sperimentazioni delle grandi firme dell’architettura e dell’ingegneria italiana, chiamati dalle aziende su specifici progetti. Si intreccia la progettazione e la gestione dello spazio privato con quello pubblico, delineando un affiancamento di alcuni Uffici Tecnici con la Cassa del Mezzogiorno e, in generale, lo Stato Centrale nella costruzioni di nuove visioni economiche e sociali. Si innesca un ciclo produttivo, spesso latente e costantemente nell’ombra, che esce dai confini della fabbrica per costruire nuovi paesaggi a scala locale e globale, dettando nuove modalità di lavorare e abitare i territori. Un ciclo che ha visto un graduale esaurimento con l’affermarsi della società post-industriale (Florida R., L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano 2003) e la progressiva autonomia degli Uffici Tecnici dalla casa madre a partire dagli anni ’70, comportandone la trasformazione in vere e proprie società di ingegneria negli anni ‘80, dove accanto all’aspetto progettuale si consolidano gli aspetti gestionali e finanziari, segnando la fine di una fertile stagione del Made in Italy, un inaridimento culturale ed un indebolimento del ciclo produttivo stesso. La vicenda e il lavoro svolto dagli Uffici Tecnici all’oggi è custodito

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nell’ancor poco esplorato patrimonio di elaborati grafici, documenti testuali, fotografie, filmati, plastici, campioni di materiali conservati negli archivi aziendali. Diversi tasselli che nell’insieme costruiscono la narrazione di un inedito ciclo di strategie di strutturazione della produzione e di modalità di progettazione degli spazi e dei paesaggi del lavoro. Una narrazione al momento senza uditori, un’opportunità in nuce per riscattare il patrimonio materiale dismesso attraverso la trasformazione delle sedi storiche delle aziende dismesse in musei o fondazioni destinati a valorizzare il patrimonio immateriale degli Uffici Tecnici, ma anche offrire nuovi stimoli per rinnovare i cicli produttivi e ripensare l’innovazione delle imprese. Infatti nonostante la delicata congiuntura di crisi economica e di dislocazione della produzione, cominciano ad attivarsi dei primi focolai di resistenza al processo di ritrazione delle aziende dal territorio italiano e di evaporazione delle competenze acquisite nel corso del secolo scorso. La Diesel, storico brand veneto, ha inaugurato il nuovo headquarter a Breganze con uffici, ma anche asilo nido e scuola materna, giardino interno, campi da calcio, bar, palestra, auditorium e osteopata, ribadendo la volontà di rimanere ancorato al territorio in termini sia economici che sociali. La FIAT ha trasformato l’ampliamento delle officine di Piazza Dante a Torino nell’Archivio Storico FIAT, dove sono conservati più di 14,000 metri lineari di documenti che tracciano i diversi aspetti della storia industriale del gruppo, rendendolo centro per lo studio dell’impresa e del lavoro. La Piaggio ha recuperato l’ex attrezzeria dell’antico stabilimento di Pontedera, convertendola nel Museo Piaggio, dove oltre ad ospitare le collezioni dei prodotti della casa madre, è stato anche istituita la Fondazione Piaggio impegnata a rilanciare la declinazione dei valori immateriali aziendali e promuovere riflessioni sui valori sociali e civili tra impresa e territorio. Sono segnali di un ritorno delle aziende sul territorio italiano, sia in termini localizzativi che di investimenti, innescando parallelamente meccanismi di produzione materiale ma anche di conoscenza, attivando processi imperniati su cicli di medio-lungo periodo. All’interno di questo affiorante processo di inversione della delocalizzazione del Made in Italy, la ricostruzione della vicenda degli Uffici Tecnici del periodo d’oro delle aziende italiane diventa fonte di ispirazione

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da cui prendere le mosse per andare oltre la crisi, il tecnicismo imperante, la dismissione materiale e immateriale, recuperandone i fattori competitivi e riaffermando l’azienda che torna a progettare il territorio, superando l’attuale scollamento e mettendo in gioco nuovi cicli di produzione e nuovi paradigmi progettuali.

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PER UN NUOVO METABOLISMO URBANO

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Sissi Cesira Roselli, Inceneritore, Brescia 2012

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NO WASTE Rosario Pavia >UNICH

I rifiuti, i resti, gli scarti costituiscono un tema centrale non solo per l’efficienza e la qualità del territorio e della città, ma anche per l’equilibrio dell’ambiente. I rifiuti sono allo stesso tempo elemento di distorsione e risorsa; possono interrompere il ciclo di riproduzione della città o reintegrarsi nel suo sviluppo. Le città, come le campagne, hanno convissuto con i loro scarti. Riuso e riciclo sono termini antichi, sono costantemente presenti nei diversi modi di produzione economica e di vita sociale. La storia della cultura materiale e l’archeologia trovano nei rifiuti i loro documenti più certi: la vita delle città, degli oggetti, dell’ambiente è incomprensibile senza tener conto degli scarti organici e inanimati. Anche la nostra energia fossile è il risultato di un processo stratificazione e di trasformazione di resti. Le città si sviluppano nel tempo sui loro scarti. Il suolo urbano è fatto di stratificazioni, di un’accumulazione di resti: nelle mura delle costruzioni troviamo materiali ed elementi edilizi che provengono da fabbriche più antiche, distrutte, abbandonate, saccheggiate. I depositi di rifiuti, come i cimiteri, fanno parte della storia e della vita urbana, ma mentre per i cimiteri troviamo una attenzione culturale, religiosa, simbolica, per i rifiuti l’attenzione è stata da sempre solo funzionale (anche se depositi di

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resti come il “Monte dei cocci” di Roma potrebbero dimostrare che le cose non stanno proprio così). Tra sviluppo della città e trattamento dei rifiuti c’è stato un lungo equilibrio, la città tradizionale riusciva ad assorbire i suoi scarti. I rifiuti diventano un problema con la città moderna, con l’industrializzazione, con l‘espansione demografica, con la grande dimensione dei consumi. Alle origini della città moderna i rifiuti urbani diventano un fattore negativo, sono un male da porre sotto controllo, da occultare. L’urbanistica moderna trova i suoi primi fondamenti nella medicina e nell’igiene. Le reti fognarie, come le strade, organizzano l’espansione urbana. Con lo sviluppo della città, lo smaltimento e la gestione dei rifiuti diventano una pianificazione settoriale, specialistica; non fanno più parte integrante del piano della città. Probabilmente anche questa scissione ha contribuito a determinare la fine dell’equilibrio e della visione unitaria del ciclo vitale che teneva insieme sviluppo urbano, produzione, consumo e smaltimento dei rifiuti. Oggi il tema dei rifiuti è al centro della crisi delle grandi città: la loro produzione supera spesso la capacita di gestirli in modo efficace e sicuro. I rifiuti hanno assunto un dimensione economica rilevante al punto da divenire uno dei settori d’intervento più frequentati dalle organizzazioni criminali. Ci deve essere una ragione più profonda, oltre quella economica, che lega la rete oscura e negletta degli scarti dello sviluppo a quella del crimine. Il caso di Napoli e della Campania è per molti versi un vero paradigma anche per questi aspetti. Qui i rifiuti generano altri rifiuti, altri sprechi, altri rischi. Il controllo sfugge intenzionalmente di mano: aumenta l’inquinamento dei terreni e delle acque, crescono gli effetti negativi sulla salute delle comunità locali, aumenta lo spreco di suolo e il degrado del territorio e del paesaggio. La rete dei rifiuti, nella sua versione negativa e criminale, ha ingaggiato una lotta distruttiva nei confronti della città e del territorio ed è sul punto di prendere il sopravvento. La città, ma in fondo stiamo parlando del pianeta, potrebbe morire soffocata dai suoi rifiuti. In un mondo sempre più urbanizzato (nel 2050 avremo circa 9 miliardi d abitanti di cui l’80% vivranno in città), il tema dei rifiuti diventa determinante per la sopravvivenza dei sistemi urbani. Già oggi troviamo due modelli: aree metropolitane come Tokyo che riescono a controllare la gestione dei rifiuti con tecnologie e logistiche avanzate e città come il Cairo dove gran parte dei rifiuti della città viene raccolta

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e trattenuta in appositi quartieri maleodoranti (Zabaleen City, non molto distante dalla Cittadella) per essere selezionata, trattata e riciclata da una popolazione di oltre 50.000 persone che vivono letteralmente nella spazzatura. Molto probabilmente sarà il modo di trattare i rifiuti a segnare la differenza tra le grandi città. Ovunque nel mondo emerge, tuttavia, una questione assolutamente nuova: i rifiuti sono una rete decisiva per la vita della città, non più rete invisibile e oscurata, ma sempre più evidente per la sua ingombrante presenza. Il tema dei rifiuti non si esaurisce con la spazzatura, le nuove forme di produzione e di distribuzione dell’economia hanno determinato la dismissione di aree industriali, di terreni agricoli, di infrastrutture obsolete, di interi quartieri residenziali, come a Detroit. Non sono anche questi resti, scarti, elementi da recuperare, riciclare, riportare dentro un progetto, un piano? L’arte ha già scoperto la centralità dei rifiuti nella nostra vita, facendone oggetto di riflessione estetica (da Beuys, a Warhol, a Shult, a Pistoletto). Kevin Lynch nel 1990 con :asting away è stato tra i primi a restituire al tema dei rifiuti una dignità disciplinare, Rem Koolhaas ne ha cinicamente intuito la omologante presenza, sublimandola nello Junkspace, per Alan Berger il territorio è già un Drosscape. La sostenibilità dell’ambiente è strettamente legata al tema dei rifiuti: il loro smaltimento produce effetti sul surriscaldamento dell’atmosfera e sul cambiamento climatico, i loro depositi si distribuiscono su territori sempre più vasti devastando i loro ecosistemi e la salute delle comunità. La geografia delle localizzazioni dei rifiuti radioattivi ci è in gran parte sconosciuta. Una organica politica d’intervento in questo settore esige una intesa tra governi e istituzioni difficile da raggiungere. La gravità della crisi ambientale coincide in gran parte con quella dei rifiuti. I rifiuti per molti paesi avanzati sono fonte di reddito, sono risorse. Il loro trattamento si trasforma in materiali riutilizzabili ed energia. Molti inceneritori sono opere di architettura e d’ingegneria; molti processi di produzione tendono a ridurre a zero gli scarti; la raccolta dei rifiuti si fa sempre più selettiva; la loro logistica diviene una delle reti portanti l’efficienza dei territori. Il tema è talmente rilevante e decisivo per le sorti delle città che già ora si confrontano scuole diverse di pensiero: dalla riduzione dei consumi, a forme più efficaci per la raccolta dei rifiuti, alla progettazione delle filiere di produzione e di riciclo degli scarti come propongono la blue economy e l’eco design. Per molti l’inceneritore, anche nella sua versione più

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avanzata di termovalorizzatore, è un indispensabile ed efficace rimedio, per molti altri, probabilmente a ragione, sono nocivi alla salute e di incerto esito economico. Ed ancora, due modelli gestionali sono a confronto: decentramento, organizzazione in cluster territoriali limitati o impianti a distanza e ad alta concentrazione? La gestione dei rifiuti non ha soluzioni generalizzabili, come per il progetto e il piano le strategie non possono essere che contestuali. In un mondo minacciato da una crisi ambientale di dimensione planetaria, dove la devastazione del territorio e del paesaggio, dove l’inquinamento dell’atmosfera, dei suoli, delle acque, dei mari, dove la qualità delle città e la salute dei cittadini dipendono dalla sovrapproduzione dei rifiuti, dalle disfunzioni del loro ciclo di smaltimento e riuso è necessario fare della questione degli scarti un tema politico e culturale di fondo, riportando l’attenzione del progetto e del piano sulla loro complessa natura. È giunto il momento di apprendere dai rifiuti, dalla loro storia (che è la nostra), dalle loro contraddizioni, dal loro male, ma anche dalle loro risorse. Come riportare la loro ingombrante presenza all’interno del progetto di architettura, di paesaggio, di città, di territorio? Come trasformare la loro organizzazione in una rete integrata e strutturante il sistema insediativo? Cosa impedisce di trasformare le loro infrastrutture di raccolta, distribuzione e smaltimento in opere di qualità? Come reintegrare nella città e nel paesaggio i manufatti, le infrastrutture, le aree un tempo produttive e ora abbandonate e inquinate? Sono anche queste le domande su cui deve interrogarsi la città del XXI secolo. Trasformare i rifiuti in risorsa richiede impegno civile e politico, ma anche un progetto culturale. I rifiuti, da spazio materico, da nascondere e allontanare, devono diventare parte visibile della città e del territorio. In particolare, le stazioni ecologiche, dove vengono raccolti gli scarti ingombranti possono divenire veri e propri spazi pubblici e di servizio, all’interno della città e dei quartieri; luoghi d’incontro, di scambio, di socializzazione e di localizzazione di attività produttive ed educative. Le stazioni ecologiche come nuovi spazi pubblici non esauriscono il discorso, anche gli altri nodi della filiera dei rifiuti possono acquisire visibilità e qualità urbana; dalle isole ecologiche a contatto con la residenza, alle APEA all’interno o ai margini delle zone industriali, ai centri di compostaggio nei parchi e nei territori agricoli, ai diversi centri di trattamento delle frazioni differenziate. Rendere percepibile la filiera dei rifiuti, richiede un piano e un

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progetto. È compito dell’architettura fare emergere questi spazi, dando loro senso. Le città devono apprendere dalla spazzatura e rappresentarsi anche attraverso di essa. Tornano alla mente le parole di Detwiller, uno dei personaggi di Underwolrd di DeLillo: “la spazzatura ordinaria dovrebbe essere piazzata nelle città che le producono. Esponete la spazzatura, fatela conoscere. Lasciate che la gente la veda e la rispetti. Non nascondete le vostre strutture. Create un’architettura di immondizia. Create fantastiche costruzioni per riciclare i rifiuti e invitate la gente a raccogliere la propria spazzatura e a portarla alle presse e ai convogliatori. Così imparerà a conoscere la propria spazzatura. Il materiale a rischio, i rifiuti chimici, le scorie nucleari, tutto questo diventerà un remoto paesaggio all’insegna della nostalgia”.

