People Meet in The Re-Cycled city

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09 PEOPLE MEET IN THE RE-CYCLED CITY



PEOPLE MEET IN THE RE-CYCLED CITY LA PARTECIPAZIONE ATTIVA DEI CITTADINI AL PROGETTO DI RECUPERO, RIUSO, RE-CYCLE DELL’EDIFICATO ABBANDONATO E DEI PAESAGGI DEL RIFIUTO A CURA DI ADRIANO PAOLELLA ad.paolella@gmail.com

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Progetto grafico di Sara Marini e Vincenza Santangelo Copyright © MMXIV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–746–71 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: agosto 2014

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PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università IUAV di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Università degli Studi di Napoli “Federico II” Università degli Studi di Palermo Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino



INDICE

INTRODUZIONE People meet in the re-cycled city

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COMUNITÀ E RE-CYCLE. RIFLESSIONI Appunti su bricolage, riciclo, merz-bau e pratiche urbane dal basso Renato Bocchi

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Comunità attive per nuovi cicli di vita dei paesaggi del rifiuto Vincenzo Gioffrè

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La partecipazione attiva dei cittadini al recupero, riuso, re-cycle Adriano Paolella

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Il ruolo dei progettisti nei processi di recupero del territorio Gianfranco Neri

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La partecipazione nel progetto di paesaggio Franco Zagari

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Conflittualità e partecipazione nei processi di riuso urbano Carolina Pacchi

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Riusare e ricercare il senso dei luoghi Francesca Calace

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Bicicli e ricicli di una periferia industriale Renato Bocchi

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Narrare i paesaggi del contemporaneo a Sud Mauro Francesco Minervino

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Abitare illegale e paesaggi legalizzati. Verso una teoria della demolizione e del riciclo. Rita Simone

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L'agricoltura multifunzionale per nuovi paesaggi urbani e periurbani condivisi Elisabetta Nucera

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Progettazione partecipata. Un’idea di comunità. Francesca Saffioti Nuove pratiche dell’abitare: tecnologie di informazione e comunità creativa per i paesaggi dello scarto Antonia Di Lauro Un nuovo umanesimo: verso il rinascimento delle comunità Massimiliano Pontillo

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COMUNITA' E RE-CYCLE. ESPERIENZE From landfill to Landscape. Il progetto partecipato per la riqualificazione delle ex discariche Venera Leto Condividere: formula vincente. Cohousing e Social Housing Antonia Solari, Floriana Morrone

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Segni di un movimento in atto: i giardini condivisi a Parigi, Londra, Dublino, Milano come laboratori di partecipazione e di “vita activa” Chiara Pirovano

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Stazioni, rotaie, viadotti: da Parigi alla Calabria nuove strategie collettive per reinventare i territori delle infrastrutture Cristiana Mazzoni, Roberta Borghi, Philippe Rizzotti

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Il caso di “RiutilizziAMO l’Italia" Stefano Lenzi

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Riuso temporaneo a Milano. Cittadini flaneur o auto-manutentori? Isabella Inti

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Spazi indecisi. Esperimenti di rigenerazione urbana Francesco Tortori

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Rotaie verdi: valorizzazione del sedime ferroviario come corridoio ecologico e recupero degli scali in dismissione a Milano Marina Trentin, Guido Trivellini

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Valorizzazione Area Vallette nel comune di Cerea Marco Abordi

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Un teatro come bene comune Andrea Baranes, Chiara Belingardi

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La rigenerazione urbana nella periferia romana Luciano Bucheri

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Il progetto “Borghi attivi” ed il Village Design Statement Alessio di Giulio, Marco Polvani

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Il recupero dell’ex albergo dei ferrovieri a Pescara: il Ferrohotel Camilla Crisante, Chiara Rizzi, Alberto Ulisse

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L’exFadda di San Vito dei Normanni Roberto Covolo

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Bollenti spiriti: ai vecchi edifici servono giovani idee Annibale D’Elia, Marco Ranieri

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Laboratorio ReWind. Esperienza di progetto e cantiere di autocostruzione con processi e tecniche del riciclo a Punta Pellaro Consuelo Nava

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Una esperienza di partecipazione giovanile a Reggio Calabria: il paessaggio come costrutto strateggico Giuliana Quattrone

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La tecnologia accessibile. Una metodologia sperimentale per favorire la partecipazione attiva Adriano Paolella

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Box 1 Riflessioni e metodi per la partecipazione di bambini e anziani ai processi di riuso e riciclo di aree ed edifici abbandonati Germana Paolella Box 2 La scheda di rilevamento AA VV


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INTRODUZIONE

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PEOPLE MEET IN THE RE-CYCLED CITY

People meet in the re-cycled city affronta il tema della partecipazione attiva dei cittadini ai progetti di riuso e riciclo degli edifici e delle aree abbandonate. Intervenire sull’enorme spreco di merci e di risorse rende possibile soddisfare le esigenze con una migliore utilizzazione dei manufatti e ridurre al contempo gli effetti negativi prodotti nell’ambiente. Questa azione che, rispetto a quanto in essere, costituisce una inversione di tendenza deve, per risultare effettivamente incisiva, essere diffusamente praticata e quindi partecipata dai cittadini. Nell’aprire il progetto alle comunità, nel rispondere alle reali esigenze e ai desideri delle stesse, i progettisti affronteranno modalità operative, diverse da quelle consolidate, che li potrebbero condurre a superare quell’autoreferenziarsi disciplinare, che tanto frequentemente li ha astratti dalla società e resi succubi di una limitata tipologia di committenti, e a confrontarsi con temi e comportamenti che stimoleranno in loro una creatività applicata alla risoluzione di problemi e al soddisfacimento delle richieste delle comunità stesse. Nella pubblicazione sono state raccolte riflessioni, ricerche ed esperienze di ricercatori e operatori, ritenendo che la rileggibile vicinanza di intenti, seppure espressa con linguaggi e metodi diversi, palesi con chiarezza le grandi potenzialità esistenti per trasformare l’attuale modello culturale troppo spesso sotteso da logiche demagogiche e di consumo.

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COMUNITÀ E RE-CYCLE. RIFLESSIONI



APPUNTI SU BRICOLAGE, RICICLO, MERZ-BAU E PRATICHE URBANE DAL BASSO Renato Bocchi >IUAV

Gli scarti del processo di sviluppo e trasformazione del territorio – scrivevo pochi anni fa a conclusione di una ricerca sul Landscape of Waste [Bocchi R, (2012), The waste land-scape. Frammenti di pensiero per un’ipotesi di paesaggio come palinsesto, in: OPEN Papers, Scritti sul paesaggio, ETS] possono forse essere, in analogia col metodo e la poetica suggeriti da T.S.Eliot in The Waste Land, i frammenti di un discorso-paesaggio da sovrascrivere-sovradisegnare nello spazio-tempo di luoghi che appaiono oggi rifiutati. Quel che possiamo tentar di fare – dicevo allora - è disegnare un processo (con tutte le variabilità e adattività possibili) che costruisca relazioni (spazio-temporali) fra quei frammenti-scarti: un merz-bau dadaista à la Schwitters, più che un quadro cubista, dove ad un metodo scompositivo si preferisca un metodo ri-compositivo, dove il divenire e quindi la dinamica temporale, il mutamento, sia attentamente considerato e incorporato e tuttavia non tanto in funzione “analitica” ma propriamente in funzione “proiettiva”, “progettuale”. Ma per far questo – aggiungevo – come sembra ammonire il metodo “mitico” suggerito da Eliot, non è sufficiente il controllo del processo ricompositivo e di trasformazione; occorre darsi un’istanza di ordine finale. “La caratteristica del pensiero mitico, come del bricolage sul piano pratico – scriveva infatti Lévi-Strauss [Lévi-Strauss C. (1962), La penseé sauvage, Plon, Parigi, ed. it. Il pensiero selvaggio, Net, Milano, 2003] – è di elaborare insiemi strutturati, ma utilizzando residui e frammenti di eventi

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… testimoni fossili della storia di un individuo o di una società”. Quindi, si potrebbe provvisoriamente concludere: non resta che raccogliere quei frammenti, quegli scarti, quelle rovine, viaggiando nel junkspace della postmodernità e cercare di costruire con essi un montaggio (ipertestuale) di cose e di immagini capaci di raccontare non più in sequenza cronologica ma in un quadro spaziale simultaneo e continuamente in evoluzione: un palinsesto su cui continuamente si cancella e si riscrive ma sul quale le tracce permangono a costruire una continuità: tracce di cultura, strati geo-archeologici (anche di un’archeologia del contemporaneo) che rappresentano nel bene o nel male la nostra eredità. Costruire forse, come era nella mente di Kurt Schwitters, un Merz-bau meno accatastato possibile, nei cui interstizi possano continuare a germogliare il primo, il secondo e il terzo paesaggio. “In questa luce – ha scritto di recente Nicola Emery [Emery N. (2011), Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti, Milano, cap. 17] – assume il suo significato la ‘filosofia’ merz di Kurt Schwitters, non solo in quanto geneticamente originata proprio dalla spaccatura di Kommerz, ma anche in quanto progettualità poietica tesa in tutti i suoi ambiti al rinvenimento di una forma originaria del fare come raccogliere, rielaborare e così ri-formare e curare, e così certo anche propriamente abitare. Non si tratta più né di ‘fare’ né di ‘costruire’, quanto piuttosto di ‘merzare’, secondo il neologismo coniato dallo stesso Schwitters per indicare questo raccogliere-organizzare-curare detriti e scarti… La Merz-azione, di fatto avvia l’arte al suo divenire ‘plastica sociale’… Questi imperativi sono tali appunto in quanto, al di là dell’estetica, sono di natura etica e sociale”. L’analisi della ‘filosofia’ di Schwitters porta Emery a considerare le numerose “pratiche dal basso” diffuse nel mondo urbano odierno il germe di una interessante “nuova poiesis”. “La Merz City – sembra concludere Emery – almeno come noi la vogliamo prospetticamente interpretare, come rielaborazione e riparazione del negativo, presuppone un controllo dell’economico ‘prestazionale’ da parte di un riattivato principio di cittadinanza, ovvero presuppone una ri-abitazione dello spazio da parte di un riconquistato diritto comune di cittadinanza.” Ragionando sui modi con cui istituire “nuovi cicli di vita” per i nostri territori – l’obiettivo secondo cui la nostra ricerca tenta arditamente di traslare i fini e gli strumenti delle scienze e delle tecniche ecologiche nel campo dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio – dovremmo quindi indagare i modi con cui possa rifondarsi una struttura di relazioni di senso in quei territori, pur partendo dal “riciclo” di un’eredità materiale e ideale tutt’altro che omogenea e spesso disperatamente “desolata” e pur sapendo che non abbiamo né strumenti né risorse per un disegno globale di rinnovamento ma che necessariamente dobbiamo operare secondo azioni dal basso. Non ci basta più ovviamente proclamare la volontà sacrosanta di “non

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consumare altri suoli”, ma pensiamo si debbano anche e soprattutto tracciare nuove strategie per ri-ciclare quanto è stato già trasformato e costruito – ricordando quell’aforisma di Marcel Proust che recitava: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi”. Quindi, di nuovo: saper “vedere” e “costruire” sulla materia di quanto esiste un nuovo disegno delle città, dei paesaggi, dei territori. Ri-ciclo – così come lo intendiamo – è qualcosa di più del recupero, del riuso o della riqualificazione, è forse più vicino al concetto di rigenerazione, perché intende istituire un nuovo ciclo di vita e quindi intende ri-generare e ri-fondare le cose e le relazioni fra le cose, i luoghi e i paesaggi. Per questo motivo ha pochissimo a che vedere con la conservazione e moltissimo a che fare invece con la trasformazione, anche se rifiuta di lavorare sulla tabula rasa, scegliendo di sporcarsi le mani con quello che si trova, che preesiste, non disdegnando l’ibridazione, la stratificazione, il montaggio, la sovrapposizione, la riscrittura e la sovrascrittura per costruire nuove narrazioni, secondo nuovi orizzonti di senso. Dobbiamo allora avere il coraggio di tradurre queste volontà di rigenerazione in “nuovi paradigmi” – come ci ha invitato a fare di recente Mosé Ricci, evocando la filosofia della scienza di Thomas S.Kuhn [Ricci M. (2013), Nuovi paradigmi, List, Trento-Barcellona] – essendo coscienti che “un nuovo paradigma è un modo completamente diverso di guardare agli spazi dell’abitare e al loro mutamento”. Ce lo richiede il tempo di crisi in cui siamo immersi, il quale esige imprescindibilmente di cercare un nuovo inizio, una rigenerazione appunto – rendendo insufficiente qualsiasi opera di puro rimedio, di riparazione, di aggiustamento, di modificazione debole. Il che significa appunto saper immaginare e delineare nuovi modelli di comportamento e di governo delle trasformazioni, disegnare nuove utopie del possibile – se volete – che possano realizzarsi anche con interventi minimi e puntuali ma che puntino a un disegno di riattivazione e rigenerazione più generale e complessiva [forse potremmo ripensare quell’utopia del residuale, « la categoria che meglio sembra cogliere il nucleo della filosofia di Walter Benjamin », secondo quanto scrive, a proposito di una possibile « teologia della spazzatura », Gianluca Cuozzo nel suo recente libro Filoso±a delle cose ultime [Moretti & Vitali, Bergamo, 2013]. Dentro questi nuovi universi di riferimento - che hanno trovato già un largo consenso grazie all’insopportabilità ormai a tutti evidente della situazione ambientale, sociale ed economica del nostro “capitalismo in-finito” (per usare una recente definizione di Aldo Bonomi [Bonomi A. (2013), Il capitalismo in-±nito, Einaudi, Torino]) – dobbiamo tuttavia saper inventare modi di intervento e di azione progettuale che per forza di cose hanno un taglio rinnovato, decisamente meno demiurgico di quello cui siamo stati abituati.

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Non è più il tempo evidentemente – dato lo stato delle risorse economiche, e soprattutto di quelle pubbliche - dei grandi disegni di renewal urbano, delle grandi operazioni di ristrutturazione urbanistica. Occorre trovare strategie più sottili di “infiltrazione”, che lavorino più dal basso, fortemente saldate nei tessuti sociali, trovando anche alleanze con l’azione dell’imprenditoria privata, e che agiscano – se mi si consente di mutuare linguaggi della medicina - più per agopuntura o per riattivazione di meccanismi metabolici, se non addirittura per omeopatia o per scatenamento di infezioni virali “virtuose”, piuttosto che secondo procedure chirurgiche. Il riciclo peraltro è una pratica che nasce, con radici antropologiche, nell’ambito di comportamenti individuali o al massimo di “cultura materiale”. Basti pensare alle pratiche di riciclo nel campo dell’alimentazione, passate nella gastronomia solo dopo una sperimentazione spontanea nella cucina povera, o anche alle pratiche di riciclo nel campo dell’abbigliamento o dell’oggettistica, che derivano di fatto da operazioni “da rigattiere”, con conseguente montaggio dei materiali “trovati”. E ciò vale anche per molte esperienze non solo dell’arte, ma anche dell’architettura “povera”: si pensi ad operazioni come quelle spesso compiute da architetti quali Shigeru Ban o Kengo Kuma in area giapponese, o quali i Rural Studio negli USA o alle molte esperienze dell’architettura olandese, dai più famosi MVRDV fino ai Superuse Studios. Si tratta quindi di movimenti dal basso, su spinte spesso individuali o volontaristiche, che solo gradualmente si trasformano in “campagne a sfondo collettivo”, proponendosi perciò in una dimensione comunitaria e quindi politica, verso l’affermazione di un “bene comune”. Quello che ci interessa cercare nel mondo del “riciclo” è proprio questo passaggio da pratiche - favorite dai tempi di crisi e dall’aguzzar l’ingegno, ossia la creatività indotta che le crisi comportano – a metodi e strumenti che possano proporsi come “nuovi paradigmi” per imprimere una svolta al lavoro attorno alle trasformazioni delle nostre città e dei nostri territori. Ciò suggerisce di riaprire il dialogo dell’azione progettuale con il tessuto sociale e territoriale, non solo e non tanto in termini di pratiche di partecipazione e concertazione (che spesso si sono rivelate inefficaci e vuote), ma proprio nel senso dell’innesco di “azioni” sperimentali che aprano la strada a un rinnovamento “creativo” delle situazioni urbane e territoriali. E le occasioni per tali “azioni” risiedono spesso oggi nei domini del non-programmato, del temporaneo, dell’emergenziale. Si tratta dunque di capire se da queste occasioni si possano ricavare metodi e pratiche trasferibili su un piano più generale e strategico. “Essere pervasivi, radicali e rigenerativi - ha scritto Pasquale Persico in Living the other city – Abitare l’altra città [Acces_SOS, Bologna, 2013] – deve poter significare nuova capacità di diventare rabdomanti di un territorio che deve trovare sorgenti e risorgenze dimenticate o inattese, ma significa anche credere alla metamorfosi urbana dell’eredità materiale

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e immateriale che è la città, infrastruttura complessa da riposizionare nell’area vasta”. Insomma si tratta probabilmente di ri-ciclare e di re-inventare gli spazi dell’architettura, del lavoro, della città, anche del paesaggio, agendo sulla base di nuove visioni e concezioni di quegli stessi spazi e innescando di conseguenza dei processi trasformativi, con occhio attento ai processi di mutamento dei comportamenti antropologici e ai nuovi tipi di processi della produzione di beni e servizi. Stiamo parlando non tanto di un disegno finito e visionario di un futuro possibilmente radioso, ma dell’apertura consapevole di un processo di trasformazione “indirizzata”. Poiché penso nessuno di noi creda più a un progetto blueprint ma piuttosto a un progetto “processuale” che preveda interventi di innesco, di controllo e manutenzione, di adattamento progressivo delle trasformazioni, e che lavori quindi attraverso strategie “narrative”, capaci di mettere in conto le mutazioni e i movimenti, nonché i comportamenti e le percezioni cangianti, fuori da qualsiasi idea di cristallizzazione dei progetti in geometrie “cartesiane”. E tuttavia sulla base di imperativi ed obiettivi etico-sociali e di strategie sia economiche sia architettonico-urbane di ri-composizione che si avvicinino a quella Merz-city prima evocata. Forse potremmo parlare, come proposto da Giovanni Caudo (collega che di recente ha assunto il compito difficilissimo di assessore all’urbanistica della città di Roma) [Caudo G. (2013), La città della contrazione, in WWF Italia, Riutilizziamo l’Italia: Report 2013, Roma, 2013], di una “terza città, quella della contrazione, che nasce dall’esplorazione di ciò che abbiamo costruito (consumato)”.

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01 - Friends of the High Line


COMUNITĂ€ ATTIVE NEL PROGETTO DEI PAESAGGI DEL RIFIUTO: HIGH LINE - NEW YORK, RECYCLING PARK - TEL AVIV Vincenzo Gioffrè >UNIRC

Ogni paesaggio è forma antropica [Venturi Ferriolo M. (2003), Etiche del paesaggio, il progetto del mondo umano, Editori Riuniti]

Paesaggio, nell’interpretazione contemporanea, non è piĂš solo sinonimo di immagini iconiche spettacolari, quanto piuttosto sistema di relazione in continua evoluzione tra elementi naturali e antropici, materiali e immateriali. Nel progetto di paesaggio è necessario superare una visione basata esclusivamente sull’esperienza visiva, percettiva, estetizzante, in favore di nuovi approcci che si fondano sulla presa in conto delle questioni di carattere sociale e hanno come presupposto porre “la comunitĂ di abitanti al centro della scenaâ€? [Zagari F. (2006), Questo è paesaggio. deÂąnizioni. Mancosu Editore]. La Convenzione europea del paesaggio ha recepito i contenuti piĂš avanzati del dibattito contemporaneo sull’evoluzione del concetto di paesaggio e li diffonde suggerendo azioni di tutela, salvaguardia, gestione, estesi a tutto il territorio degli stati membri. Si legge all’art 2. (‌) la Convenzione si applica a tutto il territorio e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati. Oltre i paesaggi eccezionali, che giĂ godono di un consolidato regime di tutela, l’attenzione legislativa si estende ai paesaggi del quotidiano, quel vasto repertorio di luoghi solitamente ignorati perche non possiedono qualitĂ patrimoniali o monumentali eclatanti, ma con notevoli potenzialitĂ latenti in grado, se svelate, di svolgere un ruolo

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determinante per le comunità di abitanti che li vivono e che in essi possono ritrovare quei caratteri costitutivi essenziali per sviluppare un senso di appartenenza e di riconoscibilità. Paesaggio del rifiuto Campo di ricerca è la Città in±nita [Abbruzzese A., Bonomi A. (2004), La città in±nita, Bruno Mondadori Editore] senza più centro, margine, gerarchia, ordine, misura, che sfugge per complessità alle categorie tradizionali dell’architettura o dell’urbanistica. Un universo di luoghi postmoderni dove si assiste alla progressiva scomparsa di ogni traccia di comunità; luoghi che diventano paesaggio del ri±uto la dove prevale maggiormente frammentazione, incertezza, instabilità, discontinuità, alternanza senza regole di costruito e campagna. Luoghi colonizzati dalla natura che si riprende i suoi spazi proprio dove si concentra maggiormente degrado e abbandono, trasformando di fatto la sfera urbana in una enorme rovina [Jacob M. (2009), Il paesaggio, il mulino]. Da qui l’interesse per i paesaggi del rifiuto, quel vasto repertorio di macerie urbane e sub-urbane di una modernità irrealizzata sui quali si concentra la ricerca teorica e la sperimentazione progettuale [Calcagno Maniglio A. (2010), Progetti di paesaggio per i luoghi ri±utati, Gangemi Editore]. Se cambiano le categorie interpretative di conseguenza cambiano anche gli approcci progettuali, oggi si fanno strada nuovi paradigmi che definiscono un modo completamente diverso di guardare agli spazi dell’abitare e al loro mutamento, il paesaggio da sfondo concettuale diventa l’obiettivo del progetto attraverso approcci trasversali, multiscalari, multifunzionali, partecipati [Ricci M. (2012), Nuovi Paradigmi, List]. Così la tecnica del riciclo, estesa dagli oggetti alle parti di territorio, si propone come nuovo riferimento per avviare nuovi cicli di vita di architetture e infrastrutture della città e del paesaggio in abbandono, per spazi aperti e aree produttive dismessi, terreni agricoli sottoutilizzati. Si tratta di luoghi che hanno richiesto in passato l’utilizzo di ingenti risorse ambientali e umane per essere costruiti, trasformati, lavorati; risorse che non possono essere disperse semplicemente con la demolizione o con l’abbandono quanto piuttosto tornare ad essere materia viva. Riciclare paesaggi La pratica del riciclo applicata al paesaggio ha nella partecipazione attiva delle comunità la componente determinante. Le popolazioni, infatti, non possono essere esclusi dai processi progettuali, ma devono anzi essere protagonisti in tutte le fasi: ideativa, costruttiva, di gestione e manutenzione delle opere realizzate. Si tratta di un nuovo patto tra progettisti e società civile per risignificare, dal punto di vista funzionale, simbolico, figurativo, i luoghi dell’abbandono e del rifiuto. Il ruolo della comunità è ancora più determinante per il buon esito di interventi che

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coinvolgono la trasformazione radicale di luoghi particolarmente significativi, di manufatti o superfici di rilevanti dimensioni che richiedono l’impiego di ingenti capitali, nei casi di operazioni complesse condotte con progettisti di primo piano del panorama internazionale. È il caso di due opere molto note, le High Line di New York e Recycling Park di Tel Aviv; due casi studio particolarmente interessanti da analizzare per comprendere le modalità di partecipazione dall’esordio progettuale al completamento dei lavori di realizzazione. Due casi tra loro decisamente diversi che consentono anche di interpretare le potenzialità del concetto di riciclo nel progetto di paesaggio. Per le High Line la definizione di paesaggio del rifiuto è di carattere metaforico, si tratta di una linea ferroviaria ri±utata dal sistema economico e produttivo a seguito dei processi evolutivi della città contemporanea che esclude strutture obsolete o usurate. Così come metaforica è l’azione di riciclo che ha lo scopo di risignificare dal punto di vista simbolico e funzionale l’infrastruttura dismessa attraverso un programma di “sub-ciclo strategico” quindi una riduzione dell’intensità d’uso dell’opera. Progettata, infatti, per sopportare un traffico pesante e frenetico di mezzi ferroviari commerciali, oggi, consente attività leggere e lente del camminare, dello svago, del riavvicinarsi alla natura attraverso giardini, sedute, spazi si socialità. Ben diverso il caso del nuovo parco di Tel Aviv, qui l’azione progettuale si ispira al principio da culla a culla [McDonough W., Braungart M. (2003) Dalla Culla alla Culla. Come conciliare tutela dell'ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni] e si fonda sul reinserimento dei materiali di rifiuto della discarica nel processo costruttivo dell’intero parco. Il riciclo è applicato ad ogni genere di materiale ed a tutti i livelli, dalla bonifica dei terreni alla realizzazione degli oggetti di arredo. Si tratta soprattutto di due casi emblematici per il ruolo svolto dalle rispettive comunità di abitanti che sono ispiratrici dei progetti e partecipano attivamente e con grande consapevolezza alla vita delle opere. High Line - New York La realizzazione del parco delle High Line di New York è considerata una delle esperienze più significative di riciclo di una infrastruttura dismessa in spazio pubblico urbano. La fortuna dell’intervento è in buona parte dovuta all’esito qualitativo del progetto, per eleganza del design, capacità di interpretare modalità contemporanee di fruizione di spazi pubblici, risposta programmatica e funzionalità complessiva dell’opera. Ripercorrendo la cronostoria dell’intera vicenda si evince il ruolo determinante che svolge la comunità di abitanti nell’intero processo di trasformazione della linea ferroviaria dismessa, da paesaggio del rifiuto a nuovo parco lineare, una vicenda ben documentata nel sito internet dell’associazione [www. thehighline.org]. La High Line, costruita nel 1930 nel distretto industriale di Manhattan, era parte di un imponente progetto di infrastrutture

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pubblico-privato denominato West Side Improvement, aveva lo scopo di sollevare il traffico merci di 15 metri dalla quota stradale ed eliminare le interferenze pericolose dei treni con il traffico urbano, una condizione che provocava decine di incidenti ogni giorno. Nel 1980, a seguito della chiusura della linea, i proprietari privati decidono la demolizione di della struttura sopraelevata. Peter Obletz, attivista e appassionato di ferrovia, contesta la distruzione della linea avviando una causa in tribunale contro i proprietari. Nel 1999 Joshua David e Robert Hammond, residenti del quartiere attraversato dalla ferroviaria, fondano l’associazione Friends of the High Line per sostenere la non demolizione dell’infrastruttura e proporre soprattutto il riutilizzo come spazio pubblico. Nel 2001 il Design Trust for Public Space assegna una borsa di studio per l'architetto Casey Jones che assieme all’associazione Friends of the High Line, propone il riutilizzo della linea in parco pubblico; nell’ottobre 2002 un ulteriore studio mette in evidenza la convenienza economica dell’intervento dimostrando che i costi ingenti di trasformazione della infrastruttura in parco possono essere ampiamente compensati dalla rivalutazione degli spazi commerciali e residenziali adiacenti; nello stesso anno una risoluzione della città di New York ne approva definitivamente il riutilizzo. Nel gennaio del 2003 è bandito il concorso di idee internazionale "Progettare la High Line" al quale partecipano 720 gruppi provenienti da 36 paesi, sempre nel 2003 il sindaco Bloomberg annuncia il cofinanziamento dell’opera. A settembre 2004 la giuria, composta da rappresentanti di Friends of the High Line e la città di New York, seleziona il progetto vincitore del team di James Corner Field Operations e Diller Scofidio + Renfro. Si tratta di un gruppo multidisciplinare che spazia dalla progettazione del paesaggio all’architettura, dalle tematiche ecologiche all’arte urbana al design. Nel novembre 2005 il Comune di New York assume la proprietà di parte della infrastruttura con lo scopo di avviare il progetto mentre l’associazione Friends of the High Line continua una campagna di raccolta fondi. Nell’aprile 2006 inizia la costruzione della prima Sezione (Gansevoort Street fino a 20th Street) vengono rimossi zavorre e detriti, i binari sono mappati, etichettati e conservati, alcuni reinstallati nel parco, si effettuano le riparazioni dei sistemi di drenaggio; il 9 giugno 2009 è aperta al pubblico completata dei percorsi, punti di accesso, posti a sedere, illuminazione e piantumazione di arbustive e alberature. Dopo un percorso similare, l’8 giugno 2011 apre al pubblico la seconda sezione (West 20th Street fino a West 30th Street); il 25 luglio 2012 la città di New York acquisisce la proprietà per la terza e ultima sezione e avvia i lavori, la consegna prevista per aprile 2014. In tutte le fasi l’associazione degli amici della High Line partecipa attivamente, segue l’evolversi del progetto, propone integrazioni, soluzioni, svolge un ruolo critico. Nel suo complesso l’esperienza è la sintesi perfetta di un processo partecipato della popolazione con i diversi attori: interessi

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privati, enti pubblici, tecnici e professionisti; una comunità che manifesta una grande lungimiranza nell’individuare nuovi immaginari per i luoghi del rifiuto e concretizza le proprie aspirazioni nel rapporto virtuoso con i progettisti. Oggi il parco lineare delle High Line è uno dei luoghi più visitati di New York. Recycling Park - Tel Aviv Nel 2020 è previsto il completamento del Parco Ariel Sharon, con una estensione complessiva di oltre 2.000 ettari sarà il nuovo polmone verde della regione metropolitana di Tel Aviv. Il programma prevede diversi chilometri di piste ciclabili, aree per birdwatching, campi sportivi, un anfiteatro di 50.000 posti per concerti e spettacoli, aree umide, aree pic-nic, campi coltivati e spazi ludici; oggi sono già funzionanti parte dei percorsi per passeggiate a piedi, in bici e le zone ricreative. Al centro del sistema di aree verdi, nell’ex discarica di Hiria, è in costruzione il Recycling Park, cuore nevralgico dell’intero sistema. Anche in questo caso la rilettura della realizzazione dell’opera consente di individuare il ruolo centrale svolto dalla società civile sia in una fase iniziale di promozione del progetto che, oggi, nella fruizione del parco. Nel 1998, alla chiusura dell’impianto, Hiria appare come una montagna artificiale maleodorante, dalla cima piatta alta 60 metri, che copre una superficie di oltre 450.000 mq e contiene 16 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani. La montagna è anche e soprattutto ben visibile per la sua vicinanza al centro di Tel Aviv e le infrastrutture viarie, un grande Landmark che segna la pianura circostante e l’intera area metropolitana. Dopo la chiusura la comunità si chiede cosa farne del sito. Martin Weyl direttore del museo di Israele, oggi direttore della Fondazione Baracha impegnata nella realizzazione del parco, per primo si mobilità. L’idea di Weyl è non solo trasformare la discarica in parco pubblico ma soprattutto realizzare un centro di educazione ambientale aperto alla comunità di abitanti. Per diffondere il progetto scrive un libro [Weyl M. (2010) On Stench and Beauty: The Greening of Israel's Largest Garbage Dump, Am Oved], partecipa a conferenze, stimola un dibattito pubblico, chiede a diversi artisti visioni ed ipotesi di possibile riutilizzo della montagna di spazzatura ed espone le opere realizzate presso il Tel Aviv Museum of Art. A seguito di queste iniziative, le sorti del sito diventano argomento di interesse per l’intera comunità. Il primo ministro Ariel Sharon (accanito sostenitore del progetto ed a lui oggi intitolato il parco) avvia le procedure per la bonifica della discarica e nel 2004 è bandito un concorso internazionale di progettazione. Lo scopo della consultazione è raccogliere idee su come riabilitare la montagna di spazzatura per assegnare un nuovo valore positivo ad un luogo degradato e non compromettere le aree circostanti, soprattutto gli alvei dei fiumi sottostanti. Peter Latz si aggiudica il primo premio e riceve l’incarico per la realizzazione del parco e la bonifica del sito. Il paesaggista

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tedesco decide di mantenere la forma del cumulo di rifiuti che definisce “montagna mistica” per la particolare siluette che la rende visibile anche a distanza. Il progetto prevede di realizzare una sequenza di scenari di paesaggio mediterraneo fruibile con rampe inclinate che assecondano la morfologia della collina ed un programma ricco di attività ludiche e didattiche esperibili lungo percorsi e punti di sosta. Inizia quindi la fase di bonifica, igienizzazione e messa in sicurezza della discarica. La montagna di rifiuti è ricoperta da un primo strato di argilla, quindi in successione un rivestimento in tessuto sintetico, uno stato drenante in pietrame, un ulteriore tessuto permeabile all’aria e per finire il terreno fertile. La stabilizzazione della collina si realizza con il materiale derivante dalle demolizioni di edifici e infrastrutture riciclato e collocato lungo le scarpate a copertura della coltre di spazzatura. I biogas prodotti dai rifiuti sono aspirati, canalizzati in condotte ed utilizzati per produrre energia elettrica che rende autonomo l’intero parco. Il deflusso dei pergolati drenato in fossati scavati attorno alla montagna è convogliato in giardini per la fitodepurazione, l’acqua così ottenuta è filtrata e utilizzata per l’irrigazione tramite una fitta rete di impianto a goccia. All’ingresso nel parco si realizza la centrale di trasferimento dove circa 5.000 tonnellate di rifiuti urbani e di costruzione della zona metropolitana vengono portati ogni giorno per il riciclaggio; i tre impianti trasformano i rifiuti di cantiere in lastre di calcestruzzo utilizzate, a secco, per stabilizzare i pendii della collina e ghiaia per ricoprire i suoli delle aree attrezzate; i tronchi d'albero sono riciclati in panche e accessori per l'uso nel parco; il materiale in vetro e in metallo è riutilizzato parzialmente all’interno degli spazi attrezzati di uffici e zone di accoglienza. Il belvedere in cima alla collina, oggi già completato con le grandi pergole, offre una vista privilegiata verso il Mar Mediterraneo, le Montagne della Giudea, i grattacieli di Tel Aviv e le acque dei fiumi Ayalon e Shapirim; fitte macchie di giardini con piante officinali lungo le scarpate ed in cima alla collina contribuiscono al miglioramento della qualità dell’aria; lungo la rete di sentieri pannelli informativi illustrano le tecniche di riciclo e di bonifica ambientale messe in pratica. Il Centro di educazione Ambientale, in un capannone industriale riciclato per svolgere attività didattiche, è lo spazio più interessante dove si concretizza la filosofia del parco. La finalità del centro è incoraggiare è diffondere la cultura del riciclo con una intensa attività di seminari d'arte, laboratori, gite organizzate intorno al parco, proiezione di filmati audiovisivi, lezioni sui temi del trattamento di rifiuti; un sito internet [http:// www.hiriya.co.il/len/] molo dettagliato e aggiornato illustra i programmi del centro. Le attività sono rivolte ad educare adolescenti, bambini e adulti circa il legame tra qualità della vita e responsabilità ecologica. All’esterno il giardino umido, con ninfee e papiri, è anche una vasca di fitodepurazione; tutti gli elementi di arredo del centro sono operazioni di riciclaggio realizzate da artisti con visitatori, studenti, dipendenti. I mobili

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e gli accessori sono fatti con pneumatici, lattine e bottiglie e la cucina è una raccolta di “oggetti smarriti” così come le sale didattiche. Il centro è sempre abitato da giovani, scolaresche, famiglie, studiosi, ricercatori; uno staff specializzato illustra l’intero processo che ha portato la discarica a divenire oggi parco; in conferenze e workshop i visitatori possono imparare dagli esperti come modificare i modelli di comportamento per contribuire a proteggere l’ambiente. I visitatori lasciano oggetti, manufatti, realizzati con il riciclo di materiali della discarica, testimonianze vive della loro partecipazione al grande processo collettivo didattico ed educativo. Giornalmente ad orari prestabiliti le visite guidate al parco attraversano gli itinerari dove pannelli informativi illustrano le tecniche di bonifica messe in atto. Il parco è quindi una grande macchina educativa, per svolgere non solo attività ricreative, ma anche e soprattutto culturali e didattiche; per sperimentare nuove pratiche sociali che rafforzano il senso di socialità e appartenenza al paesaggio; per applicare concretamente il principio di riciclo. Nel complesso il parco è un esempio di paesaggio multifunzionale contemporaneo che associa aspetti ambientali e sociali, propone un modello di spazio pubblico portatore di valori positivi, sintesi di una ricerca progettuale che associa qualità estetiche ed etiche; pensata per la comunità che lo deve vivere, abitare, studiare e curare quotidianamente.

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01 - "CosÏ il velodromo è saltato" 02 - "...dopo un primo momento guarda questi oggetti, apparentemente inutili, con un'altro ochhio" 03 - "...praticare una soluzione che sviluppi una creatività diffusa, non irregimenti o marginalizzi intenti, passioni, entusiasmi"


LA PARTECIPAZIONE ATTIVA DEI CITTADINI AL RECUPERO, RIUSO, RE-CYCLE Adriano Paolella >UNIRC

L’incredibile fraintendimento della sostenibilità Il nodo irrisolto della sostenibilità è insito nella sua più accreditata definizione. In essa, come noto, si parla di “sviluppo che soddisfi i bisogni del presente” non specificando cosa si intenda né per sviluppo, né per bisogni e fornendo indicatori impraticabili quali la compromissione della possibilità di soddisfare inintelligibili bisogni di generazioni future. Questa definizione non fu casuale, ma esito di un tentativo improbabile, e forse dannoso, di soddisfare le richieste mosse da più parti del mondo scientifico e della società senza prendere alcuna decisione efficace a ridurre i consumi, limitare il mercato, combattere l’iniquità. Da essa discendono due interpretazioni. La prima quella “ecologica” per cui ogni azione e trasformazione dovrebbe essere rinnovabile e per la quale si dovrebbe procedere per recuperare i danni prodotti nell’ambiente che già oggi compromettono i bisogni, qualunque essi siano, delle generazioni future (si vedano ad esempio i mutamenti climatici). La seconda quella “industriale-consumistica-globale” per cui la definizione sancisce la superiorità del diritto di soddisfare i bisogni (anche nell’accezione soggettiva degli stessi), e quindi di produrre e consumare, rispetto ad ogni altra variabile e per la quale si dovrebbe solo aumentare l’efficienza delle trasformazioni per non compromettere l’offerta della futura domanda. Il mercato e il suo principale strumento, la produzione industriale, sceglie quindi di perseguire la sostenibilità applicando gli stessi criteri che hanno caratterizzato il suo operato e, coerentemente con essi, individua nell’efficienza la possibilità di ampliarsi rispondendo alle richieste di qualità da parte dei consumatori sensibili alle questioni ambientali e dotati

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di adeguate disponibilità economiche, continuando però al contempo a produrre con sistemi devastanti merci di bassa qualità per i meno abbienti e i meno sensibili. Il successo del miglioramento per cicli successivi, già intuito negli anni ’50 del secolo scorso, Deming Cycle, e posto alla base delle ISO 14000 e delle certificazioni volontarie, è maggiormente rileggibile nello stimolo svolto nell’incrementare le vendite piuttosto che nei risultati conseguiti dalla sua applicazione nella riduzione del totale delle emissioni. Il caso degli autoveicoli (euro 1,2,3, etc.) dimostra molto chiaramente come l’efficienza del processo produttivo e della merce può contribuire molto marginalmente al raggiungimento di qualsiasi tipo di sostenibilità. Anche le più recenti considerazione sul tema Cradle to cradle, per quanto interessanti e stimolanti, pongono l’attenzione sulla chiusura dei cicli dei prodotti (“metabolismo biologico o della biosfera” e “metabolismo tecnico o della tecnosfera”) divenendo il supporto teorico ed etico per sostenere nuove frontiere del consumo. Il “prodotto di servizio”, ad esempio, già in uso da anni per fotocopiatrici e stampanti ha annullato i benefici ottenuti dal controllo della merce a fine uso con l’aumento di consumo della merce stessa, e ha contribuito principalmente, ed è per questo che è stata applicata, all’aumento della produzione ed alla fidelizzazione dell’acquirente. Del resto esplicito obiettivo, come raccontano McDonough e Braungart, è che in situazioni di “eco efficacia” aumentino la quantità delle merci: “la gente potrebbe assecondare la sua avidità di nuovi prodotti liberamente, senza sensi di colpa, e l’industria potrebbe incoraggiarla impunemente a farlo, sapendo che in questo modo entrambi sostengono il metabolismo tecnico”. A parte il moto perpetuo ad impatto zero, non ancora noto allo scrivente, che sarebbe alla base di questo modello, l’ipotesi di piegare l’uomo e la natura per assecondare dei comportamenti patologici, e per di più indotti, quali l’“avidità” di nuovi prodotti, appare un obiettivo errato ma in linea con la necessità del modello economico vigente di incrementare sempre e comunque la produzione (“L’ecoefficacia vede nel commercio il motore del cambiamento e rispetta il suo bisogno di rapidità e produttività”). I venti dell’industrializzazione Gran parte dell’elaborazione tecnico-metodologica sul tema ambientale del settore industriale assume come inalienabili la crescita (della produzione, del mercato) e la limitazione della responsabilità del produttore alla sola qualità della merce; essa si sviluppa in termini di qualità del prodotto e di processo rifuggendo la valutazione della indispensabilità del prodotto, dei danni comportati dal suo uso e abuso, delle difficoltà effettive insite nello smaltimento, degli effetti sui comportamenti e sulla cultura degli individui e delle comunità. Considerando diversamente questi aspetti gli attuali metodi generati dalla cultura industriale sarebbero impraticabili. Verrebbe a mancare quella progettazione chiusa, dove non vi è adattamento della merce, dove i tempi sono scanditi da fasi e le attività sono programmate e consequenziali, necessaria all’attuale produzione ma lontana dalla variabilità del contesto sociale e ambientale in cui le merci sono utilizzate. Così aspetti prioritari della ricerca industriale quali efficienza e innovazione

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divengono, astratti dal contesto, principalmente strumenti per ridurre la durata temporale dei prodotti e incrementare le produzioni come richiesto, in particolar modo, dai mercati maturi che hanno già soddisfatto le esigenze dei cittadini e che non hanno possibilità di crescita se non nel superfluo e nello spreco. In una società non consumistica la durata è sinonimo di qualità della merce, per l’economia contemporanea è una minaccia per la crescita. Quello che è la salvezza del pianeta può divenire un duro colpo per un l’industria dei consumi. Questa conflittualità tra durata e riduzione degli sprechi, tra consumo ed economia (economicità energetica, ambientale, sociale delle azioni e delle trasformazioni) è ancora più evidente in edilizia i cui prodotti hanno una durata temporale elevatissima e sono oggetto di continui adattamenti, condizioni queste, tra l’altro, a cui si può attribuire il ruolo principale nella limitazione del gigantesco “peso” ambientale del settore. Ma i venti dell’industrializzazione da sempre agitano l’edilizia. Rileggendo i testi di quaranta anni fa sui processi di industrializzazione e sulla prefabbricazione, decantati gli entusiasmi di allora, emerge evidente quanto quella tensione all’imitazione travalicasse la logica degli obiettivi propri del settore (costruire bene per favorire il benessere degli abitanti), e conducesse in un limbo dove le attenzioni a quelle variabili che sono tipiche di un processo produttivo industriale (riduzione della manodopera e dei tempi di produzione) si ergono a valore prioritario senza per questo garantire, come è ben riscontrabile dalle realizzazioni, alcuna qualità ambientale, sociale, formale dell’edificio. Seppure in maniera diversa anche oggi metodi, obiettivi, termini generati nel mondo della produzione industriale migrano nell’edilizia quasi automaticamente, approfittando del fascino che esercitano le novità e di una ammirazione della capacità di rigenerarsi, di inventarsi e innovarsi, propria di quel settore, percepita da molti progettisti come liberatoria di quella pesantezza, concretezza e spesso banalità del costruire. Quando però l’ammirazione è acritica, e ciò spesso accade, si ignorano le profonde differenze tra gli specifici contesti e si percepiscono maggiormente i fattori comuni piuttosto che le diversità. Così l’edilizia, attività connessa ai luoghi, agli abitanti, alla capacità creativa del progettista, all’artigianato e alla piccola impresa, è investita da brezze e cicloni, agitata da parole e concetti traslati e impropri. Il settore industriale come detto è prioritariamente interessato all’aumento del mercato e opera per la mercificazione di prodotti, servizi, relazioni, tradizioni culturali e natura, l’uniformazione dei processi produttivi, l’omologazione delle produzioni, l’organizzazione del lavoro per fasi, verifiche, certificazioni, l’atopicità delle merci. La qualità dell’abitare si ottiene, al contrario, attraverso un’azione progettuale aperta alla società, attenta all’ambiente che determina un prodotto “su misura” per comunità, individui, luoghi. Il trasferimento all’edilizia di ragionamenti quali ciclo di vita, cradle to cradle, deming cycle ignorando i caratteri positivi del settore rischia di annullare quella tensione presente tra i suoi operatori, e ignota ad altri settori produttivi, che conferisce senso al progetto in quanto esito di variabili e riflessioni molto più estese e profonde di quelle che caratterizzano la produzione industriale delle merci.