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Vincenzo Gioffrè, Arangea, RC 2008

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RICICLO PAESAGGIO Gianni Celestini >UNIRC

I. Riciclo, paesaggio La ricerca Re-cycle colloca uno specifico campo di sperimentazione nel paesaggio riconoscendolo come uno degli attori protagonisti di un reale e concreto progetto di rigenerazione e strumento per plausibili risposte alle urgenze del paese a condizione, come nell’architettura, che si proceda ad un aggiornamento delle categorie interpretative del progetto. La ricerca va affrontata dotandosi di ali e mantenendo ben ancorate le radici. Guardare alto, con grande sforzo teorico e con un rilevante impegno per l’innovazione sia negli strumenti adottati che nel perseguimento degli obiettivi e restare al contempo ben radicati, sviluppando una capacità di risposta concreta che la situazione del paese invoca. L’evoluzione negli ultimi anni del progetto di paesaggio, testimoniata dall’opera di numerosi autori, ha segnato il passaggio da una visione tradizionale, di eredità ottocentesca riferita prevalentemente al progetto di parchi e spazi pubblici, all’attenzione verso temi e luoghi che sinteticamente possono essere individuati come paesaggi del quotidiano, situati per lo più in contesti periferici, in luoghi nei quali la natura, la forma e la struttura della città hanno assunto caratteri ormai non più identificabili

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con quelli della città consolidata, ma assimilabili a configurazioni aperte e disperse. In questa nuova condizione il lavoro dei paesaggisti ha introdotto alcuni temi che via via hanno assunto un carattere di centralità rappresentando un fattore di rilevante novità. Un contributo originale che ha portato l’attenzione verso il progetto degli spazi liberi quale contributo essenziale per azioni di rigenerazione urbana proprio in una fase di evoluzione dell’habitat contraddistinta dall’aumento di luoghi difficili. Dunque si è compreso che l’azione sul paesaggio è strategica per risolvere la condizione d’indeterminatezza degli spazi liberi tra gli edifici e tra parti di città nel tentativo di colmare il vuoto di una socialità assente perché senza luogo (riconoscibile), abbandonando una ricerca meramente estetica in favore di processi di costruzione di spazi pubblici “attivi”, vissuti, luoghi di socialità effettiva sostenuta da una rete di spazi aperti e flessibili, verdi e vegetati. Nell’agire sul e nel paesaggio si attivano procedure di riciclo intese come realizzazione di nuovi cicli di vita e non solo di recupero. Si interviene in un corpo vivo, la materia su cui si imprime l’azione è il paesaggio in sé; le relazioni che si instaurano hanno un ruolo costitutivo ed una funzione rigeneratrice del paesaggio, sia di quello che si trova che di quello che si trasforma durante il processo. Questo agire comporta azioni di discontinuità nei confronti di una prassi tradizionale, di nuova messa in gioco di contesti, luoghi e manufatti in un processo di riscrittura dell’habitat nei suoi diversi strati di densità, assumendo l’eterogeneità, il contrasto e i conflitti come fattori positivi, di sviluppo e di trasformazione. A me pare che quella del paesaggio sia l’attitudine progettuale maggiormente in grado di interpretare l’habitat contemporaneo. Perché caratteristica del landscape sono il tempo, l’evoluzione, i processi, per questo persegue progetti imperfetti che potremmo ritenere mai completati. Si percepisce un senso di necessità nel progetto di paesaggio perché più che l’estetica è in gioco l’efficacia. Il progetto di paesaggio inverte la rotta, non ricerca l’accumulo, piuttosto studia il sistema di decostruzione, il “tra” le cose, promuove, direbbe François Jullien, “trasformazioni silenziose”. Il landscape sembra essere in grado di instaurare con la condizione contemporanea dell’habitat, non più rappresentabile con i codici figurativi dell’architettura, relazioni di tipo fisiologico, intendendo con ciò una vasta gamma di fattori, elementi, comportamenti.

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II. La città stradale Del cambio di prospettiva fa parte appoggiare un ragionamento propositivo non su categorie astratte ma guardando a contesti con proprie fisionomie, caratteri e condizioni territoriali dotate di qualità generalizzabili perché riferibili ad altri luoghi. Campo di sperimentazione è l’area metropolitana di Reggio Calabria, un contesto sociale e geografico con una cornice giuridica che costituisce una formidabile occasione per mettere mano a quell’universo mal amalgamato della città stradale, superando – almeno si auspica – i confini comunali e i relativi campanili. Qui città e paesaggio si manifestano saldati insieme, due entità fisiche e percettive non solo intrecciate ma complementari. La città stradale è inclusiva, attrae a sé la linea di costa e l’entroterra più prossimo saldando insieme una prima linea la cui condizione fisico ambientale spesso è compromessa ed una seconda linea – il territorio rurale e pedemontano – in molti casi in attesa di nuovi usi; costituisce una barriera, materializza un limite duro e allo stesso tempo poroso. L’infrastruttura stradale è la struttura primaria, il condensato spaziale e funzionale lungo il quale troviamo una gran quantità di elementi che sono e producono scarti; offrono un materiale straordinario per accumulazione e varietà, disponibile per pratiche di riciclo. Una città in movimento, quasi che l’elemento stradale intorno al quale si coagula ne segni il comportamento e il destino a partire dalle forme di uso e di attraversamento. La città stradale si dà per successione di funzioni, di oggetti, di dimensioni e di scale, quasi mai disegna una sequenza ordinata o coerente ma mai ne sembra priva. I suoi caratteri sono la densità, la concentrazione, la dispersione, la continuità e la discontinuità. Ogni tanto intervalli opachi composti da interstizi vuoti, spazi indistinti, luoghi di accumulo di rifiuti, ambienti alienati da una condizione originaria semi naturale o semi urbana segnano la presenza di un’altra scrittura: il reticolo di vecchi tracciati, per lo più trasversali, il parcellario agricolo, muri a secco, terrazzamenti, canali per l’irrigazione. È l’anima dei luoghi che si affaccia e rivendica un nuovo ruolo, reclama una nuova vita che ne riaffermi la necessità. “Strada per le Calabrie” prima, tra i Borboni e il risorgimento, poi divenuta Statale 118, ha cambiato il paesaggio di queste terre, prima grande opera della modernità ad essere realizzata al sud, oggi è un sistema di conurbazione, una mescola inedita di nature e cose che provoca spaesamento

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perché ci si trova di fronte allo stesso tempo a paesaggi del vuoto e del troppo pieno, pur connotati dall’assenza appaiono saturi alla vista. III. Un altro sguardo Abbiamo davanti ampie aree inutilizzate, territori cosiddetti incolti, né agricoli – perché non più produttivi, né urbani – perché ancora o non più occupati da edificazioni, osservati finora da un punto di vista sociale segnalandone la minaccia in termini di sicurezza e le condizioni di degrado. In passato alcune pratiche artistiche riconducibili alla land art hanno suggerito un diverso punto di vista. Hanno guardato a questi luoghi non come a una minaccia per la sicurezza o per la salute ma come ad una materia espressiva parte dell’opera. Non più ritenuti luoghi insicuri e persino insalubri sono stati considerati invece espressione di una sensibilità romantica che ne riconosce una certa potenza e affascinante vastità, come di fronte alla grandezza della natura nei quadri di Friedrich. In tempi più recenti questi luoghi sono diventati campi di azione di pratiche sociali e artistiche, come ad esempio le transurbanze o interventi di riconoscimento, trasformazione e autocostruzione promossi in molte città europee da collettivi interdisciplinari come parte di un processo di partecipazione e azione diretta, finalizzate a nuovi usi, inventando pratiche e stimolando nuovi stili di vita. Non si tratta solo di un’attenzione verso luoghi disattesi, ma della messa in discussione di molti punti che caratterizzano la tradizione estetica moderna del paesaggio. Questi spazi manifestano un’ambiguità, estranei alla vita urbana così come siamo abituati a pensarla, ne sono parte nella sua declinazione più ultima discontinua, incoerente. Ma questa natura plurale segnala un’apertura verso una proiezione futura che ne muti la condizione. Per questo è necessario un aggiornamento delle categorie teoriche e di approccio del progetto, affrontando in termini originali il tema del rapporto tra conservazione e trasformazione e tra paesaggio e abitanti; misurandosi in modo non subalterno con i temi dell’ecologia, al contrario ricercando in essi spunti per un arricchimento della creatività e dei codici espressivi del progetto di paesaggio. Il progetto non ricerca l’armonia piuttosto l’adattabilità e l’attualizzazione perché lo spazio del paesaggio è in un certo senso intermedio e flessibile, capace di giocare il proprio ruolo sulla durata e sulla provvisorietà.

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Abbiamo compreso che la funzione dei luoghi e degli spazi non corrisponde più ad un codice stilistico visibile; dunque il paesaggio non è più un prodotto delle trasformazioni fisiche necessarie al suo utilizzo, quanto la stratificazione dell’universo relazionale che in esso si stabilisce, ovvero usi, interpretazioni, rappresentazioni, itinerari e attraversamenti. IV. Una ipotesi e alcuni temi Lavorare su una ipotesi di Paesaggio relazionale, un insieme di spazi liberi con specifiche capacità funzionali ed ecologiche; paesaggi diffusi e flessibili non definiti da funzioni precise ma disponibili per attività diverse. Si tratta di operare un mix tra il sottosistema urbano e il sottosistema agricolo per dare vita ad un paesaggio composito di agricoltura, natura e servizi urbani evoluti. Su questi temi abbiamo una storia, dal Prin 2007 Paesaggi del ri±uto è emersa l’individuazione di strategie di rigenerazione sulla base della consapevolezza che la riconquista dello spazio pubblico e la valorizzazione dell’agricoltura nella città diffusa sono un’unica questione di paesaggio. L’agricoltura è un tema che intrattiene uno stretto rapporto con i mutamenti dello spazio collettivo contemporaneo per questo è dunque possibile sviluppare una riflessione propositiva interpretando l’agricoltura multifunzionale e l’agricoltura sociale come contributi alla rigenerazione del paesaggio metropolitano. Lavorare su un progetto visibile della produzione: nuovi cicli di produzione/consumo generano una nuova specie di spazi aperti, sociali, vegetali (multifunzionalità, autocostruzione, temporalità, agricoltura, vegetazione, spazi liberi, comunità). Dal workshop Pettinissa deriva l’intuizione di immaginare un nuovo ruolo per un’infrastruttura che taglia e separa, trasformandola in un paesaggio. L’infrastruttura invoca un cambio di prospettiva, da strada-infrastruttura a strada-spazio-paesaggio: uno spessore che aiuta a creare legami per uno spazio non solo permeabile ma a densità variabile, adatto a sviluppare relazioni a rete. Sono solo alcuni spunti di lavoro sul paesaggio per offrire un radicamento geografico ai territori frammentati.

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Luigi Latini, Dettaglio del parco dell’università di Irchel (progetto di Eduard Neuenschwander, 1978-1983), Zurigo 2012

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RE-CYCLING IN THE GARDEN NOTE A MARGINE DELLA RICERCA RE-CYCLE ITALY Luigi Latini >IUAV

Tra le molte, troppe angolazioni che la parola paesaggio assume anche nell’ambito del re-cycle, facile è perdersi o restare comunque appesi a quella consuetudine che ci autorizza da tempo a moltiplicare questa parola in una dispersiva catena di declinazioni diverse. D’altro canto, credo che il gruppo di ricerca debba prendere in considerazione anche questo aspetto, soprattutto per la missione “teorica” che gli appartiene. Una e più voci che guardano al paesaggio come questione interna sono necessarie, questione da affrontare con uno sguardo autonomo, che procede al riparo dalle molte tendenze ammiccanti quanto soporifere che associano al paesaggio qualsiasi riflessione su contesti e territori estesi, e sui processi che ne fanno parte. Torniamo ai padri fondatori di questa che per molti è una “disciplina” e tra questi evochiamo, nel lontano 1989, Eugenio Battisti. “Il paesaggio mi deprime”: questo l’incipit del saggio Odiando il paesaggio, scritto da uno dei primi studiosi (Battisti) che hanno precocemente sviluppato uno sguardo lungo sulla questione e ancora offrono il miglior viatico per avventurarsi nell’attuale panorama (il saggio è riapparso nella raccolta Eugenio Battisti. Iconologia ed ecologia del giardino e del paesaggio, Olschki, Firenze 2004).

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Raccogliamo da questa precoce provocazione e l’invito a liberarsi da tutto ciò che è travolto dalla macina della banalizzazione e da una generale, sospetta rapida simpatia per il paesaggio che non fa certo bene alla sua salute, basata su principi di lenta acquisizione, severa dedizione, meditativi riciclaggi. Pare dunque utile che la discussione teorica in seno alla ricerca ragioni anche su questo, e cioè su un significato pertinente, possibilmente “militante” che la parola “paesaggio” assume in un quadro di contenuti legati al re-cycle e, in generale, al patrimonio di riflessioni che si deposita in seno a un dipartimento dal nome “culture del progetto”. Accettando anche un esito negativo di questa ricerca, visto che, da sempre, chi si occupa di paesaggio come “studio e cura dei luoghi” (studioso, giardiniere, agricoltore o agrimensore) s’immagina abbia acquisito e sviluppato una confidenza con principi come quelli di rinnovo, riciclo, durata senza spreco nel tempo eccetera (cito esplicitamente Lo studio e la cura dei luoghi in quanto titolo delle omonime giornate di studio, anche da me curate presso la Fondazione Benetton Studi Ricerche lo scorso 13-14 febbraio 2013). Sarebbe utile chiarire quest’aspetto, a tal punto che potremmo finalmente mettere a fuoco e dire la nostra anche su quell’incestuosa associazione che nel nostro tempo accomuna “paesaggio” a “sostenibilità”, con qualche chiarimento utile dal momento che la “sostenibilità” è implicita in quelle buone pratiche del paesaggio che, se preso sul serio, sussistono da tempi remoti. La ricerca offre l’occasione per sperimentare uno sguardo diverso, che passa attraverso l’osservazione di processi e pratiche visibili come spazi e forme costruite, misure necessarie a un sistema di relazioni che ci permette di maturare una “coscienza paesaggistica” (l’espressione si richiama esplicitamente a Ippolito Pizzetti in «Casabella» n. 575-575, 1991). Appare per questo necessario allungare (e non ritirate) il passo, dal paesaggio al giardino, seppure quest’ultimo da sempre evitato nel mondo accademico per una sua scivolosità ideologica e per un pregiudizio sul quale io credo non si è mai fatto i conti. Il parallelo tra giardino è città è del resto immediato, per quell’incessante rinnovarsi di forme, migrare di segni e materiali che affiorano nello stesso spazio, e di aiuto per uscire dalle ambiguità della visione di città come paesaggio (Latini L., Giardino misura del paesaggio. Vita di uomini e piante in uno spazio raccolto, in Il palinsesto paesaggio e la cultura progettuale, a cura di Marini S. e Barbiani C.,

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Quodlibet, Macerata 2011, pp. 39-50). Da un lato possiamo dunque guardare al giardino come parte della storia della città, e come questa travolto da quel processo di trasformazioni di cui parla Ferlenga (Ferlenga A., Ricicli e correzioni, in Re-cycle. Strategie per la città e il pianeta, a cura di Ciorra P. e Marini S., Electa-MAXXI, Roma 2011, pp. 90-101). Dall’altro vediamo invece luoghi fino a poco fa chiamati “di risulta” prendere vita ed entrare nel gioco del sistema di spazi pubblici aperti che, grazie a una stagione di riconversioni, iniziata forse con il concorso parigino per La Villette, diventa palestra per un modo completamente nuovo di intendere il paesaggio. Resta da capire se davvero questa miriade di spazi raccolti dall’abbandono e dismissione di attività siano davvero interessanti per una riflessione sul riciclo. Che le mura urbane in disuso siano diventate a un certo punto materia plasmabile per pubblici passeggi alberati; che l’orrido di una cava di pietra nella periferia si trasformi nella scena romantica di nuove topografie urbane consacrate al loisir; che un’acciaieria tedesca disegni invece scenari di socialità inedite, o la ruggine di desuete infrastrutture si presti a fiorite e vibranti passeggiate metropolitane, è cosa acquisita e meditata. In parallelo si è poi ragionato giustamente sui processi di riciclaggio vero e proprio dei materiali che entrano in gioco, in laboratori che sono più vicini alla dimensione del giardino prima ancora che al paesaggio. Il contributo di Peter Latz nella Ruhr e nel contesto dell’Emsher Park è più che noto, ma si può guardare più indietro al lavoro di Louis G. Le Roy in Olanda e Eduard Neunschwander in Svizzera negli anni Settanta-Ottanta: persone colte e socialmente sensibili che paesaggisticamente rivoltavano montagne di macerie, macinavano scorie e plasmavano terreni di scarto, con risultati notevoli. Mai usando, però, parole come riciclaggio e sostenibilità, e piuttosto percorrendo il doppio registro di una loro personale, scrupolosa missione che oscillava tra l’ecologica e l’estetica (L’esperienza di Le Roy è stata riordinata con il volume Louis G. Le Roy. Natuur &ultuur Fusie. Nature &ulture Fusion, a cura di Boukema E. e Vélez Mecintyre P., NAI Uitgevers., Rotterdam 2002; Neuneschwander aveva condensato il suo pensiero nel libro Neuenschwander E., Niemands Land. Umwelt zwischen Zerstörung und Gestalt, Birkhäuser, Basel 1988). Utili indizi potremmo ricavare da questi ultimi territori esplorati/esplorabili, da figure che incarnano un incontro tra precoce militanza ecologica e fascinazione per erbacce e macerie. Resta da indagare meglio – parlando