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Se si volesse trasformare l’abitare in una merce non vi sarebbero strumenti migliori di quelli già sperimentati nell’industria contemporanea; se però all’abitare si volesse attribuire un valore più complesso definito anche da sensazioni, sentimenti, memoria, socialità, natura (tutte variabili non commerciali) allora sarebbe opportuno agire proprio su quei caratteri identitari del settore la cui innovazione determinerebbe manufatti e relazioni molto più qualificate di quelle che attualmente l’industrializzazione consumistica e globale può configurare. L’eticità di reduce, reuse, recycle I termini reduce, reuse, recycle hanno origine fuori dal contesto industriale, non ne rispettano le logiche, hanno il fine di ridurre gli effetti negativi connessi agli sprechi e ai consumi indotti proprio della produzione quantitativa. Le tre azioni, che afferendo al medesimo comportamento risultano quasi inscindibili, sono collegate da una consequenzialità temporale (riduzione delle quantità, uso e riuso, riciclo di quanto non è stato possibile non produrre ed è stato usato e riusato fin quanto possibile) e necessitano, come intuibile, di un diverso impegno energetico. Trasferendo queste azioni all’edilizia la riduzione comporterebbe la non costruzione di nuovi edifici quando essi non fossero assolutamente indispensabili ma anche l’eliminazione degli eccessi di volumetrie (ad esempio, la Stazione Tiburtina a Roma che, indipendentemente dal giudizio sulla qualità compositiva, ha una enorme volumetria non motivata dalla funzione e che rimane da anni per gran parte inutilizzata), il riuso l’adattamento di spazi esistenti a nuove necessità (ad esempio, Makado Group, Riuso della torre dell’acqua a Essen, 2007), il riciclo attraverso la decomposizione dell’edificio ed il recupero delle sue parte e dei suoi materiali (ad esempio l’esperienza di alcune ditte americane o giapponesi) o il riciclo di aree. Anche in edilizia le tre attività appaiono parti di un unico criterio di intervento, applicabile su un medesimo oggetto, differenziate per consequenzialità temporale e per livelli di impegno energetico. Praticare queste azioni: è una dimostrazione di consapevolezza da parte del progettista che applica la sua creatività, al di là dell’atto autoreferenziato, alla riduzione del “peso” della trasformazione (se fosse solo un atto creativo saremmo nel campo della produzione artistica ad esempio “ready made”); è un atto etico in quanto finalizzato alla riduzione degli sprechi e dei consumi contribuendo così al benessere comune; facilita il mantenimento della memoria fisica quanto la demolizione né è irrimediabile perdita; conferisce ai manufatti esistenti (adattandoli e trasformandoli) ulteriore valore funzionale, compositivo, sociale, ambientale; riduce la differenza tra vecchio e nuovo in una continuità che pone l’attenzione principalmente sul presente, i suoi limiti, le sue necessità, i suoi desideri. La Crypta Balbi e lo Stadio San Nicola Il Museo Crypta Balbi a Roma documenta, in maniera possente, l’adattare, il trasformare senza distruggere, l’operare senza sprecare che si è susseguito per circa 2000 anni nell’isolato in cui esso è collocato. In un susseguirsi di recupero delle strutture, riuso di componenti, riciclo di materiali (ad esempio, le fornaci di calce, la “calcara”) tutto in quel luogo in una stretta connessione tra contenuti e contenitori, tra oggetto,

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processo e prodotto delle trasformazioni. Un’attività, svolta dagli abitanti, che adatta i luoghi e si adatta alle risorse (in questo caso l’edificio stesso) e alle condizioni operative possibili in quel contesto in un determinato periodo, senza interessare ciò che non è ritenuto utile, senza danneggiare inutilmente le potenzialità insite in quel costruito abbandonato, palesando come il lavoro delle comunità e degli individui sia molto attento a non sprecare. Quale sarebbe oggi l’atteggiamento degli abitanti in una situazione simile, ad esempio nei confronti dello Stadio San Nicola a Bari, da poco costruito, sempre scarsamente utilizzato, già non funzionante, in parte pericolante? In un’economia di sprechi (non si può chiamare di abbondanza) si butterebbe giù; in un’economia di risparmio si riutilizzerebbe-riciclerebbe. Ma visto che la funzione non esiste (e, viste le dimensioni dello stadio, la popolazione, la situazione della squadra, la collocazione nel territorio, forse non è mai esistita) essa non potrebbe essere protratta Gli abitanti asporterebbero le componenti smontabili, riutilizzabili, riciclabili (impianti elettrici, sedili, panchine, tamponature, infissi, etc), alcuni materiali (teloni coperture, prato, etc.), lasciando la struttura: se ve ne fosse necessità sarebbe utilizzata come supporto per ripari, depositi, locali per attività e forse residenze. Si comporterebbero, insomma, come si sono comportati in passato per la Crypta Balbi, evidenziando quanto, anche per gli edifici, il recupero, il riuso e il riciclo sono atteggiamenti tipici dei comportamenti della specie umana. Al contrario l’interesse speculativo, la dimensione demagogica del costruire non hanno queste attenzioni: sono interessati al prodotto finale, a obiettivi estranei all’edificio (redditività, propaganda), propongono prodotti chiusi e scaturiti da processi autoritari e auto referenziati e assumono queste condizioni come inalienabili per un ottenere prodotti dignitosi e qualificati. Così il Velodromo a Roma è saltato. Dopo avere per decenni impedito ai ciclisti di utilizzarlo, precluso ogni altra possibilità di uso, bloccato ogni tentativo di appropriazione da parte dei cittadini, vietato ogni recupero di materiali (si pensi solo al meraviglioso parquet della pista che si è sfatto), ignorando la qualità del progetto, avendolo ridotto a rudere, si è proceduto a farlo saltare. Recupero, riuso, riciclo sono alternative al modello economico vigente in quanto producono meno profitto individuale ma più vantaggi economici energetici e sociali diffusi. Essi hanno la capacità culturale di affrancarci da un opprimente sistema; il potere dell’economia dei consumi si allenta e gli interessi e i beni comuni prendono il sopravvento. La condizione dell’isola Nel film “Cast away” l’attore Tom Hank interpreta un personaggio che si trova su di un’isola deserta dopo essere miracolosamente sopravvissuto ad un incidente aereo; solo, senza nessuno strumento, con scarse capacità tecniche. Nei primi giorni di permanenza il mare restituisce alcune scatole trasportate dall’aereo. Aprendole trova oggetti che nulla hanno a che vedere con le sue condizioni e necessità: un paio di pattini da ghiaccio, cassette vhs, un vestito femminile. Dopo un primo momento guarda questi oggetti, apparentemente inutili,

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con un altro occhio e da essi ricava cinghie, lame, asce, corde tutti strumenti che serviranno molto alla usa esistenza; e impara ad usarli. Questa è la condizione del sistema a risorse limitate dove si opera sull’esistente, sul disponibile. E’ la condizione dell’isola. Scoprire il valore degli oggetti, valutarli non solo per la funzione determinata dalla produzione, meravigliarsi della loro esistenza, sorprendersi per le loro potenzialità. Un pezzo di plastica, una bottiglia di vetro, una scatola di cartone hanno un valore assoluto al di là della loro utilizzazione; solo assaporando tale valore, solo recuperando lo spazio mentale, creativo, consapevole, si potranno diradare le nebbie dell’obnubilamento prodotte dal mercato. Con uno sguardo più attento si può riparare, riusare, riciclare attraverso una tecnica diffusa che concretizzi la creatività; ed è tutta una tecnica da definire e sperimentare. In un mondo in cui i rifiuti superano di gran lunga le merci, e le abitazioni, gli uffici, i luoghi di produzione sono riempiti di prodotti sotto e inutilizzati e il territorio è pieno di edifici abbandonati, l’attenzione progettuale non può esimersi dal trovare soluzioni praticabili diffusamente. Il progetto e la sua creatività sono alla base del nostro futuro ma non sono esclusiva competenza degli esperti ma un diritto di tutti gli individui e le comunità. E quindi il progetto non dovrebbe escluderli, interpretarli, controllarli, gestirli ma contribuire a sviluppare quelle capacità tecniche, operative che l’industrializzazione globale ha ingabbiato e umiliato. Il progetto deve fare i conti con una informalità che, esterna ad ogni controllo, potrà reinterpretare (recuperando, riusando, riciclando) il manufatto al di fuori dei processi, dei metodi e degli obiettivi che ne hanno determinato la produzione. E’ proprio questa la forza dirompente del recupero, riuso, riciclo: la capacità di stimolare la creatività di tutti, di divenire strumento di obiettivi comuni, partecipati, informali. Tanto quanto l’istituzionalizzato è pesante e uniformato (procedure, processi, verifiche, controlli, norme), l’informale è leggero e differenziato (disordine). L’atteggiamento istituzionalizzato tende ad escludere o inglobare (il modello consumistico tende a regolamentare e inglobare aumentando così il mercato); è dunque fondamentale non regolamentare l’informale ma abituarsi a vivere con tutte le sue rappresentazioni sostenendo quell’autonomia necessaria allo sviluppo della creatività e al riconoscimento del valore degli individui. La dimensione economica della partecipazione Nella condizione dell’isola la riduzione, il riuso, il riciclo sono le modalità principali del costruire. L’architettura vernacolare ha mostrato come questa sia la condizione propria della specie umana e come costruendo con i materiali disponibili, misurandosi con i limiti imposti dai luoghi e dalle risorse, si possa sviluppare una gigantesca creatività applicata. Le necessità abitative e la ridotta disponibilità di risorse in cui versa gran parte del pianeta, impongono a tutti, anche ai ricchi, il minore impegno possibile di energia e di risorse e impongono a tutti l’interruzione immediata degli sprechi e la riduzione dei consumi. Se questo è un obiettivo comune deve richiedere la partecipazione di tutti parlando linguaggi comprensibili, rispondendo a esigenze non effimere né indotte, sostenendo l’azione

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diretta di chiunque vada nella direzione della riduzione. A ben vedere non è possibile raggiungere tale obiettivo senza la partecipazione diffusa. Infatti la raccolta, la selezione, lo smontaggio, si svolgono in una modalità artigianale e manuale molto lontana dai criteri di redditività dell’industria. Non vi è alcun processo industriale che possa separare i diversi materiali con cui è costruita un penna, che possa garantire una corretta differenziazione del rifiuto, che sia capace di produrre un compost di qualità (ad esempio, senza buste di plastica al suo interno) e, per molti sistemi costruttivi, che possa smontare gli infissi di un edificio o gli arredi di un negozio e riutilizzarli. L’azione dei cittadini diviene così il principale strumento di una economia della riduzione, del riuso, del riciclo (già oggi abbondantemente utilizzata ad esempio nella raccolta differenziata). Se non si attivano altre modalità, se si continuano ad utilizzare gli stessi criteri e metodi che hanno fatto maturare il problema, se si procede ad esempio con la centralizzazione dei trattamenti (dettato dalla necessità industriale di avere elevati quantitativi) è molto improbabile recuperare l’energia e le risorse sprecate. Vi è quindi la necessità di lasciare spazio all’azione volontaria, semi professionale, artigianale che solo gli abitanti possono attivare; di praticare una soluzione molto più articolata e complessa delle attuali che sviluppi una creatività diffusa, non irreggimenti o marginalizzi intenti, passioni, entusiasmi ma li supporti con il progetto promuovendo ambiti e condizioni operative atte a stimolarne le potenzialità di tutti. L’attivazione degli abitanti si presenta come il principale modo per acquisire dimensioni progettuali fondate sulla consapevolezza, sul benessere senza speculazione, sull’eliminazione e il recupero degli sprechi, l’unico modo per integrare e sostituire le consolidate e inefficaci pratiche, e per promuovere quella evoluzione culturale che ci permetterà di pensare gli oggetti utilizzati non come scarti, che mostrerà come non vi sia nulla di male ad adattare l’usato alle proprie esigenze, che la riduzione, il riuso, il riciclo non sono una perdita ma una acquisizione di valore. Conclusioni Le azioni di riduzione, riuso, recycle sono lo strumento principale per la riduzione del “peso” ambientale delle trasformazioni antropiche. L’enorme spreco di merci e di risorse indica che con una migliore utilizzazione dei manufatti si possono soddisfare le esigenze e migliorare le condizioni dell’ambiente. Ma dette azioni saranno incisive solo se diffusamente praticate e quindi partecipate. La riduzione, il riuso, il riciclo avvicinano il mondo della progettazione a quello delle esigenze e rendono possibile l’applicazione della creatività dei progettisti alla soluzione di effettivi problemi Il progetto abbandonata la sudditanza al vaticinio creativo e ai poteri economici e politici deve assumere metodi e tecniche in grado di stimolare e sostenere la consapevolezza dei cittadini e di utilizzare la loro capacità realizzativa. Un impegnativo compito attende i progettisti quello di uscire dalla culla della disciplina, dalla sicurezza delle sue regole e, diventati grandi, di affrontare le effettive esigenze e i desideri delle comunità.

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01 - Cedric Price, Six Strategies


IL RUOLO DEI PROGETTISTI NEI PROCESSI DI RECUPERO DEL TERRITORIO LA FUNZIONE DEL PROGETTISTA NEL SOSTENERE ED INTERPRETARE I PROCESSI DI PARTECIPAZIONE ATTIVA MOSSI DAI CITTADINI Gianfranco Neri >UNIRC

Non siamo solo possessori delle idee, ma da esse siamo anche posseduti, capaci di morire o di uccidere per un’idea. Edgar Morin L’approccio riduzionista, che consiste nel far riferimento a una sola serie di fattori per de±nire la totalità dei problemi posti dalla crisi multiforme che attualmente stiamo attraversando, più che la soluzione è il problema stesso. Aurelio Peccei e Daisaku Ikeda

Al pari di inveterate abitudini verbali, vizi lessicali, predilezioni e mode linguistiche, vi sono parole destinate a caratterizzare un’epoca, un periodo, una particolare stagione sociale e culturale. Ciò vale anche per molti linguaggi e locuzioni disciplinari, quindi anche per l’architettura. Basti ricordare, limitandoci appunto all’arte costruttiva, il successo incontrastato riscontrato negli ultimi decenni dai termini storia, spazio, tipologia, riuso, memoria, ecc. – solo per fare qualche esempio – sovente trasformati dai progettisti e dai critici in vere e proprie pietre ±losofali architettoniche. Termini che se hanno la capacità di sintetizzare e polarizzare attenzioni, e innescare complessi processi evocativi, al tempo stesso – passando attraverso una inevitabile usura semantica – subiscono

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un progressivo depotenziamento. Una consistente neutralizzazione che il carattere ipnotico dovuto alla loro continua reiterazione se da un lato ne amplia positivamente l’estensione, dall’altro ne riduce sensibilmente la profondità. Né, tale dinamica “addomesticativa”, lascia indenni i termini disciplinari da inesattezze interpretative o talora da pericolosi fraintendimenti. Nei periodi di grande instabilità, come l'attuale, sono per primi i termini a vedere destabilizzato il proprio significato e richiedere una costante, efficace rimessa a punto. Non v'è dubbio che oggi sostenibilità, rigenerazione, riuso, siano voci che stanno pienamente all’interno di questo processo interferente e spesso elusivo che si è appena accennato. A partire dal fatto che esse, facendo riferimento in apparenza a operazioni perlopiù di tipo tecnico finiscono col rendersi sostanzialmente distanti dalle responsabilità che implicano per chi le usa, depotenziandosi. Si provi a considerare, solo per fare un esempio, la celeberrima definizione di sostenibilità data nel 1987 dalla Commissione Brundtland: “L’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro” [Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, Commissione Brundtland (1987), Our Common Future, Oxford University Press, pag 8, trad. it. (1988) Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano, pag 32]. È evidente che il senso autentico di questa definizione – che in oltre cinque lustri ha avuto un indiscusso successo critico, migrando in culture e discipline tra le più diverse – comporti un aspetto che però sembra essere meno considerato. Vale a dire quello che il temine stesso generazione comporta, non solo riferito al suo pur importante senso anagra±co – che in sé comprende ognuno – né al suo riferimento all’atto del generare, ma quanto queste due accezioni insieme possano legarsi al bisogno e allo sviluppo in una sorta di imprescindibile auto-coinvolgimento del soggetto che compie le azioni, là dove sostenibilità implicherebbe sempre quello di una preventiva, acquisita auto-sostenibilità. Se ciò è vero, vi è dell’altro. Se, come sostiene Edgar Morin “Il pensiero è oggi il capitale più prezioso per l’individuo e la società” [Morin E. (2000), La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, Milano, pag 11], potrebbe dunque avere un qualche senso estendere l’idea di rigenerazione al mondo della produzione del pensiero e della generazione delle idee, cioè considerare lo stesso pensiero – l’immaginazione e l’invenzione, che sono la parte più pregiata della sua attività e il loro risultato più rilevante – l’energia più preziosa da riscoprire nella definizione di sostenibilità da adottare: un’energia preliminare a qualsiasi processo di sostenibilità si voglia ipotizzare e a ogni risultato apprezzabile che si sia conseguito. Quasi postulato alla sostenibilità è il termine rigenerazione, col comprendere e stringere inseparabilmente la triade sostenibilità, socialità, economicità. Termine, quello della rigenerazione, che – oltre a orientare

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specificamente la pratica e la critica architettonica e urbana recenti – implica nel prefisso iterativo la riconquista di uno stato energetico nativo, un rendere nuovamente efficiente una precedente, positiva condizione vitale. Fatto questo, che non comporta soltanto l’estrazione di un’energia residuale da recuperare e reimmettere in circolo in vista della sua prossima, possibile o definitiva estenuazione, bensì la costruzione di un quadro di relazioni e di azioni teoriche e pratiche i cui effetti soltanto – e non le enunciazioni – costituiranno gli elementi attendibili di verifica del progetto. Sostenibilità, socialità, economicità, se rappresentano una costante inseparabile nei processi di rigenerazione, esprimono in pari tempo l’unicità e l’originalità dell’esperienza reale che investono e che “originalmente” modificano. Esse – sintesi di molteplici determinazioni – non sono la realizzazione di un modello precostituito, bensì il percorso e il risultato, benché effettivamente siano il punto di partenza di ogni operazione rigenerativa. È persino superfluo tentare di declinare i possibili effetti, gli itinerari e le reali ricadute ipotizzabili dall’intreccio positivo sempre più serrato tra sostenibilità e rigenerazione nelle dinamiche urbane e architettoniche, in un mondo che prevedibilmente sarà ancor più “urbano, denso e affollato” [Randers J. (2013), 2052. Scenari globali per i prossimi quarant'anni. Rapporto al Club di Roma, Edizioni Ambiente, Milano, pag 292. Al di là di questa e di un'altra citazione, questo volume sarà uno dei testi di riferimento costante per chi voglia osservare con proprietà di argomenti seri e fondati il futuro], e stretto nella drammatica prospettiva sospesa tra emergenza climatica e progressivo incremento della povertà. Miliardi di persone scopriranno presto – la stanno già abbondantemente sperimentando – questa preoccupante deriva. Miliardi di individui dislocati in un’immensa periferia senza città, qual è l’attuale mondo, soverchiati da una materia edilizia inerte e informe, bulimicamente energivora, ormai totalmente inadeguata a rispondere alle esigenze civili della contemporaneità nella quale sta tutto rapidamente mutando: dalla composizione e natura delle famiglie, ai modi di lavorare, di spostarsi e di vivere il tempo libero (là dove possibile), rispetto gli stili di vita, i livelli di istruzione conseguiti, alle differenti relazioni sociali imposte dai nuovi modelli produttivi e di consumo. L’Occidente e in particolare l’Italia (e ancor più in particolare il suo Mezzogiorno) aggiungono a questa conclamata “crisi di sistema” – come abitualmente viene definita, a indicare il collasso simultaneo delle varie componenti che regolano una compagine civile – una progressiva penuria di risorse a fronte di un patrimonio edilizio (o non, piuttosto, un’insopportabile sinecura) che sta temporalmente raggiungendo proprio ora la fase della sua indilazionabile manutenzione. Configurando ciò un quadro a dir poco paradossale: si hanno meno risorse da investire, proprio ora che sarebbe necessario farlo per ridurre significativamente il consumo di risorse.

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Al di là di possibili e spesso discordanti ipotesi di risoluzione, crediamo che siano pochi coloro che non abbiano chiari gli elementi della questione che si è tentato sinteticamente di delineare. Si tratta in sostanza non soltanto di rimediare ai danni che sono stati inferti alla natura, all’unicità dei luoghi, allo svilimento progressivo della cultura, bensì di migliorare sensibilmente e simultaneamente tale insieme di fattori. Questi sono i termini reali e la prospettiva più prossima che a nostro avviso si prefigura al progetto di architettura e dello spazio urbano. Una sfida che va tempestivamente raccolta. Tra le molte cose, riteniamo che nell’immediato ce ne siano principalmente due su cui lavorare. La prima consiste nell’accentuazione della spinta a un cambiamento progressivo ma radicale di quella mentalità che identifica non soltanto il periferico col deviante – o che esso addirittura rappresenti, nella sostanza, il luogo della dannazione sociale, opposto a quello di redimente rappresentato dai centri storici. È necessario quindi trovare nuove modalità di intervento sulla periferia e nuove categorie di giudizio per identificare in positivo la vita che vi si svolge, senza tuttavia rinunciare alla sua critica. La seconda, infine, consiste nel trattare l’esistente allo stesso modo che l’arte moderna ha fatto nella poetica urbana del futurismo o nei duchampiani ready made, vale a dire ridefinire, all’interno dei medesimi materiali dell’abitare contemporaneo, i termini per il conseguimento di una possibile rinnovata bellezza (o di una rinnovata aspirazione estetica e sociale). Ma su questo si tornerà, subito dopo aver detto che ciò sarà probabilmente più possibile se si riuscirà a trasferire la dimensione critica e operativa attualmente appannaggio dell’architettura storica – scrigno dei preziosi termini: restauro, riuso, recupero, conservazione, progetto, ecc. – alle operazioni necessarie a riattivare l’edilizia contemporanea. O qualcosa del genere, al di là di empirie eccessivamente ciniche sul recupero del cosiddetto esistente: oltre un rassegnato, consolatorio, miope e assistenzialista realismo urbano. “Voi siete in grado di influenzare i vostri gusti futuri” sostiene ancora Jorgen Randers “e quindi dovreste provare a orientarli verso ciò che andrà bene per il futuro[…] Se non prendete l’iniziativa, le vostre preferenze saranno condizionate dalla vostra vita passata. Con il risultato di farvi trovare il futuro sgradevole” [Randers J., op. cit., pag 291]. A nostro avviso, ciò significa che, parallelamente al grande lavoro pratico di rigenerazione urbana da compiere nelle nostre periferie, dovrà accompagnarsi una fase di transizione (di mentalità) verso quella seconda modernità preconizzata qualche tempo or sono da Antony Giddens: “Io penso che nel mondo di oggi si possano veramente osservare due tipi di modernità, e che sia importante distinguere l’uno dall’altro. In primo luogo la modernità semplice o classica che porta dritti a una società sottosviluppata ad un alto livello di benessere economico e che permette

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con relativa chiarezza di sapere da dove si viene e verso dove si va […] Nelle società industriali avanzate è invece all’opera una seconda modernità che si è venuta affermando negli ultimi dieci o vent’anni, una modernità pervasa dalla chiara coscienza del limite, dei problemi, delle contraddizioni […] (Questa) seconda modernità porta alla luce problemi che durante la prima fase vengono rimossi o repressi e che tornano a fare capolino. Tra questi l’inquinamento ambientale o l’impellente domanda sul senso della vita” [“Non c’è altra scelta che scegliere”. Intervista a Antony Giddens, in “Reset” n. 37, maggio 1997, pag 6]. In questa idea di doppia modernità o “seconda modernità” o “modernità riflessiva” di cui parla Giddens, i limiti, i problemi e le contraddizioni, sono fattori determinanti da riconoscere nel mondo reale il quale, attualmente, chiede non soltanto di essere riparato – perché nell’immensa opera di progressione al futuro della Modernità si sono compiute ingiustizie, guasti, vessazioni, disfunzioni, danni gravissimi – bensì esige di essere decisamente migliorato. In un quadro in cui l’approccio tecnicista sarà temperato e giustamente ricollocato nel campo dei mezzi e non dei fini dell’architettura, l’arte – come si sosteneva poc’anzi – avrà un ruolo determinante soprattutto là dove essa coniuga, nella rigorosa padronanza della tecnica, la spinta alla necessità di riformulare costantemente i canoni della nostra sensibilità personale e sociale, e nella condivisione – seppur temporanea e conflittuale – il senso profondo di un sentire umano. Questo il significato della bellezza formulato alcuni anni or sono da Frank Lloyd Wright, secondo cui essa era definita come il risultato di un “conflitto tra intelligenze”. Ma un conflitto “positivo, proprio perché in grado di consentire sempre un avanzamento verso la bellezza stessa”. Da qui, di nuovo, alla dimensione più sperimentale e problematica del lavoro che ci attende, che la bellezza tenderà a sottolineare attribuendogli un carattere di perenne instabilità come modalità stessa che attiene alla sperimentalità, all’arduo e al complesso. Quindi una bellezza né astratta, né contemplativa né consolatoria né, infine, da intrattenimento. In occasione del recente conferimento della laurea honoris causa in Architettura al professor Salvatore Settis, l’autorevole storico sosteneva che: “Al paesaggio da guardare dobbiamo saper sostituire un paesaggio da vivere; e piuttosto che ripetere stancamente il luogo comune secondo cui la bellezza salverà il mondo dobbiamo dire chiaro e forte che la bellezza non salverà nulla, se noi non sapremo salvare la bellezza” [Vedi L'etica dell'architetto e il restauro del paesaggio, Lectio Magistralis tenuta dal prof. Salvatore Settis in occasione della Laurea honoris causa in Architettura conferitagli dall'Ateneo di Reggio Calabria il 14 gennaio 2014, pag 14]. Un’idea condivisibile questa di Settis, che indica misura e senso di una pratica “alta” della bellezza e della sua appartenenza alla vita quotidiana degli uomini. Una bellezza che, insieme al recupero, alla messa in sicurezza dai rischi

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e dalle calamità naturali che minacciano i nostri luoghi, attivi una nuova energia da reimmettere nel circolo del progetto e della comunicazione. RiutilizziAmo l’Italia è un efficace e coinvolgente slogan coniato recentemente dal WWF che invita al recupero collettivo di quell’immensa quantità di edifici storici, aree industriali dismesse, aree urbane marginali, aree demaniali militari, sedimi ferroviari, edilizia rurale in abbandono, ecc., fittamente disseminati nel territorio del nostro Paese. Ovviamente, un’azione importante da sottoscrivere e perseguire appieno, alla quale si dovrebbe soltanto anteporre, a nostro avviso, il lavoro da compiere nella maggior parte delle città italiane sugli edifici e sugli spazi periferici che essi generano o hanno generato, vera e propria emergenza urbana, sociale, civile, estetica. Un’azione nella quale il termine (o l’azione del) Riciclo sembra in grado di comprendere concettualmente ed esaurire operativamente. Anche in questo caso, come si avvertiva all’inizio di queste riflessioni, i termini impongono una maggiore stabilità. Riciclo non è un termine dotato di per sé di virtù palingenetiche. Né esso è nuovo alla cultura degli architetti, essendosi affacciato con alterni successi alla ribalta della critica architettonica nazionale e internazionale, e alle teorie del restauro negli ultimi quarant’anni. E tuttavia, per restare sul piano di una trattazione più attinente alle questioni della sostenibilità, la pratica del riciclo è stata sovente valutata con una certa prudenza. Nel celeberrimo Oltre i limiti dello sviluppo, l’accreditato team degli autori sosteneva che: “Separazione e riciclo dei materiali dopo l’uso sono un passo verso la sostenibilità. Si comincia così a far muovere i materiali, attraverso l’economia umana, nel modo in cui essi si muovono nella natura: secondo cicli. In natura i rifiuti di un processo costituiscono la materia prima di un altro […] Ma riciclare rifiuti significa solo affrontare il punto finale, quello meno problematico, del flusso dei materiali […] Per ridurre (i) flussi di rifiuti, la soluzione migliore consiste nell’estendere la durata utile dei prodotti grazie a migliore progettazione, riparazione e impiego multiplo […]: ciò è più efficace del riciclo, perché non richiede frantumazione, macinazione, purificazione e nuova lavorazione dei materiali riciclati. Raddoppiando la vita media dei prodotti si dimezzano il consumo di energia, i rifiuti, l’inquinamento, e in definitiva l’esaurimento dei materiali stessi” [Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J. (1993), Oltre i limiti dello sviluppo, il Saggiatore, Milano, pag 110]. Questa lunga citazione, apre a un’altra altrettanto ampia e importante per noi architetti, che potremmo dire quasi conseguenziale alla precedente, sebbene formulata in inimmaginabile anticipo. È una riflessione di Leon Battista Alberti sul rapporto tra la bellezza e la durata dell’architettura: “Quando un’opera pecca in eleganza, il fatto che risponda alla necessità è cosa di scarsissimo peso, e che soddisfi alla comodità non appaga sufficientemente. Inoltre la bellezza è qualità

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siffatta da contribuire in modo cospicuo alla comodità e perfino alla durata dell’edificio. Giacché nessuno potrà negare di sentirsi più a suo agio abitando tra pareti ornate che tra quelle spoglie; né l’arte umana può trovare mezzo più sicuro per proteggere i suoi prodotti dalle offese dell’uomo stesso, anzi la bellezza fa sì che l’ira distruggitrice del nemico si acquieti e l’opera d’arte venga rispettata. Oserei dire insomma che nessuna qualità, meglio del decoro e della gradevolezza formale, è in grado di preservare illeso un edificio dall’umano malvolere. Conviene dunque rivolgere ogni sollecitudine e ogni spesa possibile al fine che l’opera riesca non soltanto funzionale e confortevole, ma soprattutto ben adornata e gradita alla vista; sicché chi abbia ad osservarla debba convenire che tale spesa non poteva impiegarsi meglio di così” [Vedi Leon Battista Alberti, l’Architettura De Re Aedi±catoria , traduzione dal latino a cura di Giovanni Orlandi, introduzione e note di Paolo Portoghesi, Libro Sesto, Capitolo II, pag 446].

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LA PARTECIPAZIONE NEL PROGETTO DI PAESAGGIO Franco Zagari >Architetto Paesaggista

Un'arte molto difficile “Partecipazione” è una parola accogliente e allo stesso tempo sfuggente, come tutte le parole che denotano concetti apparentemente evidenti, e invece in buona parte equivoci. Riguardo a tutti i progetti che modificano il territorio il termine ci fa pensare subito a procedure di coinvolgimento a vario titolo del pubblico, come durante la formazione di piani urbanistici, o nella disposizione di osservatòri che si stanno diffondendo nel Paese in applicazione della Convenzione europea del paesaggio. Ma si fanno anche strada iniziative spontanee, che in genere sono motivate dall’interesse per temi specifici. In qualche caso riguardano scelte anche importanti del progetto, arrivando perfino a entrare in merito a poetiche e linguaggi. Nel bene e nel male questi processi sono degli specchi della nostra società, di vari gradi del suo immaginario fra sogno e potere, dei suoi vizi come della sua più alta capacità di speranza e di utopia. Le esperienze sono le più diverse e non potrebbe esserci maggiore errore che classificarle per tipi. Infatti nulla è più atipico del paesaggio contemporaneo, e nulla è più atipico del ruolo svolto dai destinatari di un’opera, proprio la partecipazione essendo un momento particolarmente vario e imprevedibile, soprattutto quando è più creativa. Naturalmente partecipare, in quanto manifestazione maieutica di gruppi di soggetti a volte anche molto disomogenei, è un’arte molto difficile, può benissimo accadere che alcune esperienze funzionino male e capiti

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di respirare l’aria asfissiante di un condominio aggressivo e ostile, oppure che la partecipazione sia molto influenzata da poteri e contropoteri che la canalizzano, senza lasciare nulla al caso. Le aperture di dialogo, quando vi sono, sono condotte spesso con rituali senza rischi. Ma quando invece le istanze vengono dalla base ecco allora delle sorprese, capita sempre più spesso di essere illuminati da punti di vista che aprono scenari fertili e in qualche caso addirittura determinanti. La partecipazione è così connaturata alle esigenze di una democrazia moderna che la sua assenza in genere è dannosa, mentre, quando c’è, è un’opportunità che difficilmente limita l’autonomia del progetto e nemmeno è un ostacolo per la sua libera espressione, qualora arrivi a metterla in discussione. Semmai è il contrario: la rafforza. È importante fare un passo indietro e ricordare che è con la critica dei CIAM alle tesi del Movimento moderno che il coinvolgimento del pubblico assume rilevanza come uno dei momenti più qualificanti nella concezione di un’opera o di un piano, oltre che per un’esigenza di impegno politico sul campo per una nuova sensibilità rispetto al valore della storia dei luoghi, dalla cultura materiale e di ogni altra manifestazione originale di pensiero che riguardi una concezione dell’habitat marcata dalla volontà di partecipare responsabilmente alla sua evoluzione. Cosa altro è stato il regionalismo critico se non questo? Quella fu un’esplosione di creatività che interruppe definitivamente una rappresentazione della realtà che per troppo tempo era stata ridotta secondo le ipotesi universali di un Olimpo veramente troppo stretto, di soli quattro grandissimi maestri. Nel 1970 Michelangelo Antonioni con l’immagine di Zabriskie Point dell’esplosione appunto della casa nel deserto fissa questo momento con una sequenza indimenticabile come il passaggio da un’epoca ad un’altra. La partecipazione non è solo un’istanza etica, ma anche estetica. Oggi, mentre viviamo in un tempo che Patrice Goulet egli anni ottanta profeticamente già definiva “selvaggio e incerto”, lo stesso problema si ripresenta con nuove sfide se possibile più conflittuali di quelle della ricostruzione postbellica. Definirei questa attitudine come un’acquisizione in termini del tutto nuovi di una consapevolezza del paesaggio. Altri maestri, come Giancarlo De Carlo, Lucien e Simone Kroll, Renzo Piano, Roberto Burle Marx, Lawrence Halprin, pur così diversi fra loro, sono stati tutti interessati a un coinvolgimento attivo della creatività del pubblico nel progetto, fosse esso di architettura, di urbanistica, di paesaggio, con uno spettro critico molto ampio. Le ragioni della crisi Se la consapevolezza di un paesaggio si matura veramente solo quando diverse interpretazioni si confrontano e si compongono, cioè proprio attraverso un processo partecipativo, è un dialogo il nostro obiettivo, un passaggio chiave che è alla base di quel principio di convivenza civile che noi chiamiamo civitas, un’istituzione antica che ancora oggi è il sicuro

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riferimento di ogni istituzione democratica. Da un livello di pura informazione a un livello consultorio di espressione di pareri, a una attiva interlocuzione con i momenti creativi di un progetto, la partecipazione può svolgere diversi ruoli, che bisogna valutare nelle situazioni specifiche. Come si intuisce da quanto detto fin qui, nella galassia del laboratorio sul paesaggio italiano un processo di coinvolgimento del pubblico sopporta male una eccessiva codificazione amministrativa. Se si sta superando la concezione di una partecipazione vista solo come un momento informativo, una presa d’atto di scelte già prese, le regole del consenso dettate dalle istituzioni rimangono nel maggior numero di casi a maglie piuttosto strette, anche se si aprono siti, portali, blog che rendono accessibili già in corso d’opera documenti che una volta sarebbe stato impensabile diffondere su una base di accesso così ampia. E qui fra le tendenze in atto si manifesta un controsenso, la fioritura di tecniche del reperimento di dati statistici a grande scala porta a ridurre la partecipazione a un indice di gradimento, un’audience della soddisfazione presunta degli utenti. È già un progresso rispetto alle procedure abituali di solo dieci anni fa, che ad esempio nei piani urbanistici vedevano la fase delle osservazioni come l’unico momento veramente aperto al pubblico (e quindi di solito doverosamente blindato), è un progresso ma nel quale nulla è lasciato al caso, evidentemente le opinioni del pubblico se non opportunamente canalizzate spaventano. Non c’è dubbio che noi stiamo vivendo relativamente al paesaggio una fase di stallo, una crisi molto grave del paesaggio che non si tutela, non si gestisce, non si valorizza, non si rinnova, un’inadeguatezza che è altrettanto grave di quella dell’ambiente, perché entrambe offendono profondamente la qualità della nostra vita, molto di più di quanto la gente non si renda conto. Una delle caratteristiche della crisi è proprio il deficit di momenti partecipativi. La grande velocità e la dimensione dei fenomeni che in pochi anni hanno accompagnato il più grande movimento di urbanesimo conosciuto nella storia umana ha prodotto nelle popolazioni una crescente difficoltà nella capacità di avere un rapporto equilibrato con il proprio paesaggio, un’alienazione che si è tradotta in un distacco emotivo proprio a partire da deleghe sempre più astratte dei doveri e dei diritti civili più elementari. L'anello mancante Io credo però, e qui sta una differenza non banale dalle opinioni che raccolgo, che questa crisi del paesaggio non sia tanto uno degli effetti della crisi più generale – lo è anche in parte –, quanto invece ne sia una delle cause, e certamente non veniale. Sembra un gioco di parole, ma non è così. I rapporti che corrono fra paesaggio e cultura e fra paesaggio e lavoro sono condizioni che si influenzano a vicenda a tal punto che, con ogni buona probabilità, investire sul paesaggio è una misura che induce qualità ben oltre la fornitura di beni e servizi sia pure molto appetibili, è un

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obiettivo politico prioritario non solo di alta rilevanza culturale ma anche sociale e economica. Tutta l’economia del paesaggio andrebbe riscritta, orientando meglio le strategie della programmazione anche sugli effetti collaterali, che spesso pesano più degli effetti diretti. Questo argomento mi sembra ancora non abbastanza esplorato ma è certo che potrebbe avere sviluppi molto interessanti, perché potrebbero cambiare le abitudini di valutazione e di attuazione delle politiche d’intervento pubblico. Ne parlo in questa riflessione perché sono convinto che proprio la partecipazione sia l’anello mancante che farebbe la differenza, mettendo in una stessa sequenza di senso categorie di sostenibilità che riguardano problemi di solito valutati in modo separato: dall’estetica di un’opera alla sua compatibilità ambientale, alla sua prospettiva di uso, alla sua capacità di produrre lavoro e occupazione. Datemi un buon tavolo di concertazione e vi solleverò il mondo. L’impresa è degna di sforzi coraggiosi: guai a ridurne il significato, abbassarne l’ambizione, frustrarne la speranza. Attori e autori, cinque paradossi Il Laboratorio di Otranto di Renzo Piano, conviviale, interattivo, coinvolgente, è un momento che resta esemplare nei nostri ricordi, ma le condizioni del nostro lavoro oggi sono molto diverse. L’ubiquità, l’indipendenza, la flessibilità sono prerogative di un concetto di partecipazione di nuova generazione, che prende subito un rilievo strategico, a ogni prova si conferma una risorsa non surrogabile, troppo importante per essere confinata in un ruolo formale. Chiunque sul campo, attore o autore, sia impegnato in un processo progettuale, sa che la partecipazione è tanto più produttiva quanto più il gioco è libero e interattivo, quanto più appunto è attiva. In qualsiasi progetto di paesaggio, dal calice di un fiore a un complesso ambito metropolitano, la partecipazione dovrebbe essere una risorsa vitale per definizione. Sarebbe un errore considerarla un mezzo, perché è piuttosto un fine, è quel campo maieutico prezioso che, dall’ideazione alla realizzazione e oltre, dà linfa e sostiene le linee di indirizzo di un progetto, stabilendo con continui aggiustamenti di tiro un confronto dialettico che gradualmente si precisa fra pianificazione e sperimentazione, fra diagnosi e interpretazione del contesto, fra input locali e globali, fra sistemi di piccola e di grande scala. Termini questi che di solito sono invece posti in sequenze univoche: da un quadro diagnostico si procede a un piano interpretativo, senza rendersi conto che il primo in principio è sempre sfocato e per precisarsi ha necessità di essere orientato da ipotesi di sviluppo del secondo e, viceversa, queste a loro volta si verificano solo precisando meglio gli obiettivi delle analisi. Chiamerò paradossi dei modi di essere della partecipazione che ricorrono nella mia esperienza come elementi volta a volta molto diversi, ma ricorrenti. Primo paradosso: quali soggetti Nel tempo presente non sempre è chiaro quali siano i soggetti della

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partecipazione. A seconda dei temi, attori partecipi e responsabili possono essere volta a volta un consesso di più comunità vicine e lontane che condividono un’affinità per uno stesso paesaggio, o una singola comunità, o una rete, o una pluralità di individui. È bene cominciare da qui, pensare che nel tempo del web, della comunicazione, dell’immagine, dell’immateriale, il soggetto di un processo partecipativo si presenta molteplice e articolato, e potrebbe anche risultare così atipico rispetto alle nostre attese da essere difficilmente riconoscibile, perché spesso proviene da condizioni culturali, sociali, economiche fino ad ora non note, in qualche caso difficili o addirittura in sofferenza, abitante vittima di un habitat che ormai è molto diffuso di sprawl, con aspetti di squallore così insopportabili da rendere difficile da definire una progettualità del paesaggio. Secondo paradosso: quali tecniche di comunicazione Un secondo paradosso è generato dalle nuove tecniche della comunicazione, prima nemmeno immaginabili, ormai disponibili a prezzi accessibili su un mercato molto ampio, che tendono molto a assimilare ogni dato secondo una sua rilevanza statistica, così che sono sempre di più dei rilievi statistici che si sostituiscono alle domande della gente. Si presentano degli scenari diversi: soprattutto fra i giovani si manifestano delle esperienze molto creative, perché la crisi non consente loro di ripetere strade sterili già battute; nelle istituzioni invece la partecipazione è incentivata ma spesso rimane difensiva, una sorta di liturgia formale, nella quale ogni responsabilità è mantenuta impersonale e anonima, mediata e privata di contenuti, dove nessuno rischia, nessuno paga. Hardware e software sofisticati sono alla base della proliferazione di forum, di blog, di Facebook, di Twitter, ed è straordinaria l’efficacia delle nostre nuove protesi informatiche, smartphone palmari o ottici. Questo progresso spettacolare non sempre dà adito a un dialogo altrettanto “attivo”, masse di dati dialogano con altre masse, la volontà del pubblico si esprime per indicatori, né possiamo dire che questa improvvisa ricchezza di una mappa sempre più particolareggiata dell’immaginario del pubblico dia elementi per un dibattito più trasparente sulla cosa pubblica. Terzo paradosso: quali rapporti fra pubblico e privato Nel frattempo, terzo paradosso, nel governo del territorio il rapporto fra pubblico e privato sta cambiando profondamente. la capacità del pubblico di imprimere una direzione agli eventi è sempre più remota per una crescente debolezza di un rapporto attivo fra cittadini e rappresentanti eletti, che inizia proprio dalla gestione del territorio, e per l’assoluta mancanza di mezzi. l’unico modo di condurre la partita è un gioco di anticipo, una politica d’indirizzo e di incentivi e di progetti sperimentali che dreni una logica dominante che sempre più esplicitamente appare solo merceologica. La partecipazione assume allora un altro volto possibile, quello di una comunicazione molto interattiva: saper osservare, prevenire,

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prevedere, decentrare, e per contro ridurre al minimo norme astratte, vincoli opprimenti, prescrizioni coercitive. Del resto questa è l’idea di fondo della Convenzione europea del paesaggio: uno statuto giuridico che pone la gente al centro della scena è potenzialmente una forte novità, nei fatti questo ha funzionato soprattutto come una forte provocazione culturale, proprio perché ha stabilito attraverso un momento partecipativo una comunicazione diretta fra amministrazioni, forze della cultura, professioni, associazioni, ponendo i presupposti perché pianificazione e sperimentazione siano in un reciproco continuo intenso scambio. Il grande problema oggi è attuarla, cosa che chiede una profonda trasformazione del quadro programmatico e progettuale, bisogna cambiare strumenti, norme e metodi, più che le leggi, cambiare mentalità, prassi, approccio. Quarto paradosso: quali comportamenti e quali statistiche Se il nuovo ordinamento urbanistico ha fatto notevoli progressi, finalmente distinguendo momenti d’indirizzo e momenti attuativi, le nostre abitudini sembrano invece mantenere tutta la tradizionale rigidità di un sistema di scelte a cascata dal generale al particolare. Politici e progettisti, pochi, credono fortemente che la partecipazione non limiti, arricchisca la qualità del progetto, anche nelle poetiche e nel linguaggio. Invece i più ne parlano bene e ne pensano male, in fondo la temono perché la ritengono un’espressione di incompetenti, una perdita di tempo e una inutile mediazione del loro potere. Ma questa opposizione, così ancora romantica, è forse superata, fra committenti e utenti lo spazio di dialogo si articola modificando molto le modalità e le regole. Forme diverse di confronto, dalla televisione al web, subentrano con la capacità di moltiplicare i contatti ma con pericolose semplificazioni, alla discussione attorno a un tavolo si sostituiscono test e statistiche sempre più sofisticate. Non ha importanza quello che dite, ha importanza quello che si presume che voi pensiate, in base a una lettura parametrica che è una proiezione astratta di vostre manifestazioni, anche molto diverse fra loro. Da qui si affermano standard e classifiche, ad esempio di qualità della vita – cosa c’è di più partecipativo? –, senza che nessuno di noi si debba scomodare a dire una parola. Attenzione, queste classifiche non sono platoniche, ai punti corrispondono vantaggi, finanziamenti. Non è un caso che nelle classifiche della qualità della vita nelle città italiane, come quelle de Il Sole 24 ore, la partecipazione, come il paesaggio, sia una categoria assente, che si presume sia deducibile da altri indicatori, scelti perché misurabili. Quinto paradosso: quale futuro possibile Il punto di stallo e di caduta della partecipazione sembrerebbe essere in una crescente impermeabilità della società a analizzarsi criticamente, la nostra opinione è riportata in termini di audience, una pratica che nasce dalle tecniche pubblicitarie. Chi progetta il nostro futuro sono per lo più gruppi economici egemoni che in realtà si interessano e molto alla

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partecipazione, ma con una logica mutuata dalle indagini di mercato. Avete, ad esempio, sentito parlare di Behavio? E il nome di un’applicazione che fa parte degli investimenti multimilionari di Google sul futuro, è una startup nata all’interno del MIT Media Lab, che estrae in tempo reale le informazioni dal movimento degli utenti (gesti, posizioni, velocità) per prevederne i comportamenti. Il valore di questi dati deve essere alto, per muovere tutte queste intelligenze e capitali da brivido, sconosciuti ai bilanci dei nostri istituti di ricerca pubblici. La notizia mi ha molto colpito, fra i numerosi investimenti sul futuro quasi nessuno mi è comprensibile nella sua finalità, temo che dovrei trarne la conseguenza che forse sono io che non ho più un futuro. Ma mi colpisce anche per un suo significato, che in altri tempi avrei giudicato fantascientifico, ricordate Blade runner, o il personaggio dell’Imperatore di Asimov? Nel futuro, ci avvertono, potremmo trovare forme di governo che nella storia non sono mai state così dispotiche. È anche questa, a suo modo, la proiezione di un’idea di partecipazione, che è portata al suo estremo, raccogliere con la forza di un potente motore di ricerca, che magari sta nel Nevada, dati su ciò che alla gente piace, deducendoli da indicatori indiretti, ad esempio attraverso il linguaggio del nostro corpo. È il nostro corpo che parla, ecco una forma involontaria di partecipazione attiva che ci fa fare i conti con una realtà dove neppure più il termine “globale” sembrerebbe avere un senso. Concludendo La difesa, la gestione e la valorizzazione del paesaggio hanno tanto più senso quanto più si siano in grado di dare vita a progetti che esprimano la ricchezza di un dialogo ampio, libero, consapevole. Saper vedere e saper interpretare la nuova città del terzo millennio sarà possibile solo con valori etici, estetici e di conoscenza diversi da quelli abituali, cercando man mano che disponiamo di strumenti più efficaci di non dimenticare mai che il problema eterno al centro della questione è il libero arbitrio. È con questa realtà magmatica, in rapidissima evoluzione, che dobbiamo fare i conti senza pregiudizi. Credo che sarebbe un errore sentire tutto ciò come una pura devianza catastrofica, io penso che si possano trovare in tutta questa energia che si scatena anche delle risorse vitali, dalle quali trarre delle intuizioni invece catartiche. Quello che è certo è che la nostra navigazione richiede di non abbassare mai la qualità del giudizio critico. Massima partecipazione e massima libertà espressiva non sono affatto in contraddizione fra loro, anzi, è nel loro confronto e nella loro sintesi che vi è una chiave essenziale di successo di un’opera di paesaggio. La questione, come al solito, è come incentivare cultura e consapevolezza nel rapporto fra la gente e un luogo, lavoro difficile e faticoso ma indispensabile per condurci a un nuovo patto condiviso come si conviene a una moderna democrazia.

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CONFLITTUALITÀ E PARTECIPAZIONE NEI PROCESSI DI RIUSO URBANO Carolina Pacchi >POLIMI

Nell’ambito delle molteplici esperienze di riuso di edifici e spazi urbani abbandonati o sottoutilizzati, il binomio conflitto-cooperazione si presta particolarmente bene a descrivere e interpretare le complesse relazioni tra cittadinanza attiva sul territorio e tra queste, l’amministrazione locale e le proprietà delle aree stesse. Numerosi esempi ci segnalano infatti come gli edifici abbandonati e le proposte di riuso siano sempre più spesso al centro delle mobilitazioni e delle rivendicazioni dei cittadini e delle loro organizzazioni [WWF Italia (2013), Riutilizziamo l’Italia: Report 2013. Dal censimento del dismesso scaturisce un patrimonio di idee per il futuro del Belpaese], ma anche come, in seguito ad un forte impegno per la cura e il ripensamento di questi spazi, si creino spesso delle situazioni di appropriazione di fatto che, quando questi vengono rimessi in circolo per usi differenti, possono di nuovo avere connotati conflittuali. Il contributo ha come obiettivo l’analisi del binomio conflittualitàcooperazione nella relazione tra le mobilitazioni urbane e l’amministrazione o le proprietà da un lato, e nella relazione orizzontale tra gruppi di cittadini che si prendono cura degli edifici e della aree abbandonate dall’altro. Il contributo utilizzerà alcuni casi milanesi recenti come occasioni di discussione di questioni più ampie, piuttosto che come oggetto di analisi in senso stretto.

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Mobilitazioni, azione dal basso e riuso di aree abbandonate La mobilitazioni urbane sono azioni ‘volte a trasformare problemi privati, di cui fanno esperienza individui tra loro separati, in problemi pubblici, che riguardano una collettività’ [Vitale T. (a cura di) (2007) In nome di chi? Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali, Franco Angeli , Milano, pagg 10-11]; esse sono strettamente intrecciate con la dimensione urbana, con le connotazioni politiche che questa assume. Sia nel caso in cui le mobilitazioni utilizzino la città e i suoi spazi come un palcoscenico, in grado di dare visibilità alle proteste su questioni non strettamente urbane, sia nel caso in cui l’oggetto della mobilitazione sia invece specificamente di natura urbana (la qualità degli spazi o dei servizi, la casa, l’ambiente, …), le città sono il luogo in cui la conflittualità diventa visibile e si rappresenta [Vitale T. op. cit. pagg 19-20]. In particolare, le iniziative per la valorizzazione di risorse sottoutilizzate [WWF Italia (2013), op. cit.] hanno attirato fortemente l’attenzione dei cittadini negli anni più recenti, dato che nelle città italiane ed europee esiste un patrimonio edilizio e di spazi pubblici aperti non utilizzato o in stato di abbandono, esito a volte delle importanti politiche di infrastrutturazione e di welfare locale del XX secolo, ma spesso anche privato. La natura urbana di questi beni collettivi è centrale nell’analisi: si può, infatti, “relate the ‘urban’ as material culture to the right to inhabit, on the one hand, and the right to occupy and use public spaces, to gather and to protest, on the other” [Leontidou L., (2010) Urban Social Movements in 'Weak' Civil Societies: Cosmopolitan Activism and The Right to the City in Southern Europe, Urban Studies, 47(6) 1179–1203, May, pag 1181]. Essi divengono in questa prospettiva occasione di iniziative molteplici di riappropriazione di spazi abitabili, e oggetto di forme diverse di mobilitazione, non esclusivamente basate sulla protesta, ma su un ricco repertorio di forme azione. Il tema del riuso e della rimessa in circolo di aree, spazi, edifici abbandonati o sottoutilizzati, pubblici o privati, è quindi presente in modo sempre più visibile nelle città italiane. Gruppi di cittadini, che si formano ad hoc oppure ricalcano in parte reti e forme di aggregazione già esistenti (partiti politici, sindacati, associazioni di volontariato o culturali, …) si mobilitano per chiedere la riqualificazione e il riuso di aree o edifici abbandonati o sottoutilizzati, in genere in stato di degrado. Se questo è spesso l’elemento di innesco di tali mobilitazioni, possiamo osservare come le rivendicazioni contro il degrado stesso costituiscano in qualche modo un primo livello di mobilitazione, dato che si limitano a richiedere interventi di pulizia, manutenzione e ripristino, con argomentazioni che vanno dal decoro alla sicurezza. Spesso però la lotta al degrado diventa un primo passaggio, capace di attirare l’attenzione e promuovere l’impegno di cittadini molto

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diversi fra loro, per aprire una fase successiva, ovvero la richiesta del ripristino, riuso e rimessa in circolo del bene abbandonato. Gli scenari sono naturalmente molto vari: da piccoli edifici che potrebbero essere facilmente gestiti direttamente da chi si mobilita, a grandi complessi di valenza strategica, da edifici storici con un forte valore identitario per il quartiere o per la città, a edifici più recenti o di minore riconoscibilità; un’altra sostanziale differenza, per il sistema di relazioni che si può innescare tramite le mobilitazioni, è quello tra proprietà pubblica e proprietà privata. Se guardiamo invece alla dimensione di processo, ovvero alle forme e modalità di svolgimento delle mobilitazioni stesse, in generale la protesta è lo strumento principale che viene utilizzato dai gruppi meno favoriti per acquisire risorse, dato che attraverso le differenti forme di protesta questi sono in grado di attirare attenzione verso le loro rivendicazioni e in questo modo garantirsi un allargamento del consenso e della platea di attori disposti a mobilitarsi e a fornire risorse di diversa natura (conoscitive, politiche, legali, al limite economiche) [Della Porta D. (a cura di) (2004), Comitati di cittadini e democrazia urbana, Rubbettino, Soveria Mannelli; Della Porta D., Andretta M. (2001), Movimenti sociali e rappresentanza: i comitati spontanei dei cittadini a Firenze, Rassegna italiana di sociologia,n.1]. E’ possibile distinguere, pur in un continuum molto articolato, tre tipi di protesta: una di natura più conflittuale e oppositiva, a volte radicale; una di natura moderata; e infine una basata sull’attivazione diretta e sull’innovazione sociale [Vicari Haddock S., Moulaert F. (a cura di) (2009), Rigenerare la città. Pratiche di innovazione sociale nelle città europee, Il Mulino, Bologna]. Non necessariamente queste forme devono essere viste come alternative, al contrario esse spesso convivono all’interno delle stesse vicende oppure si alternano, succedono una all’altra. Se la protesta assume forme oppositive e radicali, nel caso degli edifici abbandonati essa prende spesso la forma di occupazioni, più o meno simboliche e dimostrative, e quindi più o meno permanenti e stabili, con le conseguenze in termini di scelte politiche e di ordine pubblico che queste implicano. Se, invece, la protesta assume forme moderate, essa si articola in momenti anche di elevata intensità simbolica, ma non conflittuali, come ad esempio raccolte di firme, feste di quartiere, iniziative per la raccolta di fondi, ecc. Il confine con la terza tipologia è qui sfumato: infatti mentre iniziative come le feste di quartiere o le raccolte di fondi possono avere una funzione essenzialmente dimostrativa, e quindi volta ad aumentare l’attenzione su una questione, attività di crowdfunding o di intervento diretto sulla qualità dei luoghi, per l’offerta di spazi e servizi altrimenti non disponibili, sono più vicine all’innovazione sociale come capacità di dare risposta a bisogni

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sociali presenti, ma non trattati. Il secondo fronte di conflittualità emerge invece in una fase successiva, nella quale i gruppi di cittadini o le associazioni hanno avuto già modo di sviluppare una serie di attività connesse in genere al riuso dal basso, anche parziale, del bene oggetto di mobilitazione. Queste attività possono essere di natura progettuale, oppure già di riuso e risistemazione parziale, come in moltissimi casi diffusi nelle città. Il meccanismo che attiva la conflittualità è complesso, ed è legato all’impegno e alla cura volontaria di cui il bene viene fatto oggetto, e che può esplicitarsi in attività di cura, pulizia, ripristino e manutenzione, che in alcuni casi implicano una significativa presenza e quindi un dispendio di tempo, così come attività a minore intensità di presenza, ma sempre molto sentite, come attività di progettazione e valutazione di fattibilità per possibili usi futuri, ricerca di finanziamenti (tramite bandi, crowdfunding o altri canali), interazioni con l’Amministrazione responsabile e/o con la proprietà, e così via. A fronte di un impegno anche notevole, si creano momenti di tensione e conflittualità se il riuso dell’edificio o del contesto abbandonato, come spesso avviene, coinvolge altri attori, rispetto a quelli storicamente presenti, o perché viene operato un salto di scala, da quella di quartiere a quella cittadina, o perché l’ingresso dell’Amministrazione implica una maggiore trasparenza delle procedure, con l’attivazione di bandi. Azione locale tra conflittualità e cooperazione Un esempio interessante della complessità di questo intreccio riguarda la lunga battaglia per la conservazione, la valorizzazione e la promozione del riuso della Cascina Linterno a Milano. Si tratta di una cascina di origine medievale, legata anche al nome del Petrarca nel suo soggiorno milanese, sita al margine del Parco delle Cave, alla periferia Ovest della città, in un contesto che, sebbene largamente urbanizzato nel corso degli ultimi decenni, conserva alcuni caratteri della struttura del territorio e del paesaggio agrario tradizionale, con la sua infrastrutturazione minuta legata al sistema delle acque, ed è oggi uno dei principali nuclei di promozione dell’attività agricola a contatto con la città. Dalla metà degli anni Novanta un folto gruppo di cittadini e di organizzazioni locali ha promosso una serie di iniziative di mobilitazione, protesta, produzione culturale e pressione sull’Amministrazione Comunale per una tutela sia del manufatto della cascina che del territorio circostante, e per evitare pericoli di trasformazioni d’uso e stravolgimenti formali e funzionali. La combinazione di strumenti di protesta, pressione e attivazione diretta, unita alla forte continuità nel tempo dell’impegno e della cura per il bene sono gli elementi che hanno portato ad una conclusione positiva della

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vicenda, con l’acquisizione della Cascina da parte dell’Amministrazione Comunale, l’avvio di lavori di ripristino e di un progetto di riuso. Un caso di segno differente è la mobilitazione per la riqualificazione dell’area della Darsena a Milano, antico terminal portuale nella zona dei Navigli, abbandonato e in stato di degrado, nel quale tuttavia, nel corso degli anni, si è sviluppato un pregevole ecosistema spontaneo, creatosi proprio in seguito al temporaneo abbandono dell’area. Si tratta infatti di una zona di wilderness, che rappresenta una zona umida significativa, con alcuni caratteri di un bosco planiziale, contraddistinta da alberi e canneti, ma anche dalla presenza di animali. L’area della Darsena, con una localizzazione centrale e immediatamente adiacente alla zona di vita notturna dei Navigli, ha espresso nel tempo diverse mobilitazioni di cittadini, attenti a una sua riqualificazione, tra i quali emerge la mobilitazione del comitato DarsenaPioniera, la cui esperienza si distingue dalle altre perché ha messo al centro della propria elaborazione progettuale l’ipotesi di conservare, con piccoli interventi di modifica, l’ecosistema che è stato l’esito di una rinaturalizzazione spontanea, sul modello delle Oasi Urbane nelle città inglesi. A fronte dello stato di temporaneo abbandono dell’area e dei possibili effetti negativi derivanti dal progetto di parcheggio interrato allora previsto, nel 2009 il gruppo riconducibile a DarsenaPioniera inizia a mobilitarsi per un progetto di riqualificazione che, a partire dal riconoscimento del valore dell’ecosistema che si è creato, considerava importante che la progettazione del verde privilegiasse il tema della flora spontanea, e proponeva quindi una progettazione leggera, mirata a individuare degli spazi per piccoli giardini e orti tematici, da assegnare ad associazioni, artisti o semplici cittadini, per costruire delle zone di verde partecipato. Questa proposta, avanzata presso l’Amministrazione e difesa attraverso forme inedite e creative di mobilitazione, che hanno coinvolto cittadini di diverse età in percorsi di cura e valorizzazione del verde spontaneo, si è però scontrata con un sostanziale disinteresse dell’Amministrazione comunale, che ha preferito perseguire il progetto di riqualificazione, sensibilmente più invasivo, esito di un concorso pubblico, pur eliminando da esso l’ipotesi di costruzione del parcheggio interrato. Nota conclusiva A valle della sommaria discussione dei temi di conflittualità e del richiamo ai casi, è possibile proporre alcune considerazioni finali sulle questioni sollevate. Seguendo Tarrow, può essere interessante comprendere quanto queste mobilitazioni siano state capaci di utilizzare e trasformare il sistema di opportunità politiche a disposizione, attraverso repertori di protesta complessi e articolati, a cavallo tra conflitto e cooperazione

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[Tarrow S.G. (2011), Power in Movement. Social Movements and Contentious Politics (revised and updated third edition), Cambridge University Press, pagg 120 e sgg.]. Se infatti il contesto milanese è stato tradizionalmente ed è anche oggi contraddistinto da una grande ricchezza di iniziative dal basso, sia da parte di attori organizzati, come associazioni e altri attori del terzo settore [Ranci C. (a cura di) (2009), Milano e le città d'Europa tra competitività e disuguaglianze, Maggioli Editore; Bobbio L., Dente B., Spada A. (2005), Government or Governance of Urban Innovation? A Tale of Two Cities, DISP The Planning Review, n. 162, pagg 41-52], che da parte di diversi tipi di comitati di cittadini [Pacchi C. (2008), Cittadinanza a Milano. Scelta democratica e trasformazione urbana, in AA.VV. Per un’altra città. Ri²essioni e proposte sull’urbanistica milanese, Maggioli Editore; Gullino S., Pacchi C. (2012), Promoting environmental behavioural change, cycling awareness and civic engagement in Kingston-upon-Thames London and Milan: Transition Towns and Ciclof±cine, BritishCouncil-CRUI Final Report; Pacchi C., Pasqui G. (2011), Urban planning without con²icts? The case of Milan, paper presented tothe International Research Conference Planning / conflict. Critical perspectives on contentious urbandevelopments, Berlin 27-28 October 2011], è necessario però interrogarsi sull’effettiva capacità di questa moltitudine di mobilitazioni di incidere sui contesti. Nei casi di riuso di aree abbandonate, questa lettura può essere tentata guardando al modo in cui queste mobilitazioni hanno costruito (o modificato) forme di relazione tra il governo cittadino (centrale e decentrato), i cittadini, i comitati locali e le proprietà; cercando di comprendere in che misura abbiano contribuito ad aprire nuovi spazi di possibilità, e in base a quali immaginari sociali e urbani questi ultimi siano stati delineati. Da questo punto di vista, i casi qui richiamati sono molto differenti: mentre nei casi di Cascina Linterno, che ha alle spalle una mobilitazione ventennale, l’azione ha avuto effetto sia sulla proprietà (nel caso di Linterno, la cascina è stata ceduta al Comune dalla proprietà nell’ambito di un progetto urbanistico più ampio) che sulle possibilità di riqualificazione fisica e funzionale (in entrambi i casi grazie a co-finanziamenti di fondazioni bancarie), il caso di DarsenaPioniera non ha avuto capacità di incidere sul progetto di riqualificazione, forse anche a causa del quadro strategico-decisionale dominato dal discorso su Expo 2015. Infine, l’impatto che queste iniziative di mobilitazione hanno avuto per gli stessi comitati è molto differente: messi a confronto con le esigenze contrastanti di promuovere i progetti al centro della propria identità collettiva, divisi tra la necessità di collaborare con l’Amministrazione locale e di mantenere da questa una distanza politica e una propria riconoscibilità, questi gruppi hanno affrontato, nel corso degli anni, trasformazioni anche

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laceranti. E’ proprio dalla complessa interazione tra percorsi di consolidamento locale e interazione, di volta in volta piÚ cooperativa o conflittuale, con attori altri (Amministrazione, proprietà delle aree, ‌) che le mobilitazioni dal basso possono incidere in modo positivo e in una prospettiva aperta sulle battaglie per il riuso urbano.

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RIUSARE E RICERCARE IL SENSO DEI LUOGHI Francesca Calace >POLIBA

Premessa Contribuire a Re-cycle Italy affrontando il tema della partecipazione attiva dei cittadini al progetto di recupero ambientale del Paese è significato ripensare e ricollocare alcune esperienze di ricerca e di riflessione alla luce di un obiettivo più specifico e nitido: riconnettere i grandi temi della dismissione e del riuso a quelli del significato profondo dei luoghi, usati, poi abbandonati, poi riusati o suscettibili di riuso [ci si riferisce alla prima fase della ricerca condotta dal WWF Italia dal gruppo della rete dei docenti del Politecnico di Bari, F. Calace (coord.), C. Angelastro, L. Lo Muzio Lezza, di cui queste riflessioni costituiscono l’ideale prosecuzione, e i cui esiti sono pubblicati in Filpa A., Lenzi S. (a cura di), Riutilizziamo l’Italia - Report 2013, nonché dalle esperienze presentate in occasione del convegno L’anima dei luoghi. Pratiche e ri²essioni per un nuovo umanesimo urbano, Bari 1 ottobre 2011]. Dunque questo contributo vuole porre l’attenzione sulla relazione tra il riuso e il significato profondo che i luoghi hanno per le comunità. Con la consapevolezza che riusare significa modificare non solo la funzione di un luogo, ma anche i suoi sistemi di valori, di significati e regole, l’ipotesi da cui parte questa riflessione è che riusare senza riscoprire - o rinnovare - il senso dei luoghi, e quindi intendere il riuso in senso unicamente utilitaristico, incida pesantemente sulla qualità e sul successo degli interventi; e, d’altra parte, il ricercare il senso - l’anima - dei luoghi passa

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necessariamente attraverso una ricerca della loro memoria, del loro significato originario e simbolico, della riappropriazione di ciò che era e non è più. In tal senso riusare è - o dovrebbe essere - ricercare il senso dei luoghi. La riflessione è effettuata a partire da due angoli visuali: da un lato sulle evidenze principali di una cospicua stagione di politiche per il riuso; dall’altro su alcuni tentativi di riuso “dal basso”, animati dalle pratiche di appropriazione e di significazione dello spazio pubblico. Il contesto spaziale di riferimento è quello della Puglia e della città di Bari, ma i casi tuttavia trascendono la dimensione locale: si situano in una sfera di riflessione che esplora l’efficacia delle politiche e al contempo le dinamiche relazionali ed emozionali tra uomo e proprio ambiente di vita urbana, i tentativi di sollecitare e accompagnare la riappropriazione collettiva dello spazio, gli esiti controversi e spesso imponderabili dei processi di partecipazione. Riusare e ricercare Sicuramente stimolate da una politica regionale fortemente tesa alla promozione della creatività e della imprenditoria giovanile, le esperienze del riuso in Puglia sono tante e ormai molto note [una breve analisi delle politiche regionali per il riuso in Puglia è presente in Calace F., Angelastro C., Lo Muzio Lezza L., Puglia. Il riuso come opportunità di riquali±cazione del paesaggio, in Filpa A. Lenzi S., op. cit.]. Tra queste, quella dei Laboratori urbani è quella più esplicitamente diretta al riuso di immobili pubblici abbandonati. I Laboratori hanno avuto l’obiettivo del recupero infrastrutturale di edifici o parti di essi, di proprietà comunale, da adibire allo svolgimento di attività e servizi, da mettere a disposizione delle fasce giovanili della popolazione, con l'obiettivo di favorire il coinvolgimento di soggetti a rischio nonché di sostenere la diffusione delle nuove forme urbane di creatività nei campi dell'arte, della musica e dei linguaggi giovanili: politiche innovative e dalla grande eco, e proprio per questo da analizzare e monitorare con attenzione: per valutarne l’efficacia e proporle come buone pratiche, per coglierne le debolezze e aggiustare il tiro dove serve. Dunque, osservando più da vicino e nel tempo queste esperienze, si nota come esse spesso stentino a recidere il cordone ombelicale dell’input e del finanziamento iniziale, ad affrancarsi da essi e a divenire strutture in grado di sostenersi e di produrre: innovazione, cultura, attività creative, merci, non è essenziale cosa, quanto piuttosto che esse continuino a farlo oltre lo stimolo iniziale. Alcuni segnali avvalorano tale ipotesi. Anzitutto molte iniziative di riuso, mirate a investimenti iniziali in opere (ristrutturare, riadattare, impiantare attività) [Bollenti spiriti - Laboratori urbani, bando del marzo 2006, ha comportato la rivitalizzazione di 151 immobili sul territorio regionale affidandone la gestione a cooperative e incentivando l'occupazione giovanile. Cfr http://bollentispiriti.regione.

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puglia.it/], hanno dovuto essere rifinanziate attraverso un nuovo bando [Bollenti spiriti - Sostegno a gestione spazi pubblici per la creatività giovanile, bando del novembre 2011], per evidenti problemi di asfissia gestionale, ovvero per una sottovalutazione delle problematiche legate al mantenimento in vita e alla ordinarietà delle attività. E tuttora, dopo 7 anni dal primo bando, perdura una notevole attività di sostegno e accompagnamento alla creazione e alla gestione dei Laboratori urbani [nel 2012 nasce il CRLab, il centro regionale di servizi a supporto dei Laboratori Urbani e degli Spazi pubblici per la creatività giovanile facenti capo al Programma Bollenti Spiriti]; ciò sia per l’approccio sperimentale e adattivo che ha caratterizzato tutta la macchina dei Bollenti Spiriti; sia per le procedure messe in moto, che comportano un controllo regionale delle risorse investite; sia infine per l’innovatività - e l’insita fragilità - dei contenuti del riuso, questione affrontata di seguito. I contenuti del riuso, tutti o quasi contenitori culturali, tutti o quasi con una prevalente matrice giovanile, hanno rappresentato un settore tradizionalmente debole e marginale dell’economia, spesso assistito, spesso con un ciclo di vita breve ed esogeno rispetto al tessuto sociale preesistente: un innesto benefico e innovativo di certo, ma non sempre accompagnato da una azione di diffusione capillare e trasversale - tra persone, gruppi sociali, fasce d’età - per cui una presenza pur innovativa non ha coinvolto a sufficienza il quartiere, la comunità, la città in tutte le sue componenti. In altre parole, in questi casi il riuso dei contenitori dismessi è stato strumento per promuovere una nuova imprenditoria obiettivo sacrosanto - ma spesso le nuove funzioni sono rimaste estranee al contesto e allo spazio in cui si sono inserite; ovvero non si è considerato che il successo delle iniziative di tale genere - che hanno un contenuto fortemente territoriale e si alimentano del contesto in cui si collocano - è affidato sì alla capacità di fare impresa, ma anche e contestualmente alla capacità dei contesti di accogliere funzioni nuove e agli spazi di divenire simboli collettivi e non elitari, di divenire luoghi. Quindi, i contenitori da riusare: l’iter procedurale per la formazione dei Laboratori Urbani prevede che immobili dismessi di proprietà comunale (i più disparati, dai palazzi, ai vecchi mattatoi, agli asili …) siano ristrutturati per attività e servizi gestite dalle fasce giovanili. Se la disponibilità di immobili di tale tipo è elevata, l’ammontare del finanziamento unitario non ha consentito di investire in operazioni complesse e impegnative, orientando le scelte dei Comuni su immobili “abbastanza” in buono stato. Ciò ha comportato che talvolta la loro giacitura e il loro significato sociale e simbolico non fossero rilevanti per la comunità e che quindi solo o prevalentemente alla qualità della proposta delle nuove funzioni fosse affidato il compito di rinnovare il significato collettivo di questi contenitori. Quindi è spesso mancata quella alchimia per cui funzioni e spazi, combinati insieme, producono valore aggiunto urbano. Risultato per nulla scontato e

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comunque raggiungibile in tempi lunghi, spesso più lunghi della vita delle associazioni che transitano e animano i Laboratori stessi. Tutto ciò fa pensare che questa esuberante stagione del riuso comporti il rischio che si tratti di fenomeni effimeri, anche se impetuosi e prorompenti, e che una volta esaurita la spinta propulsiva iniziale, per sopravvivere essi debbano continuare ad essere sostenuti dall’esterno; o, nella migliore delle ipotesi, che si tratti di un riuso a ciclo breve, caratterizzato dal continuo mutare del rapporto tra contenitore (il luogo) e contenuto (le funzioni che vi si svolgono); in tale precarietà, si corre il rischio che su questi processi di riuso penda una spada di Damocle di un nuovo abbandono. Quali possono essere le radici di questa criticità? è possibile che talune iniziative, anche se ben congegnate e finanziate, non riescano ad attecchire e vivere di vita propria laddove manca un radicamento nel tessuto sociale che le faccia proprie? e tale assenza di radicamento avvenga nei casi in cui il riuso è stato di tipo utilitaristico ed epidermico, ovvero laddove esso non ha intercettato “l’anima dei luoghi”, ovvero il significato profondo e stabile che i luoghi hanno acquisito per la comunità? Alcune delle esperienze portate all’attenzione de L’anima dei luoghi raccontano di conflitti urbani o di laboriose pratiche di coinvolgimento delle comunità mirate a far riaffiorare o rinnovare l’identità dei luoghi; pratiche tese quindi a stimolare gli utenti quotidiani - gli abitanti - a riappropriarsi dell’uso e del senso degli spazi sottoutilizzati, inutilizzati, dismessi. Ciò nella consapevolezza che i luoghi hanno una identità se le persone riescono ad attribuire loro dei significati che vanno oltre la dimensione utilitaristica e si situano e diventano parte della sfera emozionale dei singoli e delle comunità, grandi, piccole o piccolissime che siano [L’anima dei luoghi è un testo di James Hillman, costituito da una conversazione con Carlo Truppi (Rizzoli, 2004); ma il testo Anime di luoghi di Lidia Decandia (FrancoAngeli, 2004) ha costituito l’ispirazione per il Convegno citato e la chiave interpretativa delle esperienze presentate. Tra queste, qui sono segnalati una ricerca sulle pratiche e i conflitti d’uso nello spazio del lungomare di Bari; il progetto di Community Garden di Garden Faber (www. gardenfaber.org); MicroJap e L’in-credibile Mappa di via Leuca di X-Scape (www.xscape.it). Le esperienze sono descritte rispettivamente in Tedesco C. Spazi pubblici e molteplicità della città, Lubisco G., Coltivando l’anima dei luoghi. Il progetto Garden Faber, Pirro P. Dal basso. Piccole azioni per ripensare lo spazio pubblico, in pubblicazione su Urbanistica Informazioni 253, 2014]. La ricerca sui conflitti d’uso di spazi pubblici fortemente connotati ha fatto emergere come di solito l’appropriazione dei luoghi da parte delle comunità avvenga in modo silenzioso, ovvero attraverso pratiche quotidiane non proclamate e informali, ma che queste stesse pratiche diventano evidenti quando si scontrano con i grandi processi di costruzione della città; processi che di solito si sviluppano al di sopra delle teste dei cittadini e,

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anche quando partecipati, lasciano sempre fuori dai giochi coloro che non hanno voce e rappresentanza; dimostrando come la partecipazione sia pratica inevitabilmente selettiva, se non elitaria. Emerge inoltre una nozione di spazio come prodotto delle interazioni (“da quelle immense del globale a quelle minute del quotidiano” [C. Tedesco, op. cit.]) e pertanto come prodotto sempre in itinere, mai staticamente determinato e mai scindibile dalle pratiche che in esso si consumano. Il Community Garden realizzato in un quartiere di ERP della città di Bari, attraverso il coinvolgimento degli abitanti in tutte le fasi della ideazione, costruzione, realizzazione e gestione, ha avuto come obiettivo non solo la costruzione del giardino, ma la creazione della comunità stessa. Un compito articolato, che passa dagli aspetti più tecnici a quelli della gestione delle relazioni sociali, a quelli di interfaccia con le istituzioni, vissute in questi contesti sempre come distanti e disinteressate; sicché gli spazi verdi - e il lavoro che comporta la loro realizzazione e gestione sono stati veicolo di aggregazione sociale non solo nella loro fruizione, ma anche nelle fasi di creazione e costruzione. Le azioni di animazione urbana di X-Scape sono basate su un approccio non supponente, ma teso a costruire un dialogo “alla pari” con gli abitanti, a creare quell’empatia necessaria per riuscire a intercettare e interpretare i bisogni inespressi e che difficilmente le istituzioni colgono. Attraverso atti dimostrativi e coinvolgenti - piantare odori, realizzare un salotto all’aperto, costruire una mappa dei luoghi, dei saperi e delle storie locali - le animazioni hanno semplicemente mostrato, a tecnici, abitanti, amministratori, che gli spazi del quotidiano non chiedono grandi progetti, bensì progetti capaci di stimolare esperienze e usi plurimi, quindi cura e affezione da parte di chi li abita. Dunque, le esperienze di osservazione e le azioni di appropriazione e/o riappropriazione dello spazio pubblico, siano esse la realizzazione di un giardino di vicinato, o l’uso degli spazi sotto casa o del lungomare, siano un prodotto immateriale come una mappa di comunità del quartiere, sono state pazientemente studiate e coltivate facendo leva sul senso di comunità esistente e latente, oppure inesistente e da creare. In particolare, le azioni sono effimere, piccole scintille low cost, ma dalla chiara intenzionalità: l’uso o il riuso rappresenta un mezzo per formare la comunità; la comunità a sua volta è un mezzo per coltivare, presidiare, dare senso comune allo spazio pubblico; la qualità di quest’ultimo favorisce il radicarsi del senso di comunità. Una spirale virtuosa, ma che si spezza facilmente, alla minima caduta di tensione, all’insorgere di conflitti, al venir meno del soggetto - spesso esterno - che “accende la miccia” e guida e accompagna il processo. Le esperienze descritte hanno carattere fisicamente debole o effimero; di certo posseggono una notevole carica emozionale, ma anche questa labile in quanto legata all’evento, che spesso non lascia alcuna traccia

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materiale. Il giardino, in questo caso, rappresenta più di ogni cosa la metafora dell’anima dei luoghi: essa sopravvive se coltivata e alimentata nel quotidiano dal flusso delle persone che lo usano, lo abitano, lo curano. In tali casi questo flusso rappresenta, più del progetto, la componente fondamentale del riuso. Politiche e pratiche Sebbene partano ambedue “dal basso”, i due approcci descritti attraverso queste esperienze mostrano notevoli differenze: il primo filtrato attraverso le istituzioni, il secondo del tutto informale o quasi; essi quindi possono essere sinteticamente ascritti alle dimensioni delle politiche e delle pratiche, sebbene in realtà i casi siano piuttosto ibridi. Ebbene, tutto pare dimostrare che politiche e pratiche rischiano di non incontrarsi, e talvolta perfino di contrapporsi, mentre invece esse possono alimentarsi reciprocamente. In particolare, le politiche per il riuso necessiterebbero di un maggiore radicamento nel tessuto sociale e quindi di una maggiore aderenza sia alle esigenze delle comunità sia al significato dei luoghi, anche per far sì che i luoghi del riuso non siano solo dei “contenitori” che indifferentemente possono contenere qualsiasi attività, ma si identifichino con le attività che vi si svolgono e che quindi se ne stabilizzino i relativi significati sociali e simbolici; in altre parole, le politiche dovrebbero essere più sensibili al senso dei luoghi. Le pratiche, o meglio, le azioni di animazione e di accompagnamento alle pratiche di riuso e di riappropriazione dei luoghi, dovrebbero cercare di superare il carattere estemporaneo o di evento, e trovare i canali per ricondurre questo tipo di riuso alla ordinarietà. Ovvero, queste dovrebbero costruire percorsi di stabilizzazione e istituzionalizzazione, pur in forme non irrigidite. In definitiva una contaminazione reciproca, una fluidità nel passaggio dalle une alle altre, quale che sia il punto di partenza, è condizione perché il riuso sia una pratica durevole e in grado di produrre valore aggiunto nella città e per la comunità. Ciò perché probabilmente (ma non certamente) i valori e i significati depositati nei luoghi - la cui individuazione e rivitalizzazione abbiamo detto essere un fattore fondamentale per un riuso di successo e duraturo - sono più ragionevolmente diffusi nel sapere comune e nelle relative pratiche urbane, rispetto alle politiche; e tuttavia non vanno trascurati o sottovalutati gli elementi di innovazione veicolati dalle politiche, innovazioni che spesso le pratiche non riescono a traguardare. Allargando lo sguardo al tema delineato in apertura, le questioni e i casi qui analizzati, ancorché limitati rispetto alla dimensione del fenomeno della dismissione e dell’abbandono, dimostrano che esiste una tale varietà di situazioni di dismissione e sottoutilizzo, che è necessario perseguire strategie e azioni molto differenziate e articolate per recuperarle; che il riuso può avvenire solo combinando azioni differenziate, top down e

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bottom up e che ciascuna ha dei limiti propri. Inoltre dimostrano come il ruolo delle comunità, spesso identificata banalmente con l’utenza della città, è invece inevitabilmente protagonista del riuso in ogni caso, sia nella produzione che nella gestione, che soprattutto nell’attribuzione di significato ai luoghi.