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di “culture del progetto” –, il ruolo e il destino del giardino, nella sua forza figurativa, nella sua accezione militante e nelle sue inesplorate connessioni con la città e il territorio aperto. Di certo non come ultimo atto di uno sguardo deduttivo e gerarchico che procede dalla grande alla piccola scala, ma come disciplina interiore e misura estetica. Il giardino è un testo nel quale si riscrivono incessantemente storie che mettono in circolazione materiali depositati e in attesa: nei cicli iconografici e nelle figure che li rendono leggibili, nell’ingegnosa riscrittura e correzione delle partiture planimetriche, nel travaso di materiali e oggetti, nell’uso e nel ri-disegno delle stesse acque, dello stesso terreno; nella giudiziosa valutazione di patrimoni vegetali e colture che quasi mai si cancellano, ma entrano in gioco in forme diverse e strutture diverse. Studiare questa missione appartenente al giardino è un contributo pertinente alla cultura del progetto, possiede nelle proprie corde un’attitudine al re-cycling per “naturale inclinazione” all’essere giudiziosi, inventivi nelle trasformazioni, astuti nell’accompagnare i cicli e i processi di crescita di un mondo, quello naturale, con il quale l’uomo da sempre si misura. Si ricicla, dunque, anche imparando dal giardino. Il Selvatico, figura chiave (per significato e per utilità) della storia del giardino italiano, per comodità e per moda romantica si trasforma poi in bosco paesaggistico, e in questo ciclo sollecitato dall’impopolare distruzione del giardino formale si preserva comunque l’inclusione di figure preesistenti (popolate di bestie e non solo di uomini, per diverse ragioni). Così è avvenuto nel campo dei rivolgimenti iconografici, per esempio a Boboli, dove si ricicla in modo spregiudicato la statuaria classica e cinquecentesca per disegnare nuovi percorsi tematici all’interno di un giardino dove, su altri fronti, il Tribolo, tre secoli prima del parigino Buttes Chaumont, recupera l’impronta di una cava di pietra forte per ospitare un Mezzo Tondo di verzura. Bernard Lassus ci ha accompagnato con le sue prime esplorazioni snob in cerca di habitants paysagistes (1975) e dei loro giardini dispersi nella periferia. Altri hanno di recente fatto irruzione nelle città con la novità della mobilitazione sociale, “guerrigliera”, o dell’orticoltura militante. Molti invocano le ragioni di un “terzo paesaggio”, e poco si curano del primo e del secondo. Oltre questi necessari sguardi innovativi, la vicenda del giardino in senso schietto ha di per sé molto da dire se presa fuori dallo sguardo compiaciuto di una storiografia troppo ispirata. Quel che avviene dentro i

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suoi confini può essere utile per mettere a fuoco una strategia di riciclaggio che possiede una sua originalità e una vicinanza alle esigenze della società contemporanea. Oggi, nel silenzio del fare si muovono del resto molte sperimentazioni interessanti. Il nostro parlare di paesaggio ha assunto toni paludati e strumentali, buoni forse per chi si occupa della sua difesa, per chi naviga per reti e comitati. Qui si potrebbe, invece, parlare di giardino e non “di giardini”. Non di un genere, quindi, ma di un utile campo di sperimentazione mentale e pratica.

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Ignazio Vinci, Paesaggi d’acqua alla periferia di Guilin, Cina 2007

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PIANIFICARE PER NUOVI CICLI DI VITA TERRITORIALI. CONSIDERAZIONI PRELIMINARI Ignazio Vinci >UNIPA

Apertura Le tre parole d’ordine che costituiscono lo sfondo concettuale della ricerca – Riduci, Riusa, Ricicla – riflettono stadi di maturazione estremamente differenziati all’interno della cultura del progetto urbanistico e del planning territoriale. Se li poniamo lungo una linea temporale, ad esempio, dovremo riconoscere che l’imperativo di porre un freno all’espansione delle città (Riduci), così come di riusare spazi e contenitori funzionali nell’ambiente antropizzato (Riusa), costituiscono un patrimonio consolidato della progettazione territoriale ormai da quasi mezzo secolo. Si tratta di una transizione che in occidente si compie tra gli anni settanta e novanta, quando le culture territorialiste sviluppano e sperimentano sul campo un ampio repertorio di regole e politiche, piani e progetti, orientate a contrastare la dissipazione delle risorse spazio e ambiente reinvestendo sull’“esistente”. Se possiamo ritenere maturo il ciclo dell’innovazione cognitiva e progettuale legato all’esigenza del “ridurre” la crescita delle città e del “riusare” i suoi spazi – la realtà delle pratiche a dire il vero smentisce la realtà delle discipline, visto che le città continuano ad erodere senza sosta territori e paesaggi attorno ad esse (si veda per il contesto italiano CRCS, Centro di

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Ricerca sui Consumi di Suolo, Rapporto 2012, INU Edizioni, Roma 2012) –, l’imperativo del “riciclo” pone tuttora un largo spettro di interrogativi alla cultura del progetto territoriale. A differenza del processo di costruzione nell’architettura, il cui oggetto è più agovelmente assimilabile ad un prodotto (con i suoi componenti separabili da avviare alla rigenerazione dei propri cicli di vita), un territorio visto come accumulo di materiali fisici, strutture ecologiche, pratiche differenziate di uso tanto complesse quanto variegati sono gli attori sociali che vi dispiegano i propri interessi ci restituisce un “oggetto” inestricabile, che tende a sfuggire ad ogni possibile riduzione che non sia riduttiva o arbitraria. Le scienze territoriali “dure” hanno messo a punto protocolli e tecniche rivolte alla manipolazione di risorse ecosistemiche, quali il suolo o le acque, che è più agevole ricondurre alla prospettiva del riciclo. L’architettura del paesaggio, da Ian McHarg (McHarg I., Design with Nature, Natural History Press, New York 1969) in avanti, ha sviluppato alcune feconde intersezioni tra tali scienze ed il progetto dell’architettura e della città. Ma cosa accade quando da una prospettiva naturalistica ci si immerge in una realtà di stratificazioni materiali e culturali, sovente contraddittorie, quali quella che caratterizza i territori ed i paesaggi urbani contemporanei? La sfida dei territori ibridi Accostandosi ai territori dell’urbanizzazione contemporanea, dunque, la questione cognitiva e progettuale del riciclo finisce per rivelarsi particolarmente complessa dal punto di vista teorico e metodologico. La cultura geografica prima (ma anche le scienze sociali ed economiche) e quella del progetto territoriale successivamente hanno costruito i propri statuti sulla possibilità/capacità di identificare limiti ed elementi di identità nell’ambiente naturale e costruito (Dematteis G., Le metafore della terra. La geogra±a umana tra scienza e mito, Feltrinelli, Milano 1985). Le differenze tra pianura e montagna, tra città e campagna, hanno definito nel tempo specifici campi cognitivi entro cui elaborare strumenti per la comprensione dei fenomeni territoriali e legittimare per essi ipotesi di trasformazione controllabili nel tempo e nello spazio. In un certo senso, vi era un legame molto più intimo tra una specifica morfologia territoriale ed il modello di sviluppo di cui essa era espressione, tanto da rendere riconoscibili i codici del progetto territoriale rispetto all’insieme delle risorse, materiali ed immateriali, che esso era chiamato a trattare. La comparsa di fenomeni

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quali la metropolizzazione, la città diffusa, la campagna urbanizzata hanno finito per dissolvere questa cosmografia mettendo in crisi l’efficacia degli approcci convenzionali alla progettazione territoriale. Il movimento dominante nei territori contemporanei sembra ormai essere quello di una permanente ibridazione. Territori urbani e rurali, linee costiere ed entroterra, dissolvono le proprie morfologie consolidate generando paesaggi come tessere di un puzzle dai contorni indefiniti. È soprattutto all’interno di questi “territori di mezzo” che si celebra l’affermarsi di una nuova urbanità, costituita da ciò che non è più campagna e non è ancora (o non sarà mai) città. Si tratta di paesaggi porosi e frammentanti, in cui sono spesso i soli grandi corridoi infrastrutturali a definire geometrie organiche e regole insediatiative riconoscibili. Il paesaggio italiano contemporaneo (Lanzani A., I paesaggi italiani, Meltemi, Roma 2003) nei suoi elementi di resistenza, forniti dalla forza del patrimonio naturale e culturale, e di disgregazione, offerti dal modello industriale molecolare e dalla fragilità del sistema di pianificazione pubblica, è uno straordinario caleidoscopio per osservare questi fenomeni. Ma ancor più che scrutando le sue manifestazioni materiali, il processo di ibridazione in corso nella tarda metropoli contemporanea può fornire utili indicazioni alla cultura del progetto territoriale a partire dalle sue implicazioni culturali e sociali. I modelli di sviluppo emergenti nelle società della “terza rivoluzione industriale” (Castells M., The rise of the network society, Blackwell, Cambridge-Oxford 1996; J. Rifkin, The third industrial revolution, Palgrave MacMillan, New York 2011) si basano su una radicale revisione dei dualismi (economici, sociali, culturali) che hanno accompagnato le prime due rivoluzioni industriali. Ad esempio, le metropoli si aprono ai territori rurali, cercando di assorbirne la riserva di sostenibilità che esse conservano, mentre questi sperimentano con le città un legame che non è più quello passivo e subalterno del recente passato. Vi sono tracce di questo passaggio epocale in una molteplicità di strategie e progettualità che prendono corpo nelle città alle più svariate latitudini: i prodotti dell’agroenergia che trovano le più promettenti applicazioni nel rinnovamento dei sistemi di mobilità urbana; le produzioni agricole di qualità che impongono nuovi mercati e stili di vita all’interno delle città; i territori rurali che divengono scenari privilegiati del leisure almeno quanto gli attrattori culturali nelle aree urbane centrali. Si tratta di un flusso circolare ed osmotico fondato sulle medesime capacità di innovazione che stanno ac-

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compagnando l’emergere di un’economia post-industriale che non è più solamente urbana (Basile E., Cecchi C., La trasformazione post-industriale della campagna, Rosenberg et Sellier, Torino 2001). Dinanzi a processi di questa portata è in atto un dissolvimento delle differenze senza precedenti delle categorie territoriali che abbiamo ereditato dal secolo scorso e che impone di sperimentare il progetto delle trasformazioni fisiche insieme ad una nuova capacità di immaginazione territoriale. Pianificare per riciclare territori: i confini e le condizioni metodologiche Possiamo assumere con Gabellini (Gabellini P., Tecniche urbanistiche, Carocci, Roma 2001) che la progettazione urbanistica alle varie scale ha costruito una sua specifica identità non tanto quale tecnica dal profilo autonomo quanto quale dispositivo di connessione tra differenti tecniche alle quali l’urbanista ha fatto ricorso senza interferire nei loro singoli processi di definizione. In altre parole, il ruolo sociale dell’urbanista si è alimentato della capacità/possibilità di comporre materiali urbani eterogenei attraverso l’intermediazione di strumenti (il progetto di architettura, il progetto delle reti tecnologiche, il progetto di paesaggio) necessarie a stabilire relazioni organiche, o quanto meno compatibili, tra lo spazio fisico e quell’insieme di funzioni necessarie al vivere ed al produrre all’interno di un territorio. Richiamando la suggestiva immagine evocata da Francois Jacob a proposito dell’evoluzione (Jacob F., Evoluzione e bricolage. Gli espedienti della selezione naturale, Einaudi, Torino 1978), possiamo dire che il pianificatore urbanista tende ad operare non come un ingegnere, ma come un bricoleur, un compositore di materiali e strumenti, tradizionali o innovativi, che gli vengono messi a disposizione dall’universo di saperi e culture che si producono attorno alle forme di territorialità. L’accresciuta complessità del fenomeno urbano contemporaneo lascia inalterata questa specifica proprietà del progetto territoriale, ma probabilmente lo costringe a stabilire interconnessioni e sinergie, gradi di coerenza e compatibilità ad un livello concettuale ed un perimetro spaziale che non sono più riferibili alla dimensione urbana come l’abbiamo lungamente considerata. Vi è la necessità di immaginare una concezione transcalare del progetto territoriale, in cui la razionalità implicita di ogni singola azione di trasformazione si alimenti di un significato, di un “senso”, che gli è conferito dall’essere parte di una visione di più ampio respiro. È la presenza di una direzione di marcia, di una strategia socialmente rico-

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noscibile sulla maniera in cui le nostre città desiderano affrontare temi complessi quali la transizione economica, la rigenerazione energetica, l’ancoraggio territoriale delle grandi reti infrastrutturali e tecnologiche, la mobilità e lo spazio pubblico una prima condizione perché la prospettiva del riciclo possa radicarsi all’interno delle pratiche di progettazione territoriale. Il riciclo territoriale può configurarsi realmente quale nuovo paradigma nelle pratiche di progettazione territoriale laddove riesca, nel tempo, a condizionare i comportamenti individuali e collettivi. Per fare ciò è necessario che le micro-pratiche di riciclo territoriale, di riuso creativo dei materiali urbani dismessi dal loro uso originario, siano in grado di liberare tutta la loro forza evocativa e simbolica. Ma ancor più necessario appare che tali esperienze possano essere percepite come tasselli di un “programma” olistico e di lungo termine, di una cornice strategica che metta in gioco le dimensioni spaziali e relazionali delle nostre città, a partire da un ripensamento dei modelli locali di sviluppo su cui esse hanno appoggiato la loro trasformazione.

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Valeria Scavone, Via Chiodi: gli orti urbani privati, Milano 2012

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ZERO CONSUMO DI SUOLO: PRIME RIFLESSIONI SUL RE-CYCLE Valeria Scavone >UNIPA

La città contemporanea è divenuta la somma di parti che si sono sovrapposte e hanno “consumato” territori provocando l’urban sprawl, forma di urbanizzazione prevalente nel nostro Paese (ISTAT 2012) che tende a “saturare ogni spazio disponibile” (Gibelli M.C., Salzano E., No sprawl, Alinea, Firenze 2006), con effetti negativi indagati da studiosi di diverse discipline: l’esplosione della mobilità, la perdita della superficie agraria, la frammentazione di habitat naturali e di corridoi ecologici, la progressiva scomparsa del paesaggio che incide anche sulla qualità della vita. A tal proposito, è in attesa del vaglio delle Camere un “Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo” proposto dal Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 novembre 2012 con emendamenti della Conferenza unificata Stato-Regioni. Tra i punti interessanti si segnala l’individuazione di un limite massimo al consumo di suolo “tenendo conto (…) della localizzazione dei terreni agricoli rispetto alle aree urbane, dell’estensione del suolo che risulta già edificato, dell’esistenza di edifici inutilizzati” con possibilità di ampliare infrastrutture esistenti e le Misure di incentivazione per Comuni e Province che pro-

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cedano al recupero dei nuclei abitati rurali con ristrutturazione e restauro di edifici e conservazione ambientale del territorio. Se, infatti, finora la retorica dello sviluppo non ha consentito di vedere possibili alternative, oggi la crisi economica ed energetica globale, la riscoperta delle “città conviviali” (Amendola G., Tra Dedalo e Icaro. La nuova domanda di città, Laterza, Roma-Bari 2010), il risveglio delle coscienze sui temi ambientali, gli inviti della Commissione Europea Ambiente (2012) impongono di indirizzare gli sforzi verso un organismo urbano flessibile capace di esprimere le scelte di trasformazione delle città, riciclando e riorganizzando l’esistente in un nuovo metabolismo, ottimizzando risorse e servizi, tutelando aree agricole e ambiente, coinvolgendo le comunità. Consumare meno suolo significa, infatti, anche incidere sugli stili di vita (AEA, 2005) affinché si riscopra la vita in città, consolidando le piccole centralità mediante spazi e funzioni aggreganti, sostenendo e incentivando la ricucitura di edilizia abusiva o dismessa. Se La Cecla sosteneva che il tema del futuro (La Cecla F., &ontro l’architettura, Bollati Boringheri, Torino 2008) sarebbe stato la “demolizione”, il re-cycle potrebbe più della demolizione abbattere costi di smaltimento, ridurre sprechi, limitare rifiuti. Il riciclo urbano è un paradigma che, senza erodere suolo o qualità, mira ad attivare nuovi cicli di vita, preferendo rinaturalizzare le risorse urbane dismesse o sottoutilizzate, piuttosto che urbanizzarle in maniera tradizionale. Infatti al sub-cycle, una delle declinazioni del re-cycle, è ascrivibile la realizzazione degli orti urbani che, influenzando il “comportamento degli utenti per promuovere stili di vita più rispettosi dell’ambiente” (Forum for the Future, 2010), sono in grado di imprimere nuove qualità estetiche e ambientali a spazi aperti abbandonati che possono tornare ad essere produttivi, di combattere l’immobilismo delle periferie marginali, di ridare qualità alle città, di salvare dalla cementificazione spazi dimenticati. È questo l’ambito in cui si muove anche il Decreto Legge (n.83 del 2012) con le “Misure Urgenti per la crescita del Paese” che, all’art.12, decreta la predisposizione di un Piano Nazionale per le Città dedicato alla riqualificazione di aree urbane con riferimento a quelle degradate, da finanziare con risorse non utilizzate provenienti da altri Programmi. La Cabina di Regia che fa capo al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha già individuato (17 gennaio 2013), tra le 457 proposte, le 28 ammissibili a finanziamento. Poiché i criteri di selezione riguardano “il miglioramento della qualità urbana, del tessuto sociale e ambientale” e la “riduzione di

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fenomeni di tensione abitativa e marginalizzazione”, alcune di queste interessano operazioni di iper-cycle, altra declinazione del re-cycle. Si tratta di brown±elds che potranno rinascere con funzioni legate non più alla produzione ma ad una nuova visione di urbanistica che sappia divenire “strumento di civilizzazione” (Kroll L., Tutto è paesaggio, Testo e immagine, Torino 2005). Tra le proposte: i Gasometri di Milano Bovisa, l’Area Nord di Reggio Emilia, i fabbricati ex Corradini a San Giovanni a Teduccio a Napoli potranno attivare nuovi cicli di vita come accaduto a Bagnoli dove, nell’area dell’ex Italsider di Napoli, le azioni di bonifica, dismissione, riconfigurazione, riciclo, riuso hanno portato alla realizzazione di un Parco Urbano, ancora in itinere.

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Carlotta Lamera, Bangkok 2009

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ACQUA, UOMO E TERRITORIO: UN RAPPORTO DA RIPENSARE Gianfranco Becciu, Carlotta Lamera, Anita Raimondi, Umberto Sanfilippo >POLIMI

L’acqua, è noto, è un elemento caratterizzante del nostro Pianeta, per la sua diffusione e abbondanza a scala globale. In tutte le culture del Mondo, primitive o evolute, essa ha sempre avuto una grande importanza, non solo perché è essenziale per la vita, ma anche perché costituisce la struttura portante della stessa civiltà umana. Nell’evoluzione del rapporto tra uomo e territorio l’acqua riveste, oggi come in passato, un ruolo centrale. Non è un caso, ovviamente, che le grandi città del Mondo siano nate attorno a grandi fiumi, spesso sulle rive di laghi o del mare. Il legame stretto tra gli insediamenti umani e l’acqua, può però anche essere un fattore di rischio per l’uomo e le sue attività. L’acqua, infatti, è anche uno dei principali motori del continuo cambiamento nel nostro Pianeta, che con il suo eterno ciclo di trasformazione e movimento plasma e modifica il territorio, governa il clima, condiziona l’evoluzione degli ecosistemi. Da un lato possono quindi crearsi condizioni di conflitto tra uso antropico del territorio e dinamiche naturali quali le piene fluviali e gli allagamenti, i periodi di siccità, i fenomeni erosivi e le colate di sedimenti, le frane. Dall’altro, è inevitabile il rischio che si crei un’interazione negativa tra comunità umane e risorse idriche naturali attraverso l’instaurarsi

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di processi incontrollati di inquinamento e di trasformazione del territorio. Nel tempo l’uomo ha quindi sempre cercato di mantenere un rapporto sostenibile con l’acqua, ricercando un equilibrio tra le tre esigenze di uso, tutela e difesa. Questo equilibrio è diventato però sempre più difficile da raggiungere man mano che l’uomo ha modificato in modo sempre più significativo il territorio, attraverso la realizzazione di grandi aree urbane, il crescente grado di sfruttamento delle risorse idriche, la sempre maggiore utilizzazione dell’ambiente come recapito finale dei residui delle attività antropiche. L’evoluzione dei grandi agglomerati urbani, in particolare, è avvenuta negli ultimi decenni con dinamiche urbanistiche fortemente accelerate, spesso senza un governo adeguato dei processi di densificazione ed espansione. Tra le criticità emerse da questi processi ci sono anche quelle legate al ciclo urbano delle acque, sia dal punto di vista dei fabbisogni idrici, sia da quello del pericolo di alluvioni. Il problema dell’approvvigionamento idrico delle città è legato alla sempre maggiore probabilità di uno squilibrio tra fabbisogni e disponibilità. Negli ultimi decenni si è osservato un incremento costante della popolazione che vive negli agglomerati urbani, superiore ai trend demografici generali. Questa tendenza alla concentrazione della popolazione nelle grandi aree urbane comporta una crescita dei volumi d’acqua necessari per l’approvvigionamento potabile che si traduce, da un lato, in un sempre maggiore aggravio funzionale delle infrastrutture di trasporto e distribuzione dell’acqua, dall’altro nella sempre maggiore difficoltà a trovare risorse idriche idonee per capacità e per qualità. Se il primo aspetto comporta inevitabilmente le difficoltà finanziarie e tecniche di procedere a frequenti interventi di adeguamento funzionale dei sistemi acquedottistici, il secondo è vincolato dalla consistenza delle risorse idriche e dalle loro dinamiche naturali. In molti Paesi del Mondo, Italia compresa, si assiste a una crescente scarsità della risorsa acqua, legata sia a periodi di siccità più frequenti e prolungati rispetto al passato, sia a fenomeni di inquinamento diffuso che rendono sempre più difficile disporre di acqua di un alto livello qualitativo come quello richiesto dal consumo umano. Questo scenario è ulteriormente aggravato dalla constatazione che spesso i processi urbanistici non tengono conto o tengono conto in maniera limitata della necessità di un equilibrio di lungo periodo tra risorse disponibili e fabbisogni complessivi, con la conseguente esaltazione della rapidità con cui le criticità sono destinate ad emergere nel tempo.

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A fronte dei problemi legati all’approvvigionamento idrico, molte aree urbane devono fronteggiare con sempre maggiore frequenza inondazioni e allagamenti, anche con gravi conseguenze. Il problema è principalmente legato alle trasformazioni del ciclo idrologico derivanti dall’urbanizzazione. I processi di deforestazione e di trasformazione dei suoli liberi in superfici impermeabili porta, infatti, all’aumento delle quantità d’acqua che si accumulano e scorrono in superficie, limitando l’infiltrazione nel terreno e l’evaporazione in atmosfera. I sistemi di drenaggio esistenti, sia quelli naturali rimasti attivi nel tessuto urbano, sia quelli artificiali (fognature), risultano sempre più frequentemente incapaci di convogliare e trattare tutte le acque di ruscellamento superficiale. Questo provoca anche l’immissione nell’ambiente, in modo diretto o indiretto attraverso gli scarichi di piena, di ingenti quantità di sostanze inquinanti trasportate da queste acque. L’evoluzione del contesto climatico generale, con la maggiore frequenza di eventi meteorici estremi per intensità e concentrazione nel tempo, insieme con le crescenti difficoltà di destinare risorse per l’adeguamento continuo delle infrastrutture di drenaggio, contribuiscono all’accentuazione della frequenza con cui anche tali criticità emergono. In molti paesi avanzati si sta consolidando la consapevolezza che l’unica soluzione possibile per questi problemi è rappresentata da un nuovo paradigma nel rapporto tra la risorsa acqua e le collettività urbanizzate, basato sul concetto di riequilibrio tra cicli naturali ed esigenze delle comunità umane. L’obiettivo è creare una nuova matrice urbana e infrastrutturale che sia in grado di adattarsi all’evoluzione prevedibile del contesto climatico e del rapporto tra risorse e fabbisogni, risultando quindi maggiormente resiliente alle potenziali criticità (Langenbach H., Holste W., Eckart J., Theses for the Future of Water Sensitive Urban Design (WSUD), First SWITCH Scientific Meeting, University of Birmingham, UK 2006; Mitchell B., Integrated water resource management, institutional arrangements, and land-use planning, in «Environment and Planning A», n. 37, 2005, pp. 1335-1352). In un contesto di consapevolezza della necessità di un equilibrio sostenibile anche dal punto di vista della risorsa acqua, è possibile ripensare il rapporto tra uomo, acqua e territorio, partendo dalla pianificazione di una transizione graduale verso città “water-sensitive”, in cui alcune delle criticità attuali e future possano non solo ridursi, ma trasformarsi in opportunità di maggiore qualità urbana (Butler D., Maksimovic C., Urban Water Manage-

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ment – challenges for the third millennium, in «Progress in Environmental Science 1», n. 3, 1999, pp. 213-235; Girardet H., Creating Sustainable Cities, Briefing No. 2 for The Schumacher Society, Green Books, UK 1999). In questa visione strategica gioca un ruolo determinante la possibilità di attivare processi virtuosi di ri-ciclo di elementi territoriali dismessi e/o ancora disponibili, creando spazi di compensazione e di rinaturalizzazione. Le strategie di maggiore efficacia, già messe in atto o pianificate in molte grandi città del Mondo, si concentrano su due obiettivi principali: da un lato l’uso sostenibile delle risorse idriche, dall’altro il riequilibrio del ciclo delle acque meteoriche nelle aree urbane. Il primo obiettivo può essere perseguito attraverso strumenti tradizionali come la tutela legislativa delle risorse idriche e gli interventi strutturali e socio-culturali per la riduzione degli sprechi, ma anche con politiche di diversificazione delle risorse in base agli usi e di incentivazione al riuso delle acque. In particolare si può incentivare la raccolta e il riuso per scopi non potabili sia delle acque meteoriche provenienti dai tetti, generalmente poco inquinate, sia delle cosiddette acque grigie, derivanti dall’uso domestico di acqua potabile per l’igiene personale (Raimondi A., Becciu G., An Analytical Probabilistic Approach to Size Cisterns and Storage Units, in Green Buildings, CCWI 2011, Exeter, 5-7 September 2011, CD, 2011). Il secondo obiettivo può essere raggiunto con interventi di riqualificazione idraulica del tessuto urbano esistente e con l’applicazione a microscala di “buone pratiche” ingegneristiche nella gestione e nel controllo dei deflussi meteorici prima della loro immissione nella rete fognaria. Questi interventi sono di due tipi: quelli che agiscono sulla riduzione dei volumi escludendo dall’immissione in rete quei deflussi non inquinati, che non necessitano di un trattamento, e quelli che agiscono sulla riduzione delle portate massime di quei deflussi più inquinati che devono comunque essere raccolti e convogliati a valle per la depurazione. Nel primo caso è necessario smaltire localmente una parte delle acque meteoriche, intercettandola mediante tetti e pareti verdi o reindirizzandola localmente verso l’infiltrazione nel terreno mediante pavimentazioni permeabili, pozzi perdenti, aree verdi di infiltrazione, wetlands e laghetti urbani di raccolta e laminazione (Lamera C., Becciu G., A Fuzzy Approach for Optimal Location of Infiltration Facilities in Urban Areas, Atti del IV Convegno Nazionale di Idraulica Urbana Acqua e &ittà, Venezia 21-24 giugno 2011, 2011). Nel secondo caso è necessario laminare le acque di deflusso superficiale

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prima del loro ingresso in fognatura, immagazzinandole temporaneamente in piccole vasche interrate e laghetti all’aperto o in invasi diffusi ricavati su coperture piane di edifici o parcheggi, mediante sistemi di controllo degli imbocchi (Nisenson L., Using Smart Growth Techniques as Stormwater Best management Practices, EPA report 231-B-05-002, 2005).

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Vittorio Amadio, Paesaggio fluviale, 20 aprile 2012

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ANNOTAZIONI SUL RESTAURO FLUVIALE Vittorio Amadio >UNIRC

I sistemi fluviali, in natura, sono elementi dinamici del paesaggio terrestre, che cambiano in continuo: risultato di caratteri fisici, quali la pendenza, la geologia del substrato, la complessità della rete idrografica; tali caratteri sono influenzati inoltre da fattori esterni quali le condizioni climatiche, le precipitazioni, le attività umane come la forestazione, la deforestazione, l’urbanizzazione, i drenaggi, gli sversamenti, la regimazione idraulica. L’integrazione dei caratteri intrinseci, che si manifestano nel corso del tempo, e le influenze esterne, spesso incontrollabili, determina la forma di un corso d’acqua. La conoscenza di questi aspetti è alla base di sistemi fluviali in buona salute, sostenibili nel tempo, nei quali gli equilibri naturali sono conservati, gli inquinanti sono metabolizzati, i rifiuti decomposti e i materiali ridistribuiti attraverso il flusso idrico stesso. Naturalmente i corsi d’acqua supportano un’ampia varietà di flora e fauna che interagisce con gli ambienti terrestri e d’acqua, e costituiscono inoltre un essenziale elemento nella formazione di corridoi di collegamento tra gli altri ecosistemi terrestri, come le foreste. Inoltre, se la maggiore diversità di specie di pesci è presente negli alvei