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01, 02, 03 - Momenti dei sopralluoghi a Porto Marghera, luglio 2013 04, 05, 06, 07 - Alcune «scatole magiche» con gli oggetti di affezione delle famiglie degli studenti 08, 09, 10, 11 - Modelli «analoghi» di alcuni dei progetti di biblioteche-luoghi di aggregazione sociale


BICICLI E RICICLI DI UNA PERIFERIA INDUSTRIALE DIALOGHI PERIPATETICI SUL FUTURO DI PORTO MARGHERA Renato Bocchi >IUAV

Giri di Walser “Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di ±gure, di poesie viventi, di oggetti attraenti Segretamente ogni sorta di pensieri e d’idee seguono di soppiatto colui che passeggia, così da obbligarlo, mentre cammina compassato e attento, a fermarsi e a restare in ascolto, poiché, completamente stordito da strane impressioni, dalla potenza degli spiriti, si sente a un tratto come magicamente sprofondare nel suolo, mentre davanti agli occhi abbagliati e smarriti del pensatore-poeta si spalanca un abisso ” ["Walser R. (1917), Der Spaziergang, in trad. it, Castellani E. (a cura di) (1976), La passeggiata, Adelphi"] Porto Marghera è un magazzino polveroso dove si sono accumulate nel tempo mille cose e mille memorie, alla rinfusa, sciattamente abbandonate e accumulate, arrugginite, scalcinate. Nel magazzino albergano rifiuti ma anche e soprattutto persone rifiutate; si accomodano in qualche modo: pezzi di vita domestica come monumenti: un frigorifero, un divano, tre sedie, un tavolino con due bicchieri… sotto a un cavalcavia, dentro una palestra abbandonata dove l’erba è entrata e cresciuta a rinverdire il paesaggio. In fondo: un affresco murale come un’opera della Biennale. Fuori: scritte cubitali invocano interventi di riqualificazione… vuote parole d’ordine in un luogo di disordine… Porto Marghera è anche tuttora, per fortuna, un luogo di produzione: l’odore intenso lo testimonia… e un treno merci che passa sferragliando, e camion su camion che sfrecciano sollevando nuvole di polvere e coprendo le tue parole, e chiatte che attraccano ai pontili nel largo canale, operai

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che mangiano un panino nel bar della darsena pieno di urla, un’isola di ristoro a 80 decibel nel punto d’incrocio di tutti i flussi meccanici… Porto Marghera è però anche un laboratorio di spontanei nuclei di aggregazione sociale, pullulati non si sa come in mezzo alle fabbriche dismesse: atelier di artisti, architetti, designer, magazzini di opere d’arte e di prodotti made in Italy, quelli che vedi negli shop aeroportuali, calzini di tutti i colori, jeans, foulard, t-shirt…, mischiati a qualche raro luogo d’incontro: una chiesa nigeriana, per esempio, da cui la sera escono i canti di un coro… Porto Marghera è anche un centro sociale dall’aggressivo nome di Rivolta, in realtà un’isola piuttosto pacifica e accogliente, se appena riesci a entrarci: di giorno è pressoché sempre chiuso e lancia messaggi solo coi graffiti e i murales sull’alto muro che lo recinge, insomma un piccolo ghetto più o meno felice, zona franca per irregolari perfino troppo regolari, una Cristiania un po’ demodé incapsulata nel magazzino dei ricordi e dei ferrivecchi… Porto Marghera è infine un viale di puttane, a nome via Fratelli Bandiera meglio suonerebbe Sorelle Bandiera - invalicabile barriera con il quartiere tutto sommato più lindo e ordinato di Mestre, con viali ombreggiati d’alberi che disegnano eleganti reticoli in linea retta e in diagonale, con parchi e grandi piazze alberate, un mercato ordinato e vivace e una biblioteca accogliente sopra il mercato, e la Chiesa di Cristo Lavoratore e buone osterie e il jazz del Vapore… Le prostitute sono le sentinelle di guardia fra la città-giardino ordinata del conte Volpi e la vasta zona industriale o exindustriale che sia: loro sì son vere passeggiatrici! Porto Marghera merita davvero un “giro di Walser”, ovvero una passeggiata da ²aneur alla Baudelaire, tanto per fare un po’ di luce sulla realtà delle nostre periferie industriali più o meno dismesse o malmesse, un po’ di più di quanto potrebbe farla quel gran lampadario del Palais Lumière: oui, je suis Pierre Cardin! Parlez-vous Français? Che Sarah sarà Sarah Sze è una giovane brava artista americana di padre cinese che espone al Padiglione degli Stati Uniti alla Biennale d’Arte. Dalla sua opera – meglio dai concetti e dai metodi della sua opera – ha preso il via l’esercizio progettuale su Porto Marghera, vista come il Bronx veneziano (il Museo d’arte contemporanea del Bronx è il curatore del Padiglione e da quel Museo è stata sollecitata la nostra riflessione progettuale) [Il presente scritto riproduce il testo del reading tenuto al Festival Comodamente di Vittorio Veneto il 7 settembre 2013, ad illustrazione dell’esperienza del workshop progettuale sull’area di Porto Marghera svoltosi nel luglio 2013 presso l’Università Iuav di Venezia, con il coordinamento di Sandro Marpillero (Columbia University) e di Renato Bocchi e con la collaborazione di Valeria Burgio, Matteo Aimini e Cristiana Favretto, in interazione con il Museo d’Arte Contemporanea del Bronx di New York e con la partecipazione di 70 studenti Iuav e di altre università italiane e straniere. http://wave2013iuav. wordpress.com]. L’opera della Sze [Sze S. (2013), Triple Point, catalogo del padiglione USA alla Biennale di Venezia, The Bronx Museum of the Arts, New York] parte da una riflessione sullo spazio “palladiano” del Padiglione, simmetrico, statico, monumentale, e mira a mutarne radicalmente la struttura di

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percezione e l’esperienza spaziale, rendendolo fluido, dinamico, flottante, asimmetrico, rovesciandone completamente la sequenza ritmica, fino a romperne il rapporto interno-esterno e a debordare sulla facciata. Tutto questo è realizzato con un minuzioso ordinatissimo, anche se a prima vista caotico, accumulo di oggetti d’uso quotidiano, come un magazzino o una wunderkammer di quisquilie che realizza costellazioni di senso e organizza un vero e proprio laboratorio spaziale. La pianificata orditura della città-giardino di Marghera è l’analogo urbanistico dell’armonico disegno spaziale “palladiano” del Padiglione. Ribaltata sul largo rettilineo asse-cerniera di via Fratelli Bandiera (il suddetto viale delle passeggiatrici), quell’orditura non trova più alcun senso nella rete camionabile che attraversa la zona industriale o exindustriale che sia. Porto Marghera ha bisogno di altre percezioni e altre esperienze, analoghe alle spazialità stranianti di Sarah Sze, con un ordine “altro”: fluido, dinamico, flottante, asimmetrico, capace di debordare così verso la città-giardino come verso il mare (leggasi laguna); un ordine “altro” che dia un senso al magazzino o alla wunderkammer di quisquilie che la crisi s’è lasciata dietro con gli abbandoni e le dismissioni. Un’orditura che può lavorare forse e meglio sui filamenti dei tronchi ferroviari più o meno dismessi, sui gangli potenziali dei nuovi nuclei sociali germinanti dalle nuove attività “creative” infiltrate, sulla riscoperta della rete acquea dei canali: una zona più vicina all’organica geometria della barena che era, piuttosto che alla rigida ma insignificante geometria delle strade camionabili dell’imbonimento che è stata e ancora è. Il giro di Walser, in senso più letterale, può essere allora la Porto Marghera che immaginiamo, zona-filtro vitale fra la laguna e la città-giardino, con le lucciole non più a far la sentinella, piuttosto a punteggiar di luci un possibile lungomare. E chissà, forse anche la digitalizzazione di luci e colori notturna a trasformarlo talora in una Marghera by night, in cui i monumenti industriali si trasformino in una scenografia suggestiva, come appare già di notte Porto Marghera la sera se la guardi dalle Zattere, leccando un gelato. Che Sarah sarà! Scatole magiche Come importare in una wasteland quale è Porto Marghera il vissuto di un melting pot di possibili futuri abitanti e fruitori? (il Bronx non è in fondo lontano, se è vero, come io credo sia vero, che Mestre sia la città più americana d’Italia per via di quell’urbanizzazione fra rurale e metropolitano che la caratterizza, con le infrastrutture stradali a spadroneggiare su tutto). Perché non mettere a frutto i 70 studenti di varia provenienza del workshop - fra cui molti triveneti terrafermieri ma spesso figli di genitori immigrati da altrove, e anche una manciata di italiani del centro-sud, un albanese, un colombiano… - e farli ragionare “architettonicamente” su quel casuale ma intrigante melting pot? Le wunderkammer del palazzo enciclopedico di Massimiliano Gioni e della stessa Sarah Sze soccorrono. Il gioco consiste nel dar casa – entro una serie di scatole magiche parallelepipede – ai collettivi multietnici occasionati dalla formazione dei gruppi di lavoro di 5 o 6 studenti, e vedere l’effetto che fanno.

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Nelle scatole magiche - a volte simili a ambienti domestici, altre volte a spazi bibliotecari o museali o a scavi archeologici - gli oggetti identitari di ciascuna famiglia (normalmente cimeli dei nonni o bisnonni, che raccontano imprevedibili microstorie familiari) interagiscono a formare wikipedie portatili, che talora possono perfino prefigurare assetti futuri delle nuove polarità sociali (biblioteche come piazze del sapere e dell’incontro, secondo la nostra amica Antonella Agnoli importabili dentro i tessuti sfilacciati di Porto Marghera) [Antonella Agnoli, esperta bibliotecaria, autrice del libro Le piazze del sapere, Biblioteche e libertà, Laterza, Roma 2009 è stata una degli ospiti invitati al suddetto workshop, insieme con l’antropologo Antonio Marazzi, il cineasta Marco Bertozzi, gli architetti Cristina Tartari , Filena Di Tommaso, Isabella Inti, Giulia Cantaluppi, Andrea Graglia]. Story story-board La passeggiata baudelairiana, o benjaminiana che dir si voglia, tradotta in una prima serie di story-board dagli studenti-ciclisti-²aneurs (anche grazie agli amici di Temporiuso che con un team milanese di architetti del team milanese Temporiuso hanno organizzato una giornata di bikeride durante il workshop. [http://www.temporiuso.org]), in un secondo tempo si è traslata in una seconda serie di story-board, questa volta onirico-visionari o semplicemente proiettati nel futuro (in parole povere, “progetti”), rappresentati alla fine, in maniera non convenzionale, attraverso la sovrapposizione a semplici maquettes in scala 1:4000 delle sei aree calde di altrettanti modelli “analogici” (secondo l’intuizione e la definizione di Sandro Marpillero). La passeggiata fra queste sei+sei finali installazioni può dirsi a sua volta lo story-board di un possibile progetto di trasformazione, o meglio di infiltrazione trasformativa, di Porto Marghera, tale da riciclare i pezzi di quel magazzino disordinato di cui si diceva all’inizio in una più o meno ordinata e probabilmente prevalentemente notturna costellazione (starry starry night) di almeno sei stelle e di una larga macchia di polvere di stelle (stardust memories), che forse a qualcuno potrà ricordare il planetario di Sarah Sze. Eccovi un elenco rapido dei sei+sei progetti-installazioni in forma di provvisoria biblioteca: - un albero (delle idee) piantato nel bel mezzo della palestra dell’exDopolavoro Montedison, da anni in abbandono causa-sequestro e occupato marginalmente da non meglio identificati abitanti emarginati: una biblioteca virtuale fatta da un solo albero e da un largo vuoto intorno, che certo piacerebbe a Yoko Ono: imagine all the people above us only sky - una biblioteca-zattera galleggiante su una nuova darsena di fronte al suddetto ex-Dopolavoro, polo di una nuova rete di canali che dovrebbero innervare l’area, diramandosi dal canale attuale e sostituendosi ai binari ferroviari più o meno dismessi… camminando e flottando sull’acqua come normale per ogni veneziano che si rispetti… - una biblioteca-vagone ambulante che come un metrò leggero, forse anche musicale, percorra i binari di Porto Marghera facendo capolinea al centro Rivolta, finalmente riannodato allo spazio pubblico fuori da recinti fisici o ideologici che essi siano…

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- una biblioteca-ponte, alzata su esili gambe come la Peckham Library di Will Alsop, per unire la città-giardino del Cristo Lavoratore con la cittàrivolta dei poveri cristi, scavalcando il viale dei Fratelli e delle Sorelle Bandiera, peraltro gioiosamente illuminato dalle nuove “lanterne per lucciole” ideate da Laura Tinti, unica missionaria studentessa del corso di arti avventuratasi nella folla di giovani aspiranti architetti… [Laura Tinti, laureanda in arti visive all’Iuav, ha progettato durante il workshop un prototipo di “lanterna per lucciole”, ora in via di realizzazione]. - un villaggio digitale, Marghera by-night, che con luci, colori e suoni illumina la notte della Banchina Molini, highlight di monumenti industriali sull’onda di un’altra passeggiata artistica famosa, quella dei monumenti di Passaic di Robert Smithson: qui la biblioteca è fatta dalla gente e dai suoi racconti, dai monumenti e dalle loro memorie, e si trasfigura nella performance notturna di suoni e luci… - un’invasione di ultracorpi in forma di traslucide meduse che ripopolano la medesima Banchina Molini, uscendo dal canale e trasformandosi in luminosi padiglioni del sapere, all’ombra degli oscuri giganteschi tralicci piranesiani della banchina portuale e del moderno viadotto stradale… - una biblioteca-galleria che attraversa l’isolato da via dell’Atomo a via dell’Elettricità (che bei nomi ha la toponomastica da Monopoli di Porto Marghera!), infiltrando il deposito della jeanseria Golden Goose, culminante in una grande sala-ponte i cui spazi di accoglienza sono pensati come confortevoli sacche tessili entro cui morbidamente abbandonarsi alla lettura (di nuovo e non a caso pensando a Peckham Library) … - una seconda biblioteca-galleria nello stesso isolato, formata da una struttura spaziale alla Sol Le-Witt che organizza una sequenza di spazi di lettura ispirati alla produzione della zona industriale e non solo… - un’espansione del nucleo di studi artistici e professionali di Pila 40, che riconnette e disvela la fitta rete di spazi laboratoriali e di produzione artigianale che infiltra quella zona, costituendola in un ganglio vitale della comunità di Porto Marghera, ricaricando la pila… - una seconda proposta che interpreta l’isolato di Pila 40 come uno strato archeologico poroso nei cui vuoti, trasformati in giardino, insediare nuove attività socio-culturali, come le pagine di un libro aperto sul futuro… - una biblioteca a padiglioni aggrappati ai fusti delle colonne o agli alberi che ripopola, a partire dallo straniato colonnato (berniniano?) del cavalcavia, un nuovo parco della cultura ricollegandosi alla stessa Pila40… - infine, un’analoga biblioteca a padiglioni, che viceversa affiorano dal terreno dello stesso parco come misteriosi bunker e lo trasformano in un luogo di scoperta, fino al bordo del suddetto colonnato berniniano… Fine del sogno. Pregasi riciclare.

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NARRARE I PAESAGGI DEL CONTEMPORANEO A SUD Mauro Francesco Minervino >MIUR AFAM

Statale 18, flora, fauna e cemento Come antropologo e narratore non ho avuto bisogno di andare lontano per affrontare le mie ricerche e dar forma al mio raccontare, poiché il mio campo è diventato nel tempo il luogo dove vivo e lavoro. Il mio altrove, il paesaggio al centro delle mie quotidiane osservazioni negli ultimi anni, è stato quello della diciottesima statale italiana. La strada che da anni percorro senza sosta: «La mia vita spesso è un giro a vuoto. Il mio mondo un ago in un groviglio di strade». In fondo a sud, La Calabria brucia e Statale 18 sono i libri dove ho raccontato e messo a tema gran parte delle mie analisi. La statale 18 è lunga 535 km e collega Reggio Calabria con Salerno nei suoi due sensi. La statale 18 è diventata col tempo il centro archimedico della mia geografia umana, il paesaggio di fondo del mio perenne errare, un viaggiare quasi ossessivo, dromofiliaco, senza sosta. E’ cos’ che Statale 18 è diventato anche il titolo del mio libro più noto, che Andrea Di Consoli definisce autoptico: "l’autopsia di un mondo nuovo che sta crescendo e che nessuno riesce a capire bene". Statale 18 non è un libro di viaggio o una guida o un saggio di antropologia. E’ un’immersione fisica e narrativa su un groviglio di strade che pantografano e amplificano a dismisura ricamano il luogo in cui vivo. E’ un’autofiction del contemporaneo al Sud. Che cosa intendo per autofiction lo spiega lo stesso Marc Augé, antropologo-narratore, autore di romanzi e narrazioni

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culturali e civili di cui i libri che scrivo sono spesso ampiamente tributari: "Io riconosco alla scrittura la stessa attività “simbolica” che unisce l'autore ai suoi lettori attraverso un vincolo forte e segreto, perché il senso dipende da ciascun lettore. C’è una continuità tra l’antropologia e il romanzo. Si tratta di due scritture parallele, ma di segno inverso. L’antropologia tenta di analizzare i fatti sociali ‘come delle cose’ (Durkheim), e si ferma davanti alla diversità delle soggettività individuali. Il romanzo segue sempre il percorso inverso: parte dalle soggettività individuali e tenta di illuminare attraverso di esse il contesto storico e sociale". Credo che la complessità che manifesta la contemporaneità al Sud, con tutte le sue contraddizioni e le sue approssimazioni, abbia bisogno dei due momenti, oggi come ieri. Già nel Settecento e nell’Ottocento molti grandi autori praticavano generi letterari differenti, e credo che oggi la complessità dei fenomeni tipici della contemporaneità, dove tutto confluisce e si accavalla in una sorta di convergenza sempre più affollata di fenomeni e di tratti culturali ambigui e inestricabili (la presenza pervasiva della comunicazione e dei media, la pubblicità, la spettacolarizzazione di ogni aspetto della realtà) abbia ancora più bisogno che nel passato di essere raccontata incrociando una molteplicità di linguaggi e di forme di racconto. Lo stesso Marc Augè (dopo Victor Segalen, Michel Leiris e il Levi Strauss di “Tristi Tropici”), sono stati maestri e anticipatori di questo genere di narrazioni partecipate. È sempre più necessario che la letteratura classica, eredità del romanzo borghese, con protagonisti e trama, si rinnovi nella narrativa civile, nell’etnofiction che nasce dal crepuscolo dei nostri tempi privi di finalità. È la cifra di un genere ibrido ma necessario. Un narrare con metodo etnografico luoghi e persone, ambienti e paesaggi urbani e sociali, che personalmente mi affascina per sensatezza e gusto di verità. Certo quello che scrivo in prima persona e con il peso della responsabilità, resta distante anni luce dalla fuffa letteraria di certi scrittori e pensatori alla moda di casa nostra. Non mi va di fare nomi (sono molti), ma penso soprattutto a certi colleghi -scrittori e antropologi- salamandre del posizionamento, amministratori delegati delle opportunità della penna, velinari ben addestrati a trovare partito, proni al buon compromesso, che poi si spacciano per vittime al primo soffio di vento contrario (specie se si perdono i soldi al cambio degli assessori, se qualcuno si permette la critica, e smarrisce momentaneamente la via maestra delle consulenze dei ministeri), e anche a quelli che ancora scrivono romanzetti presepiali sul sud, sulle tradizioni, sulla nostalgia e il ricordo del bel mondo andato. Sono, inoltre e più gravemente, nemici giurati della bellezza vera, di cui spesso straparlano, che invece non sta mai lontana dalla verità, dal gesto ravvicinato della prossimità al reale, dalla faticosa indispensabilità della prassi, dalla cura.

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Il fondo del mio vagare per statale 18 è l'asfalto Noi meridionali abbiamo davanti una costituzione materiale d’asfalto e di cemento. L’asfalto, come materiale costruttivo, con l’insieme di ferro, calcestruzzo armato e vetro, ha caratterizzato le metamorfosi del paesaggio e l’intero ciclo delle le trasformazioni urbane dalla fine dell’ottocento a oggi. Un aspetto spesso sottovalutato dagli analisti delle vicende urbane. L’architetto e teorico Mirko Zardini nel 2003 gli ha dedicato uno studio, riposizionando l’asfalto tra gli artefici del carattere della città. Il connubio asfalto e calcestruzzo armato fa da sfondo all’intera narrazione del mio libro. E’ il fondale che sostituisce la natura e caratterizza il continuum del paesaggio sociale, poiché l’asfalto e il calcestruzzo armato sono incistati nella cultura di questi luoghi. Mi sono chiesto a lungo perché? Se questo è il carattere prevalente della città meridionale o non piuttosto del suo essere una superfetazione surmoderna del suburbio. Una forma surmdeterminata dalla modernità, che sostituisce l’assenza di città in cui proprio questi elementi “estesi” della scena contemporanea trionfano più tristemente. La città è il luogo del logos, dell’immaginazione nascente, della misura e dell’armonia col paesaggio, anche per la molteplicità dei suoi materiali, oggetti, costrutti, per l’insieme di quell’impasto di materie e stili armonizzati dall’architettura che ne fanno il volto e l’edificio. In fondo il cemento come l’asfalto rappresentano invece il grado zero, l’infinita fungibilità della materia tecnologica, l’informe, il pre-logico dell’architettura. Sono come il pongo. Rappresentano efficacemente il climax della dimensione casuale. Della piena strumentalità della tecnica. Del vuoto per il pieno (ferro, asfalto, cemento e vetro passano tutte da uno stato liquido a uno solido). Formano quella metamorfosi tecnologica delle “archai”, che Hillman ne L’anima dei luoghi chiama la “res extensa”, ovvero il dominio della materia pesante, coprente, della tecnica edilizia che impedisce la sinossi tra passato e presente. Sono l’impasto edificato e pervasivo di quel presente continuo e senza prospettiva che caratterizza la pratica sociale dello spazio, il conglomerato del cattivo gusto architettonico che è lo “cosa lucida e infima” delle nostre società. Personalmente odio il cemento e l’asfalto, il calcestruzzo, il vetro. Credo che questa detestatazione per i materiali freddi, astorici, coprenti e perfusivi, si legga sempre con rabbia nelle narrazioni sui luoghi e sugli abitanti che ho messo insieme nei miei libri. Oggi con questi materiali costruiamo in modo orribile e definitivo, non-osmotico, ovunque sia possibile costruire, consumando, appesantendo la terra, appestando ciò che resta della bellezza del paesaggio con il brutto. E’ la materialità strabordante del cantiere, ridondante, eccessiva, in tutte le sue forme incongrue. Ne soffre la natura intera, le nostre percezioni, l’estetica, oberati come siamo dalla peste liscia o screziata del cemento. Bisognerebbe riguadagnare spazio, demolire, ripristinare la natura-naturale (ovvero lasciar fare alla natura),

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ritornare al concetto del limite, al tabù sacro dei luoghi in cui è interdetto costruire. Questo luogo inedificabile, laddove oggi sarebbe impensabile costruire la bellezza. Ma avremmo bisogno di un sentimento del sacro per i luoghi che abbiamo smarrito. Del silenzio. Della cesura. Il nastro d’asfalto, la strada è il trionfo dell’impermanente, del caos, del passaggio continuo verso la fungibilità della forma. Delle esistenze “adesso”, delle vite asfaltate via. È scomparsa la cura. Se nessuno pensa più al "prima", figuriamoci al "dopo". La bellezza è stata una cosa scabra e leggera, fragile per lo più. E non aveva, non ha, bisogno di strade. Qualcosa può durare ancora oggi, se conserveremo, interrogandoci senza scampo, senza opprimere i luoghi sui cui la bellezza è stata già da tempo edificata. La custodia, il custodire che spetta gli umani è l'ultima ombra del sacro. E a proposito del mio vagare su e giù per la SS 18, confesso che per me vivere sulla strada va oltre l'osservazione, registro altre sensazioni: spesso è come essere ospiti d’onore nei diorami tetri del destino, della fatalità che governa gli incidenti, la baraonda del traffico. Le barriere costruite dall’uomo per fare argine alla vita sono artificiali insufficienti, e non c’è nemmeno il tempo per una preghiera ai vecchi santi di cartapesta dei paesi, che ormai sono divinità distratte e sorpassate dal traffico. Anche se su questa stradea del Sud seminata di scheletri di ferro e calcestruzzo non hanno smesso di costruire orribili chiese di cemento, anche nei villaggivacanze. Chiese che nessuno frequenta. La strada è un cenotafio: pareggia tutto al manto dell’asfalto, vita e morte sono sullo stesso piano, come una trappola paziente. L’immortalità è un fazzoletto di terra ancora risparmiata dall’erba cattiva oltre il bordo dell’asfalto. Speranza e risentimento si toccano nell’andirivieni di ogni ora. Malgrado tutto amo questa ridondante devastazione, questa invasione del nuovo disordine Mediterraneo che, lontano e vicino, lascia qua e là interstizi e asili di passato, frustoli di natura deturpata (case coloniche e fienili in disuso, interi paeselli svuotati e corruschi, giardini frondosi di ville un tempo signorili, vecchi fabbricati invano baciati dal sole, una fiumara intasata dalle fogne, qualche vecchia torre costiera assediata dagli abusi, un padiglione ferroviario arrugginito, un bosco di tamerici vicino alla discarica di mucchi di gomme usate). È perché sono convinto che in questi luoghi di deliquio sia stata racchiusa una rivelazione di durata che va oltre l’impermanenza, la provvisorietà che è la legge del contemporaneo a queste latitudini, o quantomeno l’impronta della sua promessa disattesa. Io a queste cose penso ogni volta che faccio le mie strade. In Statale 18 ho scritto che "Ci vuole il senso della bellezza per cancellare le brutture, per restituire integrità e incanto ai luoghi. Ci vuole la forza dell’immaginazione, che non basta mai. Che qui, in fondo a tutto, è la cosa più faticosa da salvare". Il ragionamento è aperto, ci rifletto anch’io da molto tempo, e in direzioni diverse. Il concetto e la pratica sociale della “cura”

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inevitabilmente riconduce al passato, alla tradizione, a conoscenze, saperi, sensibilità perdute. La cura è quella forma dell’essere che riporta la pratica sociale dello spazio al fare anima con le cose, con le case, con le archai della vita naturale e dell’ambiente domestico. Era la condizione prossima al sacro che collocava l’uomo e la sua posizione nel mondo e nella natura prima dell’era della tecnica: una forma dell’essere nel tempo e nei luoghi che rinvia ad un paesaggio che era l’autentico fondamento del pensiero antico. Da noi quest’antichità è durata fino a neanche mezzo secolo fa. C’era una religione, una metafisica dei luoghi che abbiamo perduto. A vantaggio dell’illusione demiurgica dell’estensione delle superfici costruite, dello spazio occupato dagli ingombri inutili, dal primato dell’economico sulla bellezza, sul paesaggio, sulla natura soffocata. Basta ricordare cos’era un tempo la misura dell’abitare umano; un paese, un villaggio, una contrada rurale e la stessa città preindustriale, prima del cemento, del ferro, del vetro. In realtà dimentichiamo come costruire, abitare e pensare siano in fondo la stessa cosa. Oggi vi ritroviamo insediate le stesse patologie. La risposta falsa alla medesima angoscia di senso. Con l’espansione della tecnica noi tutti sperimentiamo una sorta di apprensione indeterminata, dalla quale non possiamo sottrarci. Mentre il rimedio non può che essere il limite, il ritirarsi delle pretese di assoggettamento e dominio di tutto ciò che sta fuori di noi: la cura. Ci si deve prendere cura non solo di una singola esistenza, e non solo nel tempo-ora nel quale tutti sembriamo gettati come ombre di passaggio, ma in generale delle diversi entità che ereditiamo dal passato, dalla storia, dalla memoria di ciò che vi è di umano nei luoghi, nel paesaggio; cioè di “cose” che incontriamo nel commercio-ambientale con il mondo in cui già ci troviamo. La parola cura indicava per gli antichi due termini apparentemente lontanissimi, come angoscia e protezione; “cura” potrebbe essere reso nella nostro linguaggio di contemporanei con l’espressione pre-occupazione, che indica appunto sia l’atto del preoccuparsi, del prendersi cura, che una situazione preoccupante, carica di interrogativi e prospettive inquietanti. Ecco, io scrivendo “Statale 18” ho sentito su di me, nel paesaggio che attraverso, nel caos indistinto che proviene dalla strada, quest’ansia di protezione. Ad un certo punto della vita ho scoperto che ci sono luoghi che per me contano più di tutto. Luoghi che si segnano dentro di me. Luoghi che sono lontano, vicino, non importa dove. Ma luoghi che hanno una forza, un richiamo di calamita. Marc Augè ha scritto di recente che per gli abitanti del contemporaneo: "La perdita del luogo, è come la perdita di un altro noi, dell’ultimo altro, del fantasma che ci accoglie a casa quando torniamo da soli". In questi anni sono andato alla ricerca di relazioni e d’interrogazioni profonde che sorgono da certi paesaggi, che insegnano a riconoscere e ripensare i luoghi e i segni smarriti dell’abitare umano anche nello spazio del “tutto pieno” che oggi circonda le nostre esistenze in un mondo

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apparentemente privo di un orizzonte comune, senza finalità. Un viaggio che per me è attraversare i luoghi tra fughe e ritorni, registrando illusioni e scoperte, incontri con testimoni noti e sconosciuti, per cercare sempre, dentro e fuori di noi, il riparo di un luogo necessario. Rinnovando così il senso precario e la profonda moralità di un’incessante ricerca di orizzonte, di un “paese” più grande. Di recente ho potuto rivedere un film girato da Marco Bellocchio alla metà degli anni ’60 a Paola. Un documentario politico sulle lotte per la casa. Le case di allora erano quelle insalubri e malsane, “vecchie” - talvolta di secoli. Erano le case degli antenati, nel cuore del paese; abitazioni misere ma al centro di rapporti di vicinato e di relazioni forti, identitarie, tipiche di un centro storico millenario come quello di Paola, nei quartieri del Cancello, La Motta, Porta Macchia. Gli abitanti di allora erano poveri, emigrati, malvissuti, marginali. Conoscevo quella gente e quelle case. La casa di mia nonna nel quartiere Motta era una di quelle. Io ho vissuto in una di quelle case e da bambino sono cresciuto lì, in mezzo a quella gente, prima di trasferirmi con i miei genitori in un appartamento nuovo, costruito per gli alloggi di servizio dei ferrovieri, nel quartiere dei ferrovieri dove vivevano solo ferrovieri e famiglie di ferrovieri, sopra la stazione di Paola. Palazzoni squadrati e un’aria di periferia operaia invece dei vicoli con i panni stesi e della mescola sociale che stava dentro le vecchie case di pietra di via Cancello e della Motta. Allora quello era il progresso. Si pensava che bisognasse toglierli da lì gli abitanti dei quartieri poveri. Nessuno immaginava di dover risanare, di portare in quelle vecchie case condizioni abitative decenti, servizi civili, scuole. Magari qualcuno pensava che fosse venuto finalmente il momento di abbattere quelle vecchie case, feticcio ingombrante del passato infelice e sottomesso toccato alle plebi del Sud. Quelle lotte per il “progresso” -ingenue, sommarie e cariche di ideologia maoista- portarono alla fine dei risultati, salutati come risolutivi, una definitiva liberazione sociale e politica per la vita di quegli abitanti. Furono costruiti gli alloggi popolari, le case “nuove” dello IACP, a fianco del nastro d’asfalto della statale 18. Sono passati molti decenni anni e più dal film di Bellocchio e quella gente di Paola cui furono assegnate le case popolari, le case nuove, abita in condizioni persino peggiori, in alloggi brutti e malsani -un piccolo ghetto di abituri di cemento degradato che è diventato negli anni un incubatore d’infelicità, di delinquenza e anomia sociale, ed è ancora diversamente povera, malvissuta, marginale. Magari con la moto grossa o il suv parcheggiato sotto casa. Mi sembra una parabola utile a chi cerca un dialogo critico con la tradizione senza tradire le necessità pratiche –culturali, civili e politichedi abitare in modo consapevole, sostenibile e partecipato i luoghi di “adesso”, mettendo in atto le necessarie contromisure al degrado, ridando corso a un’immaginazione che favorisca le istanze di superamento di quell'ideologia disumanizzante, anzi di quell’autentica dittatura del

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“presente”, cui sembra ci siamo tutti arresi. Io per conto mio continuo a cercare un “appaesamento”, un senso dei luoghi dell’abitare che possa salvare il senso del “dimorare sulla terra”, che possa offrire ancora un riparo alla bellezza, anche nell’infinita e affollata solitudine che oscura il nostro presente. Contro ogni paesaggio, luogo di natura e occasione d’incontro umano ridotto alla stregua di “res extensa”; merce, oggetto, misura del consumo. Nella radice più umana che definisce il senso dell’abitare, “praticare lo spazio”, scrive Michel De Certeau, ripreso da Augé, in realtà significa regredire, sottrarsi a queste logiche distruttive e disumanizzanti; “significa «ripetere l'esperienza esaltante e silenziosa dell'infanzia: nel luogo si è altro e si passa all'altro»”. Certo oggi si “abita” ovunque, qualsiasi spazio è antropizzato, trasformato dall’esperienza dell’uomo e dalle sue attività pervasive, ma quale spazio è davvero umano? Cos’è il diritto alla bellezza in questi luoghi-non luoghi? Cosa significa risiedere? E viaggiare in un modo sempre più asservito alle logiche dello sfruttamento intensivo e globalizzato dalla corsa ai consumi e dalla turistizzazione forzata? Spesso le nostre forme di occupazione dello spazio non danno luogo se non alla tecnica, alle forme del consumo, all’economia e alla strumentalità dei suoi scopi, alla generale fungibilità dei valori; ma è un abitare lo spazio manchevole di domesticità e di bellezza (privo cioè per sua stessa natura di stratificazioni e punti di riferimento condivisi che riguardano gli orientamenti estetici e morali, la storia e la memoria, non solo dei singoli individui, ma di comunità identificate), mutilato in via definitiva della possibilità della “differenziazione”, cioè “del riconoscimento di sé in quanto sé e in quanto altro”. In fondo anche la strada che io racconto in Statale 18, una narrazione il cui modello, l’ho già detto, è l’etno±ction di cui scrive Augé, è uno di questi luoghi paradossali, fatti per l’impermanenza, per il passaggio, per il traffico dei mezzi, per il transito di merci e persone. Un luogo in continua rotazione, popolato di persone e di oggetti che invece assommano e moltiplicano sempre più, in mezzo a “una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati” (Augé), i luoghi della residenza, della vita, dell’azione. Tutto trasformato però in un precipitato di eventi, di abitudini e di costrutti materiali e simboli inscritti all’interno di un ordine sempre più precario, disperso in percorsi sempre più pericolosi e instabili. Anche nel caso delle contraddizioni che io ho tentato di raccontare in un libro come Statale 18, non differentemente da quelle che affrontiamo nella decifrazione dell’endiadi globale luogo-nonluogo, ogni spiegazione attuale non può sfuggire alla logica di una doppia rappresentazione tipica della prassi e del metodo dell’etnologia, esattamente come la radice che chiarifica il significato dei miti e fornisce la chiave di decifrazione delle culture di livello etnografico scaturite dalla crisi dell’era post-coloniale, la stessa che ha prodotto la mondializzazione in cui tutti viviamo. Ritornando al Sud, all'aspetto dei paesaggi che attraverso quotidianamente,

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alle realtà urbane e sociali con le quali ho maggiore consuetudine e con le quali mi confronto più da vicino, in questi decenni è stato come assistere allo sgretolamento e al crollo di un argine spazio-temporale: la gente ha sostituito bruscamente i blocchi identitari di un passato che legava ad un senso, sia pur limitato e regressivo, di comunità, alla geografia ritrosa e alla statica della vita dei paesi di cui restano i simulacri della storia e le vecchie abitazioni ora abbandonate, con un nuovo modello di relazioni veloci e atomizzate, fortemente individualizzate, rivolte ad una dispersione che si lascia assorbire totalmente dalla mobilità e che trova un catalizzatore generale nel movimento necessitato e caotico verso i centri del consumo (anche in tempi di crisi), nell'adesione alla calamita della strada, sulle cui sponde non sorgono nuove città ma piuttosto “bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta” (Augé). Un paesaggio umano e sociale al quale purtroppo, specie al Sud, tendiamo tutti ad assuefarci. Perciò questi luoghi ambigui e inestricabili che intrappolano le nostre esistenze in prisma opaco e senza ombra di bellezza, non devono restare privi di racconto: “Il racconto infine, e in particolare il racconto di viaggio, mette insieme la doppia necessità di «fare» e di «vedere» («storie di marce e di gesta sono richiamate dalla citazione dei luoghi che ne risultano e che le autorizzano»), ma rimanda in definitiva a ciò che De Certeau definisce la «delinquenza», perché esso «traversa», «trasgredisce» e consacra «il privilegio del percorso sullo stato di fatto»”. Dunque oggi il paesaggio non include più solo i nonluoghi. Forse meglio includere oggi altre forme ibride, i “non più luoghi”, i “non ancora luoghi”; mentre più in generale va osservato, come ha rilevato dallo stesso Augé in uno dei suoi ultimi libri usciti in Italia, si registra una traslazione, una altro passaggio ancora più complesso che spinge la società contemporanea dai “non luoghi” ai “nontempo”, ovvero quella "miscela esplosiva precarietà, incertezza sociale e dominio della finanza che è amplificata dalla tecnologia e dai media, vecchi e nuovi, e sta cambiando sotto i nostri occhi l'esperienza individuale e collettiva del tempo". E questa deflagrazione si estende alla stessa sostanza delle nostre vite. Facendo dilagare l'incertezza, rendendo epidemico il timore di ciò che ci aspetta, con la riduzione dei tempi della vita a frattali privi di unitarietà e di prospettiva, tutti interni all’eterno presente che avvolge le nostre esistenze massificate e ormai variamente dislocate nello spazio e nel tempo. E’ questo stesso mondo con le sue aporie che torna a fare problema nello sguardo di un’opera di narrativa civile, diventando il soggetto di un'etnofiction come quella che ho tentato di congegnare in Statale 18. La sua rappresentazione non può che essere attratta dall'ombra, dalle buche e dalle faglie che si aprono nel terreno, non può che aprirsi al non detto, a una registrazione dei mutamenti più drammatici e repentini, alla comprensione di aporie e controversie, a ciò che vi si presenta in modo abnorme, a quello che accade tra le pieghe oscure di un presente incerto.

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Non amo le opere di consolazione. Magari è una mia ossessione, non so. Ma io scrivendo ho deciso di affrontare un “nodo cronotopico”, un luogo del tempo e della vita che si estende (anche) intorno a me, che mi assilla perché ricapitola e narra con prepotenza il suo volto ippocratico, un almanacco di contraddizioni segnato in modo bifronte, colorato da sfumature ambigue, da tinte ben più fosche e per ora dominanti, come accade nella gran parte dei racconti che ho raccolto direttamente dalla strada. Certo occorre lavorare sempre nei due campi dialettici della realtà, ma sceverandone gli aspetti con assoluta nettezza e separazione. Il progetto politico è una cosa che riguarda il futuro, anche se raccoglie i germi del presente. Nell'opera letteraria la violenza è presente per necessità, lo stato delle cose è preponderante e prende il sopravvento come sempre accade sempre quando si narrano storie di luoghi e di persone che agiscono in una quotidianità scandita dal contrasto, dal caos e dal pericolo. Cercare uno spiraglio per intravedere delle possibilità di redenzione è obbligatorio, altrimenti si scivola nel nichilismo, nel compiacimento per l’orrore fine a se stesso, nella resa al dato di fatto. È vero: anche in mezzo al mostruoso blob che cresce sul nastro d’asfalto della SS18, ci sono impensati asili di civiltà e di decoro, dimore per l’umano, un abitare domestico, un senso comunitario. Ed è certo che ci sia bisogno di una nuova identità civica poiché quella che abbiamo ereditato dal passato è proprio una delle cause principali della realtà che combattiamo e che oggi non può essere più tollerata. Ma detto questo, quanto queste esperienze che pure riconosciamo sono ancora incerte e insidiate, chi sta vincendo la partita? Bisogna sempre varcare una soglia critica che dal mondo così com'è porti verso qualcos’altro; ma occorre munirsi di un animo saldo e resistente, e di una grande immaginazione (come consiglia Augé), per fare in modo che certi varchi ancora sospesi e appena visibili diventino davvero una porta aperta per il futuro, per il futuro di molti e non di pochi. Anche il mio racconto della SS18 non si nega a queste speranze, offre nella sua narrazione piccoli appigli ad un percorso di redenzione. C’è un cammino che si intravede appena nella polvere, che però richiede responsabilità e determinazione. Per ora resta sconnesso e ancora tutto da fare. Quello che è veramente inedito -tanto che lascia sorpresi e impreparati a fronteggiare l’incessante catena di eventi che si producono nel paesaggio urbano e sociale dei nostri luoghi- non è solo la velocità delle trasformazioni rispetto alla stagnazione del passato, le rapidissime accelerazioni che io stesso posso registrare nel paesaggio anche a distanza di pochi mesi, ma è piuttosto la simultaneità e l’enorme dislivello nella qualità dei cambiamenti in atto. Come se la realtà scorresse sempre su un doppio binario. Come se il divedendo del progresso civile che faticosamente tentiamo di mettere a frutto, con tutto quello che si guadagna da un lato, venisse vorticosamente dilapidato dall’altro con l’impazzimento del traffico e delle betoniere, con l’inarrestabile consumo di suolo, con l’offesa costante alla legalità e

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alla bellezza. Basti pensare al peso delle mafie sui territori, all’enorme questione ecologica e ambientale (oltre che estetica) che non cessa di investire e brutalizzare il paesaggio calabrese, che continua a essere sfigurato dagli abusi e dalle colate di cemento. Tutto sembra procedere all’insegna di un caos incontrollato, di una mobilità folle, esasperata, in cui mobilità significa anche l’occasionalità, la casualità, l’impulso a distruggere e negare, in cui tutto è compresente, mescolato in modo indistinto, una cosa sale sull’altra, tutto è sottosopra, senza mai arrivare a sintesi, a una qualche ragionevole forma di riposo. Questa continua “rotazione” (un’altra figura che la strada mi suggerisce sempre) rende quasi indecifrabile non solo ogni tentativo di previsione a lungo e medio termine, ma spesso anche la semplice comprensione dei fatti elementari, le scelte quotidiane. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante l’ingresso di nuovi protagonisti attivi sulla scena della storia. È il contrario di quello che si pensa comunemente della civiltà tecnologica che sarebbe perennemente protesa verso l'innovazione. Invece siamo prigionieri di una sorta di eterno ritorno scandito da giri sempre più accelerati e veloci, non più dai rintocchi dei vecchi campanili dei paesi, ma dai palinsesti televisivi, dalla pervasività dei media, dall’apertura di un nuovo centro commerciale sulla strada di casa, dalle conseguenze delle nuove tasse sui nostri redditi già falcidiati e dai giochi impazziti della finanza globale che ci priva delle poche sicurezze che ci siamo guadagnati per l’avvenire dei figli. Viviamo tutti più a lungo, ma iniziamo a esistere e a contare come persone sempre più tardi, precari e privi di ruolo sociale come siamo. Il tempo è diventato l’unità di misura di tutto, anche dello spazio. Quando usciamo non parliamo più in termini di distanza chilometrica ma di tempi di percorrenza. Della strada da fare. Di ore di macchina. Dell’alternanza dei mezzi da prendere se devi spingerti oltre. Due ore di volo. Tre di alta velocità. Quattro di autostrada, due di superstrada. Anche i nostri riferimenti locali nella mappa della vita quotidiana sono sempre più larghi e confusi, sono quasi globali, non più solo regionali e nazionali. Viviamo in ambienti ibridi, in città provinciali che non sono più i paesoni di una volta e in paesi rigonfiati che ancora non diventano città. L’insieme di questi luoghi dislocati in cui passiamo la gran parte della nostra vita tra uno spostamento e l’altro forma una nuova geografia, un’unica immensa provincia dai contorni slabbrati, un'inedita territorialità fatta di continui attraversamenti, di confini mobili e di scenari mutevoli, di incontri e scambi umani nuovi e faticosi, ma niente affatto virtuali. In questo senso la tecnologia e l'economia sono più veloci e potenti della politica. E’ anche per questo che la politica, specie al Sud, è ormai ridotta a una sorta di governante abborracciata, a semplice gestione di consumi e servizi eterodiretti, qualche volta gestiti mettendosi persino al servizio della criminalità e delle mafie, che invece sono veloci, ricche, violente, organizzate, e sanno trarre profitto da ogni nuova occasione. Abbiamo bisogno di antidoti efficaci. Prima di tutto: ricostruire il corpo

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sociale ed estenderlo alle pratiche sociali dello spazio. C’è bisogno di pensiero meridiano e delle buone prassi di un’ecologia della politica e della vita quotidiana. Senza rinnegare l’esercizio della critica e la varietà del mondo in cui tutti oggi viviamo, basterebbe una rinascita dello spirito civico, il senso ritrovato della comunità, con il riavvicinamento a ciò che abbiamo di più prossimo, all'ambiente naturale, alle memorie e alle cose che stanno intorno alla casa e alla famiglia, alle pratiche della cura, il sentimento dei luoghi, un’affermazione attiva e consapevole della cultura dei limiti contro lo spreco, la bellezza e la misura contro la devastazione e lo sfruttamento. Per fare queste cose anche in Calabria le due priorità assolute sono il potenziamento immediato dell'istruzione pubblica (insegno e conosco bene la situazione) e il raggiungimento effettivo dell'eguaglianza fra i sessi, indispensabile anche alla ricerca del lavoro giusto e per la libertà di tutti i giovani. Detto in altre parole: la scuola e le donne. Deve ripartire da lì, dalle donne e dall'istruzione, dalla libertà e dal lavoro, anche ogni forma di liberazione e di lotta concreta ai poteri criminali, alla malapolitica, alle mafie. Forse così diventeremo davvero, e senza più rimpianti, un paese più grande. Quando la attraverso in macchina, mi rendo conto che certe volte la realtà allineata sulla strada presenta le variazioni di una “suite”. In certi momenti fa risalire all'orecchio l’eco di fondo del suo rimbombo tellurico più sordo e cupo. In altri passaggi ha la grazia di un teatrino surrealista delle marionette, poetico ma disequilibrato e sbilenco. Talvolta la nota sale di intensità verso le tonalità acide del traffico, dei clacson, delle discoteche estive, ma più spesso si apre al conforto di risonanze più distese. Perfino al silenzio; c’è pur sempre il mare, il profilo dei monti, la luce meridiana a sovrastare il panorama di macerie che si alza ai lati della SS18. Forse resta valida la definizione che ne ho dato in epigrafe, all'inizio del libro, citando per presentare la mia suite dedicata alla strada della mia vita, la Statale 18, il testo di Hyper Ballad. Quella bellissima canzone che fila nell'intonazione stregata dalla voce di Bjork, un suono che sembra raccontare i luoghi e le persone che amo: "viviamo su una montagna\ proprio sulla cima\ c’è una vista bellissima dalla cima della montagna\ ogni mattina io prendo la strada in basso e la seguo fino ai suoi limiti\ faccio tutto questo prima che tu ti svegli\ per sentirmi felice di essere in salvo qui con te". È una musica dolce, ipnotica e un po’ avvelenata.