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principali, molte specie hanno bisogno, per completare il proprio ciclo vitale sia degli habitat degli alvei sia delle acque perialveali. Come tutti gli ecosistemi, anche i corsi d’acqua e le aree alluvionali sono abitati da comunità di specie caratteristiche, tra loro interconnesse attraverso la frequentazione di habitat comuni, risorse alimentari e rifugi per la difesa dai predatori. Mostrano anche un’interdipendenza legata ai trasferimenti di materia organica, minerali e nutrienti tra i diversi gruppi trofici. È sempre necessario considerare la complessità del sistema e le interconnessioni: se gli habitat fluviali sono disconnessi saranno perdute le normali funzioni ecologiche. Ci possono essere due tipi di disconnessioni: spaziali, quando sono isolati habitat o specie; temporali, se le interruzioni avvengono in specifici periodi critici dell’anno. L’aumento dell’isolamento può avere effetti molto negativi sulla biodiversità del corso d’acqua, se le frammentazioni permangono, lo stesso restauro può non essere sufficiente. Il restauro, riabilitazione, e miglioramento della qualità fluviale è in funzione dei fattori ecologici locali, regionali e globali, delle dimensioni sociali e economiche all’interno delle quali è stata storicamente la gestione degli habitat. Si dovrà evidenziare l’impatto di questi fattori, in particolare dei disturbi, per ottenere i migliori risultati nel restauro ecologico. Gli ambienti fluvio-ripari che presentano un funzionamento naturale sono vitali per la biodiversità a scala del paesaggio e forniscono anche i servizi ecosistemici alla società. Investire nella gestione del rischio idro-geologico attraverso il recupero dei processi ecologici naturali nei corsi d’acqua, la riconnessione degli alvei alle piane alluvionali, costituisce la risposta migliore ai ricorrenti e insostenibili problemi di dissesto. I programmi di restauro dovranno essere mirati a: - il recupero di sistemi auto sostenibili che siano in un equilibrio dinamico e sviluppino una tipica forma idro-geomorfologica e processi funzionali, adattati sia alle condizioni climatiche presenti sia a quelle che potrebbero aversi in futuro; - la presenza di organismi interdipendenti che frequentino e utilizzino gli habitat e le risorse fornite da un corso d’acqua naturale. È opportuno conoscere quali siano i servizi ecosistemici prioritari nello specifico, dai quali derivare gli indirizzi per il restauro. Alla base degli interventi di restauro è la de-canalizzazione: un alveo rettificato può essere ricondotto a una forma a meandri, con evidenti conse-

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guenze in termini di aumento della biodiversità. Sono da individuare i fattori limitanti le funzioni naturali dell’ecosistema fluviale e quindi procedere al restauro in modo da allontanare il sistema dallo stato degradato nel quale si trova, oltrepassando quelle soglie, biotiche e abiotiche, che lo condizionano. Superando tali soglie è possibile un miglioramento delle condizioni di qualità ecologica. Sebbene complesso, il restauro deve essere adattivo, e mirato a favorire la resilienza del sistema, anche in vista dei possibili cambiamenti climatici: non è un semplice ritorno alle condizioni precedenti. Non vi sono soluzioni generalizzabili per il restauro e la riqualificazione fluviale e delle aree alluvionali, in particolare per quel che riguarda la sostenibilità a lungo termine dei progetti. Il successo dipenderà dalle condizioni di riferimento. Non si tratta semplicemente di ricollocare il sistema nello stato che aveva, ma di considerare una varietà integrata di elementi e condizioni, in relazione non solamente alla loro storia ma anche ai contesti contemporanei e futuri. Il restauro dell’ecosistema, tuttavia, può anche passare attraverso interventi di piccola scala, come la riprofilatura delle rive o la formazione di piccole aree umide, per riabilitare gli habitat e ridare vigore ai processi naturali, all’interno delle sezioni fluviali esistenti.

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Giambattista Reale, Vite di scarto, 2008

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IL TERRITORIO RETROSTANTE Giambattista Reale >UNIROMA1

Il metabolismo urbano stratifica, affianca, accumula, esalta e dimentica. Dimentica spazi interclusi tra fasci infrastrutturali, aree accerchiate, rimaste fuori dalla rete degli interessi. Aree problematiche per accessibilità, salubrità e significato. Aree in abbandono non sempre marginali ma spesso centrali agli insediamenti cresciuti proprio grazie a quelle infrastrutture. Spazi centrali ma strozzati tra muri di sostegno, barriere, rilevati e flussi di traffico che in passato sono stati linfa per capannoni, magazzini e attività oggi sempre meno produttive. Insediamenti spesso soffocati dal traffico nelle strade principali ma sempre più desolati verso i contorni, lasciati ai soli residenti. La vitalità urbana si ritrae, la materia edificata termina in territori non più agricoli, a cui è mancata la possibilità e la forza economica e sociale per trasformarsi in parchi urbani e/o agricoli. Aree dimenticate ai margini. La specializzazione sempre più spinta delle funzioni, una mal interpretata necessità di sicurezza definita da muri e recinti ha generato infinite ramificazioni di terre indesiderate. Spazi vuoti di significato restanti tra le recinzioni e ai loro margini. Luoghi che nessuno desidera o sente la necessità di popolare; aree restanti una

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volta completata l’opera di strutturazione degli spazi appetibili. Spazi nulli per tanti, ma rifugio per alcuni. Recinti, muri, fili spinati e telecamere generano paesaggi dell’insicurezza e della paura. Queste aree, problematiche per motivi di morfologia naturale o antropica, non risultano facilmente raggiungibili se non attraverso percorsi di fortuna lungo fossi o linee infrastrutturali. Esse accolgono il lato nascosto dell’urbano: grandi e piccole discariche, esistenze di scarto in accampamenti della povertà; tende, baracche e camper tra orti urbani improvvisati. Diverse attività economiche come autodemolitori, depositi di veicoli e attività di stoccaggio e vendita materiali edili, trovano una loro convenienza economica ad insediarsi in queste aree marginali. Il calo delle vendite delle auto private, i pochi anni rimasti allo sfruttamento delle energie non rinnovabili e la diffusa richiesta di nuove modalità di movimento spingono ad intervenire proprio sulle rete delle infrastrutture. La strategia da elaborare ha lo scopo di riciclare la rete della mobilità, affiancando nuove reti, rielaborando i nodi e aumentando i punti di contatto, ripensando le grandi infrastrutture urbane. Manufatti stradali rimasti immutati anche quando i loro margini hanno stratificato nuovi usi, che oggi chiedono nuove necessità di relazione e di accessibilità. Se si vorrà ottenere un’integrazione con il territorio si dovranno prevedere altri flussi, altre velocità, funzioni complementari e spazi dello “stare” lungo le fasce a margine a partire dal concetto di condensazione. Nuovi usi, nuove esigenze di una diversa mobilità (condivisa, elettrica, ciclabile, pedonale) e nuove vie di comunicazione non sempre possono trovare spazio affiancandosi ai percorsi centrali degli insediamenti. Potrebbero invece cingerli, circondarli e consentire accessi dal “lato opposto”, ribaltare la vista, la percezione e consentire l’accesso da nuove direzioni. Non si vuole proporre una nuova differenziazione gerarchica di flussi tra carrabili, pedonali, elettrici e innovativi ma al contrario una strategia della mescolanza per moltiplicare le possibilità di movimento; di conseguenza incentivare un arricchimento delle mappe mentali degli abitanti, dando senso e possibilità d’uso a parti del territorio che attualmente risultano nulle. Attivazione di più cicli di vita, ipercicli d’uso che come nuove radici vanno alla ricerca degli spazi inesistenti, falliti, inadeguati. Spazi privi di espressioni simboliche, di identità, relazioni e storia. Spazi che hanno perso o mai conquistato un motivo d’uso spesso dettati da norme di distacco.

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Una nuova mobilità di margine che capovolgendo gli accessi, muta i valori, introduce possibilità di riuso di materia urbana oggi marginale che riconfigura gli equilibri in nuovi percorsi, come in un montaggio narrativo di rottami architettonici trovati lungo i bordi. I nuovi cicli innescati consentirebbero nuove possibilità di accesso e la realizzazione di percorsi resi sostenibili dall’aumento di valore di nuovi elementi trascurati rimessi in gioco. In una strategia di riuso che mira a dare un “uso minimo” (downcycle) alla “materia di bordo” spesso in abbandono. Le principali azioni da programmare: - incrementare la sicurezza urbana: le aree marginali interessate per loro natura sono potenzialmente insicure o percepite come tali; - ricollocare gli usi produttivi impropri e dove necessario prevedere la bonifica dei suoli liberati; - contenere eventuali nuovi processi speculativi in aree fin ora preservate perché ritenute di scarso interesse; - ricollocare gli abitanti insediati impropriamente o attrezzare le aree interessate dagli accampamenti per assicurare condizioni di vita accettabili.

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Francesca Pignatelli, Rudere, Cocullo (Aq) 2012

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REALISMO E RICICLO RI-ABITARE I PAESAGGI DELL’ABBANDONO Francesca Pignatelli >UNICH

“Il realismo magico non ci fa desiderare la normalità (comunque la si voglia definire), ma ci invita a guardare al di là di ogni norma occultata dalle convenzioni”. Pierluigi Nicolin, nell’introdurre i progetti contenuti nel numero di Lotus 116 (2003), dal titolo I nuovi Realisti, rimette in valore l’idea di realismo in architettura cercando di emanciparla dalla nuova oggettività, e rifacendosi alla versione originale, a quel real maravilloso che mescolando reale e fantastico cerca di conservare il sublime. Il realismo magico ha uno stretto rapporto con l’unheimlich, il perturbante, che nasce dalla percezione inquietante di un elemento “strano” in qualcosa che sembra familiare e ordinario. Forse è possibile farsi guidare da questa chiave di lettura per esplorare le possibilità offerte al progetto di architettura dall’occasione di lavorare in contesti un tempo ordinari, ma che attualmente vivono condizioni atipiche, in conseguenza del fatto di aver quasi concluso il loro ciclo di vita. È certamente il caso dei centri minori in via di spopolamento o già completamente abbandonati, fenomeno che interessa con declinazioni diverse tutta l’Italia e il cui studio sta definendo una nuova geografia. Intervenire sul ciclo di vita di questi nuclei urbani, ha una doppia implica-

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zione: di carattere economico e sociale da un lato, di ordine propriamente architettonico e spaziale dall’altro. Nel primo caso sarebbe interessante lavorare sull’ipotesi di attivazione di un sub-cycle, ovvero innescare processi a bassa intensità accettando il declino come un fenomeno non necessariamente da invertire ma da assecondare. In altre parole riciclare questi luoghi la cui vocazione è essenzialmente abitativa, insediativa, vorrebbe dire accettarne la complessiva decrescita, intervenendo con azioni mirate, distanziate ed equilibrate cercando di riorganizzare le risorse piuttosto che investendone di totalmente nuove, così come avvenuto nell’esperienza tedesca dell’IBA City Network che dal 2002 sviluppa strategie contro l’abbandono e il degrado di 19 città appartenenti alla regione Saxony-Anhalt, interessata da un consistente calo demografico a partire dal 1990, e raccolte nella mostra Less is Future che si è svolta nello storico edificio del Bauhaus, nel 2010. Data la premessa, in questo breve scritto è più opportuno però ragionare sul secondo punto ovvero le potenzialità offerte dai materiali urbani che restano sul terreno al compiersi del ciclo di vita dei centri minori, e indicare alcune linee di ricerca. Osservando ad esempio la foto zenitale di Cocullo (AQ), paese collocato sulla A24 tra Pescara e Roma che alla fine della seconda guerra mondiale contava alcune migliaia di abitanti (oggi 200 sulla carta, ma poche decine nella realtà), appare subito evidente come il materiale urbano primario sia il rudere, leggibile come lacuna, nel tessuto urbano più compatto e conservato, e come parte ormai integrante del paesaggio laddove è stato sottoposto ad uno spontaneo processo di rinaturalizzazione. Ri-abitare i ruderi, nella logica del sub-cycle ovvero sostenendone un sottoutilizzo, anche in termini di volumetria, vorrebbe dire quasi assumere un impegno radicale, una sorta di “strategia del 50%” che non nasce solo da una posizione ideologica (la decrescita a tutti i costi) piuttosto dall’osservazione diretta e ravvicinata del sito, dalla volontà di riconoscerne le nuove qualità spaziali. Molto spesso è la presenza del vuoto generato da un crollo ad aprire prospettive inaspettate, suggerire rapporti nuovi con le condizioni al contorno, diventare il vero elemento di qualità del progetto, ed il luogo in cui l’intensità d’uso paradossalmente potrebbe divenire più alta. Osservando il panorama dei progetti che si confrontano con il tema del riciclo in architettura e rileggendone altri particolarmente attenti al contesto e alla presenza dell’elemento naturale, è possibile riconoscere alcuni

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modi di agire particolarmente coerenti con lo sfondo che si è cercato di delineare. Tre progetti-manifesto potrebbero in questo senso essere: 1. The Dovecote Studio, Haworth Tompkins Architects. 2. House N, Sou Fujimoto Architects. 3. House Rot Ellen Berg, Architecten De Vydler, Vinck, Taillieu. Nel primo, gli architetti usano una logica parassitaria per inserire un nuovo edificio all’interno di un rudere tenendo distinti i due corpi, lasciando al vecchio la possibilità di mostrare i segni del tempo e continuare a subirne le trasformazioni. Nel secondo, una casa composta da tre scatole concentriche, assume importanza lo spazio intermedio e indeterminato tra interno ed esterno. La separazione non è più netta ma è data dalla stratificazione dei confini che consente agli ambienti interni di estendersi gradualmente verso la città. La stratificazione dello spazio domestico, derivante anche da una esigenza di risparmio energetico, è il tema del terzo progetto che interviene su di un edificio esistente – per utilizzare le parole di Francesca Picchi su Domus 954 – con poco o niente.

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Daniele Ronsivalle (elaborazione), Wordcloud dei paesaggi di margine, 2013

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RE-LANDSCAPE: LA RIGENERAZIONE DEI PAESAGGI DI MARGINE Daniele Ronsivalle >UNIPA

I paesaggi di confine: un campo di indagine Le dinamiche della globalizzazione producono effetti sull’organizzazione spaziale dei sistemi urbani e territoriali, generando sempre più spesso condizioni di riduzione degli spazi urbani, mettendo in evidenza la necessità di ripensare lo spazio urbano in relazione con il paesaggio e definendo, conseguentemente, una nuova condizione di margine. I territori che rimangono privi della loro caratterizzazione di aree urbane (perché espulsi dal sistema funzionale urbano) non riescono ad assumere nuove forme di ruralità in quanto il tempo e le trasformazioni hanno assottigliato il palinsesto paesaggistico precedente all’urbanizzazione e hanno lasciato questi territori privi di identità, definibili in sintesi come “paesaggi di confine” (Border Landscapes). Lo stesso fenomeno è leggibile, all’inverso, quando i territori agricoli diventano luoghi della non città, luoghi che per ragioni economiche – in tempi di crisi – non vengono urbanizzati, non vengono coltivati, non vengono trasformati in aree industriali/ commerciali, ma sempre più spesso diventano il luogo privilegiato della localizzazione, ad esempio, di micro-impianti per la produzione di energie rinnovabili o per la realizzazione di “isole ecologiche”.

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L’Unità di Palermo di Re-cycle Italy si occuperà anche del riconoscimento delle aree che non sono più città, ma che non rientrano nemmeno nella dizione di aree dismesse (che sarebbe già una caratterizzazione delle aree in questione) e propone di: – riconoscere le casistiche e le caratteristiche dei border landscapes; – tracciare un atlante dei modi in cui i border landscapes si sono generati, nelle forme e nei contenuti del lessico; – definire strumenti utili alla valutazione della qualità attuale e futura di questi luoghi; – tracciare linee di intervento necessarie alla risoluzione della condizione di confine. È necessario stipulare nuovi patti di relazione costruttiva ed ecologicamente sostenibile tra città e campagne: ad oggi i legami funzionali di simbiosi e commensalità sono venuti meno sicché le aree non più usate dalla città – esse stesse ridotte a metaboliti dei processi di urbanizzazione/disurbanizzazione – sono luoghi a cui è necessario che si restituisca qualità ambientale e paesaggistica ricostruendo il percorso “da culla a culla”. Questo processo comporta che si restituisca qualità ad entrambi i territori: a quello urbano, definendone con chiarezza i margini, le funzioni e gli spazi pubblici che caratterizzano storicamente la città, elevandone la qualità edilizia e urbanistica; a quello rurale restituendogli specificità e proprietà di funzioni; superando un processo degenerativo che ha visto nell’urbanizzazione della campagna, la crescita del degrado di entrambi gli ambienti di vita, quello urbano e quello rurale (cfr. Patto città-campagna del PPTR della Regione Puglia). Si sostanzia, quindi, l’impegno di introdurre una nuova visione ecologica degli insediamenti, riconducibile alla visione dell’Ecological Urbanism (Mostafavi M., Doherty G., Ecological Urbanism, Lars Müller Publishers, Zurich 2010) in cui la ricerca di nuova identità dei luoghi dis-urbanizzati si traduce in una attenzione integrata alle questioni del paesaggio di margine, frutto della localizzazione di impianti e sistemi di produzione, stoccaggio e distribuzione dell’energia che amplificano lo stato di non essere di questi luoghi e, d’altra parte, l’obbligo di una risoluzione dei paesaggi frammentati, per i quali urge un processo di rigenerazione dall’interno (cfr. il processo di recliming proposto da Berger A., Drosscape, Princeton Architectural Press, New York 2006).

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Un’agenda per l’hyper-cycle dei paesaggi di margine Alla luce degli obiettivi di sviluppo di Horizon 2020, è necessario che il processo di re-cycling realizzi la transizione verso un sistema energetico affidabile, sostenibile e competitivo, di fronte alla crescente scarsità delle risorse, all’aumento delle esigenze energetiche e ai cambiamenti climatici e consegua un’economia efficiente sotto il profilo delle risorse e resistente ai cambiamenti climatici e un approvvigionamento sostenibile di materie prime che risponda alle esigenze della crescita demografica mondiale entro i limiti sostenibili delle risorse naturali del pianeta. Gli obiettivi di lavoro, quindi, sono legati alla declinazione di nuove sfide per risolvere la separazione fisica, funzionale, culturale, identitaria tra città e compagna che determina la perdita di paesaggio attraverso un processo zero waste in cui si tende a prevenire la produzione di aree abbandonate, di drosslandscapes, di aree dismesse e situazioni di abbandono periurbane. Risultati attesi Verrà prodotto, all’interno di una visione di hyper-cycling, un set di regole da applicare al livello dei quadri di tutela, dei piani regolativi e operativi sui processi di urbanizzazione, ruralizzazione, riduzione dei processi di riduzione entropica dell’energia ambientale e della risorsa suolo capaci di evitare il sorgere di “rifiuti” urbani in processi di tipo zero waste.

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Jessica Lagatta, Stato limite ultimo, 2013

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TERRITORI FRAGILI, TERRITORI DUTTILI Stefania Camplone >UNICH

La fragilità si definisce genericamente come la proprietà di rompersi facilmente, soprattutto per urto. In ambiti più specialistici, come ad esempio nella tecnologia dei materiali, essa è peraltro definita come la caratteristica di un materiale di rompersi bruscamente senza presentare segni di snervamento anteriormente ai limiti di rottura (Utet, Grande Dizionario della Lingua Italiana, voce “fragilità”, Torino 1970). Quest’ultima definizione è particolarmente significativa, perchè va oltre il senso comune. In tale accezione, infatti, un materiale fragile può essere anche particolarmente resistente: ciò che lo caratterizza sono l’imprevedibilità del momento in cui avviene la rottura e l’istantaneità del fenomeno. Il contrario della fragilità è la duttilità, dal latino ductilis ossia “che si può condurre”. Con ciò si intende l’idoneità di un materiale a sopportare grandi deformazioni plastiche sotto l’azione di forze di trazione (Enciclopedia Italia Treccani, voce “duttilità”, 2013), per essere malleabile e plasmabile (Dest, Dizionario Enciclopedico di scienza e tecnica, Fratelli Fabbri Editore, Milano 1971), ma anche, in senso figurato, arrendevole e tollerante. In particolare, al contrario di un materiale a comportamento fragile, un materiale a comportamento tenace e duttile si frattura in modo control-

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lato, modificando la sua forma iniziale e la sua struttura interna tramite l’assorbimento delle energie di deformazione. Se per i concetti di fragilità e di duttilità i significati sono sostanzialmente univoci, il concetto di “territorio” ha molte più accezioni. In termini generali per territorio si intende uno spazio geografico specificatamente delimitato, di dimensioni più o meno vaste, con caratteristiche di tipo morfologico, ambientale, politico, geografico, amministrativo e via dicendo. In senso più lato il territorio è il luogo nel quale gli uomini vivono, svolgendo le proprie attività, e dal quale ricavano prodotti e motivazioni per la propria sussistenza e per le proprie aspirazioni (Enciclopedia Italia Treccani, 2013). Tra questi, alla scala urbana, possono essere compresi anche quei territori critici, abbandonati, in cui sono presenti, ma non sono più attivi, edifici, strutture e infrastrutture, che una volta erano utilizzati ed in cui si svolgevano attività e funzioni oramai superate o spostate altrove, lasciando tracce della loro precedente esistenza attraverso “scarti” e “relitti”, che hanno ricadute spesso negative sull’equilibrio del sistema ambientale. Esiste infatti anche un significato figurato di territorio, secondo cui esso può essere definito come luogo delle “relazioni”. Ed in quanto tale, esso rappresenta un sistema complesso e dinamico: complesso, in quanto costituito da un numero di elementi e di relazioni che può essere pressoché infinito; dinamico, perché le relazioni variano nel tempo. In tale accezione, si può sostenere che il livello della criticità dei territori è determinato dalla riduzione fino alla scomparsa di “relazioni”, umane ed economiche. Considerando tali accezioni del concetto di territorio (fisico-geografico e socio-relazionale), appare particolarmente interessante provare a declinarle rispetto ai concetti di fragilità e duttilità. Potrebbe pertanto dirsi, ad esempio, che un territorio “fragile” sia un territorio in cui il sistema delle relazioni si “rompa” bruscamente, senza preavviso. Al contrario, un territorio “duttile” abbia caratteristiche ambientali, morfologiche e sociali adatte a modificarsi, plasmarsi e deformarsi sotto la spinta delle modificate esigenze, aspirazioni e necessità di coloro che lo abitano. Appare altresì vero che, se un brano di tessuto urbano, un manufatto fisico o semplicemente un componente edilizio, progettati secondo dei dettami funzionali estremamente specializzati possano definirsi “fragili” nel senso di essere destinati a perdere con estrema rapidità il proprio valore al modificarsi delle condizioni di contesto per le quali erano stati ideati,

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è altrettanto condivisibile l’idea secondo cui possa esserci una sorta di “resilienza” ed allo stesso tempo “duttilità” rispetto alla estrema fluidità della società contemporanea (Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Bari 2006). Caratteri, questi ultimi, probabilmente legati anche ad una sorta di stratificazione storica delle esigenze degli individui e, in senso lato, della società che essi rappresentano. In tal senso, la fragilità dei territori potrebbe trasformarsi in duttilità, attraverso una operazione di riciclo che però ne consideri innanzitutto gli aspetti più immateriali ed emozionali espressi dalle persone che fruiscono materialmente e da generazioni di tale patrimonio.

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Jessica Lagatta, La ricchezza è nella diversità , 2013

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“DIVERSITÀ” COME RISORSA PER I SISTEMI UMANI E TERRITORIALI “FRAGILI” Giuseppe Di Bucchianico >UNICH

Tra le possibili accezioni del concetto di fragilità di un sistema vi sono quelle riferite alla instabilità, alla precarietà e, in generale, alla poca durevolezza temporale delle condizioni iniziali, che sono portate a subire modificazioni o cambiamenti qualora sollecitate da azioni esterne. Il suo contrario, ovvero la stabilità, si esplica attraverso le proprietà di persistenza (continuità nel tempo), di inerzia (tendenza a deviare soltanto a seguito di fattori esterni), di elasticità (velocità nel ritornare nelle condizioni iniziali dopo un disturbo), di stabilità ciclica (fedeltà ai propri cicli temporali), e altre ancora. A tal proposito, negli ultimi decenni si è sviluppata tutta una linea di pensiero, a partire dalle discipline riconducibili all’ecologia, secondo la quale la “stabilità ambientale” possa essere garantita attraverso la “diversità” interna al sistema. Ma tale diversità porta con sé anche il concetto di complessità, al punto che tale linea di pensiero possa essere riassunta nella frase “la stabilità di una comunità è legata alla sua complessità” (Scossiroli R., Elementi di ecologia, Zanichelli, Bologna 1976) e, dunque, alla sua “diversità”. È cosa nota che la maggior parte delle proposizioni attorno al tema della diversità, sia scientifiche che di senso comune, tendano ad esaltare il

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ruolo ed il valore positivo che la diversità gioca nelle moderne società contemporanee. Ne è un esempio la Dichiarazione Universale sulla Diversità &ulturale dell’Unesco (Unesco, Parigi, seduta del 2 novembre 2001), che la ritiene come un valore universale da difendere e da favorire. Eppure, tutta la cultura industriale, a partire dalla “rivoluzione” settecentesca fino ai culmini raggiunti con la tayloristica “produzione di serie”, ha visto nella ricerca di un modello, di un tipo, di una norma unificatrice di dimensioni e di gusti e, in una unica parola, di uno “standard”, il modo più efficace per rispondere alle istanze dei Tempi Moderni. Tale visione della modernità è stata condivisa da tutti i campi del sapere progettuale, soprattutto dell’ultimo secolo. Recentemente, dunque, sono emerse le contraddizioni insite nella visione ideale di una “società di uguali”. Se l’uomo standard non esiste (Accolla A., Design for All, Franco Angeli, Milano 2009), e con lui anche l’utopia di luoghi e territori omologabili senza il rischio di effetti di disadattamento o di disagio psico-fisico, sempre più la ricchezza di un progetto si relaziona con la sua capacità di intercettare la molteplicità delle esigenze espresse dalla multiutenza. A partire da quest’ultima accezione, e condividendo la precedente visione ecologica del rapporto tra stabilità, complessità e diversità, il Design for All (DfA) si pone da circa un decennio quale approccio progettuale per la diversità umana, l’inclusione sociale e l’uguaglianza (Carta di Stoccolma, 2004). In particolare, se diversità è “(...) l’essere diverso, non uguale nè simile” (Enciclopedia Italiana Treccani, voce “diversità”, 2013), il DfA ne propone la valorizzazione attraverso il progetto, per una società più inclusiva ed equa. La diversità, peraltro, rappresenta anche uno dei paradigmi della “identità” dei luoghi e dei gruppi sociali. La costruzione, nel tempo, dei caratteri identitari di un gruppo sociale o di un contesto territoriale, si forma, infatti, a partire dalla consapevolezza di avere dei caratteri di originalità che rende unici e diversi, rafforzando, appunto, il senso di appartenenza. Se uno degli elementi che contribuiscono alla fragilità dei contesti territoriali è l’assenza valori e di caratteri ed elementi identitari, la definizione di un percorso di condivisione e di inclusione dei valori, delle abitudini e dei modi di vivere e di abitare i territori, valorizzando le differenze fisiche, sociali e culturali tra gli individui, appare un approccio strategico per favorire processi di hyper-cycle territoriale.

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L’approccio proposto dal DfA, strutturato attraverso percorsi di co-design, propone di superare i concetti di semplice “accessibilità fisica” degli ambienti, ponendo al centro di una nuova “accessibilità inclusiva” la dimensione sociale del progetto. Ciò nell’idea che, pur riservando la giusta importanza agli aspetti di fruibilità fisica dei luoghi (hardware), non si possa prescindere dagli aspetti delle relazioni intangibili tra gli individui (software), per garantire l’inclusione sociale e l’uguaglianza.

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Rebecca Ciociola, Identità esclusiva, identità inclusiva, Roccascalegna (Ch) 2013

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IL BRANDING PER ABILITARE I TERRITORI FRAGILI Stefano Picciani >UNICH

Il rapido affermarsi della globalizzazione comporta che anche paesi, città e territori debbano competere per la loro fetta di consumatori, turisti, investitori, studenti, imprenditori ed eventi. Queste nuove dinamiche competitive, inoltre, stanno aumentando il peso e l’importanza dei processi di brand management all’interno delle politiche e delle strategie di promozione e valorizzazione dei territori stessi. Da questo punto di vista, i territori fragili sono anche quei territori che non riescono ad attrarre e a suscitare un interesse attivo nei confronti delle loro risorse, competenze, conoscenze, cultura, beni materiali e ambientali. In particolare, la fragilità così intesa, può esplicarsi in due differenti ambiti: quello dell’identità di un territorio e quello dell’immagine di un territorio. L’identità di un territorio, che per Bauman è diventata un problema e un compito delle comunità nel momento in cui il confronto è risultato più esteso e meno tutelato dai macro-sistemi di riconoscimento e protezione locale, oggi si compie all’interno del confronto dialettico tra globalismo e localismo. Implica la creazione di senso e la possibilità di riconoscimento e di differenziazione e può essere espressione di identità plurali e stratificate nel tempo, ma anche di quelle sopite, inespresse o potenziali.

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Ne segue che un territorio fragile non ha le idee chiare sulla sua identità in quanto non possiede tutti i mezzi per creare un riconoscimento collettivo dei valori da condividere e supportare con coerenza, da tutti, nella pratica quotidiana. A differenza dell’identità, l’immagine di un territorio riguarda, invece, la sua reputazione. Riguarda, infatti, la percezione del territorio che hanno le persone che ne fruiscono o che potrebbero fruirne e include quell’insieme di associazioni, ricordi, aspettative e altri sentimenti che sono legati al territorio e che risiedono nella testa delle persone. Un territorio fragile, conseguentemente, non ha una reputazione influente, cioè non riesce più ad avere, o molto probabilmente non ha mai avuto, un’influenza forte e positiva sul modo in cui le persone, dentro e al di fuori dei suoi confini, lo percepiscono, si comportano nei suoi confronti e reagiscono rispetto a ciò che viene prodotto e fatto al suo interno. Ma la fragilità, vista da un particolare punto di vista, non è solo un aspetto negativo. Infatti alcuni studi nell’ambito delle scienze sociali ne hanno individuato il valore vedendola come una virtuosa attitudine che consente alla persona di sviluppare la capacità di “fare insieme”. Da questo punto di vista, la fragilità che caratterizza l’identità e l’immagine di alcuni territori potrebbe offrire un terreno fertile per avviare una loro valorizzazione e un loro processo di competitiva promozione. Se da un lato, infatti, la fragilità di un territorio significa un’identità poco riconoscibile e, di conseguenza, un’immagine poco influente, dall’altro apre la strada alla possibilità di cambiare le sorti attraverso un processo di branding territoriale inclusivo e abilitante. Se le grandi trasformazioni economiche e valoriali che caratterizzano gli ultimi anni impongono al territorio, quindi, di definire la propria identità non più come fluttuante e autoreferenziale, ma come qualcosa che diventa brand, la pratica ha dimostrato che quando questo si riduce alla creazione di un nuovo logo, di una campagna pubblicitaria e all’organizzazione di una serie di eventi e iniziative per attirare più turisti, molto spesso è percepito più come qualcosa di imposto e quindi non sempre condiviso dagli abitanti interni, con ricadute negative sulla promozione e valorizzazione del territorio stesso. Nella formazione del brand, infatti, giocano un ruolo chiave due elementi apparentemente coincidenti, ma in realtà ben distinti tra loro: il contesto sociale nel quale viene prodotta l’intera gamma dell’offerta territoriale, e

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i destinatari, ossia i suoi potenziali fruitori. Quando il branding e, in particolare, il branding territoriale, mette su processi di costruzione e valorizzazione dell’identità territoriale pensando solo ai destinatari, elimina il passaggio fondamentale di radicarla nel contesto in cui è generata e che a sua volta contribuisce a formare. Per questo è opportuno un processo di branding territoriale inclusivo e abilitante. Inclusivo perché dovrebbe generare una consapevolezza collettiva dell’identità e una visione condivisa dei valori territoriali e delle scelte strategiche da perseguire all’interno di scenari e percorsi di valorizzazione del territorio. Abilitante perché dovrebbe mettere in grado il territorio di comunicare se stesso, orientare, accogliere e inspirare in maniera efficace e veramente competitiva. Un branding territoriale inclusivo e abilitante, inoltre, è anche il frutto dell’incontro virtuoso con l’approccio alla progettazione del Design for All, il design per la diversità umana, l’inclusione sociale e l’uguaglianza.