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01 - Paesaggi del non finito. Reggio Calabria 2009. Foto di V. Leto


ABITARE ILLEGALE E PAESAGGI LEGALIZZATI. VERSO UNA TEORIA DELLA DEMOLIZIONE E DEL RICICLO Rita Simone >UNIRC

Premessa Nonostante nell’altissima concentrazione di insediamenti lungo la costa i dati statistici individuino una cubatura realizzata in eccesso rispetto alla popolazione insediata, il problema della casa, anche in Calabria, si presenta come uno dei temi principali di questo particolare momento storico. Qui come altrove, infatti, investe condizioni di natura economica, ha una ricaduta sul mercato del lavoro, obbliga a riflettere su spazi destinati a nuovi modelli, richiede al pubblico l’attivazione di politiche adeguate alle esigenze di una compagine sociale differenziata. Alla paradossale condizione che vede la richiesta dell’abitare rapportarsi ad un surplus di cubatura inutilizzata si associa, inoltre, la criticità di un paesaggio devastato da forme di abusivismo illegale e legalizzato anch’esse in massima parte legate a fattori connessi alla mancanza di una politica volta allo sviluppo dell’edilizia residenziale pubblica. Appare evidente, quindi, come in questo specifico ambito geografico i due fenomeni siano strettamente connessi e richiedano strategie integrate. Se da un lato, infatti, la salvaguardia e il restauro del territorio necessitano di operazioni attuabili attraverso gesti cruenti quali la demolizione, dall’altro il bisogno ed il mantenimento dell’abitare si indirizzano verso politiche specifiche legate all’edilizia sociale e alla compensazione.

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Il tema della casa tra teoria e sperimentazione Indipendentemente dalla loro ricaduta geografica, le questioni di natura economica hanno investito l’intera nazione per cui la questione degli alloggi è tornata ad essere pressante richiedendo sia approfondimenti teorici e sia ricadute operative. Se da un lato, infatti, l’innalzamento della soglia di povertà, la mancata erogazione di mutui e l’aumento dei prezzi nel settore immobiliare negano a molti l’accesso all’acquisto o all’affitto contribuendo alla paralisi edilizia, dall’altro, l’inadeguatezza dei modelli tradizionali ha, più specificatamente, messo in crisi l’ambito disciplinare. Analoga crisi segna l’edilizia residenziale pubblica che mostra una sorta di cecità nell’individuare i reali destinatari dell’offerta non riconoscendo né la variabilità di provenienza, età e ceti, né la ricerca di una qualità estetica individuale, né, infine, i più recenti dettami volti ad un diverso approccio ideativo e costruttivo dell’abitazione. Dal punto di vista disciplinare l’architettura italiana ha grosse responsabilità in quanto, benchè si sia sviluppata a partire dal tema della casa, con l’apparente soddisfazione dei bisogni abitativi si è allontanata dalle proprie origini. Nonostante, infatti, si possa riscontrare un’analogia nell’esigenza di dare risposta ad un problema divenuto marginale rispetto all’irruenza di una architettura rappresentativa e di immagine, appare lontanissimo, oggi, il fermento iniziato in Italia tra gli anni ‘40/’45 e continuato nel periodo della ricostruzione postbellica. In quel particolare momento storico il tema della “casa per tutti” si caricò non solo della necessità contingente, ma si trasformò in una sorta di “palingenesi morale” [cfr. Rossi P. O. (1989), Una "casa per tutti". Un tema di ri²essione per gli architetti italiani negli anni della seconda guerra mondiale, in "ArQ", Quaderni della sezione "Sperimentazione progettuale" del Dipartimento di Progettazione Urbana dell'Università "Federico II°" di Napoli, n°. 2, dicembre] che coinvolse l’intero panorama architettonico nazionale in posizione arretrata, anche allora, rispetto alla cultura architettonica europea. Il grande fermento alla ricerca della “casa a basso costo” culminò, nel ’49, con l’istituzione dell’Ina Casa e con il “Piano per l'incremento dell'occupazione operaia”, eventi che se da un lato determineranno la concretizzazione delle teorie di quella che fu battezzata come la stagione del “neorealismo” [Tafuri M. (1986), Gli anni della ricostruzione, in Storia dell'architettura italiana, 1944-1985, Torino, pag 14], dall’altro avvieranno un progressivo allontanamento delle stesse. Nonostante, infatti, il primo settennio Ina Casa si distingua per una “irripetuta tensione realizzativa” [Purini F. (1985), Un' "Educazione sentimentale" all'architettura: la scuola romana dai primi anni sessanta agli anni ottanta, da "Lezioni e dibattiti al Corso di Dottorato di Ricerca AA. 1983-84", n. 8, Venezia, in F. Moschini, G. Neri (a cura di), Dal progetto. Scritti teorici di Franco Purini 1966-1991, Roma 1992, pag 227] e per la realizzazione di opere che divennero i manifesti di tale neorealismo, la

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politica del Piano Fanfani sarà volta più all’assorbimento occupazionale che alla sperimentazione teorica e produttiva. L’atmosfera utopistica e sperimentale che aveva contrassegnato le teorie sui temi sociali sulla base della politica economica di Einaudi, cederà il passo alle nuove emergenze di un Paese che vede ampliarsi il divario Nord/Sud e che ha come necessità l’uso dell'edilizia in funzione dello sviluppo delle piccole imprese e dell'intervento pubblico come sostegno al privato [Tafuri M., op. cit., pag 22]. Dal punto di vista disciplinare, inoltre, le esperienze di alcuni quartieri “manifesto”, quali il Tiburtino e il Tuscolano, anticiparono le nuove riflessioni teoriche che, a partire dagli anni ’50, si indirizzeranno non più all’oggetto quanto ai temi delle periferie urbane. Alla ricerca di terreni a basso costo, infatti, i quartieri Ina Casa si localizzeranno esternamente ai centri urbanizzati, stimoleranno la speculazione fondiaria e con l’aumento dimensionale degli elementi edilizi si perderà l’attenzione verso il singolo alloggio. Gli anni ’60, in pieno boom economico, si lasceranno alle spalle la guerra e le metafore della “ricostruzione del Paese come ricostruzione della casa” e della “ricostruzione della casa come ricostruzione dell'architettura" [Purini F., op. cit., pag 230]. Da quel momento in poi cesserà il sodalizio tra la ricerca architettonica e le forme dell’edilizia residenziale pubblica che, in mancanza di nuove visioni del vivere e dell’abitare, ha continuato a proporre quegli antichi modelli che, forse, solo attraverso l’ancora sperimentale “social housing” riuscirà ad abbandonare. Abitare meridionale e postmodernità Se è vero che il tema dell’alloggio non è più stato protagonista della ricerca architettonica non si può fare a meno di constatare come, per quanto espresso, la realtà ponga problemi di carattere quantitativo e qualitativo legati alle abitazioni. Sicuramente è una realtà sociale più complessa di quella post bellica e dello sviluppo economico degli anni ’50 e per la quale l’abitare si carica non solo delle esigenze riferite alla compresenza e differenziazione tra etnie, generazioni, nuclei familiari e ceti sociali, ma si esplicita all’interno della condizione postmoderna. Il postmodernismo dopo aver attraversato le discipline filosofiche e artistiche, ha prodotto nuove forme di pensiero e soggettività legate al cambiamento di un mondo caratterizzato dal relativismo e dalla sfiducia nelle grandi cornici teoriche [Harvey D. (1993), La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, (ed. orig. 1989) e Lyotard J. F. (2008), La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, (ed. orig. 1979)]. E’ questo il mondo in cui si colloca il nuovo abitare, un ambito da ricodificare, con inediti attori sociali e diversificate interpretazioni della realtà [cfr. Minca C. (a cura di), (2001), Introduzione alla geogra±a postmoderna, CEDAM, Padova]. All’interno di queste nuove geografie, che per implicazioni culturali, politiche

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ed economiche disegnano territori come organismi ad alta complessità [Magnaghi A. (2010), Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino, pag 17], va inserito il tema della casa soprattutto in riferimento al contesto meridionale e calabrese in particolare. Non più e solo, quindi, una questione legata all’ambito disciplinare, alla ricerca di soluzioni tipologiche o tecniche quanto, piuttosto, una problematica che si espande alle forme di territorializzazione, sia come esito dei bisogni e dell’agire collettivo e del singolo e sia come elemento di mediazione tra gli attori sociali [Turco A. (1988), Verso una teoria geogra±ca della complessità, Unicopli, Milano, pag 15]. Rispetto al contesto generale dei territori della postmodernità il Meridione assume caratteri di similitudine o profonda eccezionalità. Simili le condizioni legate all’abitare se si pensa alla compresenza di gruppi etnici, alla divaricazione economico-sociale e alla stringente crisi del mercato immobiliare e dell’attività edilizia; eccezionali, invece, in quanto esulano dalla norma, quelle legate alle forme di territorializzazione. Per quanto concerne la mescolanza di etnie unita al bisogno e all’uso diversificato del “bene casa”, è facile riscontrare come l’alta concentrazione di fenomeni migratori dal Nord d’Africa aggiuntisi alla storica presenza di comunità Rom, oltre a richiedere un riconoscimento delle culture abitative originarie ponga come fondamentale la risoluzione di tale bisogno. Se agli uni, infatti, prestatori d’opera a basso costo e alloggiati in condizioni inumane, va riconosciuto il diritto di un abitare civile, gli altri hanno da tempo sostituito al nomadismo un vivere stanziale: per entrambi è evidente come la risposta ad un bisogno primario sia il primo passo verso l’integrazione che la condizione postmoderna richiede. Per quanto riguarda, invece, la divaricazione economico-sociale bisogna dire che la prossimità alla soglia di povertà, che coinvolge un numero sempre maggiore di famiglie italiane, nel Meridione ha sempre rappresentato una condizione di normalità e da tempo si assiste ad un progressivo livellamento verso il basso. Lo stato di precarietà che ha connotato il Sud fino a raggiungere anche livelli di narrazione elevati ad opera d’arte, oggi è uno stato allargato alle fasce sociali intermedie, ha perso il carattere “poetico” ed infine, con il conseguente calo dell’attività edilizia, ha provocato la drastica riduzione del potenziale economico tradizionalmente investito nella casa come bene primario. Se però la risoluzione dei problemi legati al diritto alla casa e alle economie derivanti rientra nella consuetudine al punto da divenire un fenomeno globale, fortemente localizzata è, invece, la condizione di eccezionalità che vede tali problematiche scivolare da un “privato” specifico ed invadere quel “bene comune” che può essere considerato il territorio. Traslando, infatti, il concetto dell’uomo che territorializza lo spazio “appropriandosene concretamente o astrattamente” [Raffestin C. (1981), Per una geogra±a del potere, Unicopli, Milano, pag 150] è possibile notare come, qui più che altrove,

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il bisogno/necessità della casa abbia “territorrializzato”, più nel concreto che in astratto, un intero ambito geografico generando o degenerando paesaggi. La precarietà, generalizzata nelle sue manifestazioni sociali e formali, ha invaso territori e costruito paesaggi che nella destrutturazione e nella decostruzione ritrovano la loro essenza: queste “geografie deboli” [cfr. Destro N. (2013), Geogra±a delle case deboli. Oltre l’abusivismo edilizio, tesi di dottorato presso la Scuola di dottorato in Scienze Storiche, indirizzo “Geografia umana e geografia fisica”, Dipartimento di Scienze storiche, geografiche e dell’antichità, XXV ciclo, Università degli Studi di Padova, in http://paduaresearch.cab.unipd.it/5665/1/De-stro_Nicola_tesi.pdf] e dello scarto sono, in prima battuta, la conseguenza dell’appropriazione individuale di un luogo e di un diritto, ma sono anche il suo distorto riconoscimento sociale e culturale e ancora, infine, la contraddizione di uno Stato e di una politica che hanno finto di non vedere piuttosto che ammettere il proprio fallimento. L'illegalità del costruire Conseguenza dell’originario stato di povertà diffusa, unito al considerare la casa come unico bene economico e lascito alle generazioni successive è, paradossalmente, quel surplus di cubatura che, soprattutto quando residenziale, nel Meridione si colora di illegalità. Tali sono, infatti, le migliaia di abusi censiti lungo i 700 km di costa: case e ampliamenti per la famiglia, spesso predisposti per figli adolescenti, future coppie o giovani emigrati che sognano una pensione nel paese d’origine. Sono prevalentemente case quelle che popolano la “città stradale” calabrese [cfr. Minervino M. F. (2010), Statale 18, Fandango Edizioni, Isola di Liri]. Case eternamente in costruzione che hanno definito quel paesaggio del “non finito” anch’esso entrato all’interno della poetica della precarietà; case che dichiarano come autocostruzione, riciclo e abusività abbiano quasi sostituito allo stato di necessità del quotidiano l’acquisizione di un talento, l’affinamento di una vocazione di natura ereditaria ed esercitata con sempre maggiore naturalezza: case in cui il “vuoto” è una condizione ordinaria. Se da un lato, però l’acquisizione di tale talento non va confusa con la caratterialità di un popolo o di un ambito geografico quale il Mediterraneo [Bellicini L. (1997), Appunti per uno scenario, in “Urbanistica informazioni”, n°. 108, pag 9] è pur vero che questa parte del mondo, nel fare propria la teoria secondo la quale “il costruire è di per sé un’operazione additiva” (Destro N., op. cit., pag 7), sembra divaricarsi in un immobilismo temporale in cui convivono anteguerra e postmodernismo: un tempo nel quale coesistono i modelli della casa-famiglia rurale di Cattaneo [Cattaneo C. (1942), La casa famiglia per la famiglia cristiana, in "Domus" n°. 180, pagg 501/502] e l’uso della “territorializzazione” come acquisizione del diritto del singolo. Il relativismo e la sfiducia nelle grandi cornici teoriche che

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connotano la postmodernità, hanno in questi contesti una ricaduta operativa che sull’oscillazione delle coppie giusto/non giusto, legale/ illegale, lecito/illecito sembra aver costruito un intero modello culturale in cui al concetto di abuso, e non solo edilizio, si associa quello di legittimità. Nel corso degli anni la pratica dell’abuso edilizio si è diffusa, ampliata e differenziata al punto da poter individuare una vera e propria declinazione tipologica legata al variare delle condizioni sociali, economiche e politiche del Paese e del Meridione in particolare. Alla base di tale casistica, che ha come assunto la “destinazione” e quindi ciò che ha indotto al costruire illegale, emergono in prima analisi due posizioni distinte che vedono a quella dettata dallo stato di necessità opporsi quella delle logiche di investimento economico. Ad esse si aggiungono, infine, quei fenomeni che fanno capo alle organizzazioni mafiose ed al loro espandersi sul territorio. Strettamente collegato ad uno stato di precarietà economica, in molti casi “l’abusivismo per necessità” si associa ad una sorta di spontaneismo che ha come scopo intimo quello del costruire. Il bene illecito, la casa, è destinato all’autoconsumo e ha origine da strategie di sopravvivenza [cfr. Clementi A., Perego F. (1983), Abusivismo, una s±da per l’urbanistica, in “La metropoli "spontanea"/ Il caso di Roma”, Edizione Dedalo, Bari]. Tale tipo di abuso, che oggi si estende anche ai contesti interessati dai fenomeni migratori, è visto, nei fatti, come l’unico possibile accesso alla casa per quei gruppi esclusi dalla distribuzione garantita delle risorse e il suo originarsi da un bisogno, ma non da una attitudine all’illegalità, fa sì che attorno ad esso si sia codificato un certo grado di “legittimità del costruire” anche se illecito. In merito al flusso delle correnti migratorie bisogna dire che questo è stato considerato spesso come una delle cause, anche se limitate [Predieri A. (1985), Abusivismo edilizio e nuove sanzioni, Nuova Italia Scientifica, Roma, pag 22], dei fenomeni legati all’abusivismo generalizzato all’intero territorio nazionale. Si pensava, infatti, che potesse esserci una relazione tra le grandi migrazioni seguite al decollo industriale tra gli anni ’50 e ’60 e l’espandersi delle pratiche illegali in edilizia. Si tratta, ovviamente, di un tipo di migrazione profondamente diversa dalla attuale e alla quale possono imputarsi i citati abusi per necessità, ma ugualmente tale lettura appare poco appropriata se si localizza la lettura in ambito meridionale. In realtà la stagione che ha dato il via alla seconda tipologia di abuso, detto di “convenienza”, niente ha a che vedere con tali fenomeni in quanto questo si concentra soprattutto negli ambiti geografici che sono stati il serbatoio di tali migrazioni [Clementi A., Perego F., op. cit. pag 33]. Essa, piuttosto, trae origine da implicazioni di natura economica e spesso è stata corroborante della stessa. Nel momento in cui si credeva alla magia del boom economico e in cui le famiglie accantonavano parte degli stipendi provenienti dalle fabbriche del Nord e della Germania, il mattone e il costruire divennero le forme di

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investimento più solide e più confacenti alla cultura dell’abitare ereditata da Cattaneo: è la famiglia che investe e investe nella casa, non più per soddisfare una necessità ma per garantirsi un futuro. E’ questa l’origine del numero di abitazioni eccedente il fabbisogno del nucleo familiare primario: un surplus di cubatura messo a reddito o accantonato in vista di ampliamenti della cerchia parentale (Destro N., op. cit., pag 124). Oltre ad essere specchio di condizioni economiche assestatesi su livelli superiori al passato, il costruire illegale, inoltre, supportava le microeconomie locali: generalmente le figure di proprietario e costruttore coincidono, si contengono i costi di realizzazione, si dilatano i tempi di esecuzione in base alle risorse disponibili, si dà lavoro a manodopera irregolare e si acquista materiale al di fuori del mercato formale. Alle logiche di “necessità” e di “convenienza” che caratterizzano la “geografia degli abusi” nel Meridione e che documentano illeciti individuali volti all’appropriazione di un diritto e all’investimento di piccoli risparmi, si associano, a iniziare dagli anni ’70, altre due variabili che, per quanto non strettamente connesse all’abitare, incideranno notevolmente sull’impatto che l’abusivismo ha avuto su territori e paesaggi. La prima è legata ad azioni di natura speculativa mentre la seconda, sempre connessa ad una forma di necessità, è indirizzata alla sopravvivenza della criminalità organizzata. Nel primo fenomeno il legame tra abuso e paesaggio come bene economico è strettissimo. Quando, infatti, l’illegalità cessa di fondarsi sullo stato di necessità ma si indirizza verso la monetizzazione indotta dalla specifica ubicazione, non può che parlarsi di abusivismo di “speculazione”. E’ questo il caso delle centinaia di costruzioni che invadono la costa, i demani e gli ambiti notevoli del Sud d’Italia: lottizzazioni per case-vacanza, strutture alberghiere e lidi balneari che hanno superato la loro bruttezza e la loro invasione violenta unicamente conquistando la ribalta come “ecomostri”. A differenza, della precedente che si concentra su alcune tipologie edilizie, la seconda variabile, invece, attraversa l’intero ciclo costruttivo, intercetta tutte le tipologie possibili ed ha un impatto devastante su territorio e ambiente. Con la nascita dell’ “ecomafia”, infatti, l’illecito edilizio si assocerà al traffico dei rifiuti e al ciclo del cemento dando vita, nel nostro specifico geografico, ad un percorso circolare che vede l’identica cava dare il via al ciclo dell’uno e determinare la conclusione dell’altro [Destro, op. cit., pag 115]. Rispetto ai precedenti tipi cambiano le caratteristiche del soggetto che attua l’illecito: non più il piccolo proprietario/costruttore ma imprese edilizie a loro volta abusive che frodano il fisco, sfruttano manodopera illegale e invadono aree di particolare pregio ambientale. Le radici dell'illegalità e la cultura della legittimità Escludendo i casi ricadenti nella tipologia di abuso per “speculazione” c’è da chiedersi, comunque, perché in ambito meridionale la necessità

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dell’abitare si sia espressa così ampiamente in forma illegale. Alla luce di quanto emerso, è sicuramente da confutare il luogo comune che vede l’abusivismo edilizio come prodotto di una delle tante insofferenze alla norma insite nella popolazione italiana e meridionale in particolare, ma al tempo stesso sarebbe impossibile non imputare tali devianze a chiari e precisi modelli culturali. Vedremo, in seguito, la ricaduta di tali modelli in riferimento al massacro che la pratica abusiva ha indotto sul territorio, ma rispetto all’atto del singolo è possibile affermare che gli elementi culturali che hanno, e continuano, ad orientare l’illegalità agiscono sia in maniera diretta e sia indiretta. Se da un lato, infatti, l’abuso induce direttamente a vantaggi di natura economica dall’altro, indirettamente e a livello collettivo, si ha riscontro e coscienza della inadeguatezza dei modelli proposti, della rigidezza delle procedure amministrative e della latitanza delle Istituzioni. Forse, allora, piuttosto che ad una cultura dell’illegalità generalizzata, si dovrebbe pensare ad una mancanza di aderenza della legislazione alle esigenze del singolo, alla estrema complessità e lunghezza delle procedure e ad una “non cultura del controllo” [Destro, op. cit., pag 124]. Non è possibile affermare che tali fattori abbiano come ricaduta diretta l’atto abusivo, ma di certo ne agevolano il proliferarsi. Per quanto concerne la distanza legislativa rispetto ai cambiamenti sociali, molto spesso la materia giuridica non fa che regolamentare tardivamente modalità già acquisite ma, di contro, le normative urbanistiche oltre ad essere tardive si mostrano di difficile interpretazione e di non facile esecuzione. A questo si associano le procedure dei vari Enti autorizzativi che piuttosto che agevolare l’attività edilizia il più delle volte producono azioni di immobilismo e paralisi. Più complesso appare, invece, il problema legato al “controllo” che si connota di sfaccettature articolate. A quella che, infatti, potrebbe apparire la diretta conseguenza dell’assenza di verifica del costruito, e cioè il rendere superflua l’osservanza anche dei vincoli più blandi, si associa una sorta di cecità istituzionale nei confronti delle cosiddette, molto appropriatamente, “case fantasma”. Non avendo capacità, né interesse, ad autodocumentarsi l’abusivismo si assesta su un piano d’ombra attorno al quale sembra attuarsi un processo di rimozione che induce a restituire un’idea di città e di territorio sicuramente più consona alle Istituzioni che lo governano [cfr. Clementi A., Perego F., op. cit.]. In più, quando il costruire in maniera illegale era legato essenzialmente a motivi di necessità, l’abusivismo edilizio ha rappresentato l’ancora di salvezza per molte famiglie e quindi, paradossalmente, cecità o rimozione nient’altro sono stati se non l’ammissione di come questo abbia colmato i gravi ritardi nella risoluzione del tema dell’abitare a livello politico, come se il non affrontare la questione portasse ad una soluzione meccanica dello stesso [Soffritti C. (1985), in R. Comini e G. Delfini, (a cura di), Abusivismo edilizio,

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in “Atti del Convegno, Ferrara 29-30 settembre 1984, Camera Penale dell’Emilia Romagna”, Bologna, pag 5]. Tale atteggiamento ha indotto, inoltre, sia al perseverare del ritardo normativo e attuativo in quanto, anche se illegalmente, il problema della casa andava risolvendosi da solo e sia ad un ulteriore distacco tra legge e realtà poiché si alimentava la tolleranza verso i piccoli abusi imputandoli alla inadeguatezza e astrusità della norma [Delfini in Comini R., Delfini G. (1985), op. cit., pag 145]. La posizione assunta dallo Stato che, anche se non istituzionalmente espressa, lo sollevava dall’onere economico necessario ad investire sulle politiche abitative, ebbe un’ulteriore ricaduta sugli Enti locali maggiormente coinvolti nel controllo del territorio e sui professionisti. I primi sfruttarono il silenzio che avvolgeva l’abuso in chiave di consenso politico sulla base della distorsione del rapporto tra candidato ed elettore e della considerazione di alcuni strati sociali come serbatoi elettorali [De Chiara A. (1989), L’abusivismo edilizio nelle aeree urbane. Il caso Napoli, CEDAM, Padova, pag 68]; i secondi, infine, avallarono l’illegalità a seguito dell’immobilismo delle Amministrazioni ed alle mancate rispondenze della legislazione rispetto agli interessi dei propri clienti. Nel loro complesso i fattori descritti hanno dato origine ad una cultura generalizzata della legittimazione dell’illecito da parte del singolo: una legittimazione fondata sull’ “assenza”, sia essa del bene, dei modelli o del controllo. Nella codificazione di questa distorta interpretazione dell’illecito come legittimo, in termini legali individuali, la punibilità dell’atto è minore dei vantaggi ottenuti e nella quasi totalità dei casi si concretizza in sanzioni economiche e penali, ma a livello collettivo denota la totale mancanza del concetto di abuso come atto di aggressione ai beni comuni. Vista in quest’ottica, la cultura della legittimità è sicuramente lo specchio di un senso non sviluppato per la cosa pubblica che, nel passaggio dal singolo al collettivo, spinge a distruggere un bene che, come il paesaggio, apparentemente non ha valore tangibile. Territori e paesaggi tra illegale e legalizzato Pur se più strettamente legati al problema dell’abitare e derivanti da bisogni o interessi privati, gli abusi per necessità e per convenienza hanno avuto nei confronti del paesaggio e del territorio la stessa ricaduta provocata da quelli a carattere speculativo. Entra qui in gioco l’elemento che contraddistingue, in questo caso negativamente, la postmodernità e riconducibile all’atto di territorializzazione visto come azione di appropriazione concreta dello spazio geografico. La presa di possesso di uno spazio piuttosto che di una superficie, se con essa si considera il mero ingombro al suolo, come abbiamo visto, supera la singola responsabilità per invadere un ambito di interesse più generale che investe quel “bene comune” che è il territorio. Per quanto riguarda la legislazione italiana, il fenomeno dell’abusivismo

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sancito a partire dal ’42 [L. Urbanistica n. 1150] come “disobbedienza amministrativa”, solo dal 1985 [L. Galasso n. 431], con le nuove norme finalizzate alla conservazione e tutela del territorio, sarà inteso non più come inosservanza giuridica, quanto atto contro il paesaggio e l’ambiente. Paradossalmente, però, sempre nello stesso anno era iniziata una anomala lotta all’abuso quasi si facesse finta di pensare che il passaggio da illegalità a legalità potesse sanare la costante aggressione al territorio. I vari “condoni edilizi”, infatti, che si susseguirono fino al 2003 e che in realtà erano nati per sanare il disavanzo del pubblico erario, non solo non sconfissero l’abusivismo ma produssero implicazioni rilevanti sia sotto il profilo sociale e culturale e sia sotto quello paesaggistico e ambientale. Rispetto alla crescita edilizia e all’invasione del territorio si ottenne l’effetto opposto con l’innesco di una sorta di “illegalità ad orologeria” [Destro N., op. cit., pag 105] poiché, ad ognuna delle scadenze previste, corrisposero dei picchi di accelerazione del costruire contro norma. In aggiunta, inoltre, a tali “iniezioni ricostituenti” delle pratiche di abuso, che da sole basterebbero a decretare il fallimento dello strumento del condono, a livello sociale il percepire tali occasioni come una “vendita di indulgenze” [Santoloci M. (2001), La Corte costituzionale: impossibile la concessione in sanatoria per gli abusi in aree vincolate, in “Rivista penale”, n. 3, pag 526] ha innescato la predisposizione all’attesa del ripetersi dell’evento per la quale, costantemente e ancora oggi, il territorio viene alterato da un abusivismo che potrebbe dirsi “abituale”. In relazione ai problemi legati alla cultura del paesaggio come bene comune, infine, le pratiche di condono misero in atto tutta l’ambiguità e conflittualità tra “liceità del costruire” e “legalità giuridica”. Se, infatti, migliaia di abusi furono sanati e resi legali dal punto di vista giuridicoamministrativo, nella maggior parte dei casi nessuna valenza o grado di giudizio fu espresso sulla legittimità di una edificazione che, per quanto regolarizzata, recasse danno al patrimonio naturale. In tale senso solo con il DL. 326/2003 una maggiore attenzione venne, formalmente [cfr. Zanfi F. (2008), Città latenti Un progetto per l’Italia abusiva, Bruno Mondadori, Milano, pag 58], riservata ai fenomeni di abusivismo e al contenimento della sua diffusione: in questa direzione vanno visti il rafforzamento della politica delle demolizioni non sanabili e l’istituzione dell’Osservatorio nazionale dell’abusivismo edilizio. Nei fatti, però, quest’ultimo non fu mai attivato e l’istituto della demolizione è stato usato, il più delle volte, come opera di mistificazione dei citati “ecomostri” puntuali contro le migliaia di “case fantasma” e case legalizzate che si espandono al macchia d’olio in tutto il Meridione. Demolizione e riappropiazioni In questa lunga disamina delle vicende private e politiche alla ricerca delle motivazioni che hanno indotto il singolo all’abuso e lo Stato alla

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sua attuabilità e, parallelamente, al suo attacco, è evidente come il tema dell’abitare in Calabria si leghi alle logiche dell’abusivismo e come questo si sia ripercosso, a scala più ampia, su interi territori. Appare ancora più evidente, però, come i paesaggi con i quali ci confrontiamo siano la sommatoria di illegalità e legalizzazioni forzate, una condizione che allo stato attuale supera il problema dell’abusivismo tout court per inglobare scenari dalla complessità più ampia. Al paesaggio legale e illegale, fatto di case fantasma, abusi condonati, ecomostri non demoliti e cubature in perenne attesa di conclusione e di destinatari, si aggiunge quello popolato da fabbriche che aspettano industrializzazioni o economie mai attivate, immobili pubblici abbandonati e, non in ultimo, beni confiscati: un paesaggio che ha fatto anch’esso della precarietà il suo punto di debolezza. A questa “geografia del costruire debole” [Destro N., op. cit. pag 26] edificata sull’abuso e sui ruderi del non finito e del vuoto, e che richiede un serio ripensamento sugli strumenti del suo restauro, si associa il perenne bisogno di casa e con esso la ricerca di nuove forme interpretative dell’abitare. Forme, dunque, che siano lo specchio delle mutate condizioni dettate dalla postmodernità, dove anche il concetto di precario assume nuovi significati, e strumenti che diventino portatori di una nuova cultura verso il bene comune. La pratica della demolizione, prevista dalla legislazione, è sicuramente un atto cruento ma probabilmente, realmente praticabile se associato a forme di compensazione che prevedano il trasferimento della cubatura andata distrutta. Nell’ottica di politiche volte alla rigenerazione di economie e paesaggi compromessi e, contestualmente, al mantenimento del bisogno di abitare, la tecnica del riciclo, attraverso la quale attuare la compensazione, appare, infatti, come una strategia possibile sia come strumento di attivazione di una demolizione guidata delocalizzando la proprietà, sia come variazione di destinazione d’uso di immobili sottoutilizzati o abbandonati, sia, infine, come tecnica di sperimentazione disciplinare legata alle nuove necessità dell’abitare.

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01, 02 - Disegni a cura dell'autrice su Agricoltura Multifunzionale (2012)


L’AGRICOLTURA MULTIFUNZIONALE PER NUOVI PAESAGGI URBANI E PERIURBANI CONDIVISI Elisabetta Nucera >UNIRC

I fenomeni di espansione urbana che hanno travolto città e campagne in maniera indiscriminata, hanno lasciato in eredità una quantità enorme di Paesaggi dello Scarto, frammenti spesso agrari urbani e periurbani, in attesa di nuovi significati e nuove funzioni. L’attenzione crescente verso questi paesaggi dell’abbandono è generata, oltre che da necessità di tutela e salvaguardia del territorio, dalla nascita di nuovi bisogni della società moderna che, come sottolinea la Convenzione Europea del Paesaggio, si concretizzano nella richiesta di un nuovo rapporto tra la comunità ed i propri luoghi, l’esigenza di socialità e di un maggiore riguardo per i valori ecologici e ambientali. Appare innegabile la necessità di attivare per questi paesaggi agrari rifiutati nuovi cicli di vita, ossia “sperimentare strategie di riciclo dei paesaggi dello scarto in chiave interpretativa contemporanea, così come proposto dalla CEP, quindi paesaggio come espressione della Comunità che lo vive e lo modifica, secondo proposte operative partecipate e multifunzionali” [Gioffrè V. (2013), Reggio Calabria, il riciclo dei paesaggi delle infrastrutture, in Trasporti e cultura, n. 36, pagg 36-43]. Si fa strada dunque la consapevolezza della centralità del ruolo della Comunità nella riattivazione dei paesaggi contemporanei, risultando sempre più evidente come “sono gli abitanti i destinatari dei progetti di riattivazione, salvaguardia e partecipazione del patrimonio di un territorio, in quanto essi ne devono diventare anche i normali gestori e trasmettitori” [Bonesio L. (2007), Paesaggio, identità e comunità tra globale e locale, Diabasis,

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Reggio Emilia]. Ciò comporta in primo luogo l’esigenza di stimolare il senso di appartenenza della Comunità, riallacciare sistemi di relazioni con il proprio contesto di vita, per renderlo riconoscibile e trasformarlo in paesaggio appropriabi [condizione necessaria, secondo Pierre Donadieu, [Donadieu P. (2006), Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli Editore, Roma] per garantire l’abitabilità durevole delle campagne urbane è che gli abitanti riconoscano questi spazi come paesaggi appropriabili]. “Un luogo per essere paesaggio deve liberare non poche doti. È quando viene utilizzato in riferimento all’habitat che il termine paesaggio ha un significato più preciso: indica infatti una qualità particolare, definibile come un’unità semantica di elementi diversi ed eterogenei, nella quale riconosciamo caratteri che ci rappresentano. Una comunità vi proietta la propria visione del mondo e la stessa utopica aspirazione della polis di Aristotele, a vivere bene, dunque a perseguire il bello, il buono, il giusto” [Zagari, F. (2010), Nuovi Paesaggi, in XXI Secolo, Treccani, Enciclopedia on line]. E’ dalla Comunità che deve partire il processo di rinnovamento e di riacquisizione dei propri paesaggi, rendendola protagonista di processi di appropriazione atti a trasformare questi territori di margine, in bilico tra città e campagna, in territori abitabili. “Costruire un territorio per le attività umane, il lavoro e lo svago, richiede prima di tutto una ricerca del senso dei luoghi. Esso non può essere ridotto a dei significati funzionali, ma deve entrare in risonanza con l’immaginario individuale e collettivo, con i progetti interiori come con i miti e con le utopie collettive che ci motivano e ci stimolano” [Donadieu P. (2006), op. cit.]. Ricostruire il senso del luogo, invitare alla cura, riportare la comunità ad essere custode dei propri paesaggi, e stimolare il senso di responsabilità verso di essi, attraverso forme condivise di gestione, recupero e progetto dei territori, tra esperti, amministratori, cittadini [L. Bonesio definisce il tema dell’Ethos dell’abitare come responsabilità verso la singolarità dei luoghi, come “patrimonio spirituale, identitario, memoriale e conoscitivo da trasmettere incrementato a generazioni future”]. L’importanza dei paesaggi di margine risiede nella possibilità che offrono di sperimentare nuove forme di sviluppo e di aggregazione sociale, secondo modelli agrourbani [termine utilizzato da Donadieu in Campagne Urbane nel 1998], che coniugano consuetudini urbane con pratiche rurali, basandosi su una rilettura in chiave multifunzionale delle attività agricole. A partire dagli anni ‘80, infatti, con la definizione multifunzionale, all’agricoltura vengono riconosciute, aldilà delle funzioni produttive, ricadute nei campi sociali, culturali ed ambientali. Secondo la definizione dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico , “oltre alla produzione di alimenti e fibre (sani e di qualità) l’agricoltura può modificare il paesaggio, contribuire alla gestione sostenibile delle risorse, alla preservazione della biodiversità, a

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mantenere la vitalità economica e sociale delle aree rurali” [OECD (1998), Multifunctionality, a framework for Policy Analysis, Oecd, Agr/CA/98]. Il rapporto tra produttore e consumatore si declina dunque in un rapporto tra gestore di risorse e fruitore di servizi (di tutela paesaggistica, di salvaguardia dell’assetto idrogeologico, di conservazione di elementi storico culturali, di iniziative sociali, ecc.) [Galli M., Marraccini E., Lardon S., Bonari E. (2010), Il progetto agrourbano: una ri²essione sulle prospettive di sviluppo, in Agriregioneuropa, n. 20]. Inoltre la produzione si orienta verso un’agricoltura sempre più ecocompatibile, sostenibile ed innovativa, che mira a ricostituire circuiti brevi e decentrati, per ricollegare produttore e consumatore, e al recupero di forme di coproduzione tra uomo e natura [la coproduzione, secondo Ploeg [Ploeg J. D. (2009), I nuovi contadini. Le campagne e le risposte alla globalizzazione, Donzelli Editore, Roma] riguarda l’interazione continua e la trasformazione reciproca dell’uomo e della natura. Interagisce con il mercato tenendo conto della sopravvivenza e delle prospettive future]. L’obiettivo è quello di generare economie sostenibili, che diano nuovo impulso al settore e creino reddito e occupazione, e che al contempo riportino la Comunità ad occuparsi dei propri territori. Le nuove forme di abitabilità agrourbane favoriscono logiche di governance locale e puntano alla creazione di nuovi modelli di condivisione sociale, secondo spazialità innovative [Mininni M. (2006), prefazione all’edizione italiana di Campagne urbane] definisce queste nuove periferie come “laboratorio di idee in cui sperimentare nuove forme di convivenza sociale che producono spazialità innovative ma non necessariamente nuove, che una cultura del paesaggio avrà il compito di riconoscere e progettare per renderle abitabili”], che si proiettano nell’orizzonte della “partecipazione e corresponsabilità democratica nella cura e nella progettazione del luogo, nella riassunzione di una consapevole produzione sociale e simbolica del paesaggio” [Bonesio L. (2007), op. cit.]. Quattro importanti autori hanno teorizzato la creazione di modelli di socialità alternativi, coniugando la moderna società di servizi, tipica del contesto urbano, con pratiche e stili di vita dei territori rurali. In Campagne Urbane, Pierre Donadieu descrive la campagna come un elemento complementare alla città densa e attiva, una infrastruttura naturale di interesse pubblico dove sperimentare forme di abitabilità sostenibili, legate alla produzione agricola e allo svago. Dove gli spazi agricoli saranno i nuovi giardini pubblici del contemporaneo, aperti a nuove pratiche ed affidati congiuntamente ad agricoltori e cittadini, secondo forme creative di condurre la terra, che associano lavoro e tempo libero. Secondo Donadieu la combinazione di quattro modelli di agricoltura, già in parte presenti nelle città europee, porterà alla nascita delle campagne urbane: l’agricoltura rurale, condotta da imprenditori agricoli, occupati a tempo pieno in aziende moderne, in cui sarà possibile effettuare la raccoltà diretta nei campi e svolgere attività ricreative; l’agricoltura periurbana, praticata in piccole aziende situate in periferia, condotte da

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cittadini e fortemente influenzate dalla vicinanza ai mercati urbani, dove si praticherà la vendita diretta; l’agricoltura cittadina, svolta secondo attività part-time, dove prevarranno i servizi forniti alla città e ai cittadini, per fini alimentari, sportivi o ricreativi; infine l’agricoltura hobbistica, dove il lavoro della terra non costituisce la fonte principale di reddito per cittadini che la praticano, ma garantisce una maggiore qualità della vita. L’agricivismo, termine proposto da Richard Ingersoll con il quale si intende “l’utilizzo delle attività agricole in zone urbane per migliorare la vita civica e la qualità ambientale/ paesaggistica”, è un processo che prevede l’introduzione di molteplici attività agricole in città, per stimolare la partecipazione attiva della comunità, sensibilizzare sulle tematiche ambientali, ricucire il tessuto urbano e le aree agricole di frangia. L'agricivismo, che prende il nome dall'agriturismo, prevede per legge che almeno il 30% di ogni sito urbano resti coltivabile. “La coltivazione, che è cura, fonda un nuovo senso di appartenenza e quindi di responsabilità verso lo spazio urbano e il verde che ne fa parte. Si possono coltivare i tetti, i parcheggi, i terreni liberi, ecc.” [Ingersoll R., Fucci B., Sassatelli M. (2008), Agricoltura Urbana, dagli orti spontanei all’Agricivismo per la riquali±cazione del paesaggio periurbano, in Quaderni sul paesaggio/02, Centro Stampa Regione Emilia Romagna, Bologna]. Si tratta di progetti integrati multifunzionali e multiscalari (parchi agricoli, fattorie urbane ed extraurbane, orti terapeutici, orti didattici, aree di fitodepurazione, fattorie di energia alternativa, ecc.), in cui le aree coltivate vengono integrate come parte costitutiva di parchi e giardini, attraverso corridoi verdi, sentieri e piste ciclabili, e dove i cittadini sono i protagonisti, in quanto coinvolti in tutte le fasi di progettazione, realizzazione e soprattutto di gestione. Agronica, progetto teorico su modelli di urbanizzazione debole, ideato nel 1995 da Andrea Branzi per Philips Corporation, [Branzi A. (2006), Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Skira, Milano] è una città utopica altamente tecnologica, ecologica e sostenibile, che si basa sui concetti di reversibilità e dispersione insediativa. Il modello mette in relazione architettura e agricoltura: il suolo costituisce un supporto omogeneo, su cui una serie di oggetti mobili e smontabili, con destinazioni non definite ma variabili nel tempo, si appoggiano ricomponendo l’immagine di un insediamento urbano immerso in un parco agricolo. L’organizzazione segue dunque la logica tipica del territorio agricolo, ma si integra con l’ambiente attraverso tecnologie complesse e principi di biocompatibilità, in cui l’impiego delle energie rinnovabili è un ingrediente fondamentale per la costruzione di un nuovo modello di urbanizzazione debole. In Rethinking Happiness. Fai a gli altri quello che vorresti fosse fatto a te, Aldo Cibic, partendo dall’attuale condizione di crisi e dalle emergenze ambientali, ricerca nuovi modelli urbanistici ideali, basati sull’integrazione della società di servizi e della civiltà agricola, in cui creare comunità autosufficienti, nuove attività e relazioni in sintonia con il territorio. Ipotizza quattro progetti ideali, seguendo “una progettualità che tenda a generare

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un miglioramento nella qualità di vita delle persone a livello sociale, economico e ambientale” [Cibic A. (2010), Rethinking happiness. Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, Corraini, Milano]. Il primo modello, Nuove comunità, nuove polarità, è pensato per una zona industriale dismessa di un paese ai piedi delle Alpi, dove si insedia una comunità di mille persone, giovani creativi provenienti da tutte le parti del mondo, che lavorano per un’azienda internazionale che qui vi sposta il suo quartier generale. In Un campus tra i campi. Venice agri-techno valley, viene proposto un nuovo modello di campus in un grande terreno agricolo nella laguna veneta, in cui si stanziano un gruppo di 250 giovani, che si occupa di start up innovative e che sperimenta forme di autosufficienza energetica e alimentare. In Superbazar, nella periferia di Milano, viene ripensato un nuovo modello di spazio pubblico, dove le attività funzionali alla vita del quartiere, si fondono a una nuova stazione della metropolitana e a un complesso di piccole residenze e spazi di lavoro low cost per studenti ed extracomunitari. Infine in Urbanismo rurale si ipotizza, in un territorio agrario minacciato dall’espansione della città di Shanghai, un parco rurale di 4 kmq abitato da 8000 persone con residenze a bassa densità, preservando l’agricoltura e offrendo spazi verdi agli abitanti. Le sperimentazioni teoriche citate elaborano modelli apparentemente utopici, alternativi ai modelli di vita proposti dall’attuale società del consumo, intercettando fenomeni già in atto in ambito europeo da più di un ventennio, come testimonia ad esempio il diffondersi del neoruralismo [Chevalier M. (1981), Les phénomènes néo-ruraux, in L’Espace géographique, I, pagg 33-49]. Si tratta del fenomeno di installazione nelle campagne di collettivi in genere giovanili, che per sfuggire alle forme di vita alienanti dei contesti urbani, e mossi da questioni ambientali, si distribuiscono in territori rurali abbandonati, e danno vita a Comunità autonome, alla ricerca di “una nuova territorialità, una nuova concezione delle relazioni esistenti tra gli individui e il loro intorno biosociale, che porta al passaggio da spazio a luogo” [Nogué J. (1988), El fenomeno neorrural, in Agricultura y Sociedad, n.47, Aprile-Giugno]. Questo passaggio si materializza attraverso il lavoro della terra e l’artigianato, concepiti non soltanto per la funzione economica, ma anche per quelle sociali e psicosociali. L’agricoltura neorurale si basa sulle pratiche tradizionali, senza tralasciare l’informazione moderna, e segue forme di lavoro autonomo, che mirano al controllo di tutto il processo di produzione, attraverso la dimensione comunitaria del lavoro [Nogué J., op. cit.]. Queste tendenze confermano ulteriormente l’importanze del ruolo attivo della Comunità nei processi di recupero dei paesaggi dell’abbandono, e le potenzialità di forme di agricoltura multifunzionali ed alternative per l’attivazione di dinamiche sociali ed economiche.

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PROGETTAZIONE PARTECIPATA. UN'IDEA DI COMUNITÀ Francesca Saffioti >UNIRC

Scegliere di fare intervenire la filosofia all'interno di una riflessione sul rapporto fra luoghi, progettazione e partecipazione, evidenzia la necessità di un coordinamento fra saperi diversi quando si affronta il tema dell'abitare. Rispetto all'opportunità di una integrazione fra le conoscenze, il contributo che la filosofia può fornire è certamente di tipo metodologico. Tale disciplina può offrire un efficace strumento di indagine su categorie che in particolare l'architettura, scienza costitutivamente multidisciplinare, è chiamata ad impiegare, sottraendosi ad una dimensione meramente applicativa e tecnicistica della progettazione, ed assumendo invece un punto di vista critico e riflessivo rispetto alla natura dei propri compiti. La modalità attraverso cui si esplica l'azione dello specialista in architettura non può dirsi mai autoreferenziale, dal momento che interviene in ambienti che sono il frutto di una costruzione sociale collettiva. Il presente contributo si propone di analizzare, in particolare, due categorie – comunità e partecipazione – che appaiono funzionali ad un ripensamento dei luoghi, nella direzione di una loro ricostruzione, di un loro uso, o meglio, di un loro “riuso” eticamente consapevole. Si cercherà, in ultimo, di mettere in rilievo la centralità dell'elemento percettivo del “sentirsi comunità”, capace di offrire un fondamento alle sopracitate categorie di comunità e partecipazione, nel momento in cui queste ultime non vengono considerate soltanto come degli strumenti, ma come la finalità stessa del progetto architettonico, operando in questo senso una scelta di “valore” dal carattere intrinsecamente filosofico. Lo stesso elemento percettivo appare fondamentale quando si focalizza l'attenzione sulla tutela del

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luogo, dato che quest'ultima condizione non sembra poter prescindere da una identificazione emotiva, affettiva, e più in generale culturale, con esso, riconoscendolo quale fattore di costruzione dell'identità individuale e collettiva. Località e delocalizzazione La prima categoria da esaminare, quella di comunità, non può che porsi inizialmente in termini dubitativi. La discussione sulla comunità, molto presente negli studi accademici [indichiamo alcuni autori francesi che hanno segnato in modo significativo il dibattito sul tema: J.L. Nancy, La comunità inoperosa, tr. it. A. Moscati, Cronopio, Napoli 2003; Id., La partizione delle voci. Verso una comunità senza fondamenti, tr. it. Di A. Folin, Il Poligrafo, Padova 1993; M. Blanchot, La comunità inconfessabile, a cura di D. Gorret, SE, Milano 2002], sembra infatti svilupparsi in un contesto sociale che ne contraddice profondamente lo spirito, visto che si può facilmente constatare quanto sia ben più frequente la frammentazione sociale, lo scollamento delle relazioni identitarie, l'emancipazione degli individui da ogni condizionamento geografico e ancora più in generale da qualsiasi vincolo spaziale. Eppure il tema della comunità appare, in modo paradossale, sempre più pregnante proprio nel momento in cui tale modalità di relazione si rivela sempre meno esperienziale. Il bisogno di comunità sembra trovare conferma perfino nel momento della sua radicale negazione. Il contesto in cui il tema della comunità si inserisce è quello a cui si fa generalmente riferimento con il termine “globalizzazione” [fra molte disamine del termine globalizzazione, ci limitiamo a segnalare P. Sloterdijk, L'ultima sfera. Breve storia ±loso±ca della globalizzazione, tr. it. di B. Agnese, Carocci, Roma 2005]. Questo fenomeno, che ha un carattere processuale e progressivo, si potrebbe dire “incrementale”, sembra negare due aspetti caratterizzanti la dimensione della comunità: la prossimità e la spazialità. Nel caso della prossimità, non ci si riferisce evidentemente solo ad un dato geografico, ma ad una “mappatura” cognitiva, che fornisce un orientamento a ciascun soggetto e anche una modalità di relazione con gli altri. La prossimità è l'occasione di una condivisione profonda, che può riguardare concetti così come modi di vivere, mentre al contrario la globalizzazione sembra decomporre tutto ciò che racchiude un valore specifico, non generalizzabile e non trasferibile. Anche per quanto riguarda la spazialità, il suo carattere strutturale rispetto alla costruzione dell'identità sembra essersi smarrito, dal momento che, in uno scenario globale, ciascun individuo è sempre meno condizionato, nelle sue diverse attività, dalla sua collocazione in un luogo piuttosto che in un altro. La globalizzazione riesce a fagocitare le differenze culturali, dato che si basa non solo, principalmente, sul movimento di capitali e, in misura minore, ma sempre significativa, di merci e di persone, ma soprattutto sulla mobilità delle informazioni, che contribuiscono alla creazione di un unico soggetto/fruitore globale, la cui prevedibilità è un elemento decisivo nella programmazione economica. L'integrazione incoraggia la manifestazione di stili di vita sempre più omogenei, di conseguenza solo apparentemente la comunicazione globale assume la forma dell'ibridazione, trattandosi

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non di un reale accostamento fra culture differenti, ma di un processo di omologazione. Questo esito deculturalizzante, come ha notato Latouche [Latouche S. (1992), L'occidentalizzazione del mondo, tr. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Id. (1995), I profeti sconfessati. Lo sviluppo e la deculturazione, tr. it. di O. Romano, La Meridiana, Bari], appare ben diverso da quella modalità di relazione, necessariamente composita, che sembrava miticamente accompagnare l'idea di “villaggio globale”. La progressiva scomparsa delle differenze è stata il correlato della liberalizzazione dei mercati mondiali. In questo senso, Marc Augé [Augé M. (2009), Non-luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, tr. it. di D. Rolland, C. Milani, Eleuthera, Milano] si riferisce ai non-luoghi come spazi neutri, senza attributi identitari, relazionali e storici, che sono modellati sulla mobilità dei flussi finanziari. L'effetto che ne consegue – l'indifferenziato – piuttosto che garantire una forma di apertura culturale, costituisce l'esatto rovesciamento dell'esperienza della prossimità, in cui ciò che si condivide è invece sempre qualcosa di significativo perché specifico ed irriducibilmente singolare. Come mai, dunque, l'esigenza di comunità ritorna proprio nel momento in cui se ne celebra la fine, quando essa sembra sempre di più il retaggio di un passato pre-moderno, un vincolo da cui l'uomo globale si è finalmente liberato? Diversi filosofi hanno provato a definire, al contrario, l'ineludibilità del radicamento, il bisogno di legami spaziali, che comprendono anche i legami fra i soggetti. La spazialità è un elemento caratterizzante l'uomo in quanto tale, ancora di più quando, nella contemporaneità, questi diventa consapevole dell'infinito orizzonte delle sue possibilità. Solo per citarne alcuni, filosofi come Nietzsche, Heidegger e Jünger, dimostravano una piena consapevolezza del binomio delocalizzazione-localizzazione quando appariva già all'orizzonte quel processo di “unità del mondo” che solo successivamente avrebbe pienamente dispiegato le sue potenzialità come globalizzazione. Eppure l'uomo sradicato non ha smesso per questo di rimanere un ente profondamente “terrestre”. Il “ritorno alla terra” si riferisce a quella primaria dimensione spaziale che non è eliminabile dall'umano. Questi rimane un essere “finito”, con una precisa collocazione spazio-temporale, che non può prescindere dall'appartenenza ad un luogo, per quanto, nella dimensione odierna, questa appartenenza si traduca nella forma della dis-appartenenza. Lo sradicamento rimane, anche nella modalità della negazione, una delle possibilità con cui l'uomo si rapporta ai luoghi. Anche la perdita del luogo resta una forma di relazione imprescindibile con esso. È comprensibile pertanto che il bisogno di comunità nasca all'interno di un contesto globalizzato, che solo illusoriamente offre il superamento delle distanze geografiche attraverso la delocalizzazione delle relazioni. Anche se la rete globale moltiplica esponenzialmente le opportunità di comunicazione, questa possibilità viene gestita all'interno di piattaforme virtuali che la instradano, in cui si combinano forme di estrema individualità, anonimato e massificazione. In questo modo viene canalizzata, fino a modellarla verso una forma prevedibile e ordinata, la complessità delle relazioni sociali. Il superamento dei vincoli comunitari viene pertanto sostituito da sistemi di controllo divenuti a tutti gli effetti globali, dunque

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ancora più pervasivi. È proprio in questa dimensione mondializzata, in cui è più importante la velocità rispetto alla permanenza, il tempo rispetto allo spazio, che appare una richiesta di ri-localizzazione [è su questo orizzonte che si muove la riflessione geofilosofica, a partire dalla prima riflessione di G. Deleuze. e F. Guattari, Che cos'è la ±loso±a, tr. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 2002. Fra gli studiosi italiani vanno certamente segnalati M. Cacciari, Geo±loso±a dell'Europa, Adelphi, Milano 1994, e L. Bonesio, Geo±loso±a del paesaggio, Mimesis, Milano 1997]. A quest'ultima va però riconosciuto un senso completamente diverso rispetto a quello che era rappresentato dal radicamento delle società pre-moderne. La ri-localizzazione è infatti una domanda che nasce dalla stessa globalizzazione, ne è in qualche modo un effetto, tanto da produrre, secondo alcuni studi, la commistione di due fenomeni opposti, locale e globale, come evidenziato dall'espressione “glocal” [vedi ad esempio Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, tr. it. di E. Coccia, Armando, Roma, 2005]. Il tentativo di pensare questa doppia dimensione risponde all'esigenza di mediare fra resistenze locali, che si oppongono alla frammentazione delle identità, e sistemi globali, che già operano e trasformano la dimensione locale ma che, a loro volta, ne rimangono condizionati, visto che ciò che precedentemente aveva una portata esclusivamente locale acquisisce, grazie all'integrazione economica e culturale, una portata globale. È necessario, dunque, se si vuole ancora fare riferimento al termine “comunità” trasformare il senso di questa categoria. L'immagine abituale della comunità è quella di una sorta di sistema di sicurezza, in cui sono presenti vincoli sociali e culturali molto accentuati, che proteggono dalle spinte disgregatrici individualiste. La comunità offre un certo grado di sicurezza in cambio della rinuncia ad un esercizio incondizionato della propria libertà. Nell'età moderna si è assistito alla progressiva disgregazione del modello comunitario, alla nascita della dimensione metropolitana, che rappresenta quella condizione in cui i vincoli comunitari si sono allentati e si è diventati finalmente individui (va sottolineato come letteralmente individuus indichi l'essere in sé in quanto diviso dagli altri). Questi individui si relazionano come tali, e non come parti di una comunità, che è invece espressione di una eredità sovraindividuale. Nella contemporaneità, non si può dunque pensare la comunità secondo quella funzione protettiva e difensiva pre-moderna, visto il suo superamento storico da parte di modelli nazionali, transnazionali, e perfino globali. Nonostante ciò rimane comunque inaggirabile il confronto con l'idea di comunità, forse nel senso del suo rovesciamento. All'interno di una dimensione metropolitana, che rischia di essere alienante e disgregante perché fondata sulla moderna idea di individuo, è possibile che si formino tante piccole comunità, di volta in volta raccolte su una questione, un problema, un interesse, sulla condivisione di un aspetto rilevante della propria vita. Queste comunità, che non a caso qualcuno potrebbe definire “liquide”, si formano e si sciolgono in base a scelte culturali, ad opzioni etiche, per questo non sono mai definitive, come se si trattasse di contenitori in cui l'appartenenza è quasi un “destino”, come avveniva nel caso del radicamento classico di tipo territoriale. È importante

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sottolineare come dalla comunità ci si deve poter allontanare e si deve decidere di entrare. Le comunità di “attaccamento”, che uniscono i soggetti sulla base di sentimenti e bisogni comuni, per lo più di tipo immateriale, così come le comunità di interesse, legate ad un tema specifico, costituiscono legami che sembrano più rilevanti rispetto alla semplice appartenenza ad un territorio. Di fronte ad una concreta difficoltà di rappresentanza politica, che si può constatare nelle democrazie attuali, l'idea di comunità riattiva valori percepiti come positivi, quali la partecipazione, la cittadinanza attiva, le dinamiche relazionali e solidaristiche. La comunità non riguarda una certa quantità del raggruppamento diversa rispetto ad altre entità, quali la famiglia e lo Stato, ma una certa qualità delle relazioni, quali ad esempio la mutualità e la prossimità. Rispetto al pericolo che la comunità si leghi ad una forma di chiusura localistica, una funzione rilevante può essere svolta dalla figura dello straniero, così come ad esempio è stata pensata da Simmel [Simmel G. (2006), Lo straniero, a cura di D. Simon, Il Segnalibro, Roma], studioso delle metropoli. Lo straniero non è il viaggiatore che temporaneamente attraversa un luogo, ma colui che vi si insedia pur non appartenendovi originariamente, e che in quanto straniero porta con sé un punto di vista che non è mai del tutto assimilabile a quello della comunità. Lo straniero può essere l'espressione di un'istanza di universalizzazione, capace di superare il carattere particolare degli interessi locali. Lo straniero rappresenta lo sguardo neutro rispetto alla comunità, entità che, diversamente, rischia di essere troppo inclusiva e poco ospitale verso le differenze. Senza rimpianti verso forme pre-moderne di comunitarismo, si può cogliere ancora chiaramente, nella figura dello straniero, il nesso fra il sé e l'altro, quale necessario presupposto del processo di formazione dell'identità. Questa riflessione consente di passare da un modello di comunità protettiva, una sorta di fortezza che raccoglie i suoi appartenenti ma, quasi inevitabilmente, rischia di essere ostile nei confronti di coloro che ne sono esterni, per nascita o tradizione culturale, ad un modello di comunità aperta dove si sceglie di entrare e si può in ogni momento decidere di uscire. In questo senso la comunità non rappresenta uno strumento di conservazione, ma un'occasione di trasformazione della società, sollecitata da ciò che le rimane esterno, precisamente dallo straniero. Il modello deliberativo Il ripensamento della comunità locale in termini di apertura, quindi come movimento opposto a quello omologante della globalizzazione, si lega strettamente all'esigenza partecipativa. Volendo mettere insieme i due temi, un contributo utile sembra poter venire dalle riflessioni di alcuni filosofi della politica – ad esempio Habermas [Habermas J. (1974), Storia critica dell'opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari; Id. (1996), Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini, Milano. Rilevante la riflessione di L. Bobbio, La qualità della deliberazione. Processi dialogici tra cittadini, Carocci, Roma 2013] – sulla validità del modello deliberativo. L'espressione inglese “deliberative democracy” non trova una perfetta corrispondenza nella lingua italiana, in cui l'azione

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del deliberare viene associata agli effetti esecutivi di una decisione che è stata già presa, mentre nell'accezione anglosassone il verbo “deliberate” include anche il momento del dialogo. Il legame fra il modello deliberativo e la partecipazione si può cogliere forse in modo ancora più evidente in un momento in cui la pratica democratica rivela le sue debolezze. Una idea di democrazia basata semplicemente sul meccanismo del voto, soprattutto nel caso di sistemi politici che adottano un meccanismo maggioritario, tende strutturalmente a disincentivare la partecipazione, ad eliminare l'articolazione delle differenze, perché ci si raggruppa attorno a ciò che è maggioranza. In un modello deliberativo, invece, si può chiaramente riscoprire l'origine greca della democrazia, in cui l'organizzazione della polis si fonda sul dialogo, la discussione, la persuasione, tipiche categorie del pensiero politico greco, laddove la conflittualità delle diverse opinioni lascia sempre spazio all'aspettativa di una decisione comune. Nel modello deliberativo, l'aspetto fondamentale, a cui la pratica della democrazia maggioritaria sembra essere disabituata, è che tutte le posizioni sono legittime. Nella deliberazione ciò che è importante è la qualità dell'argomentazione, per cui anche una posizione minoritaria può riuscire, in forza dei suoi argomenti, ad effettuare una persuasione sugli altri. Il modello deliberativo è diverso sia rispetto al meccanismo quantitativo del voto, in cui lo scontro di opinioni deve produrre la supremazia dell'uno sull'altro, sia rispetto al modello della negoziazione, attraverso cui si organizza una suddivisione degli interessi rispetto ad un bene. La negoziazione è peraltro un accordo che presuppone l'unanimità dei contraenti, annullando ancora una volta le differenze. La deliberazione non è dunque né il meccanismo del voto quantitativo, né la negoziazione degli interessi, ed infatti costituisce il ribaltamento del modello dell'“economia classica”, fondata su individui che, come tali, non sono necessariamente in relazione con gli altri, e hanno come sola motivazione l'interesse privato. In questa logica, il modello deliberativo risulterebbe impraticabile perché ogni individuo sarebbe mosso solo dal proprio bisogno particolare. Il modello deliberativo potrebbe funzionare, e applicarsi a forme di democrazia partecipata, solo se si assume l'esistenza di qualcosa come un “bene comune”, e con esso anche di una sorta di identità collettiva – certo formata da parti che rimangono differenziate, secondo quel modello di comunità aperta precedentemente descritto – e di una motivazione che prescinda dal semplice interesse economico e quindi dal desiderio antagonistico di prevalere sull'altro. Il modello deliberativo si basa sull'accettazione di due premesse fondamentali: una di tipo etico-polico – la preferenza verso il bene comune –, l'altra di tipo tecnico-democratico – la parità fra i decisori. Rispetto al tema del conflitto, un aspetto molto importante da sottolineare è che, nel modello antagonistico, in cui l'individuo è un ente isolato in lotta con l'altro, le opinioni di ciascuno sono formate già prima del dibattito. Ogni individuo è portatore di interessi, valori, opinioni, e solo successivamente è impegnato a decidere come accordarsi con l'altro, attraverso strumenti quali il voto, la negoziazione, ecc. Nel modello deliberativo, invece, le idee si formano nel momento del dialogo, quindi il punto di vista individuale rimane disponibile alla trasformazione, e la scelta deve tenere conto

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delle argomentazioni reciproche, valorizzando quella che risulta più convincente e valida. In questo caso i soggetti non sono entità già formate, ma si costituiscono nel momento dell'incontro. Solo quest'ultimo modello sembra corrispondere ad una forma reale di democrazia partecipata perché si basa sul presupposto teorico che la verità si costituisca in modo plurale e sempre relazionale. Il modello deliberativo si accompagna anche all'idea di una progettazione partecipata. Solo se l'individuo può scegliere, se la sua opinione viene valorizzata, si sente motivato alla progettazione. Il riferimento ad Heidegger ci ricorda il legame fra progetto e spazialità: l'uomo progetta a partire dal suo “essere gettato”, dalla sua collocazione spazio-temporale che lo obbliga a relazionarsi e a modificare la realtà che lo circonda. Intanto nell'idea di progetto vi è già una scelta, si riconosce una inclinazione verso il futuro, verso il cambiamento. L'opzione fra conservazione e trasformazione esprime già una posizione etica, quindi di tipo filosofico. Inoltre, quando il mezzo (la partecipazione) diventa anche la finalità del progetto, si è di fronte ad un modello chiaramente prescrittivo. Perché il progetto sia possibile è necessario riconoscere ai soggetti innanzitutto il potere di fare, di influenzare l'ambiente in cui vivono, di poter assumere delle decisioni. La domanda che si pone è chi abbia la facoltà di progettare. Lo specialista, in questo caso l'architetto, avrebbe tutte le competenze necessarie per poter esercitare questo ruolo. Nel modello partecipativo di progettazione, l'idea è però quella di coinvolgere i soggetti su cui ricadranno gli effetti delle scelte. Nel caso della progettazione affidata agli specialisti, l'intento è quello di modificare le condizioni oggettive attorno ai soggetti, dunque questi ultimi sarebbero solo un elemento accessorio del progetto, che rimarrebbe essenzialmente un fatto tecnico. Il secondo modello, che vorrebbe legare la progettazione alla partecipazione, punta invece a modificare le condizioni soggettive, in modo che siano coloro che vivono in luogo a decidere la direzione del cambiamento, modificando essi stessi le condizioni oggettive che li circondano. Le istituzioni formative dovrebbero rendere i soggetti competenti per poter operare le loro scelte, e non sostituirsi ad essi. In questo modo si accrescerebbe la responsabilità e il senso di appartenenza, d'altra parte il dovere di essere competenti diventerebbe parte dello stesso diritto di cittadinanza. Sentirsi comunità C'è un legame fra il sentimento percettivo della comunità (il “sentirsi” comunità) e la partecipazione. Il modello deliberativo riconosce validità alla valutazione dei soggetti proprio nel momento in cui i criteri di scelta assumono una forma qualitativa. Potrebbe accadere che essi non sappiano perché producano certi giudizi, però li producono. La progettazione partecipata legittima tale punto di vista non specialistico in tutti i casi in cui usa tecniche di raccolta dati che vogliono offrire una testimonianza della percezione del luogo da parte dei suoi abitanti. Legittimare un punto di vista non specialistico vuol dire ripensare sia i livelli decisionali, secondo quella linea gerarchica che va dalle istituzioni nazionali alle comunità locali, che il potere degli specialisti, del sapere formalizzato rispetto al sapere informale. Seguire fino in fondo il modello deliberativo vuol dire

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mettere in discussione dei meccanismi consolidati, e forse affidabili, di natura verticale (dallo specialista al fruitore). La valorizzazione degli aspetti qualitativi, nel rapporto con i luoghi, si trova in un documento, la Convenzione europea del paesaggio del 2000, che afferma, nei primi articoli, che il territorio è ciò che è percepito dalle popolazioni. Si parte dal presupposto che il paesaggio non sia solo la manifestazione di alcune caratteristiche geografiche, ma anche il risultato dell'operare dell'uomo, del suo progetto, di un processo di significazione di tipo culturale. Il paesaggio è dunque la congiunzione di elementi geografici e simbolici, oggettivi e soggettivi. La percezione del paesaggio costituisce, secondo Norberg-Schultz [Norberg-Schultz C. (1979), Genius loci. Paesaggio, ambiente, architettura, Mondadori, Milano], una delle ragioni più profonde che spingono l'uomo a modificare l'ambiente in cui vive. Tale percezione non riguarda solo una dimensione individuale, ma una forma di rappresentazione sociale, una costruzione collettiva il cui valore culturale e simbolico è condiviso [per un visione complessiva degli studi filosofici sul tema del paesaggio segnaliamo l'antologia curata da P. D'Angelo, Estetica e paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009. In particolare per una riflessione sul paesaggio come elemento in cui si combinano geografia, cultura, società, vedi L. Bonesio, Paesaggio, identità e comunità, Diabasis, Reggio Emilia 2007]. Si tratta di un sistema interconnesso: la percezione sociale è un elemento strutturale del paesaggio, così come il paesaggio influenza le caratteristiche delle società umane. Così, la percezione ha un ruolo nella definizione della qualità del paesaggio, ma viceversa anche la qualità del paesaggio influenza le modalità percettive. Solo un soggetto capace di percepire il paesaggio può riconoscervi una qualità meritevole di tutela. Rimane comunque un punto problematico: dare rilevanza all'aspetto socio-culturale del paesaggio rischia di impedire che ad esso si riconosca un valore intrinseco? Aspetti che gli specialisti o alcuni cittadini potrebbero considerare rilevanti (biodiversità, mantenimento delle strutture paesistiche e urbane, continuità stilistica, valenza estetica) spesso non sembrano costituire delle priorità per le popolazioni. È senz'altro vero che una comunità ha la necessità di organizzare lo spazio, e quindi il paesaggio, secondo regole e codici culturali che sono ad essa propri, ma questo non garantisce che tali codici coincidano con un buon risultato ecologico o estetico. La produzione di località non necessariamente coincide con la produzione di qualità. Il livello qualitativo del paesaggio diventa rilevante solo se le comunità si dimostrano in grado di assumerlo come un sistema complesso non totalmente antropocentrico. Paradossalmente la percezione del luogo viene accresciuta nel momento in cui si riconosce che il paesaggio non dipende solo dall'attività umana, ma possiede una sua identità esteticoculturale. Dove invece il paesaggio non viene percepito come tale, ma solo come ambito delle attività umane, la tendenza è quella a negarne qualsiasi valore autonomo. Se va certamente riconosciuta la dimensione percettiva come un elemento determinante nella tutela del paesaggio, si deve anche ammettere che la qualità rimane in ultima istanza un elemento imponderabile. Se non si può pretendere di imporre un modello di rapporto con il luogo, ma non si

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vuole neppure rinunciare ad una qualità della progettazione, l'indicazione potrebbe essere quella di una valorizzazione della sfera educativa, quella che consente di imparare a vedere, dunque “a capire il significato dei segni umani sulla terra” [Turri E. (1974), Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano; Id. (2003), Il paesaggio degli uomini. La natura, la cultura e la storia, Zanichelli, Firenze; Id. (2006), Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Padova]. Solo da una comunità consapevole, competente, colta – non nel senso accademico del termine, ma come attitudine alla conoscenza del luogo – potremo aspettarci che maturi il desiderio del paesaggio. Un tentativo è offerto, in questo senso, dalle cosiddette “mappe di comunità”, in cui, attraverso un esercizio di autorappresentazione identitaria, che ha maggiore valore tanto più è soggettivo, viene realizzato un racconto dei luoghi importanti e insostituibili per gli abitanti, che essi conoscono per esperienza diretta e che vogliono conservare, in quanto luoghi della memoria, ricchi di significati simbolici. Le mappe di comunità utilizzano un linguaggio più impreciso ma anche più immediato, rispetto al linguaggio specialistico, rendendo accessibile la lettura dei caratteri di un territorio, e dunque più concreta la possibilità per gli abitanti di partecipare attivamente e di integrare le proprie opinioni con i saperi formalizzati. Il senso del paesaggio non si può considerare un automatismo, tanto meno lo è la qualità estetico-culturale, al contrario il desiderio del paesaggio può nascere solo da una scelta maieuticamente autoeducativa. Solo quando avremo imparato ad usare la vista riusciremo a vedere il paesaggio, dal momento che, come sosteneva già Simmel [Simmel G. (2006), Saggi sul paesaggio, a cura di M. Sassatelli, Armando, Roma], non si tratta della successione di caratteristiche geografiche, ma di quell'attività intellettuale che è in grado di comporne una rappresentazione. L'intreccio fra comunità e partecipazione è comunque di là da venire. Se la comunità è una parola rassicurante e protettiva, proprio per questo motivo non dovremmo mai desiderare che si realizzi pienamente [Vedi Bauman, Voglia di comunità, tr. it. di S. Minucci, Laterza, Roma-Bari 2007]. Come hanno messo in evidenza recenti studi filosofici, per quanto appare indispensabile un suo ripensamento, la comunità non è qualcosa che si possiede, una identità rigida di cui si fa parte. Non c'è un “proprio” della comunità, anzi per Roberto Esposito, la comunità è il munus [Esposito R. (2006), Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino], il debito che abbiamo gli uni nei confronti degli altri. La comunità non ci fa accedere ad una identità più forte, che dobbiamo conservare o di cui ci dobbiamo appropriare, ma al contrario ha una forza espropriante, strappa la soggettività a se stessa, è l'esposizione a quel comune che reciprocamente ci impegna. La comunità è sempre qualcosa che manca, che fa mancare a se stessi stessi e spinge oltre l'identità individuale. Per questo occorre decostruire quell'idea di soggettività proprietaria, mossa da un interesse esclusivamente privato, su cui si è costruita buona parte della dimensione politica.

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01, 02, 03 - Idee virali: Parking day; Janes walk’s; Play me, I’m yours 04, 05, 06 - Cantastorie 2.0: Roma Real Time, MIT; Yellow Arrow; Percorsi emotivi, Bologna 07, 08, 09 - Comunità creativa: Pallet Pavillion, Christchurch (Nuova Zelanda); City Repair, Oregon (Portland); Blok 4, Hestervelde (Amsterdam)


NUOVE PRATICHE DELL’ABITARE: TECNOLOGIE E COMUNITÀ CREATIVA PER I PAESAGGI DELLO SCARTO Antonia Di Lauro >UNIRC

Il riciclo di aree ed edifici abbandonati si pone oggi come priorità per avviare logiche di sviluppo sostenibile soprattutto nel contesto urbano, dove gli effetti della modernità sono maggiormente visibili nell’immagine di un paesaggio frammentato, standardizzato e omologato, in cui i luoghi sono svuotati di senso. Gli spazi irrisolti della modernità richiedono strategie di intervento basate su una logica di rete, capace di ricostruire il sistema unitario del paesaggio in tutte le sue relazioni fisiche e immateriali. E’ evidente che il riciclo non può limitarsi alla restituzione del solo valore funzionale ma deve comportare anche e soprattutto il ripristino di quelle relazioni che esprimono nella corrispondenza tra segno e azione [Turri, E. (2008), Antropologia del paesaggio, Marsilio, Venezia, pag 138] il sistema di valori identitari, storici, culturali che l’industrializzazione e la globalizzazione hanno dissolto. In quest’ottica è riconosciuto all’abitante un ruolo di primo piano dalla CEP. E’ l’abitante artefice del proprio ambiente di vita, come la comunità del paesaggio, opera collettiva in cui si riconosce. La partecipazione è dunque intesa come diritto e dovere che ogni individuo è chiamato a svolgere attivamente, interpretando il ruolo di attore/spettatore che nella contemporaneità riconquista la scena del teatro paesaggio [Turri, E. (2010), Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia, pag 13]. Un contributo importante nell’era dell’informazione è svolto dalle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT) che oltre a facilitare lo

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scambio di dati, conoscenza e sapere, operano un cambio di mentalità in numerosi campi della società contemporanea, in linea con quella che Levy definisce “intelligenza collettiva” [Levy P. (2002), Intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano] e che trova la sua attuazione nelle comunità open surce e peer to peer, prese a modello anche nel campo delle imprese e del design. La tendenza ad una collaborazione aperta e paritaria si riflette nello spazio pubblico che le comunità ridefiniscono aggregandosi in forma spontanea per esprimere idee e bisogni in modo creativo e innovativo. La comunità di paesaggio [Bonesio L., (2009), Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Bologna, pag 203] si ridimensiona secondo le logiche della rete ed esprime nuove pratiche di abitare in cui emergono valori identitari e sostenibili attraverso forme di occupazione e riappropriazione dei luoghi fondate sull’istaurarsi di network sociali, che in contrapposizione ad un approccio individualistico, lasciano intravedere nuovi stili di vita incentrati sulla condivisione. Tra movimenti globali e iniziative locali, si fa strada la consapevolezza delle comunità di essere parte attiva al cambiamento nell’ottica di una migliore qualità della vita e di una quotidianità sostenibile fatta di principi rispettosi dell’ambiente, di attenzioni rivolte ai propri luoghi e alle persone. I cambiamenti che Internet produce nel rapporto tra individuo e ambiente di vita forniscono spunti interessanti per nuovi modelli e strategie di governo partecipato del territorio. Le potenzialità delle ICT nell’assegnare un ruolo attivo all’abitante emergono in primo luogo dai fenomeni artistici legati alla pubblicità dei new media. Se, infatti, come afferma Mac Luan “la pubblicità è l’arte del XX secolo” è proprio questa che si pone all’avanguardia nell’evidenziare il cambio di mentalità che il web produce sugli individui, per sfruttarlo a proprio favore. Il sistema di oggetti della modernità, lascia il posto al mondo evanescente di Google [Altarelli L., Ottaviani R., (2007), Il sublime urbano. Architettura e new media, Mancuso, Roma, pag 23], alla dissoluzione del reale. Il cittadino si trasforma da fruitore passivo dei mass media a produttore di contenuti dei new media seguendo le logiche pubblicitarie che trovano nel consumatore il tramite tra mondo reale e web, in cui ogni attività si trasferisce. Da qui in poi eventi effimeri e performance artistiche rappresentano il trampolino di lancio di gruppi di persone che in maniera autorganizzata si coalizzano sulla rete per esprimere necessità e bisogni reali avvertiti nella città. Globale e locale, trovano un punto di contatto nello spazio urbano, luogo di confluenza tra virtuale e reale [Castells M., (2010), La città delle reti, Marsilio, Venezia, pag 76], tra comunità della rete e comunità di paesaggio, in cui si reclama il diritto di spazi qualificati e una migliore qualità della vita. Le tendenze bottom up che oggi si diffondono a scala planetaria, possono

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essere ricondotte a tre categorie principali, in alcuni casi complementari e sovrapposte, utili a comprendere come le comunità si organizzano per rispondere alle esigenze attuali. In tutti i casi le ICT rappresentano lo strumento abilitante che consente di rafforzare le relazioni sociali e facilitare la nascita di idee, la diffusione di iniziative e la collaborazione. Idee virali Negli ultimi anni, movimenti sociali, prodotto della rete e della cultura globale, organizzano eventi e azioni che si sviluppano come iniziative locali per estendersi attraverso il web in tutto il mondo. Pratiche bottom up trasformano temporaneamente la città e individuano modi alternativi di occupazione urbana. Spesso sono artisti e persone comuni che interrogano o interpretano i bisogni della comunità come il progetto di Candy Chang “Before I Die”, un’iniziativa che consente ai cittadini di scrivere i loro sogni su una lavagna collocata in un quartiere o “Parking Day” che allestisce un’area verde nel perimetro di un posto auto per protestare contro la cementificazione. “Guerrilla Gardening” che prende origine dallo storico movimento diventando la forma di protesta più diffusa al mondo, “Play me, I’m yours”, “Restaurant Day”, “Janes walk’s”, ecc…, sono tutti casi che associano all’espressione di un bisogno un’azione creativa nello spazio urbano. Grazie al web eventi e proposte diventano brand culturali e sociali che dal locale passano al globale interpretando le necessità diffuse dell’abitante contemporaneo. Ciò che caratterizza queste idee innovative è il fatto di essere una forma di globalizzazione non più guidata da governi o aziende internazionali, ma dalle stesse comunità locali, evidenziando la forza della collaborazione di massa. La maggior parte dei progetti si diffonde ad opera di gente comune grazie alla crescita dei social media. Le idee, partendo da un luogo, contaminano le comunità di altri contesti urbani che avvertono gli stessi bisogni e condividono le stesse idee. In questo modo luoghi marginali, scarti degradati e abbandonati della città, spazi anonimi e sottoutilizzati vengono risignificati da nuovi modi di vivere e nuove reti sociali. Rave parties, occupazioni temporanee abusive, spettacoli teatrali e manifestazioni culturali occupano le macerie contemporanee: capannoni industriali, case sfitte, complessi residenziali non ultimati, vuoti urbani, proponendo nuove destinazioni d’uso. Piattaforme informatiche, blog, social networks diventano agorà virtuali in cui la comunità discute, propone, organizza la prossima irruzione. “Neglected Spaces” a Londra è una piattaforma per segnalare spazi sottoutilizzati in 32 quartieri della città che vengono trasformati con eventi temporanei. In Italia, “Impossible Living” opera con lo stesso principio nella città di Bologna, mentre in modo più strutturato il progetto “Tempo Riuso” a Milano riattiva con interventi di occupazione temporanea i vuoti urbani, trasformandoli in luoghi produttivi e culturali.

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Dal riuso, occupazione autogestita, invasione effimera dei luoghi, emergono bisogni, problemi, proposte e idee di gruppi sociali che suggeriscono interventi semplici, economici e pratici per il riciclo creativo degli spazi, offrendo una soluzione “temporanea” al problema. Cantastorie 2.0 Le comunità della rete si riappropriano del paesaggio urbano restituendo valore a luoghi non convenzionali o identificabili come spazi di vita consolidati. Sono invece luoghi densi di relazioni, in cui emergono significati nuovi e condivisi, che costituiscono un immaginario collettivo fatto di emozioni, abitudini, pensieri personali e collettivi associati a spazi della quotidianità. Caratteri intangibili e soggettivi diventano i contenuti di nuove mappe informatiche che restituiscono la dimensione emotiva e sensoriale dei paesaggi. Il collegamento tra spazi geografici e virtuali viene utilizzato infatti come forma spontanea di comunicazione dagli utenti del web con lo scopo di condividere informazioni attraverso le tecnologie location aware : luoghi personali e collettivi sulla rete narrano un paesaggio inedito che evoca luoghi e risorse latenti percepite dagli abitanti. Emerge una geografia in cui ai dati spaziali si sommano aspetti sociali, culturali, soggettivi, esistenziali che riscoprono luoghi insoliti. “Yellow Arrow” e “Mur-mur” sono entrambi progetti di street art che lo raccontano. In Italia un caso simile è rappresentato da “Percorsi Emotivi” avviato da Urban Center Bologna. Gruppi di persone ed individui attraverso storie e racconti riconnettono luoghi sparsi nel mondo e all’interno di un ambiente urbano, con itinerari di immagini, video, suoni realizzati sui luoghi o associati ad essi. I fruitori diventano protagonisti e autori di storie individuali e collettive che affrontano specifiche tematiche connesse alla città: dall’ambiente al turismo alla vita quotidiana, contribuendo, in modo attivo, alla ridefinizione di un immaginario collettivo spesso assente. Le cybergeographies definite dagli utenti della rete diventano fondamentali per individuare, monitorare, studiare flussi di persone e attività come emerge dal progetto “At Night” avviato a Barcellona o dalle sperimentazioni del Sensable City Lab del MIT. Le mappe prodotte dai city users contribuiscono al recupero dei paesaggi in quanto rivelano i caratteri immateriali frutto della cultura, dei comportamenti, dei desideri della comunità insiti in quei luoghi spesso abbandonati e degradati che passano in secondo piano negli interventi urbani, facendo emergere il carattere intangibile del paesaggio, un patrimonio immateriale di usi, abitudini, saperi, stili di vita, emozioni, storie, associati ai luoghi. La definizione dell’immaginario collettivo rappresenta, di fatto, il recupero delle relazioni paesaggistiche cancellate e nascoste dalle trasformazioni moderne e dunque un ponte che riconnette passato e futuro, punto da cui ripartire.