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Immagina estratta da Lotus n.101 “Tutto è paesaggio”

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ORDITURE DEL “TERZO SPAZIO” RIUSO DELLE AREE PRODUTTIVE AGRICOLE:PREMESSE PER LA RICERCA Paola Misino >UNICH

Nel 1968 negli Stati Uniti J.F. Hart in un articolo pubblicato su Economic Geography (Hart J.F., Salisbury N.E., Smith E.G, The dying village and some notions about urban growt, in «Economic Geography», n. 44, 1968) adottava il termine “città dispersa” alludendo ad un sistema di insediamento rurale simile alla città ma con le edificazioni (residenze, centri commerciali, centri della vita comunitaria, centri di quartiere) disperse per il territorio e separate l’una dall’altra da zone di aperta campagna. Successivamente alla progressiva urbanizzazione delle campagne, il termine, più genericamente, è entrato nel linguaggio della cultura architettonica, identificando la perdita della forma della città “compatta” a vantaggio di una continua estensione urbana, più o meno fitta, su gran parte del territorio compreso tra nuclei urbani. Vent’anni dopo in Italia tale fenomeno ha costituito il centro di un ampio dibattito sulle trasformazioni del territorio in cui le cause sono state in buona parte attribuite alla propagazione di episodi urbani verso la “campagna”, lasciando in secondo piano le alterazioni dell’ambiente rurale/agricolo che, invece, contemporaneamente segnavano delle tappe fondamentali di un’evoluzione quantomeno irreversibile. Com’è noto infatti, soprattutto negli anni ‘90, le discipline sullo studio dei

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fenomeni di trasformazione urbana hanno catalizzato per lungo tempo l’attenzione sulle nuove tendenze insediative (soprattutto terziarie e produttive) connesse all’espansione urbana “diffusa” determinando una presa di coscienza culturale, sullo stato di fatto della trasformazione avvenuta da cui il progetto urbano non poteva più prescindere. Per contro, probabilmente anche a causa di economie profondamente diverse, la questione vista nella direzione opposta, cioè dalla “campagna” verso i nuclei urbani, è rimasta in secondo piano, fatta esclusione per gli studi demografici e geografici che nel tempo hanno restituito i dati allarmanti riguardanti il drastico svuotamento di popolazione delle aree rurali interne, a vantaggio della vita urbana. Dal 1970 al 1995, tra “esodo rurale” ed espansione urbana il territorio detto delle frange urbane subisce in modo crescente, la perdita di suolo destinato all’agricoltura. La terra sottratta viene abbandonata ad un “incolto sociale” oppure rimane in attesa di una conversione generalmente ad usi urbani. Nelle discipline legate alla geografia rurale con la nozione di “incolto sociale” si fa riferimento a quei terreni che, malgrado l’ottima qualità, vengono lasciati improduttivi da parte dei loro proprietari. Questo fenomeno rappresenta una conseguenza del mutare delle condizioni sociali ed economiche complessive verso una miglior livello di qualità della vita dell’ex-coltivatore o delle sue aspettative potenziali. La gestione di questi territori “fragili” è rimasta silenziosa e nascosta fino a quando negli anni duemila è entrata in gioco l’emergenza di tutela del territorio, derivante dal pericolo incombente di un uso incontrollato di occupazione del suolo naturale. Dall’ultimo resoconto ISTAT 2012, risulta che negli ultimi dieci anni, in Italia l’espansione urbana ha prodotto una perdita di territorio pari a quarantacinque ettari giornalieri. Questa urgenza di “salvare” quel che resta del paesaggio naturale diviene l’immagine culturale del nostro tempo, spesso deviata da un’idea forzata di ecologismo “a tutti i costi”: tutto parla di una necessità impellente di ritorno alla terra, di ritrovare pezzi di campagna negli spazi interstiziali ai margini delle città, di scoprire condizioni di vita bio-sostenibili; questo moto legato al turismo naturalistico, “pulito”, che si sta diffondendo se da un lato alimenta economicamente la rinascita di un buon numero di medio/piccole aziende agricole, dall’altro radica i presupposti su criteri fortemente artificiali, individuati spesso con il termine “agri-urbanismo”, di cui ne è premonitore Pierre Donadieu nel 1998 in &ampagnes Urbaines.

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Tra i requisiti di questi territori “di conquista” ci devono essere la facile accessibilità stradale, la presenza di un punto agroalimentare biologico, spesso inserito nelle guide enogastronomiche, la presenza di servizi per passare il tempo (posti letto, centri benessere per il corpo, maneggi, laghetti artificiali per la pesca, vicinanza con sentieri escursionistici...). La rete che si sta consolidando in Italia che unisce le città con questi “punti campagna”, nasce anche grazie alle possibilità di ottenere co-finanziamenti pubblici offerti dal Piano Strategico Nazionale dello Sviluppo Rurale per quegli ambiti amministrativi classificati come “aree rurali”, in base al numero di abitanti inferiore a 150 a Kmq (Galli M., Marraccini E., Lardon S., Bonari E., Il progetto agrourbano: una riflessione sulle prospettive di sviluppo, in «Agriregioneuropa», n. 20, 2010). Dunque, sono escluse da possibili incentivi economici le riqualificazione tutte le ex aree agricole a ridosso dei centri urbani; luoghi più densi di popolazione in cui, nella maggioranza dei casi, si conserva invece una forte matrice rurale insita nella marcata presenza di “famiglie-aziende” che culturalmente provengono dalla campagna. Da questa fusione tra tradizioni legate al lavoro della terra e nuove funzionalità urbane, sembra essersi fatta strada da sé una tra le espressioni più emblematiche di reinterpretazione sociale di un territorio nato con altri usi. L’ambiguità, la fragilità di questi luoghi si connota in una sua riconoscibilità, in un “terzo spazio” (Vanier M., La relation “ville/campagne” excédée par la périurbanisation, in « Cahiers français», n. 328, 2005), in cui la tensione tra origine contadina e trasformazione urbana è insita nella forma dell’abitazione. I terreni su cui sorgono queste costruzioni sono caratterizzati in genere da un recupero parziale della funzione agricola originaria e, perciò, costituiscono delle isole nel mare incolto di territorio in attesa di una destinazione. La funzione agricola rappresenta per la gran parte dei casi un occupazione marginale che integra economicamente l’attività principale della famiglia e spesso diviene anche un modo per usufruire dei terreni catalogati dalla legge “ad uso agricolo” anche quando, di fatto è consolidata un’altra attività dalle caratteristiche più urbane. Tuttavia non si può negare che l’agricoltura, soprattutto nell’Italia centrale e del sud, continua a caratterizzare queste aree. I volumi, infatti, occupano generalmente la fascia che costeggia la strada di accesso principale, lasciando sul retro ampi spazi coltivati. Le abitazioni sono ben distinte dai

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capannoni produttivi e, nel loro insieme, dichiarano una riconoscibilità rispetto alle “villette” provenienti dall’espansione urbana. È evidente come l’insediamento cambi nelle dimensioni e nelle economie produttive man mano ci si avvicini a centri più industrializzati come l’area padana. In Abruzzo, si fa riferimento a quegli insediamenti produttivi minuti, a conduzione familiare, che però nel loro insieme segnano notevolmente il territorio. Abitazione e locale produttivo annesso sembrano provenire dagli impianti tradizionali della campagna; nella distribuzione interna la casa è rimasta ancorata ad eredità di archetipi rurali, mentre il capannone sembra libero da ogni vincolo funzionale ed esprime, negli intenti, la volontà di un adeguamento alle necessità produttive urbane, con tempi e modalità rinnovabili: lo spazio assume significati diversi che si articolano tra il laboratorio artigianale (falegnameria, fabbro...), il mobilificio, l’officina, il negozio... L’immagine contemporanea di questi luoghi appare come l’esito di una complessa intersezione tra le strutture esistenti e le loro innovazioni. Sia le permanenze del precedente paesaggio agricolo che le nuove edificazioni hanno subìto la stessa trasformazione di senso verso un processo di urbanizzazione che comunque mantiene “salva”, almeno in parte, la forte identità proveniente dalla cultura della campagna. Le attività produttive agricole vengono mantenute ma declassate a favore di un nuovo significato che, come necessità primaria, esprime la versatilità al cambiamento, l’adattabilità ad ulteriori mutamenti. Rispetto all’archetipo originale, la forma architettonica si svincola dalla sua funzione: il locale produttivo che in principio si identificava nella stalla, nel pagliaio, nel silos diviene contenitore dell’evoluzione degli usi, pensato per evolvere, trasformarsi nei suoi contenuti, includendo già nelle intenzioni della realizzazione, le potenzialità del riuso; la sua identità risiede nella sua possibilità di modificazione. Sono queste situazioni che affrontano, in un certo senso “spontaneamente”, delle importanti tematiche di ricerca del progetto contemporaneo da cui fino ad ora ne sono rimaste escluse. Nella storia dell’architettura recente, la congiunzione tra abitazione e lavoro riguarda esclusivamente l’insediamento isolato e trova una molteplicità di esempi in cui il committente è un professionista con la necessità di includere il proprio studio alla casa. Infatti, mentre gli studi condotti in Italia su questo fenomeno territoriale, hanno un importante valore descrittivo-analitico, manca fino ad ora il passaggio al progetto alla scala architettonica che attraverso la lettura

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di questi insediamenti esistenti potrebbe svilupparne le potenzialità per esempio alterandone la struttura di casa singola e spingendosi verso il tema dell’edificio denso. Nuove strade di ricerca legate al tema del riuso/tutela del territorio, potrebbero includere queste forme di soluzioni/compromesso nate tra le orditure lasciate dalla storia del luogo e che però non interferiscono con la sua trasformazione: nell’azienda-famiglia convivono le nuove funzioni di servizio alla città e il recupero delle tracce agricole può essere inteso come patrimonio di supporto familiare e come sistema di autotutela del territorio naturale.

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Roberto Filippetti, Vuoti residuali – Coda della Cometa, Roma 2012

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UN PAESAGGIO AGRICOLO PER LA CITTÀ DIFFUSA INDIRIZZI DI RICERCA Andrea Bruschi >UNIROMA1

I territori periurbani sono distinti da una edificazione caotica e parziale segnata da interventi pianificati o spontanei, realizzati per aggiunte successive. A nuclei originari di borghi e borgate si sommano agglomerati a matrice tipologica eterogenea. Ne deriva un tessuto estensivo, composto di episodi separati e giustapposti. Il quadro derivante da questo mosaico di interventi è quello di una città aliena dai modelli consolidati e priva di centralità significative. Una “città senza città” cresciuta per addizione sulla speculazione edilizia. Questo incontrollato sviluppo urbano fa temere un analogo destino per le aree rimaste vuote, sostanzialmente in attesa di rientrare nel meccanismo della saturazione non appena la congiuntura economica o politica si mostri favorevole. Ma per quanto sembrino condannate a costituire la riserva per un sistema fossilizzato sull’edilizia, le aree inedificate, sospese fra un passato agricolo in parte perduto e un incerto futuro, rappresentano la principale occasione di riscatto per territori preda dello sprawl urbano e dell’abusivismo. Lasciare questi ambiti nello stato in cui si trovano equivale ad attendere che si compia il loro destino a scapito delle potenzialità di recupero di una

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città dalle vocazioni ancora inespresse. Si tratta invece di inserire questi vuoti dell’abbandono e dell’attesa in un nuovo ciclo di vita che generi una mutua e positiva interazione con il già costruito. Evitare la saturazione delle aree libere significa lasciare spazio per operazioni di rigenerazione urbana in una congiuntura nella quale non è più credibile un’economia basata sul consumo di suolo. Occorre dunque studiare strategie d’intervento globale assecondando le vocazioni territoriali esistenti in nuce piuttosto che imponendo “risolutivi” modelli di città da accostare ai precedenti, alla ricerca di identità nuove ma prive di rapporti autentici con i territori e la loro storia. Questa ipotesi di lavoro ritiene cioè possibile il recycling dei settori degradati della città diffusa ponendoli in sinergia con la originaria natura agricola dei territori periurbani sui quali si estendono. Si ipotizza un modello di città diffusa integrata con un’agricoltura di alto livello, intesa come strumento di riqualificazione ambientale. Legata ai temi della città giardino, la città estensiva si rivela spesso priva degli elementi di benessere che promette, derivanti dalla bassa densità e dal rapporto con lo spazio aperto. Proprio il vuoto appare di frequente privo di qualità. La sfida delle periferie urbane frammentarie e discontinue è individuare nuovi ruoli per i vuoti senza contare su risorse pubbliche non più disponibili ma configurando economie dall’interno del territorio, ovvero a partire dall’assetto stesso della città diffusa al di là di una sua improbabile revisione. Lo studio delle prospettive di queste aree non può prescindere dalla precisazione dell’idea di città già parzialmente tratteggiata in quella esistente. È necessario però rivedere le linee interpretative del tema passando attraverso le categorie progettuali del paesaggio (urbano) piuttosto che della città consolidata. Per immaginare una strategia che, a partire da diverse modalità di utilizzo dei vuoti, ne rilanci lo sviluppo qualificando la città estensiva nella sua interezza. Un programma di riciclo delle aree residuali della città diffusa dovrebbe adottare una “strategia del vuoto”, termine impiegato in contrasto con la consuetudine della densificazione, oggi non più praticabile. Questa azione di valorizzazione dei vuoti e, indirettamente, dei tessuti circostanti, dovrebbe perseguire sinergicamente una serie di obiettivi concatenati: la riduzione della tendenza allo sprawl edilizio, l’introduzione di forme di reddito diversificato ancorato al territorio e alle sue potenzialità

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inespresse, il riassetto del paesaggio urbano in ordine alla realizzazione di un’idea di città più confacente alla vocazione di città giardino dei tessuti estensivi. Obiettivo prioritario di tale operazione è l’individuazione di un modello urbano che associ in una “configurazione positiva” il panorama del costruito con un piano degli usi dei vuoti residuali, al fine di contribuire a una nuova idea di città per la città diffusa. Una prima complessità dell’operazione è legata alla natura stessa delle aree. Queste hanno assunto negli anni le più varie destinazioni d’uso: talune sono occupate da disparate attività commerciali, produttive e di altra natura, altre conservano a stento l’uso agricolo originario, altre versano in stato di abbandono mostrando scarsa attitudine a vocazioni alternative all’edificazione selvaggia. Si evidenziano almeno tre diverse tipologie di vuoto. 1. Esigue strisce di suolo non lottizzate che ospitano ogni sorta di attrezzature: depositi a cielo aperto, capannoni per attività artigianali, rivendite, centri sportivi e altro. Inizialmente occupate forzando le destinazioni urbanistiche, queste aree hanno generato nel tempo una parte non trascurabile delle attività economiche dei comparti urbani. Una frazione di tali attività è all’origine di un diffuso degrado ambientale, tanto da ritenerne opportuna una difficile delocalizzazione. 2. Appezzamenti a destinazione agricola. Sono aree che hanno conservato l’uso precedente l’urbanizzazione diffusa. Da queste può partire un processo di recupero globale centrato su un’idea di paesaggio urbano agricolo e forestale. 3. Terreni abbandonati, ambiti incolti lasciati alla vegetazione spontanea spesso all’origine di incendi o trasformati in discariche abusive. Sono le aree a ridosso delle lottizzazioni, in attesa di essere costruite legalmente o abusivamente al primo sentore di un nuovo condono edilizio. Sebbene siano quelle di maggior valore fondiario queste aree non hanno alcun ruolo produttivo. Sono lotti interstiziali a volte di notevole dimensione, quasi sempre elementi di pesante compromissione del paesaggio urbano e sociale. Particolari difficoltà pongono i vuoti all’interno del costruito pianificato destinati a soddisfare lo standard normativo del verde pubblico ma privi di manutenzione. Ne sono un esempio le aree interne ai PEEP di scala media e grande, ambiti in perenne stato di provvisorietà destinati a pesare sulla collettività direttamente o indirettamente.