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Comunità creativa Dalla folla proviene un impulso rigenerante che porta a riflettere su strade alternative da intraprendere per avviare logiche sostenibili di sviluppo. Nei micro-spazi urbani e globalmente collegati in rete si rintracciano infatti soluzioni innovative ed efficaci provenienti da un ritrovato senso di comunità degli individui. Emergono numerosi interventi nello spazio urbano fondati sullo scambio di competenze, sulla collaborazione e il supporto sociale, che vanno dall’assistenza a bambini e anziani, al co-housing, alle banche del tempo, al car-sharing, tutti volti a soddisfare le nuove esigenze degli stili di vita attuali. Questo insieme eterogeneo di casi rientra sotto il termine ombrello di social innovation che raggruppa azioni, progetti, idee capaci di attuare cambiamenti radicali nei contesti in cui agiscono. Sono iniziative prese da singoli individui che provano a risolvere collettivamente problemi riorganizzando risorse e attività preesistenti: servizi, luoghi, informazioni, prodotti. Secondo Manzini se, come il matematico francese Henri Poincarè sostiene: “creatività significa unire elementi preesistenti in nuove combinazioni utili” allora queste minoranze emergenti possono essere definite come “comunità creative”. Radicate nei luoghi, utilizzano in modo intelligente le risorse locali e sono collegate a reti e servizi simili con cui scambiano esperienza e condividono problemi a scala globale. Le comunità creative propongono nuove soluzioni che conciliano gli interessi individuali con gli interessi sociali e ambientali dimostrando di avere un’alta probabilità di diventare soluzioni autenticamente sostenibili [Manzini E., (2006), “A laboratory of ideas. Diffuse creativity and new ways of doing”, in Meroni A. (a cura di), Creative Communities. People inventing sustainable ways of living, Polidesign, Milano, pag 14]. Chiara Caponeschi in Enabling city individua nella comunità fondata su place-based creative problem-solving, l’evoluzione del concetto di cittadinanza attiva di Lefebvre con i caratteri dell’inclusività, creatività, interdisciplinarità: “si tratta di processi di trasformazione collettiva che avvengono a un livello molto popolare, e realmente democratico, attraverso il dialogo, la collaborazione, la riscoperta della quotidianità, questo particolare approccio alla partecipazione…potenzia l’immaginazione e l’inventiva dei cittadini, degli esperti, degli attivisti in sforzi condivisi che rendono le città più inclusive, innovative e interattive” [Camponeschi C., The Enabling City: Enhancing Creative Community Resilience, (on line), pag 44). Nello specifico del progetto urbano numerosi esempi hanno contribuito negli ultimi anni al riciclo dei luoghi. Il progetto avviato nel quartiere di Hestervelde ad Amsterdam trasforma un complesso residenziale destinato alla demolizione in un creative hot avviando un processo di rigenerazione in primo luogo sociale. “City Repair” a Oregon (Portland), è un’operazione di place-making che agisce su incroci stradali considerati come punti focali del quartiere riqualificati in piazze pubbliche. “Pallet Pavillion” a Christchurch, (Nuova Zelanda), è un progetto di crowdfunding volto alla

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ricostruzione di uno spazio comune per eventi di cui la città è stata privata in seguito al terremoto. La capacità di problem solving dimostrata dalle comunità creative apre nuove possibilità al riciclo degli spazi in quanto si fonda sui principi della collaborazione, dell’autorganizzazione e della creatività che inducono il singolo e la comunità a riappropriarsi dei propri luoghi, a tornare a interpretare il ruolo di attore dentro il teatro paesaggio. Ri-creare paesaggi I progetti citati raccontano di una comunità che torna ad abitare: a volte temporaneamente, occupando, altre volte sulla rete, raccontando, altre ancora concretamente, rimodellando lo spazio urbano. L’individuo prende consapevolezza della possibilità di attuare un cambiamento avvalendosi della collaborazione e la cooperazione a scala locale e globale: sviluppando empowerment di comunità e organizzandosi in modo autonomo, prova a migliorare i luoghi che abita, conformandoli a necessità e bisogni della contemporaneità. “Adeguando il suo ambiente, l’uomo, crea un paesaggio: un cantiere eterno per realizzare il progetto del suo mondo” [Venturi Ferriolo M., (2009), Percepire paesaggi. La potenza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino, pag 72]. Venturi Ferriolo fa notare come attraverso la costruzione dello spazio, plasmato su esigenze concrete, l’individuo predispone la sua dimora, si emancipa dal puro stato di natura con l’azione del fare, del produrre paesaggi, esercitando il suo ingegno e contribuendo all’immagine di un paesaggio come opera d’arte collettiva. In origine l’uomo crea la cultura: “seconda natura” umana, attraverso la quale si emancipa dalle forze ostili dell’ambiente in cui abita (Ib. pag 198). Nella contemporaneità egli “ri-crea”, recuperando e ridisponendo in nuove combinazione gli scarti della modernità. Assegna nuovi cicli di vita al paesaggio, producendo una “seconda natura”, in risposta alla “foresta urbana” [Pavia R., (2005), Le paure dell’ urbanistica, Meltemi, Roma, pag 71] a cui deve adattarsi. Nel riciclo creativo, che le pratiche bottom up attivano nei luoghi, l’azione non è puramente funzionale, economica, produttiva, ma diventa espressione etica/estetica della comunità, che attraverso un linguaggio condiviso, esprime significati identitari e racconta il proprio rapporto con l’ambiente, ritornando a definire le relazioni di paesaggio che concorrono nello spazio trasformandolo in luogo. Mulgan e Landry ritengono che “l’innovazione sociale sia particolarmente diffusa nel momento in cui le istituzioni esistenti mostrano segni di tensione e quando problemi di coesione sociale, disoccupazione, decadimento urbano…sembrano resistenti alle soluzioni classiche” [Mulgan G., Landry C. (1995), “Creativity and Social Innovation”, in The Other Invisible Hand: Remaking Charity for the 21st Century, Demos, London]: la crisi contemporanea in tal senso ridesta l’ingegno e l’azione dell’abitante che prova a rispondere ad un

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ambiente ostile, con una “seconda natura”, innovativa, creativa, fondata sulla collaborazione. In quest’ottica la comunità, sostenuta e indirizzata da enti locali e coordinata da professionisti, può diventare una risorsa fondamentale nei processi di co-design di luoghi e servizi volti a definire, tra innovazione sociale, tecnologica e istituzionale, nuovi cicli di vita per aree ed edifici dismessi

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UN NUOVO UMANESIMO: VERSO IL RINASCIMENTO DELLE COMUNITÀ Massimiliano Pontillo >Pentapolis Onlus

Nell’era industriale ci siamo preoccupati di progettare e gestire il paesaggio urbano come un set, o meglio una scenografia, piuttosto che come un ecosistema centrato su un giusto equilibrio tra risorse naturali e umane. Da qualche decennio, invece, si è cominciata a sentire la necessità di un diverso approccio, sostenibile, per minimizzare l’impatto sull’ambiente e al contempo massimizzare più valori socio-economici nel lungo periodo: oggi si parla della città come “organismo vivente complesso”, dinamico, in costante trasformazione, caratterizzato da processi di socializzazione, partecipazione e sensibilizzazione, capace di riorganizzarsi con elementi mutevoli nel tempo. Un sistema aperto, dove convivono alcuni input quali energia, materiali e informazione e alcuni output quali rifiuti e altra informazione: il progresso tecnologico e la disponibilità di energia (non infinita) ha accresciuto la quantità di entrambi, mandando quasi in tilt l’intero impianto. Voglio evidenziare due fenomeni globali che stanno orientando il nostro futuro: lo svuotamento delle campagne con la conseguente migrazione della popolazione nelle aree metropolitane, e la pressante impronta dell’uomo sulla Terra con relativi cambiamenti climatici. All’inizio del 1900 solo il 15% circa dell’umanità viveva in città, nel 2009 la società è diventata a maggioranza urbana e nel 2050 supererà il 70%; circa un miliardo di essere umani andranno a vivere in centri che oggi

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hanno cinquecentomila abitanti, trasformandoli così in megalopoli con oltre 10 milioni di cittadini. In tale scenario la popolazione italiana è stabile da 25 anni: non si può affermare lo stesso per le costruzioni che sono aumentate esponenzialmente e con loro anche la cementificazione. Il suolo urbanizzato è stimato in 2,5 milioni di ettari pari a circa l’8% del territorio nazionale. In Europa, così come in Cina, India e America Latina, gli stili di vita stanno mutando, ed evidenziano sempre più la pretesa di servizi e accesso a beni economici e relazionali diversi da quelli del secolo scorso: frutto di una preoccupazione dovuta alla crescita esponenziale dei consumi, che non ha coinciso con una maggiore felicità. E’ necessario intraprendere un nuovo percorso di ricostruzione e sostituzione urbana, non estendendo nuove città nel verde naturale o agricolo circostante, ma “concentrando” gli edifici attorno ai centri nevralgici, ai nodi di trasporto pubblico, utilizzando tecnologie intelligenti e senza consumare ulteriore suolo: possiamo parlare di eco-densità, come conversione della città infinita. Le polis del futuro andranno progettate in maniera integrata e partecipata, abitate da persone aperte e interessate a sviluppare relazioni che creino una collaborazione sinergica con le istituzioni, le università, le associazioni e le imprese, sfruttando le nuove tecnologie dell’informazione capaci di coniugare sviluppo economico, sociale e ambientale. Le innovazioni ambientali (energie rinnovabili), tecnologiche (informazione) e di sistema (condivisione) rappresentano certamente una leva importante del cambiamento. Si avverte una domanda sempre più crescente di trasparenza, una richiesta di dialogo sulle strategie di pianificazione del territorio e un’ampia discussione sulla sua tutela e identità: una ricchezza che dovremmo preservare. E’ fondamentale però una visione strategica illuminata e una più lungimirante governance, che sappia intrecciare e unire la bellezza, l’intelligenza, l’innovazione e la creatività. Bisogna fare “sistema”, creare una rete per la diffusione e la disponibilità della conoscenza: disegnare un modello urbano capace di garantire un’elevata qualità della vita e una crescita personale degli individui e delle aziende, minimizzando lo sforzo per i bisogni primari e materiali tipici di una società consumista. Si dovrebbe redigere un piano urbano per la “green-social innovation”, che affronti e risolva problemi di grande rilevanza come la riduzione delle emissioni attraverso tecnologie pulite, le infrastrutture intelligenti per la mobilità, un welfare più equo. La smart city, in tale prospettiva, può essere vista come la declinazione di un nuovo modello di comunità post-moderna: luogo privilegiato di creatività, di innovazione, di connessione tra locale e globale; ambito in cui

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si concentrano le funzioni più avanzate, i centri decisionali, contesto in cui si forma e sviluppa la forza lavoro intellettuale. Occorre rimettere in gioco la struttura stessa del modo di abitare, la convivenza recente tra città storica e città contemporanea. Sono necessari nuovi legami e la costruzione di una nuova qualità urbana nel recupero per esempio delle aree edificate dismesse; dove anche l’architettura può giocare un ruolo straordinario, trasformandole in contesti urbani semplicemente più belli e capaci di dare una giusta dignità ai loro cittadini. Mi piacerebbe che il prossimo e imminente periodo storico desse vita a un nuovo Umanesimo, caratterizzato dal “Rinascimento delle Comunità”: in cui soddisfare i bisogni di una generazione non comprometterà la qualità della vita di quelle future, perché il progresso avverrà in armonia con la natura e nel rispetto della giustizia sociale. Per la prima volta nella storia, si potrà assistere ad un fenomeno attivo: il risultato generale di una iniziativa condivisa. Come sarà la città del futuro? Un laboratorio delle tecnologie verdi, del buon vivere e degli stili di vita sostenibili, capace di trovare un equilibrio, uno scambio reciprocamente vantaggioso con l’agricoltura e con la campagna che la circonda. Abbiamo bisogno di ridisegnare l’hardware di un software già presente. Se è vero quindi che la città del domani è in realtà quella che già abbiamo e di cui dobbiamo prenderci cura, non significa che non sia necessaria una vera e grande trasformazione. Le metropoli low carbon si ri-costruiranno dal basso e dall’alto, frutto dell’impegno congiunto delle scelte individuali dei suoi concittadini e della coerenza e dell’esempio della classe dirigente. Occorrono politiche smart, fatte da gente altrettanto smart. Il progetto di futuro chiama in causa noi tutti. Un’utopia concreta.

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LE COMUNITÀ E RE-CYCLE. ESPERIENZE

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01, 02, 03 - Disegni dell'autrice


FROM LANDFILL TO LANDSCAPE. IL PROGETTO PARTECIPATO PER LA RIQUALIFICAZIONE DELLE EX- DISCARICHE Venera Leto >UNIRC

In Europa ci sono approssimativamente 150.000 discariche che ricoprono circa 300.000 ettari. Il progetto di riqualificazione delle ex discariche è non solo la risposta ad un' urgenza, legata ai problemi di carattere igienico sanitario che comportano, ma anche un' opportunità. Il riciclo di questi territori è, infatti, una valida alternativa al consumo di suolo e offre la possibilità di creare aree verdi in zone ove il tessuto urbano lo impedisce. Una fase fondamentale del progetto di bonifica delle ex-discariche è quella della partecipazione: la sensibilizzazione, l'interazione della comunità interessata e la realizzazione di scelte progettuali condivise è fondamentale per la buona riuscita dell'intervento. Un' ex discarica è un luogo, dal punto di vista psicologico, difficile da accettare: genera molti pregiudizi che ne penalizzano la fruizione. La partecipazione pubblica, nel caso dei progetti di bonifica, è il tentativo sistematico di coinvolgere i cittadini nel processo decisionale legato alla progettazione, alla valutazione dell' attuazione degli interventi ed alla scelta delle destinazioni d'uso postdiscarica Il fine è non solo garantire e migliorare l'accettabilità sociale di questi luoghi, favorendo processi di rafforzamento della comunità, ma anche la progettazione di uno spazio pubblico che è davvero costruito secondo la volontà del pubblico. Il processo condiviso nel caso di progetti di recupero del paesaggio può avvenire attraverso differenti mezzi: incontri pubblici, workshop, giurie cittadine, gruppi di lavoro, blog, siti internet, social networks, posta elettronica, sondaggi diretti, interviste, seminari

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pubblici etc. Mt Trashmore Park in Virginia è stato uno dei primi esempi di riconversione di discarica in parco. La discarica, che ha accolto rifiuti dal 1960 al 1971, presentava dopo la sua chiusura un problema irrisolto. Robert E. Dorer, allora direttore del Dipartimento di Salute del Commonwealth, pensò a questa soluzione e dopo la costituzione di un gruppo progettuale di esperti avviò un processo partecipativo coinvolgendo la comunità locale, esasperata dalle esalazioni fetide della discarica, istruendola sulla possibilità che un parco sarebbe potuto nascere al posto della discarica. Inizialmente vi era un sacco di cinismo e pessimismo nei confronti del progetto ma gradualmente l'opinione pubblica venne modificata e il processo continuò sino all'apertura dei 66 ha del parco nel 1974. Con presenze di oltre un milione di visitatori l'anno, Mt Trashmore Park è oggi il parco più amato dai cittadini. Fresh Kills è il nome dell'area che di 220 ha venne utilizzata come discarica di rifiuti solidi e inerti della città di New York dal 1947 al 2001. Nel 2001 il Dipartimento di Urbanistica della città ha indetto un concorso di progettazione per la riqualificazione dell'area il cui obiettivo era quello di generare idee e progetti innovativi che rispondessero alle esigenze della comunità e della Città. Il gruppo vincitore, Field Operation, è stato scelto per la reinterpretazione di Fresh Kills come un paesaggio ecologico e accessibile. All'inizio del processo di pianificazione non era ancora del tutto chiaro quale fosse la principale destinazione d'uso del progetto. A tal fine, è stato avviato un intenso processo di partecipazione in cui si sono confrontati decisori politici, progettisti e abitanti. Questo iter ha permesso di individuare le principali aspirazioni e preoccupazioni della Comunità e ha contribuito alla costruzione del consenso incoraggiando il processo di bonifica. Il Master Plan di Progetto, presentato al Comune nel 2006, è l'espressione diretta dei bisogni e delle aspirazioni della comunità e mira al recupero delle connessioni non solo dei sistemi naturali ma anche sociali. Attraverso l'analisi di questi casi studio mi è stato possibile individuare alcune linee strategiche per il processo partecipativo: 1) Sin dalla prima fase progettuale è importantissimo instaurare un dialogo tra progettisti, autorità locali e membri della comunità divulgando e ottenendo informazioni; 2) Il processo di partecipazione deve essere efficace e coinvolgere, attraverso tutti i media disponibili, tutte le persone che sono direttamente o indirettamente interessate dal progetto; 3) Un aspetto focale del processo è comunicare i possibili rischi, sia in fase progettuale che a progetto concluso, in modo schietto e onesto considerando in modo molto serio le paure dei cittadini. L' instaurarsi di un legame affettivo con gli spazi della quotidianità, il rafforzamento del sentimento di appartenenza ad una collettività, la percezione di influenza e controllo degli eventi modificano il modo con cui gli individui si relazionano col luogo in cui vivono, anche in termini di cura e abitudini ambientali.

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La discarica, inoltre, può divenire un esempio rappresentativo per rendere evidente l'importanza della relazione tra individuo e paesaggio. Così come, attraverso l'azione di ognuno, si possono creare enormi paesaggi insalubri come le discariche parimenti, grazie al supporto di ciascuno, si possono creare paesaggi di qualità. L’importanza di questi parchi è legata,infatti, soprattutto all’aspetto educativo e sociale: avere la possibilità di usufruire di un parco, laddove un tempo giaceva una discarica, permette di sviluppare una nuova sensibilità e responsabilità verso i paesaggi degradati e modificare l’atteggiamento percettivo e comportamentale verso il ciclo dei rifiuti e verso i luoghi rifiutati stessi.

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CONDIVIDERE: FORMULA VINCENTE COHOUSING E SOCIAL HOUSING, CINQUE ESEMPI IN ITALIA E ALL'ESTERO LEGATI AL CONCETTO DI CONDIVISIONE DEGLI SPAZI Antonia Solari Floriana Morrone >RIVISTA Casa Naturale

Cohousing e Social Housing, Cinque esempi in Italia e all'estero legati al concetto di condivisione degli spazi Abitare “in modo diverso” è possibile ed è un bisogno crescente non solo del committente che ha la possibilità economica e il desiderio di costruire per sè e per la sua famiglia una villa. Occorre una riflessione critica sul mercato edilizio del nostro Paese che troppo spesso ci condiziona e ci obbliga ad uno stile di vita non coerente con i nostri desideri e i nostri principi. La proposta di un nuovo modello di sviluppo, alternativo all'abitazione in appartamento in termini di equità, sostenibilità e stili di vita esiste ed è legato al concetto di condivisione. Un valido esempio è la formula del cohousing che conta più di mille insediamenti nel mondo e propone un modello di partecipazione attiva degli spazi: un micronido per i bambini, un orto o una serra, un living condominiale, un servizio di car sharing o un servizio di portineria che paga le bollette e ritira la spesa. L'estensione di questo concetto è la nuova frontiera dell'edilizia popolare, il social housing, che al modello condiviso aggiunge costi competitivi per la realizzazione e per la gestione della struttura. Un'utopia? No, se il contenimento dei prezzi è legato alla razionalizzazione delle risorse e al reperimento delle materie prime nelle aree geografiche più vicine all'ecovillaggio.

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Obiettivi e vantaggi Il principale obiettivo del social housing è quello di soddisfare la domanda abitativa delle giovani coppie e delle famiglie in difficoltà che non riescono ad accedere agli alloggi del libero mercato, ma anche di rispondere alla crescente necessità di persone con esigenze abitative di natura temporanea a basso costo come lavoratori precari, studenti, ricercatori. La formula abitativa del cohousing in questo caso costruisce e implementa un modello gestionale economicamente e socialmente sostenibile che sia in grado di offrire oltre ad un’offerta abitativa di qualità, attività ricreative, sociali e culturali. Il valore aggiunto è quello di favorire l’aggregazione fra i residenti e la rivitalizzazione del quartiere. In questo tipo di edilizia è prevista le creazione di un contesto sociale animato e innovativo. Uno spazio pubblico principale solitamente è pensato come luogo di relazione fra il nuovo insediamento e la comunità esistente. L’ottica è quella di attivare un sistema di servizi in grado di coinvolgere e includere il quartiere circostante, rispondendo ad una esigenza percepita su scala cittadina. Progettare con questa formula edilizia e urbanistica nel nostro Paese potrebbe garantire anche la riqualificazione di quartieri abbandonati o degradati che potrebbero essere trasformati restituendo risorse edilizie al territorio e puntando su un modello socialmente compatibile. Vediamo alcuni esempi in Italia e all'estero. Due esempi italiani di social housing Progetto NOVE+ : la sostenibilità ambientale inizia dalla struttura Nasce dalla collaborazione di quattro aziende altoatesine (Calligione, Ligno Alp, Schmidhammer e Obrist) con il supporto scientifico del Politecnico di Milano (Dipartimento Best), dell’Università di Trento (Centre for Aesthetics in Practice) e del TIS Innovation Park di Bolzano, e combina la prefabbricazione, la razionalizzazione del cantiere e l’uso consapevole dei materiali. L'elemento fondante del progetto è la struttura. Il progetto si avvale del sistema costruttivo in legno “parete a telaio”, costituita da un’orditura di adeguate dimensioni, tamponata su entrambi i lati con pannelli in legno e saturata al suo interno con isolante in fibre naturali. Il legno non ha bisogno di energia esterna per essere creato, si “autoproduce” naturalmente ed è l’unico materiale davvero rinnovabile ed illimitato. Inoltre, è CO2 neutro: in ogni metro cubo di legno è accumulata una tonnellata di CO2, quindi è in grado di alleggerire l’atmosfera di grandi quantità di gas responsabili dell’effetto serra. Il progetto NOVE+ utilizza solo legno proveniente da foreste gestite in maniera sostenibile e certificate PEFC o FSC. “I punti essenziali su cui si basa l’efficienza energetica di questo progetto”, dichiara l'architetto e project manager Silvia Cappelli, “ sono il potere termoisolante, l’inerzia termica e il volano igrometrico. Questi

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elementi lo rendono molto vantaggioso nel taglio dei costi energetici, sia durante l’inverno che in estate. Inoltre, la configurazione del suo involucro assicura agli edifici livelli prestazionali da Casa Clima A secondo il protocollo della Provincia di Bolzano, (pari ad un bisogno termico< 30 kWh/m²a). Le prestazioni energetiche degli edifici costruiti con il progetto NOVE+, inoltre, possono essere ulteriormente implementate integrando impianti geotermici e fotovoltaici per lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabili”, conclude. Il progetto garantisce ampia variabilità e personalizzazione sia dell’edificio che delle tipologie degli alloggi, grazie ad una griglia di costruzione ottimizzata che regola la flessibilità del sistema in termini di utilizzo (adattabilità e personalizzazione dei materiali di finitura interna ed esterna), lay-out (manutenzione), tecnologia (sistema costruttivo ed impiantistico strettamente integrati) e di modulabilità delle prestazioni, dell’involucro e dell’edificio nel suo complesso. Costi accessibili a fronte di una eccellente qualità I costi del progetto NOVE+, per un edificio casa clima A si aggirano intorno a 1.300 -1.400/m2 con platea di fondazione e kit di progettazione completo, inteso con assistenza “chiavi in mano”. A seconda delle esigenze e della tipologia del progetto, della scelta della committenza di dotare l’edificio di arredo base o del tipo di caldaia, il prezzo varia (www. progettonove.net?). Progetto §/e $lbere¨: quando la certi±cazione testimonia la qualità Lo scorso novembre i primi 180 alloggi del quartiere modello “Le Albere” progettati da Renzo Piano, a Trento, hanno guadagnato la certificazione CasaClima A. Il progetto ha avuto tra le linee fondanti una particolare attenzione al tema del risparmio energetico di ciascun edificio, mirando in fase di progettazione esecutiva e di realizzazione ad alti standard in termini di coibentazione e di controllo della dispersione termica. Le prestazioni di risparmio energetico degli edifici destinati a terziario e residenza sono garantite dalla certificazione CasaClima. Le garanzie Il processo di certificazione è stato avviato nel 2009 per volontà della committenza, al fine di garantire ai futuri utilizzatori di tale quartiere un elevato comfort abitativo e consumi energetici ridotti, grazie anche al collegamento alla centrale di trigenerazione. Considerate le dimensioni dell’intervento, si è optato, infatti, per un sistema energetico centralizzato che, in termini di economia di scala, ottimizzi le risorse e riduca i costi gestionali del nuovo quartiere Le Albere. Oltre a ciò, si è scelto di adottare un sistema a pannelli fotovoltaici che riflette chiaramente l’orientamento innovativo di tutto l’intervento: questo sistema, infatti, fa parte di quelle tecnologie volte a un minor consumo e ad un maggior controllo delle risorse.

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Le tecnicKe costruttiYe ±nalizzate al comfort abitatiYo Gli edifici sono stati realizzati con un sistema costruttivo tradizionale: telaio strutturale in cemento armato, tamponamento in laterizio e copertura con struttura discontinua in legno. La coibentazione delle pareti è garantita da un cappotto esterno in polistirene espanso con grafite di 13 cm di spessore, la copertura è isolata termicamente con uno strato in fibra di legno di spessore superiore ai 24 cm. Le finestre hanno tutte telai in legno di larice ad alte prestazioni energetiche e vetrate termiche monocamera basso-emissive. Ogni appartamento è dotato di un sistema di ventilazione meccanica controllata, in grado di mantenere un elevato grado di qualità dell’aria e di comfort termico sia durante l’inverno sia durante l’estate. Attualmente sono stati certificati i blocchi denominati B, con destinazione uso uffici, e i blocchi denominati C e D, con destinazione residenziale (circa 180 appartamenti destinati, a fine progetto, a superare le 350 unità) (www.lealbere.it). Un esempio di cohousing italiano Progetto “Eco–quartiere di Quattro Passi”: il punto di vista degli inquilini Ideato a Treviso dallo Studio Tamassociati in collaborazione con la Cooperativa Pace e Sviluppo, l'Associazione Cambieresti? Onlus, EcoDomus e la Cooperativa Sa. Fra. La Cooperativa Pace e Sviluppo, il commercio equo e solidale, il terzo settore stanno sperimentando una riflessione critica circa il mercato edilizio che troppo spesso condiziona e obbliga ad uno stile di vita non coerente con i desideri di chi abiterà la casa. Questi enti intendono proporre un nuovo modello di sviluppo, alternativo in termini di equità, sostenibilità, stili di vita dove si può provare a immaginare la casa come il luogo dove si realizza il benessere. Ma vediamo quali sono le motivazioni che spingono il committente ad orientarsi verso questa scelta abitativa con la testimonianza di Federica Massolin, futura inquilina dell’Ecoquartiere. “Ho scelto questa formula”, racconta l'inquilina, “perché mi consente di vivere in un contesto dove predomina il verde (5 mila metri in comune e 700 a testa per abitazione), cosa che solo una villetta singola avrebbe potuto garantirmi”. Quali saranno i vantaggi sociali di abitare in cohousing? “Il principale vantaggio a livello sociale è quello di avere dei vicini con cui instaurare uno scambio, non sfuggenti o arroccati nelle proprie vite come molto spesso avviene. Per le sette famiglie che abiteranno l’Ecoquartiere è prioritaria la relazione, che si traduce in un dialogo quotidiano ma anche concretamente nello scambio di qualche ingrediente o nell’offrirsi per tenere i bambini anche altrui”. E i vantaggi economici? “All’investimento iniziale maggiore (pannelli solari, caldaia centralizzata a pellet, ecc.) corrisponderà un vantaggio economico nella gestione quotidiana dei

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servizi. A ciò si aggiunge il fatto che vi sarà una divisione dei compiti tra gli abitanti (chi si occuperà del verde, chi degli aspetti amministrativi, ecc.) che consentirà di risparmiare su spese altrimenti necessarie, come il giardiniere, l’amministratore e altro (www.ecoquartierequattropassi.it). Due esempi di cohousing in Gran Bretagna e Stati Uniti Progetto LILAC: basso impatto e basso costo per il cohousing d'avanguardia Subito, dalla sua definizione, la sintesi dell'idea di progetto: LILAC, infatti, è l'acronimo di Low Impact Living Affordable Community (comunità residenziale conveniente e a basso impatto ambientale). Siamo a Bramley, nel Leeds, in Inghilterra, e proprio qui è stato di recente inaugurato un quartiere che riassume tutte le caratteristiche virtuose del cohousing: si tratta di circa venti unità abitative costruite seguendo i dettami della bioarchitettura, cercando di calmierare i costi per essere accessibili a diverse fasce sociali e diventare non solo la sede del costruire sostenibile ma anche il punto di partenza per la nascita di una comunità. Dal punto di vista progettuale e compositivo, le venti residenze sono state costruite con materiali locali, cercando di contenere i consumi di energia e di risorse per raggiungere gli standard delle case passive. Per ottenere questo risultato è stato applicato un sistema innovativo, basato sull'uso di pareti composte da pannelli in legno, uno strato di isolamento in paglia e un successivo strato di Modcell. Si tratta di un pannello prefabbricato, realizzato da un'azienda di Bristol, in grado di garantire un'ottima efficienza nella regolazione di umidità e temperatura. La costruzione di un involucro passivo, abbinato al rispetto di comportamenti virtuosi nella quotidianità e relativi ad ogni momento della giornata (dalla scelta dei mezzi di trasporto, come il car sharing, alla rispetto rigoroso di una dieta basata su alimenti provenienti da agricoltura biologica), ha permesso a LILAC di ottenere una serie di riconoscimenti e premi in varie discipline, trasformandolo in un esempio che diverse altre città inglesi stanno cercando di replicare. Fra i motivi fondamentali, anche la lotta alla crisi immobiliare e ai prezzi inaccessibili alle fasce sociali medie; grazie al sistema economico MHOS, Mutual Home Ownership Scheme, basato su un leasing flessibile, abitare a LILAC è una soluzione possibile; secondo il regolamento, infatti, il costo mensile da affrontare npon super il 35% di un salario netto (www.lilac. coop). Certi±cazione LEE' N' per :ashington Village In Italia, la certificazione sull'efficienza energetica e sull'impronta ecologica LEED, Leadership in Energy and Enivronmental Design, è diffusa soprattutto per singoli edifici e unità abitative. Negli Stati Uniti, invece, è diffusa anche la LEED ND, Neighborhood Development, dedicata ad interi quartieri costruiti seguendo filosofie green e pratiche virtuose. Fra i primi progetti ad aver ottenuto questa certificazione, il

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Washington Village a Boulder, in Colorado, che grazie ai suoi criteri costruttivi e all'organizzazione dell'abitare comune viene riconosciuto come progetto pilota per il cohousing oltreoceano. Il complesso residenziale, finanziato da Wonderland Hill Development, ha l'obiettivo di proporre un nuovo sistema di vita, in cui la sostenibilità dell'insieme viene vissuta nella pratica di tutti i giorni. “Abbiamo considerato la bioarchitettura nel suo significato più ampio, comprendendo la gestione dell'ambiente, la sostenibilità sociale e la definizione di costi calmierati”, conferma Jim Leach, presidente di Wonderland. Distribuito su circa quattro ettari, il quartiere verrà terminato all'inizio del 2015 e comprenderà 33 unità residenziali, divise in cinque tipologie legate soprattutto alle dimensioni disponibili. Il range varia dai 60 ai 370 metri quadrati, per costi che varieranno fra 80,000 a 1,500.000 dollari. Oltre agli spazi comuni, dalla biblioteca, alle sale per la comunità, alle cucine per più unità residenziali, un punto di forza dell'intero progetto è legato ai sistemi per l'approvvigionamento energetico e il contenimento dei consumi. L'installazione di un sistema fotovoltaico di 7,5 kW per famiglia, e di un impianto geotermico garantiscono al Washington Village un bilancio positivo sui consumi, raggiungendo i severi standard fissati da LEED, non solo riguardo all'edilizia efficiente ma, allargando la scala, alla progettazione virtuosa di quartieri residenziali innovativi. Tre, i criteri compositivi rispettati al Washington Village e che ne hanno permesso la certificazione: la promozione di un'organizzazione degli spazi e dei percorsi in grado di ridurre considerevolmente i consumi legati alla mobilità; lo sviluppo di una viabilità che permette al singolo di raggiungere ogni punto del quartiere anche a piedi; la messa in pratica di sistemi per il contenimento nel consumo delle risorse, soprattutto acqua ed energia, e la costruzione di infrastrutture di ultima generazione (www.whdc.com). Dalla casa all'arredo: I mobili si comprano insieme Oggi la modalità di distribuzione del G.A.S., il gruppo di acquisto solidale, che in Italia sta conquistando un ruolo significativo, si estende anche a beni durevoli e non di prima necessità, come l’arredamento. Il made in Italy in questo settore si mette a disposizione del sociale, e si potranno trovare arredi e finiture di qualità, realizzati da importanti aziende del design italiano, anche in progetti di Social Housing, destinati quindi a un’utenza di fascia medio-bassa. Dal produttore al consumatore L’iniziativa è di FederlegnoArredo, l’associazione delle aziende che ruotano attorno al mondo dell’abitare, messa a punto per arredare le abitazioni di alcuni progetti di abitazioni in Social Housing in collaborazione con alcuni operatori del settore immobiliare, e anche per trovare nuovi canali di sbocco ad un settore produttivo che è il fiore all’occhiello dell’industria

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italiana ma che da alcune stagioni sta vivendo una profonda crisi a causa della stagnazione del mercato immobiliare. La novità è che il catalogo “per gruppi di acquisto” si rivolge non solo agli operatori che sono interessati a inserire determinati arredi nei propri progetti come la modalità “contract” fa da sempre, ma anche alle famiglie di inquilini che possono accordarsi per comperare insieme, a un prezzo vantaggioso grazie non solo al fatto che si tratta di forniture contract, in serie (sempre e comunque personalizzabili), ma anche perché si acquista direttamente dai produttori, tagliando i costi intermedi. Tra gli operatori accreditati figurano società che operano nel settore del Social Housing ma non solo: la cultura del Gruppo d’Acquisto, dà la possibilità, a chi decide di acquistare casa nell’ambito di grandi interventi immobiliari, di aggregare la domanda per acquistare elementi di arredo e finitura direttamente dal produttore, con costi che, facendo leva sulle economie di scala, diventano più sostenibili. Scegliere tra 2.500 prodotti Al momento il catalogo Federlegno (cui possono accedere soltanto gli operatori accreditati, e dunque gli utenti finali attraverso il loro tramite) conta oltre 2.500 prodotti di circa 200 aziende italiane (per il 75% si tratta di elementi d’arredo e per il 25% di finiture), mentre gli operatori accreditati sono circa 15. Per quanto riguarda i prezzi, ogni azienda è libera di fare la propria proposta. Il calcolo elaborato da FederlegnoArredo ha portato a identificare una soglia massima di circa 200 euro al mq (naturalmente, più la casa è grande più la cifra si abbassa): per arredare un appartamento di 60 mq, ad esempio, non si dovrebbero spendere più di 12.000 euro (www. federlegnoarredo.it).

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01, 02 - Una delle prima Oasi urbane a Londra, Camley Street Natural Park, localizzato alle spalle della stazione di King Cross (fig 01, 1994; fig 02, 2011. Foto di C. Pirovano 03, 04 - Esempi di Community Garden a Londra: Culperer Community Garden, 2012. Foto di C. Pirovano 05, 06 - A Londra, nonostante il clima appaia ai più non indicato, la passione e il coinvolgimento dei cittadini in attività orticole e di manutenzione del verde per la Greener London si esprime anche sui barconi abitati e ospitati nel Regent’s Canal, 2013. Foto di C. Pirovano 07 - Mappa dei Giardini condivisi a Parigi, realizzati e in progetto (Dossier des Jardins Partagés, 2009) 08, 09 - Diversificazione delle attività nei giardini condivisi a Parigi: a sinistra, il Jardin Partagé Butte Bergeyre a Belleville e, a destra, murales realizzati da artisti locali nel Jardin partagé Fessart - 19° Arrondissement, Parigi, 2008. Foto di C. Pirovano


SEGNI DI UN MOVIMENTO IN ATTO: I GIARDINI CONDIVISI A PARIGI, LONDRA, DUBLINO, MILANO COME LABORATORI DI PARTECIPAZIONE E DI “VITA ACTIVA” Chiara Pirovano >WWF Italia

Premessa Il presente contributo intende trattare gli aspetti caratterizzanti le forme di partecipazione attiva da parte dei cittadini, incentrate su spazi dismessi e/o marginali con progetti e realizzazioni utili ad aumentare il benessere delle comunità e a contribuire alla sostenibilità territoriale. Il campo di ricerca attualmente è molto vasto date le esperienze molto diffuse e radicate nelle metropoli internazionali e nazionali; si è scelto di concentrare l’attenzione in particolare sui Community garden e/o giardini condivisi. L’interesse del tema in Italia ma anche a livello internazionale risponde a una “domanda” espressa “dal basso”, sociale, diffusa e matura di proposte autonome espressione di modelli alternativi di sviluppo e di condivisione. Tale domanda, come è emerso ad esempio dall’analisi delle 600 segnalazioni e più raccolte nell’ambito della Campagna WWF “RiutilizziAmo l’Italia” [il WWF Italia, grazie all’Iniziativa “Riutilizziamo l’Italia” avviata nel 2012, è partner del progetto PRIN “Recycle”. L’Iniziativa, nell’ambito della linea di lavoro incentrata sul programma “Land transformation”, è volta ad arrestare il consumo di suolo tramite advocacy, coinvolgimento accademico e territoriale e promozione del riuso di spazi ed edifici, è partner del progetto PRIN “Recycle”], traduce un bisogno non casuale, in risposta a una crisi generale politica, culturale ed economica e si esplicita in tante forme quali quelle trattate in questo contributo. Giardini condivisi, Oasi Urbane: nuove pratiche di comunità La diffusione di giardini condivisi in tutte le capitali internazionali è ormai

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un aspetto noto: da Zurigo a Parigi, da Londra a Dublino, da Barcellona a Berlino, da Cliveland a Vancouver, da Lille a New York, da Milano a Venezia emergono vieppiù esperienze significative e nella maggioranza dei casi consolidate che traducono in forme di partecipazione e di cura inedite semplici pratiche agricole e culturali [uno degli indicatori che restituisce l’impronta glocale di tale movimento è rappresentato ad esempio dall’istituzione del Resource Centres on Urban Agriculture and Food Security (RUAF) in ambito FAO e di una rete di urban producers’ organizations volta allo scambio di esperienze (FAO, 2007) The urban producer's resource book. A practical guide for working with Low Income Urban and Peri-Urban Producers Organizations, 2007]. Non s’intende qui approfondire nello specifico le esperienze, sebbene si tracceranno alcune similitudini e differenze trattandosi di contesti diversi, culturalmente e socialmente. [Per approfondimenti, ad esempio: Pacchi C., Pirovano C., (2013), La Partecipazione nell’ambito dei percorsi di riuso urbanistico e territoriale, in Lenzi S., Filpa A. (a cura di) (2013), Report 2013. Riutilizziamo l’Italia. Dal censimento del dismesso scaturisce un patrimonio di idee per il futuro del Belpaese, pp. 239-250; e Pirovano C., (2013), Il riuso di spazi ed edi±ci come laboratorio di partecipazione e di cittadinanza attiva: esempi in Italia e in Europa, Gazzetta Ambiente, Dossier Riquali±care ambiente e paesaggio (a cura di A. Paolella e R. Sinibaldi), n. 5, pagg 67-76] Come nel caso delle cosiddette “forestazioni urbane”, le realizzazioni qui trattate risultano sotto certi aspetti molto simili, sebbene nate seguendo percorsi diversificati: in Gran Bretagna si è assistito a una diffusione di iniziative volontarie, sia dal punto di vista propositivo sia da quello operativo, mentre in Francia, le iniziative legate al verde urbano rientrano fra le funzioni della Prefettura e quindi dipendono dal Governo centrale e, a fronte dell’emersione di una domanda in termini di spazi orticoli condivisi, è stata predisposta una pratica amministrativa a livello di arrondissement (zone nelle quali sono suddivise le città francesi). Il primo caso interessante è rappresentato dalla rete delle 60 Oasi Urbane di Londra (avviate a livello volontario dal London Wildlife Trust) e Community Garden che, partendo dalle aree più periferiche, hanno “invaso” il centro di Londra con mostre temporanee tutte incentrate sulle coltivazioni urbane, sull’uso delle piante aromatiche e sulle scoperta di specie orticole. La concezione anglosassone del verde è fortemente ecologica, anche quando si tratta di “verde in città”: la riqualificazione è intesa in qualità di rinaturalizzazione effettiva, tramite l'impianto di specie strettamente autoctone e la costituzione di habitat naturali destinati ad ospitare specie animali. Dagli anni ’70 in Inghilterra si è assistito a un reale movimento rinnovato per i diritti alla terra (Land Right Movement) anche in qualità di "riconquista delle Derelict lands" da parte delle comunità locali, sotto lo slogan "the Land is Ours". Una delle prima Oasi urbane, Camley Street Natural Parks (fig 1-2), localizzato nei pressi della Stazione di King’s Cross e creata negli spazi di pertinenza del canale Regents. Gli ecosistemi realizzati in tale area sono una zona umida, un laghetto e un bosco capaci di creare un habitat gradito all'avifauna, ad anfibi e varie specie vegetali. L'associazione London Wildlife Trust che gestisce l’area offre un programma di educazione

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ambientale per tutto l'anno per le scuole del quartiere e non. A Londra, dall’esperienza delle Oasi urbane, si è aperta quella dei Community gardens (nati originariamente a New York e Montreal, Baudelet, 2005) tanto che spesso le stesse Oasi urbane contemplano una sezione dedicata agli orti e una sezione lasciata alla spontaneità della biodiversità, comunicando il valore della mixité nel contesto urbano e della non specializzazione delle funzioni (fig 3-4). I Giardini condivisi (Jardins partagés) [prime esperienze in tal senso sono state realizzate anche nella città di Nantes (Pasquier E., Petiteau J.Y., La Fournillère, un lieu atypique pour une étude des jardins familiaux dans l’agglomération nantaise, Ville et écologie: bilan d’un programme de recherche 1992-1999, Ministère de l’équipement, des transports et du logement et Ministère de l’aménagement du territoire et de l’environnement, 1999, pp. 52-55)] sono molto diffusi anche in Francia; nati successivamente a quelli inglesi (negli anni ’90) [in Francia in realtà nei primi decenni del XX secolo erano molto diffusi i Jardins familiaux “concepiti come strumenti di azione igienica, atti a fronteggiare i numerosi problemi sociali della classe operaia”, terreni concessi alle famiglie per la coltivazione di prodotti per l’autoconsumo. Essi rappresentano i precursori degli “spazi verdi aperti al pubblico” Mariotti A., Gli spazi verdi nella città globale – il caso di Parigi, in Gaddoni S. (a cura di), Spazi verdi e paesaggio urbano, Geogra±a e organizzazione dello sviluppo territoriale, Studi regionali e monografici, n. 28, Patron Editore, Bologna, 2002, pagg 283- 295] nella maggior parte delle città traducendosi come spazi verdi e coltivati all’interno dei quartieri la cui gestione è affidata agli abitanti. A Parigi in particolare la domanda di tali spazi è stata interpretata dal servizio comunale Paris Nature che, nell’ambito di interessi politici e scientifici coevi per le connessioni e trame esistenti tra spazi naturali, hanno individuato nella ricreazione di una “natura di prossimità” (nature de proximité) la possibilità di una rete che favorisse la circolazione non solo degli umani ma anche delle specie animali [Donadieu P., Loridan S., La production de la nature dans les villes. Une construction materielle et symbolique, in Chapuis J.L., Barre V., Barnaud G. (a cura di), Récréer la nature – Réhabilitation, restauration et création d’écosystèmes- Principaux résultats scienti±ques et opérationnels, Ministère de l’Aménagement du Territoire et de l’Environnement-Muséum National d’Histoire Naturelle, Juillet 2001, pagg 166-172]. Nel 2003 è stato messo a punto il programma municipale Main Verte (all’interno della Division de l'éducation à l'écologie urbaine) per permettere ad associazioni di cittadini di gestire in modo disciplinato spazi ove realizzare orti in comune, impegnando contrattualmente, da un lato, il Comune a realizzare le opere necessarie alla coltivazione – bonifica, approvvigionamento idrico, etc - e dall’altro, l’associazione a gestire l’area in modo collettivo e aperto alla cittadinanza. Ad oggi sono stati censiti circa 35 Giardini condivisi, [a questi occorre aggiungere una decina di altri Giardini condivisi non direttamente legati a Paris Nature ma facenti capo ad altre organizzazioni] cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni, anche in questo caso, come a Londra, nati soprattutto in periferia per poi raggiungere le zone più centrali (fig 7). La nascita di tali spazi non solo ha dimostrato la “costruzione” di

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comunità, di ambienti di fiducia, ma ha anche prodotto un effetto positivo nel cambiamento dei comportamenti in relazione alla componente naturale della città divenuti più consapevoli e rispettosi anche nei confronti degli altri spazi verdi presenti nei quartieri. Le tipologie di attività sono diversificate, mirano all’inclusione culturale e sociale (ad esempio attrezzando il giardino con tavoli sopraelevati per permettere la coltivazione anche a persone diversamente abili) e alla sperimentazione di rinnovate forme di rapporto con la città (fig 8-9): in alcuni giardini condivisi vengono allevati piccoli animali come conigli e galline e/o api con la produzione di “miele di città”, esperienza realizzata anche in grandi parchi urbani come nel caso della Villette (il miele è diventato un “prodotto locale” di brand della città), E’ stato rilevato inoltre come i giardini condivisi siano “in grado di creare una sorta di effetto di straniamento usato nel teatro di Brecht, suggerendo scenari per un futuro sostenibile attraverso forme di autogoverno responsabile delle comunità locali” [Caggiano M. (2009), Les Jardins partagés a Parigi: la campagna in città, Istituto Nazionale Economia Agraria –INEA]. Entrambe le esperienze dei Community gardens in Inghilterra e dei Jardins partagés in Francia sono riuniti in reti nazionali per la promozione di tali spazi e lo scambio di buone pratiche [l’Associazione Le jardin dans tous ses états, nata nel 1997 con il supporto della Fondation de France, ha formalizzato i propri intenti con una Carta per tutti i soggetti ad essi legati da accordi di valori e di azioni comuni (http://jardins-partages.org/ spip.php?page=terresnp). Nel contesto britannico, invece, Farm Garden raccoglie oltre alla fattorie didattiche urbane anche circa 1000 community garden: si stima che la rete così costruita abbia creato lavoro per circa 550 persone, impegnato e formato migliaia di volontari e attratto più di 3 milioni di visitatori ogni anno (http://www.farmgarden.org.uk)] In Irlanda, rispetto alle altre realtà brevemente presentate, da alcuni anni forme di giardini condivisi si sono sperimentate nell’ambito di progetti europei soprattutto in contesti periferici e rurali contraddistinti da forte disagio e difficoltà economiche, individuando la coltivazione di parcelle condivise in prossimità di case popolari come uno strumento di ricostruzione di comunità e di parziale sostentamento alimentare [Schlappa H., Ramsden P. (2012), A New Perspective On Partnership, Sure Thematic Network, The Urbact Tribune, pagg 25-29]. Anche nella città di Dublino i giardini condivisi stanno riscuotendo molto interesse da parte della popolazione locale e della ricerca. Interessante ad esempio e promossa di recente (agosto 2013) risulta l’esperienza del “Pop-park” GranBy Park, nata dalla comunità locale in un’area centrale ma limitrofa a un complesso di edifici popolari degradati e per destinazione d’uso dedicata a nuove urbanizzazioni. A titolo temporaneo, il Comune ha concesso l’uso dello spazio che è stato allestito come un luogo per il pubblico, aperto e accessibile a tutti, ospitando esposizioni temporanee d’arte, orti, un anfiteatro realizzato con pallets riutilizzati e iniziative ricreative e culturali (fig 10-11).