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La definizione del ruolo propulsivo di queste aree deve partire dalla individuazione di un sistema virtuoso di attività economiche dal quale innescare il processo di rinnovamento. Al di là della congiuntura negativa del mercato immobiliare, non è possibile chiedere ai proprietari delle aree libere di rinunciare all’edilizia se non si propone in cambio un ventaglio di attività redditizie, funzionali alla strategia di riqualificazione. Nell’ottica di un’economia di periodo medio lungo si tratta di individuare una gamma di usi del suolo puntando su una agricoltura di alto livello costituente filiere complesse multiesito. Ovviamente, trattandosi della generazione di una diversa struttura economica territoriale, è richiesta una operazione di grande impegno scientifico, politico e amministrativo. È necessario cioè, oltre alla verifica della loro fattibilità, incentivare queste catene produttive con una promozione di vasta scala, incoraggiarle con una adeguata politica fiscale, aiutarle nella fase di start up con cospicui investimenti, curarne la manutenzione in fase operativa. Oltre a generare una economia stabile, il nuovo ruolo dei vuoti diverrebbe elemento di qualità ambientale per gli intorni costruiti. In prima analisi si ipotizza una prospettiva di sviluppo basata su azioni di forestazione urbana, produzione di biomasse, derrate alimentari da agricoltura biologica e solo in minima parte realizzazione di servizi pubblici urbani di alta qualità architettonica. Dal punto di vista della forestazione si immagina per esempio una filiera che a partire dalla produzione di frutta di alta qualità – indicativamente ciliegia e noce se adatte ai fitoclimi e alle tipologie di suolo incontrate – porti in seguito alla produzione di legno pregiato e alla sua lavorazione e esportazione. In alternativa forestazioni di essenze a breve turno di ceduazione o altro, in base all’esito degli indispensabili studi specialistici da effettuarsi caso per caso. Molte aree in abbandono diverrebbero in breve alberate, solo alcune destinate a impianti di trattamento, stoccaggio e lavorazione del legno. Sono inoltre ipotizzabili colture energetiche poliennali come la canna comune e il miscanto, e colture di “prato pronto”, materiale pregiato per la realizzazione di giardini. Non secondarie appaiono le potenzialità della produzione di oli vegetali. La colza e il girasole, che nel periodo di fioritura divengono bellissimi tappeti colorati, costituiscono le principali essenze per la produzione di biocarburanti a basso impatto ambientale. L’uso dei loro oli è però esteso ad

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altre attività, anche industriali. Ulteriori colture di oleaginose sperimentabili sono il ricino, il tabacco energetico, la brassica carinata e il cardo. Non è infine da trascurare la produzione di derrate alimentari, in particolare da agricoltura biologica o l’uso di questi spazi per campi fotovoltaici. Si tratta in sintesi di definire una realistica gamma di usi del suolo e approfondirne, mediante un confronto pluridisciplinare, tutti i passaggi e le componenti, fino agli impianti e alle costruzioni necessarie ai sistemi di trattamento e distribuzione. Non stiamo quindi pensando a un progetto urbano tradizionale ma a un accettabile spettro di possibilità d’uso del suolo alternativo all’edilizia e in grado di configurare economie restituendo qualità al territorio nella sua interezza. Il paesaggio urbano rimane un integrale di forze economiche. Queste sono però indirizzate verso la generazione di spazi destinati a dare salubrità e qualità ambientale alle aree circostanti, aumentandone il valore edonico e provvedendo autonomamente alla manutenzione sulla sola base della vocazione naturale e del ciclo produttivo. Ne deriva un’idea di paesaggio in evoluzione, non perimetrabile all’interno di un disegno di architettura. Un paesaggio composito, mutevole e prevedibile solo nella misura in cui le attività da impiantare appartengano alla gamma di opzioni consentite da un rigoroso sistema normativo pensato ad hoc. La città diffusa potrebbe essere il risultato di una integrazione fra meccanismi di uso del suolo pregressi e futuri, destinati a configurare un mosaico di costruito e colture, un paesaggio ecologico e in divenire.

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Riccardo Vlahov, Ex zuccherificio Eridania a Codigoro, 2011

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DISEGNARE LA CITTÀ DEL FUTURO Piero Orlandi >UNICAM

Con il titolo Disegnare la città del futuro, l’Istituto Beni Culturali dell’EmiliaRomagna ha organizzato una tavola rotonda al Salone del Restauro 2013 di Ferrara, lo scorso 22 marzo. Il principale obiettivo era quello di mettere a fuoco il contributo che l’IBC può portare alla ricerca PRIN Re-cycle Italy, alla quale partecipa come unico soggetto istituzionale con competenze territoriali. Si trattava di verificare con gli interlocutori presenti – rappresentanti della Regione Emilia-Romagna, del Comune capoluogo regionale e delle Unità di ricerca attive presso le Università – le modalità con cui eseguire una mappatura dei fenomeni in atto nella regione, e lo spazio di miglioramento-aggiornamento della normativa regionale urbanistica: quanto insomma la legge urbanistica regionale, la 20 del 2000, approvata in tempi in cui ancora l’obiettivo primario della pianificazione era il governo dell’espansione urbana, può essere efficace strumento di incentivazione dei processi di rigenerazione e riciclo di aree vuote o dismesse. Il paesaggio urbano che va creandosi ogni giorno di più nelle città italiane è oggi il frutto di trasformazioni sociali, antropologiche, economiche, forse tecnologiche, che interagiscono liberamente, di fronte all’impotenza sempre più evidente di pianificatori, architetti, conservatori. Che continuano

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ad esserci, a lavorare sulla città e a tenerla al centro delle loro riflessioni, molto meno delle loro azioni. Che, quando riescono a materializzarsi, sono per lo più puntuali, episodiche, transeunti: un grande restauro, un nuovo edificio che di solito risponde più alle logiche della comunicazione che dell’architettura, un piano di settore che apre o chiude il traffico in una via, regolamenta la raccolta di rifiuti in un quartiere o le regole per i dehors in una strada del centro. Al fianco di questa snervante fatica, e con logiche che paiono dettate da un mondo parallelo, la vita (e la morte) delle città corre ai suoi ritmi elevati. Crisi economica, mutazioni di stili di vita e di abitanti producono di giorno in giorno nuove aree degradate o abbandonate, altri edifici svuotati da trasferimenti, chiusure, dismissioni, insomma materiali che si apprestano a diventare rovine da riabilitare. Gruppi di rabdomanti degli spazi urbani indecisi si dedicano, con frequenza sempre maggiore, a mappare questi luoghi, le cui fotografie identificative compaiono nei tanti siti web dedicati al residuale, allo scarto lasciato dai processi di invecchiamento delle città; si moltiplicano tesi di laurea, concorsi fotografici, e spesso anche di architettura, i cui esiti, pur se spesso inattuati, propongono se non soluzioni, almeno riflessioni utili al dialogo, più o meno partecipato. Il che è comunque un bene, a volte anche un successo; perché è certamente molto utile disseminare idee in un terreno, come quello dell’opinione comune espressa dalla maggioranza dei cittadini dell’Emilia-Romagna di oggi, radicalmente ostile all’innovazione formale. Negli anni Settanta, quando i processi di sostituzione in atto nelle città storiche furono progressivamente bloccati dal consolidarsi dei piani e delle pratiche conservative, si posero le basi per una prima consapevolezza normativa, con i piani di recupero della legge 457 del 1978. Erano gli albori del tema del recupero urbano, per allora a dire il vero prevalentemente edilizio, o di comparto. E al cento per cento residenziale. Comunque sia, con almeno un ventennio di pratiche di questo tipo, le aree centrali delle nostre città si sono in larga misura risanate, almeno rispetto allo stato in cui erano quarant’anni fa. Poi si è passati non facilmente all’idea di riuso, e anzi, con non pochi conflitti tra questa pratica – storicamente consolidatissima in un paese come l’Italia – e l’atteggiamento iper-conservativo delle soprintendenze statali, molto restie a consentire cambi di uso di edifici storici. E dire che spolia-

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zioni e riutilizzo di parti di edifici, operate nei secoli scorsi, sono evidenti in tutti i nostri maggiori centri storici. Tuttavia, le resistenze burocratiche e istituzionali cominciavano in quegli anni a saldarsi con una opinione pubblica sempre più larga, e il luogo comune risultante diventava l’espulsione necessaria del contemporaneo fuori non solo dalle mura, ma perfino dalla città consolidata della prima periferia. E al tempo stesso il restauro diventava una pratica sottomessa a una teoria sempre più nelle mani degli storici dell’arte anziché degli architetti. Oggi si può sostenere che l’espansione urbana di quegli anni Ottanta e Novanta ha reso secondaria la pratica della costruzione della città su se stessa, che avrebbe permesso di non fagocitare verde, agricolo e naturale, e larghissime porzioni di paesaggio extraurbano. Ma forse si può dire anche, in una certa misura, che la tutela dell’esistente ha facilitato l’espansione, e almeno è andata nella stessa direzione di marcia. Non ci si è accorti che edificato di pregio storico e edilizia qualunque venivano avvicinati troppo in un unico concetto di “patrimonio edilizio esistente”, con cautele conservative a dir poco eccessive per gran parte degli elementi di un insieme sostanzialmente mal definito. La conseguenza è stata che tra centro storico ed espansione della città stava, ed è rimasta, una grande area grigia, trascurata dal piano e dai progetti, che avrebbe invece dovuto costituire il campo di esercitazione della densificazione edilizia necessaria: la periferia storica, o città consolidata, ricca di aree industriali, militari, ferroviarie progressivamente dismesse e rese disponibili per una qualificazione che tarda a venire. Oggi abbiamo imparato a riconoscere il paesaggio in ogni luogo, sia dentro la materia stessa dell’architettura urbana sia dentro i vuoti dello sprawl territoriale o della città diffusa. E ci chiediamo: è possibile che la nuova filosofia ecologica ed economica del riciclo sia assunta in una visione non soltanto episodica e frammentata nei singoli casi ma pianificata – come si diceva una volta – o almeno coordinata? Il tema, in altre parole, è come si tiene insieme l’attenzione sempre più diffusa al riciclo con la necessità di un’idea di città intesa come la si intendeva al tempo del piano urbanistico. Saremo in grado di eseguire mappature delle aree e degli edifici inutilizzati e disponibili per nuovi usi, non limitandoci a prenderne atto ma affiancando agli elenchi delle priorità pubbliche, delle strategie per la collettività urbana? Dato per scontato che l’urbanistica è una pratica che ai già pesanti problemi di prima – incapacità a governare le trasfor-

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mazioni attraverso una serie di processi burocratizzati più che attraverso un disegno conseguente a un pensiero – aggiunge ora i problemi della crisi economica e politica, e dunque sembra priva di un pensiero forte, o almeno vitale. Può esser sufficiente non consumare nuovo suolo, usare ciò che esiste al suo diverso livello di qualità, densità, funzionalità, appeal, per esprimere la personalità propria di quella città, di quella comunità? Ancora: il progetto per rigenerare una periferia degradata sarà diverso – e come? – da quello per riqualificare un quartiere privo di servizi, e da quello per costruire un pezzo di città dentro un vuoto urbano centrale derivante dalla demolizione di un ex mercato, o ancora da quello per ri-funzionalizzare-riusare uno dei tanti edifici del centro che hanno compiuto un loro ciclo di vita (ospedaliero, militare, scolastico, cinematografico, burocratico, ecc.)? Come sarà possibile avere un pensiero creativo per tutto ciò, un pensiero coordinato con una visione (al di sopra) e con una organizzazione (al di sotto) capace di integrare attori minuti, sminuzzati, plurimi, contrastanti, finanziariamente deboli ma economicamente affamati? In questo quadro di intervento sull’esistente, sempre più raffinata deve essere l’abilità di riconoscere e diversificare il vincolo (rigoroso) dall’attenzione (più permeabile), la cautela dalla libertà assoluta; perché tessuti molto rigidi e aree molto più molli pretendono comunque un rango urbano almeno dignitoso, se non addirittura prestigioso. L’IBC è naturalmente portato a stimolare queste domande, e per quanto possibile a creare le condizioni per provare a dare risposte. L’occasione data dalla ricerca PRIN Re-cycle Italy sembra adatta a facilitare il compito, per la qualificata partecipazione scientifica e disciplinare. Quel che si propone, è di favorire un approccio culturale rinnovato alle pratiche del progetto urbano, traendo dalla mappatura dei luoghi a scala regionale il ricorrere e il diversificarsi delle tipologie di vuoto, di degrado, di sottoutilizzato, di obsoleto, e stimolando poi gli assessorati regionali competenti in materia di urbanistica e ambiente a riflettere su questi argomenti e a mettere mano alle conseguenti revisioni normative. Una prima occasione di verifica della metodologia da seguire potrà essere messa a punto nei prossimi mesi prendendo a campione l’area metropolitana bolognese, con una mappatura che riguarderà principalmente gli edifici pubblici, ma senza escludere i casi più importanti di aree private già disponibili ad una trasformazione urbanistica; verificando anche, con l’occasione, un tema sempre più ricorrente e di successo, quello degli usi temporanei, del riu-

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so leggero, che impone snellimento di procedure autorizzative e adozione di criteri di sicurezza semplificati. Per togliere dall’abbandono gli edifici vuoti anche solo per periodi determinati, consentendo nel frattempo una minima manutenzione e gestione degli stessi, è decisiva la messa in rete della banca dati del dismesso, attraverso la realizzazione di piattaforme informatiche agili e di facile accesso, non scartando la possibilitĂ di implementazione da parte del pubblico, fatti salvi gli accurati controlli e il monitoraggio continuo delle informazioni.

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Finito di stampare nel mese di settembre del 2013 dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. » 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma

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Re-It 04

Recycland

Recycland è il quarto volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. La ricerca è fondata sulla volontà di far cortocircuitare il dibattito scientifico e le richieste concrete di nuove direzioni del costruire, di palesare i nessi tra le strategie di ridefinizione dell'esistente e gli indirizzi della teoria, di guardare al progetto quale volano culturale dei territori.

recycland

Recycland fonde due questioni: la prima insiste sulla revisione del progetto a fronte della crisi della modernità e del conseguente dialogo del progetto stesso con termini e concetti quali re-cycle o new cycle e con gli universi economici e biologici da cui derivano i due termini, la seconda investe la terra, il nuovo terreno di riferimento del progetto o meglio come questo oggi non possa prescindere dal waste che il precedente ciclo ha lasciato sul campo. Postproduzioni ed altri cicli oltre la crisi della modernità e per un nuovo metabolismo urbano sono le due tracce che, a partire dalla revisione degli strumenti dell’architettura e dell’urbanistica e dall’osservazione delle macerie che caratterizzano il paesaggio contemporaneo, direzionano lo sguardo verso la definizione e la necessità di un pensiero per la città futura.

isbn

978-88-548-6270-8

Aracne

euro 24,00

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