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I Giardini condivisi, anche in Italia Tra le città italiane ove si assiste alla diffusione del fenomeno dei giardini condivisi emerge in particolare Milano. Grazie a una Delibera della Giunta Comunale del 2012 [Delibera n. 1143 del 25 maggio 2012], promulgata in risposta a una domanda sempre più pressante da parte dei cittadini, è stato promosso il progetto “Giardini condivisi” che, secondo quanto dichiarato nella Guida “Giardini condivisi – Le regole per il non profit” (a cura del Comune di Milano e il Ciessevi – Centro di servizi per il volontariato) intende rappresentare “un modo innovativo di recupero e di gestione di aree pubbliche abbandonate: la loro restituzione all’uso pubblico è il frutto di un’attività collettiva”. La Delibera propone con modalità molto simili il modello dei Jardins partagés francesi, presupponendo una cessione temporanea (fino a 3 anni) di uno spazio comunale per la coltivazione ad associazioni di cittadini, a fronte della realizzazione di un giardino condiviso aperto alla cittadinanza. Tra i numerosi giardini condivisi milanesi si citano il Giardino degli Aromi, tra i più estesi, realizzato nell’ambito del complesso dell’ex-psichiatrico Pini che attualmente ospita, oltre ad alcuni servizi medici e a comunità protette, anche un ristorante “a filiera corta”, un teatro e una serie di attività culturali e sociali costruite intorno al concetto “Da vicino nessuno è normale”, grazie all’attività dell’Associazione Olinda. Il Giardino “Isola Pepe verde” (fig 12) nato da un gruppo di cittadini che nel 2011 si sono attivati per gestire un piccolo ritaglio di terreno comunale degradato tra i grattacieli e le nuove costruzioni che hanno trasformato recentemente lo storico “quartiere Isola”, in zona centrale. Tra le varie attività proposte, si segnala il “pranzo condiviso” organizzato in un giorno specifico della settimana [si veda anche il video consultabile nella pagina web dell’iniziativa “Riutilizziamo l’Italia” http://www.wwf.it/il_pianeta/lo_ stato_di_salute_del_pianeta/suolo/riutilizziamo_litalia]. Esperienze interessanti sono state realizzate inoltre dalla cooperativa di promozione sociale “Villaggio Nostrale”, nata nel 2003, che ha iniziato dagli orti nelle scuole e nella aree contigue alla cascina “in città” Cuccagna, [si veda ad esempio il video consultabile nella pagina web ib.] sperimentando successivamente vari progetti diversificati: la riattivazione di una serra nel quartiere periferico del Villaggio Barona, in parallelo alla formazione di ex-carcerati, l’introduzione di orti collettivi nei giardini interni delle case popolari e giardini condivisi con cassoni sopraelevati nell’ambito di un centro diurno per disabili a Gratosoglio. I progetti si inseriscono in una quadro generale dal titolo “Coltivare le periferie di Milano - Far diventare il cibo uno strumento di welfare sociale per lo sviluppo delle comunità locali”. Le attività realizzate, oltre alla coltivazione in quanto tale, hanno riguardato l’organizzazione di momenti conviviali e di educazione con il coinvolgimento delle comunità locali, lo scambio di semi e la sperimentazione di una sorta di “salvataggio” di sementi in collaborazione con i migranti (ad esempio per quanto riguarda alcune specie di peperoncino). Lo spirito che ha animato tutte le iniziative, secondo le parole dei giovani promotori dell’Associazione Nostrale, è quello del cosiddetto community building che ha dimostrato di funzionare soprattutto laddove vi siano

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una molteplicità di soggetti già presenti e coinvolti nelle iniziative con attenzione. L’esperienza dei giardini condivisi si sta estendendo anche tramite attività “di rete” e di formazione vicendevole: è il caso della “Rete delle Rape metropolitane” e di “Orto diffuso” di Mariella Bussolati che attivamente supporta i promotori dei giardini condivisi, anche tramite produzioni editoriali e video. Il legame tra urbano e periurbano, infine, trova una caratteristica applicazione a Milano per l’esistenza del rapporto con l’ampia corona del Parco Agricolo Sud Milano, delle cascine ivi esistenti e dei molteplici attori in questo territorio (come i Distretti di Economia Solidale). D’altra parte la domanda di partecipazione nel milanese risulta in rapido aumento e ha già favorito processi virtuosi di aggregazione territoriale (si cita ad esempio il Tavolo sul Verde che riunisce comitati e gruppi di cittadini interessati alla tutela e promozione delle componenti vegetali nel contesto cittadino) e che continua a esprimere gradimento per uno stile di vita urbano diverso (come nel caso della partecipazione delle “Domeniche a spasso” e dell’aumento dell’uso della bicicletta/bike sharing), per scelte di consumo consapevoli e solidali [Tavolo per la Rete italiana di Economia Solidale (2013), Un’economia nuova, dai GAS alla zeta. L’economia solidale e le sue reti: Gruppi di acquisto solidali, Distretti di economia solidale, ±liere corte. Per cambiare il sistema economico con le relazioni e il consumo critico., I libri inchiesta, Edizioni Altreconomia, Milano] e per l’attivazione per la gestione di edifici dismessi. Anche a Venezia, città eminentemente “minerale” e “d’acqua”, da numerosi anni esistono esperienze di giardini condivisi: alla Giudecca all’interno del giardino di una casa di riposo, l’Associazione Spiazzi ha riattivato una storica carciofaia condivisa anche per la ristorazione del centro di accoglienza e realizzato un orto condiviso con varie attività come laboratori di cucina all’aperto e pranzi collettivi. Nel medesimo spazio l’Associazione “Vino in laguna” coltiva un piccolo impianto viticolo produttivo. Il Giardino condiviso come piattaforma di partecipazione: "un mouvement a vu le jour Il tema centrale e comune di tutte le esperienze brevemente presentate s’inserisce nel più vasto movimento [il fenomeno dei Giardini condivisi ha assunto attualmente le sembianze di un vero e proprio movimento sociale e culturale, secondo gli esperti che l’hanno tra i primi analizzato (Baudelet L. (2005), Les jardins partagés: un nouveau espace public?, Urbanisme, n. 343, 2005, pagg 42-43; Bonnaud X. (2005), Cultiver la conscience du lieu, Urbanisme, n. 343, pag 44)] che esprime oggi la richiesta di spazi pubblici ove sperimentare in varia misura una partecipazione attiva e condivisa, domanda raccolta anche dalla campagna WWF “Riutilizziamo l’Italia”. Gli spazi gestiti in modo collettivo, ove nascono, creano un benefico effetto sul quartiere, che non si limita alla cura di una porzione di territorio, ma presenta anche delle importanti ricadute sociali, culturali e ambientali. L’esigenza dei cittadini rilevata dalle realizzazioni dei Giardini condivisi è quella di godere del verde non solo in modo passivo (come avviene solitamente nei parchi urbani) ma di poter svolgere un ruolo attivo. In

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questo modo, peraltro, il cittadino diventa più consapevole della propria importanza all'interno della comunità e aumenta la sua responsabilità sociale. Un verde che offre anche spazio di condivisione, possibilità di sperimentare le proprie capacità, accessibile a tutti, anche alle fasce protette, diventa anche un verde dove imparare, un luogo di apprendimento. Luoghi dove è possibile far emergere le "virtù" di cui tratta Guido Viale nel suo ultimo libro (Virt che cambiano il mondo. Partecipazione e con²itto per i beni comuni, 2014), ossia scelte, saperi, comportamenti che si sviluppano solo grazie ad ambiti di condivisione e reciprocità, ove si sconfigge la regola comune della “competizione di tutti contro tutti”. Tali dinamiche, sebbene per la maggior parte costruttive e valoriali, presentano in tutti i contesti analizzati anche alcuni elementi di debolezza: a volte un eccessivo protagonismo e legame con la realtà specifica (sebbene si stiano sperimentando attività di rete che contrastano una visione eccessivamente particolaristica), oppure un rischio di sostenibilità economica e di continuità delle aspettative significativo (per la caratteristica temporaneità delle concessioni), una tempistica delle azioni amministrative spesso lenta rispetto alle risposte necessarie, un difficile coinvolgimento di terreni privati dove realizzare i giardini condivisi. Le esperienze raccolte traducono comunque l’importante messaggio relativo al “si può fare”, ossia un’indubbia conferma che le comunità possono ricostruirsi sui territori, intorno a piattaforme fisiche ambientali e sociali insieme e che possono riappropriarsi della propria capacità di dare un senso di vita collettiva insieme alla natura, equa e inclusiva. L’oggetto centrale è quello dei “luoghi pubblici” che trascendono il valore spaziale diventando prassi, luoghi dove un popolo costruisce l’eguaglianza civica e sociale [Montanari T. (2013), Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane, Minimum Fax, Roma, pag 161]. Luoghi che, come il patrimonio storico e artistico, assumono la valenza di “valore civile”. I casi trattati esprimono inoltre funzioni diversificate all’interno di uno stesso spazio: dalla socialità incrementata, permettendo la creazione di legami tra generazioni, culture e classi sociali diverse (Baudelet, op. cit.) alla migliore conoscenza della natura, riavvicinando le persone di tutte le età al suolo, alle piante, agli ecosistemi, alla convivenza tra città e “natura selvatica”. Insieme ad altre misure di aumento delle superfici a verde (ad esempio i parchi urbani), i Giardini condivisi dimostrano di favorire oltre alla conoscenza anche l’aumento effettivo della biodiversità urbana, costituendo inoltre una sorta di “rifugio” anche per api e farfalle [Interessante a tal proposito è il progetto “Effetto Farfalla” che mira a censire balconi e spazi verdi in città frequentati dalle farfalle e a contribuire al loro aumento tramite diffusione di specie vegetali che ne favoriscono la presenza www.effettofarfalla.net] che hanno vissuto negli ultimi anni una drastica riduzione (soprattutto a causa dell’utilizzo di pesticidi in agricoltura) e che in città trovano invece paradossalmente un habitat accogliente. I Giardini condivisi, inoltre, in convergenza con tutti i movimenti di attenzione agli aspetti di “natura in città”, hanno contribuito in modo determinante a portare l’attenzione anche su una “gestione ecologica” del verde urbano

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atta a favorire la biodiversità, pratica che dapprima ha interessato il contesto inglese, successivamente quello francese (da una decina di anni il Comune di Parigi sperimenta gestioni differenziate anche all’interno di parchi urbani) [ad esempio, secondo le valutazioni dei servizi comunali parigini, negli anni “l’investimento fatto per i Jardins Partagés risulta comunque inferiore alle spese di manutenzione per il verde pubblico” (Caggiani, op.cit.)] e ora anche quello italiano che vede in tale gestione anche una possibilità di diminuire i costi di gestione [L’Assessore al verde del Comune di Milano, Chiara Bisconti, ad esempio si sta impegnando per cambiare il Regolamento cittadino del verde in tale direzione]. A Parigi si assiste inoltre a sperimentazioni, sempre volte alla diminuzione dei costi e a un’integrazione città-campagna, che si spingono anche al pascolo di piccoli gruppi di capre che per così dire “collaborano” al taglio dei prati (vedi il caso della “Ferme à Paris”). Una prima risposta alla domanda di partecipazione così espressa si sta provando a delineare in questi giorni in Italia [Nella letteratura internazionale, tale azione afferisce al movimento cosiddetto di “coproduzione” (co-production), nato agli inizi degli anni ’70 negli Stati Uniti, generando un notevole interesse: s’intende nella sostanza che “la co-produzione di servizi pubblici nell’ambito della salute, della politica o della gestione di spazi pubblici possano migliorare la qualità di tali servizi e ridurre la spesa pubblica nello stesso tempo”, concetto nato in particolare in risposta a un periodo economicamente difficile per il Governo statunitense e nello stesso tempo a una pressione “dal basso” per una riforma del settore pubblico. Oggi a livello mondiale pare che si stia “riscoprendo” questa idea, in particolare in Europa ove le città sono state sottoposte a una forte austherity oltre a dover affrontare temi sempre più complessi e concentrati nel tempo e nello spazio (Schlappa, Ramsden, op.cit.)]: a partire dall’esperienza di Bologna è stato presentato [vedi articolo del 22 febbraio, 2014 dal titolo Dai parchi ai teatri abbandonati. L’alleanza Comuni-volontari per far rinascere le nostre città” a cura di I. M. Scalise (La Repubblica)] il primo “Regolamento sull’amministrazione condivisa” a cura di Labsus – Laboratorio per la sussidiarietà, vademecum in 34 articoli che mette in luce tutte le possibilità già sperimentate, da Gela a Caserta, da Milano a Roma, per coinvolgere e favorire la cittadinanza attiva in una efficace collaborazione Comuni-abitanti. Tutto questo avviene in un momento in cui “l’urbanizzazione” è diventata semplicemente sinonimo di artificializzazione e il consumo di suolo prodotto dallo sprawl urbano e dall’edilizia spontaneistica e speculativa ha messo in crisi il significato profondo di “città”, trasformandole spesso in luoghi anonimi, claustrofobici e confusi, completamente sottoposte a logiche esogene (dipendenti da economie perlopiù internazionalizzate, spesso connesse alla finanziarizzazione e all’aumento incontrollato della rendita fondiaria). Le esperienze brevemente presentate invece mirano a “fare polis”, partendo dallo spazio pubblico. La visione globale che se ne deduce, leggendo tali dinamiche evolventi e poco descrivibili in modo statico, è come una lettura di un quadro di Escher che assume prospettiva, spazialità e senso con una certa distanza e composizione delle parti. E’ una visione che parte

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del micro-locale per esprimersi rispetto a dinamiche molto più globali: il cibo e l’alimentazione, il far fronte alla crisi, i beni condivisi, la necessità di socialità, di sostenibilità, di prossimità del supporto vicendevole e di inclusività. All’alba dell’Expo, dal titolo “Nutrire il Pianeta. Energia per la vita”, manifestazione internazionale che si terrà a Milano nel 2015, il tema dei Giardini condivisi inoltre riveste una grande rilevanza in relazione in particolare della sovranità alimentare e ambientale che nel prossimo futuro sarà oggetto di acceso dibattito. D’altra parte si stima che nel 2030, il 30% della popolazione mondiale vivrà nelle città, con un aumento della povertà e dell’insicurezza alimentare. Già attualmente circa un terzo della popolazione vive in slums e/o insediamenti informali: in questo quadro l’agricoltura urbana e periurbana è riconosciuta come uno strumento cruciale di sopravvivenza, come dichiarato in alcune documenti internazionali come “The urban producer's resource book - A practical guide for working with Low Income Urban and Peri-Urban Producers Organizations” (2007) e “Food for the cities - Neither the Millennium Development Goals nor the World Food Summit’s goals will be achieved if appropriate attention is not given to cities and rural-urban linkages” (2009). In conclusione, quindi, i Giardini condivisi contribuiscono alla riproduzione del capitale sociale che si manifesta intorno alla gestione dei beni comuni, recentemente oggetto di attenzione da parte del mondo scientifico come nel caso del Nobel dell’economia riconosciuto nel 2009 a Elinor Ostrom (1934-2012) che, criticando le basi delle teorie neoclassiche, ha dimostrato tramite lo studio di numerosi casi a livello mondiale (dagli usi civici alla regolazione delle acque) come sia possibile e non utopistica una gestione condivisa, autoregolata di risorse comune, soprattutto quando le comunità sono di piccole dimensioni. Un’insorgenza di saperi e volontà che partono da situazioni “locali”, spesso in rete tra loro e animati da uno stesso “progetto implicito” [Dematteis G., (1995), Progetto implicito. Il contributo della geogra±a umana alle scienze del territorio, Collana Strumenti Urbanistici, Milano, éd. FrancoAngeli, pag 124] di farsi comunità e territorio insieme.

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01 - St. Denis e il filosofo PBlanquart 02 - St Denis disegno Pierre Reb 03 - St Denis psicologi ANPU 04 - Strasburgo governance 05 - Strasburgo progetto d'insieme 06 - Villaggio verticale 07 - Villaggio verticale vista notturna 10 - Villaggio verticale nel paesaggio 11 - Saline Ioniche il territorio reinventato 12 - Saline Ioniche riciclo infrastruttura ferroviaria


STAZIONI, ROTAIE, VIADOTTI: DA PARIGI ALLA CALABRIA NUOVE STRATEGIE COLLETTIVE PER REINVENTARE I TERRITORI DELLE INFRASTRUTTURE Cristiana Mazzoni Roberta Borghi Philippe Rizzotti >ENSAS >AMUP

La pratica del progetto urbano in Francia è conosciuta per la qualità degli strumenti adottati e degli spazi realizzati. Tale pratica ha cominciato a dare risultati interessanti già negli anni 1980: il dibattito teorico animato nel decennio precedente da architetti e professori delle scuole di architettura - quali Christian Devillers, Philippe Panerai, Jean Castex – ha avuto un primo importante riscontro pratico nel progetto urbano della Plaine Saint Denis, un vasto territorio (750 ha) situato alle porte di Parigi e ricco di storia locale. L’ambizione era, all’epoca, di definire un nuovo progetto di città in un luogo industriale ormai in disuso, attraversato da imponenti infrastrutture viarie e ferroviarie ed etremamente povero. Il processo di progetto è stato caratterizzato da cinque anni di ricerche (1985-1990), condotte da economisti, sociologi e antropologi - tra cui l’italiano Toni Negri - i cui lavori nutriranno l’opera degli architetti già attivi in zona: Pierre Riboulet, Yves Lion, Philippe Robert e Christian Devillers. Le prime ricerche confluiscono nel disegno della Charte intercommunale d’aménagement et de développement (1990), un documento giuridico che definisce le grandi linee d’intervento e i punti chiave del progetto di città: l’utilizzazione delle tracce del passato per creare un nuovo tessuto denso; l’opposizione al modello urbano di edifici a torre, caratteristico del settore della Defense; la costituzione di un gruppo di lavoro - denominato Hippodamos - composto dagli architetti già citati. Il loro compito: disegnare gli scenari di trasformazione del territorio della Plaine, attraverso un dialogo costante con gli abitanti. Il progetto urbano proposto nel 1993 dal

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gruppo, cui si è poi aggiunto il paesaggista Michel Corajoud, può essere letto come il primo grande manifesto della nuova filosofia di progetto alla scala urbana e territoriale. La famosa (in Francia) urbanistica di Stato cede così il passo a una nuova forma di strategia collettiva: una strategia che implica la partecipazione del cittadino dalle fasi iniziali di progetto e un’apertura verso la disciplina del progetto di paesaggio [sul progetto urbano della Plaine St. Denis, vedere la ricerca: La métropole en projet. Identités et forces structurantes des territoires dans la construction de ParisMétropole, programma L’architecture de la grande échelle, del Ministère de la Culture et de la Communication; direzione scientifica: Cristiana Mazzoni, con Albert Lévy, Valérie Lebois, Anne Molinier), 2009]. A vent’anni di distanza dall’approvazione del progetto urbano della Plaine, il bilancio dell’esperienza non è però del tutto positivo: nonostante la qualità delle architetture e dagli spazi pubblici realizzati, non solo in quest’esempio ma anche nei bellissimi progetti urbani che seguiranno - di Bordeaux, Rennes, Nantes e Strasburgo -, le pratiche di progetto gestite dalle municipalità, e non più dallo Stato, si sono di nuovo cristallizzate in un sistema fortemente verticale, con approvazione di piani e progetti a cascata, che lasciano poco spazio alla discussione o all’approvazione di strategie costruite in modo collettivo. La partecipazione cittadina, come si sa, è diventata una pratica parallela al processo di progetto, finalizzata a fare conoscere scelte già definite più che a creare una costruzione collettiva di scenari. E’ così che, dagli anni 2000, hanno cominciato a emergere in modo ancora sporadico, a Lione e in altre città francesi, pratiche “alternative” di trasformazione di territori urbani abbandonati, basate sull’implicazione di associazioni di giovani artisti e architetti. Sostenuti finanziariamente dalle municipalità, tali pratiche si fondano sull’occupazione temporanea ed effimera di spazi e luoghi, che coinvolgono la cittadinanza in momenti di festa e di creazioni artistiche effimere ma che possono dare luogo a trasformazioni durature nel tempo [tale tema è stato trattato nella ricerca: La gare-seuil et l’imaginaire de l’homme métropolitain, programma La grande ville 24 heures chrono: L’architecture en quête du territoire en mouvement, del Ministère de la Culture et de la Communication; direzione scientifica: Cristiana Mazzoni, con Anne Jauréguiberry, Valérie Lebois, Marie-Christine Welsch), 2013]. I progetti per la stazione di St. Denis e il porto di Strasburgo Ispirata all’esempio di tali pratiche alternative di progetto urbano, la ricerca-azione 24h Chrono che abbiamo svolto di recente nella periferia di Parigi si è centrata sull’allestimento di un “salotto urbano” della durata di un giorno, organizzato nella piazza della stazione di Saint-Denis. Grazie all’intervento di artisti (che hanno accompagnato l’evento attraverso schizzi e disegni), di un filosofo e di “psicologi della città” (il cui intento è di “sdraiare la città sul divano”), l’idea è stata quella di investire un luogo pubblico anonimo, percorso giornalmente da flussi di persone concentrate sul loro cammino, e di trasformarlo temporaneamente in un luogo di

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sosta, pieno di vita e di scambi: un luogo “reinventato” in cui far emergere un nuovo immaginario legato agli spazi della mobilità metropolitana. Si è poi cercato di raccogliere le impressioni, le immagini, i sogni e le posizioni critiche dei numerosi passanti e degli abitanti dei quartieri limitrofi al settore ferroviario: un materiale prezioso che costituirà una base interessante per la riflessione sul divenire delle stazioni regionali e metropolitane del Grand Paris e sulla possibilità di proporre nuovi progetti sperimentali. Questa prima esperienza, appoggiata dal ministero della Cultura francese e legata al mondo della ricerca di Stato e dei laboratori unversitari, più che al mondo della pratica professionale, ha nutrito le nostre riflessioni riguardanti il progetto per l’evoluzione di una parte del porto fluviale di Strasburgo. In un importante concorso indetto dalla municipalità di Strasburgo e dalla città tedesca di Kehl per il masterplan della zona delle vecchie dogane al confine amministrativo tra le due città – rappresentativo anche del confine tra la Francia e la Germania - è stato per noi indispensabile esprimere, attraverso un progetto a perto, una riflessione che investisse tanto il passato quanto il futuro del luogo, tanto la scala locale quanto quella territoriale. Tale riflessione riguarda più punti: l’apertura del progetto urbano alla disciplina e alle scale del paesaggio; la proposta di una temporalità lunga di progetto, in cui trovano spazio, secondo un approccio induttivo, momenti di festa e di creazione artistica; l’iscrizione di una governance di attori appartenenti ai due Paesi e in cui la cittadinanza può trovare un proprio spazio di parola e azione. Come nel primo esempio, la grande difficoltà sta però non solo nel poter rendere concreto un approccio di tale tipo - iscriverlo cioè nei processi di progetto gestiti dall’istituzione pubblica - ma anche nel poter trovare un luogo di dialogo possibile con la municipalità sul divenire del progetto urbano, sull’istituzionalizzazione possibile di “osservatori della fabbrica metropolitana” in cui siano ammessi sia processi a cascata dall’alto, sia esperienze provenienti dal basso, e che coinvolgano i cittadini e gli artisti in generale. L’avvenire delle città e il ruolo degli Urban Centers In parallelo a tale riflessione sulle pratiche di progetto in Francia, abbiamo avuto modo, a più riprese, di osservare esperienze italiane simili e di approfondire il tema della cultura di progetto legata alla diffusione di nuovi “osservatori e incubatori di idee” alla scala della città. E’ emerso con forza il ruolo degli Urban Centers che, sul modello americano, si costituiscono in Italia alla fine degli anni Novanta come primi esempi di centri espositivi ed operativi sull’architettura e sulle trasformazioni della città contemporanea. Diversamente da un museo della città, comune alle esperienze francesi, l’Urban Center opera nel tempo presente: è un luogo che informa sui progetti in corso e prefigura possibili scenari futuri. Tra gli obiettivi emerge, con specificità proprie ad ogni singola struttura, il fatto di informare e comunicare i cambiamenti in atto nella città e nel

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territorio, attraverso mostre e visite; di garantire una partecipazione delle istituzioni pubbliche, dei cittadini e dei rappresentanti del mondo economico e sociale ai progetti di sviluppo del territorio, attraverso occasioni di dialogo e confronto; di svolgere un’azione di promozione della cultura architettonica, mediante centri di documentazione specializzati, pubblicazioni e corsi di formazione; ed infine, di fornire una struttura di accompagnamento ai piani strategici e alle più vaste trasformazioni in atto. Un ulteriore elemento interessante è dato dal carattere pubblico degli Urban Centers italiani, spesso integrati agli enti di governo del territorio, sostenuti da finanziamenti pubblici e legati alle istituzioni per la formazione. Ciò ne favorisce il legame diretto con gli attori ed i processi di trasformazione e l’approccio multidisciplinare al progetto. In ambito calabrese, ha suscitato in particolare il nostro interesse l’esperienza della Fondazione FIELD, organismo in house della Regione Calabria, che affianca la Regione come strumento operativo di analisi, elaborazione, e supporto alla “programmazione, attuazione e gestione di programmi sperimentali e di elevato valore strategico, con particolare riferimento alle attività di accompagnamento e animazione territoriale, alla sperimentazione e implementazione di modelli innovativi inerenti alla promozione dello sviluppo locale, all’internazionalizzazione e allo sviluppo della competitività e dell’innovazione del sistema economico e produttivo”, nonché al monitoraggio e la valutazione degli interventi [Fondazione FIELD, Chi siamo, 2011, consultato il 3 febbraio 2014, in http://fieldcalabria.org/ struttura/chi-siamo]. La Fondazione collabora inoltre con il Dipartimento Urbanistica e Governo del Territorio della Regione alla promozione della pianificazione e della progettazione urbanistica partecipata, con il fine di arrivare alla costituzione di una rete regionale di Urban Centers che permetta il confronto fra le varie esperienze locali. Nell’arco di oltre due anni (2010-2012), e attraverso iniziative che hanno coinvolto soggetti diversi (Enti locali, Università, istituti scolastici, cittadinanza, Ordini Professionali, associazioni), i risultati ottenuti da questa forma di progettazione urbanistica sperimentale, interdisciplinare e partecipata, vanno dalla costituzione di un “Laboratorio per l’attuazione e il monitoraggio della Legge Urbanistica della Calabria” - un apposito spazio attrezzato all’interno del Dipartimento -, alla predisposizione di proposte modificative/integrative alla Legge Urbanistica, dalla verifica dello stato di attuazione dei Piani Spiaggia dei 116 Comuni Costieri Calabresi alla redazione di documenti strategici di rilevanza regionale (Masterplan per lo sviluppo della portualità calabrese, documento preliminare del Quadro Territorale Regionale Paesaggistico), tramite la realizzazione di schede di rilevamento, database, incontri con i Comuni, interviste telefoniche, seminari/laboratori urbani provinciali, eventi partecipativi, opuscoli informativi e blog (“Urbanblogcalabria”) [l’unità operativa- laboratorio per l’attuazione e il monitoraggio della Legge Urbanistica Regionale, è guidata dall’architetto Antonio Dattilo, che è inoltre stato Responsabile Unico del

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Procedimento per la Regione Calabria-Assessorato Urbanistica e Governo del Territorio, Dipartimento n.8 “Urbanistica e Governo del Territorio”, per il concorso “Parco Solare Sud”, del 2010]. Trasformazione dei Viadotti calabri in Villaggi verticali Vorremmo citare in particolare come esempio delle politiche innovative di progettazione promosse dalla Regione Calabria, il programma Parco Solare Sud. Esso si definisce come un concorso d’idee on-line promosso dal Dipartimento Urbanistica e Governo del Territorio nel 2010, con l’obiettivo di raccogliere una serie di proposte di trasformazione e riutilizzo dei Viadotti di una porzione dismessa dell’autostrada SalernoReggio Calabria, tra i Comuni di Scilla e Bagnara. Il concorso richiedeva che fossero preservati i valori paesaggistici e architettonici del luogo pur prevedendo l’utilizzo di nuove fonti di energia rinnovabili. In tale occasione, come equipe Philippe Rizzotti Architects, Samuel Nageotte e OFF Architecture, abbiamo proposto la creazione di un villaggio verticale costituito da unità abitative e servizi, che prevedeva il riutilizzo e la valorizzazione dei piloni del preesistente viadotto autostradale. Il progetto è stato presentato, nel 2011, anche alla terza edizione degli Holcim Awards, concorso indetto dalla Holcim Foundation for Sustainable Construction, ente finanziato dal 2003 dalla multinazionale del cemento Holcim, dove ha ricevuto il terzo posto per la sezione Europa [gli Holcim Awards sono un’iniziativa che premia progetti non realizzati, con particolari spunti innovativi negli ambiti dell’edilizia sostenibile e dell’interazione fra questioni ambientali, sociali ed economiche. Cinque sono i criteri di selezione delle proposte vincitrici: innovazione e creatività, integrazione sociale (energie rinnovabili, legami con gli insediamenti esistenti, nuove forme di abitato ecologiche e responsabili, partecipazione della popolazione locale), protezione dell’ambiente ed eco-efficienza (riutilizzo dell’esistente, integrazione con il paesaggio, autosufficienza economica), economia del progetto (utilizzare i 40 milioni di euro della demolizione per realizzare qualcosa di nuovo e creativo), concezione e qualità architettonica (sostenibilità economica, energetica e culturale)]. La riflessione che ha guidato il progetto è stata caratterizzata da un’attenzione particolare al contesto e alle sue componenti visibili ed invisibili. La presa di coscienza del potenziale del sito, ci ha portati a ricercare l’integrazione del progetto nel paesaggio, valorizzandone le specificità locali pur inscrivendole, tuttavia, in una dinamica di trasformazione più ampia, in corso a livello globale. Abbiamo pertanto cercato di offrire nuovi scenari a queste imponenti opere d’arte, ripensando la loro riqualificazione come l’occasione per aprire nuove prospettive di sviluppo per la regione. Sul piano della forma architettonica e del programma funzionale, il progetto è volutamente ambizioso e ricerca uno scenario ricco, efficace e plausibile. Nonostante la dimensione imponente dell’opera ingegneristica, i viadotti sono nel tempo diventati parte integrante del paesaggio e, essendo un tempo destinati ad

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un traffico intenso, conservano ancora delle importanti qualità intrinseche in termini di connessione con le reti viarie esistenti e di potenziale di carico. Anche il sito in cui si inseriscono presenta elementi positivi: la vista sul mar Tirreno e sulla natura in diversi punti ancora incontaminata; la presenza dell’Etna, dall’altro lato dello Stretto, che testimonia di una forte attività vulcanica e che potrebbe rappresentare un’importante risorsa geotermica; la cultura del bergamotto, che ricopre qui il 95% della produzione mondiale; il clima temperato dell’area, particolarmente adatto anche alle persone anziane. La riabilitazione dei viadotti è stata pertanto da noi riletta come un’occasione per salvaguardare l’originalità della struttura e le qualità del luogo, per proporre lo sviluppo di nuove attività economiche per l’area e generare nuovi processi di integrazione fra la popolazione locale e i nuovi abitanti. I “villaggi verticali” si presentano come una struttura indipendente ancorata ai viadotti esistenti, che vengono così valorizzati come un reperto archeologico. Una successione di padiglioni con giardini si sovrappongono l’uno sull’altro, combinando i benefici della casa singola a quelli degli edifici collettivi, e garantendo a tutti la vista sul mare. Una serie di attività commerciali, di servizi, di centri medici o per il divertimento occupano la parte inferiore del ponte, mentre una parte dell’antica carreggiata stradale è stata recuperata come una passeggiata pedonale panoramica, che permette all’intera cittadinanza di fruire il luogo in maniera inedita. Saline Joniche e i comuni della Grecanica A livello provinciale, un’ulteriore esperienza significativa di reinvenzione di una porzione di paesaggio degradato e dismesso in ambito calabrese è rappresentata dal Concorso di idee per la riqualificazione del waterfront di Saline Joniche e la realizzazione di un Parco Naturale e Antropico, promosso dalla Provincia di Reggio Calabria. La nostra proposta, terza classificata, si è confrontata con le criticità del luogo e con le ambizioni del bando, cercando di combinare le specificità del tema locale con le ricerche progettuali che da anni sviluppiamo, in Francia, sui temi del paesaggio e della metropoli contemporanea. Al fine di dare un’immagine di qualità e nuovi valori forti al fronte mare di Saline Joniche e dei comuni limitrofi della Grecanica, il progetto ha proposto di rinforzare le linee trasversali del paesaggio e di articolarle alla linearità delle infrastrutture che si sviluppano nello spessore compreso tra il mare e le colline. Da un lato, esso si struttura dunque sui tre sistemi lineari esistenti, che vengono riqualificati e che definiscono il sistema antropico del territorio: 1. Il sistema della linea ferroviaria, trasformata in una metropolitana leggera con più stazioni, ponti e sottopassaggi di collegamento tra l’entroterra e il mare. 2. Il sistema della strada statale (SS106), trasformata in un viale alberato con sequenze prospettiche sull’entroterra e sul mare. 3. Il sistema della strada nazionale Grecanica e dei percorsi ciclo-pedonali che collegano tra loro i comuni e i nuovi centri di ricerca, di sport e di svago. Su tali linearità, è stato ancorato il sistema

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delle centralità di progetto e dei Comuni esistenti. Dall’altro lato, il processo di reinvenzione del territorio è stato ancorato alle linee trasversali del paesaggio, definite dalle fiumare, che identificano il sistema naturale. La coerenza delle diverse sequenze è data dalla qualità delle infrastrutture e degli spazi pubblici: il viale alberato (SS106), la strada Grecanica e i percorsi ciclo-pedonali paralleli al viale alberato che collegano tra loro i comuni e i nuovi centri di ricerca, di sport e di svago, la metropolitana leggera in provenienza da Reggio Calabria, pensata come una struttura moderna e dinamica che utilizza la rete ferroviaria esistente, le quattro nuove stazioni, che ritmano il percorso, le passerelle e i viali, che attraversano le infrastrutture e permettono di raggiungere le nuove centralità. Il riferimento è agli studi effettuati in altre regioni italiane, con l’attuazione di metropolitane leggere in partenza dai centri cittadini. In ambito internazionale, sono ripresi gli studi per le città tedesche, e in particolare il “tram-treno” di Karlsruhe [il tema della ferrovia leggera e del ruolo del « tram-treno » nella riqualificazione dei territori metropolitani è trattato nella ricerca : Tram-train, ou l’énergie des courtes distances dans Strasbourg Métropole. Acteurs, logiques et processus du projet métropolitain durable, programma Ignis Mutat Res, del Ministère de la Culture et de la Communication; (direzione scientifica: Cristiana Mazzoni, con Roberta Borghi, Luna d’Emilio, Jean-Alain Heraud, Anne Jauréguiberry, Florence Rudolf e i dottorandi del laboratorio AMUP; ricerca in corso (2013-2015)]. Rispetto alle difficoltà rappresentate, in ambito francese, dal persistere di processi e di stumenti classici a cascata del progetto urbano, l’esempio italiano mette in luce l’importanza di creare nuovi luoghi e momenti di dibattito che permettano di aprirne le frontiere e allargarne le aspettative. Ci sembra infatti essenziale che il mondo della ricerca e dell’insegnamento nelle scuole di architettura in Francia si interessi più da vicino ai nuovi processi di progetto che permettono il passaggio dal progetto urbano al progetto metropolitano. Quest’ultimo - inteso come visione globale dello spazio risultante dai contenuti di vita che emergono dal territorio, e nello stesso tempo come espressione dei contenuti culturali dei diversi luoghi che lo compongono -, deve poter dare nascita a un dibattito teorico che mostri in che modo esso possa articolare la dimensione locale e la dimensione strategica globale. Senza tale dibattito teorico capace di investire il mondo della ricerca e il mondo professionale - come è stato il caso negli anni 1970, al momento della nascita della pratica del progetto urbano - il rischio è quello della riduzione del processo di progetto ad un insieme di norme tecnico-pratiche calate dall’alto sui diversi luoghi e sul territorio, e in cui sono omesse le occasioni di confronto e gli ambiti di esplicitazione dei conflitti.

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IL CASO DI “RIUTILIZZIAMO L’ITALIA” Stefano Lenzi >WWF Italia

Da una ricerca, basata sul raffronto della cartografia regionale tra gli anni ’50 e il 2000 - coordinata dal professor Bernardino Romano dell’Università dell’Aquila e che vede il coinvolgimento del WWF - emerge che, nei 50 anni considerati, l’urbanizzazione pro capite in Italia è quasi triplicata (dai 120 mq/ab del 1950 ai 380 mq/ab dopo il 2000). Tra gli anni 50 e il 2000 abbiamo assistito, quindi, nel nostro Paese, ad una urbanizzazione del nostro territorio che ha fagocitato 2 milioni e 250 mila ettari (un’area grande come Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia insieme) e nei prossimi 20 anni, ai ritmi attuali, fa presumere che ci sia il rischio concreto di coprire di grigio altri 680.000 ettari (un territorio più esteso della Basilicata). Oggi si cercano strumenti che aumentino il grado di consapevolezza e se è più forte che in passato l’attenzione alla tematica del consumo del suolo, conoscenze sulle dimensioni quantitative e qualitative del fenomeno sono a livello nazionale scarse e frammentarie. Soprattutto in tempi recenti, la redazione di alcuni strumenti urbanistici è talvolta accompagnata da inventari del dismesso a livello locale, inventari che non raramente risultano poco influenti sulle successive scelte di pianificazione e dunque sul contenimento del consumo di suolo e la conservazione e valorizzazione del verde e della naturalità, laddove possibili. In questo contesto non confortante, il Censimento “RiutilizziAMO l’Italia” condotto dal WWF Italia dal giugno al novembre 2012 presenta due specificità decisamente utili per stimolare un dibattito che marca in Italia

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un ritardo inaccettabile, rispetto alla maggior parte dei paesi europei. La prima specificità risiede nell’aver assunto come campo di rilevazione l’intera realtà nazionale, e dunque nell’aver tratteggiato – nelle oltre 600 schede redatte da cittadini (575 delle quali sono state selezionate perché complete dei dat richiesti), dalla rete territoriale WWF, dei comitati locali esistenti e già attivi su queste tematiche, dalla rete delle Università coinvolte – un quadro esaustivo sia della grande variabilità degli oggetti da riutilizzare, sia dello straordinario ventaglio di opportunità che il loro riutilizzo offre. Non si può certo considerarlo un censimento a tappeto delle aree abbandonate, dismesse o sottoutilizzate – ben altre forze e ben altri tempi sarebbero stati necessari - ma sicuramente si tratta di un censimento delle idee-progetto, che restituisce, con credibile compiutezza, un campione significativo su quanto ci sarebbe da fare e quanto le aree dismesse potrebbero migliorare la nostra qualità di vita e i nostri contesti urbani. La seconda specificità risiede nell’essere un censimento che – pur avendo coinvolto anche una Rete di docenti universitari – è stato compiuto in larghissima parte da cittadini, associazioni, soci ed attivisti WWF; un censimento non specialistico, quindi, costruito - primo in Italia - sulla percezione quotidiana del dismesso da parte degli abitanti di città grandi e piccole, sulla loro curiosità di capire le ragioni di tanto spreco. Un censimento, inoltre, che ha chiesto ai partecipanti di esplicitare idee e proposte per trasformare questi sprechi in opportunità per migliorare l’ambiente urbano e naturale e rendere evidente una domanda di riqualificazione e di risanamento del tessuto urbano. Il messaggio che RiutilizziAMO l’Italia invia alla comunità nazionale è quindi chiarissimo; non mancano gli oggetti da recuperare oppure le idee di cosa farne; mancano – soprattutto negli amministratori, ma non solo - la consapevolezza e la volontà di azione, e questo messaggio è una esplicita richiesta – anche al WWF stesso – di considerare con attenzione maggiore le città e i loro problemi, perché dentro le città possono trovare risposte anche alcune strategie di conservazione della natura di cui il WWF si fa interprete da oltre 40 anni. Si tratta di un messaggio che apre molte prospettive di azione e che conferma un dato che da tempo emerge dalle buone pratiche di riutilizzo; l’ottenimento di risultati concreti necessita invariabilmente di soggetti attivi quali cittadini e associazioni. Dal Censimento WWF è emerso che esiste una forte domanda sociale, perlopiù organizzata, nel nostro Paese che aspira ad una riqualificazione degli insediamenti urbani e del territorio e chiede il recupero e il riuso per fini di utilità collettiva e ambientale delle aree e dei manufatti abbandonati, sottoutilizzati e dismessi. E’ una domanda matura e consapevole dei rischi di degrado legati all’abbandono e della necessità di dare la priorità al contenimento del consumo del suolo e alla conservazione del verde e

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della biodiversità. Pro-attiva rispetto alle idee e proposte di recupero. Le 575 schede di segnalazione pervenute al WWF sono ben distribuite in tutta la Penisola: per il 38% dal Sud Italia e isole, per il 33% dal Centro Italia e per 29% dal Nord. Se ne ricava uno screening credibile e diversificato della tipologia del patrimonio esistente non utilizzato e delle proposte elaborate dalle comunità locali e dai singoli cittadini e da una Rete di 27 tra esperti e docenti di 12 diversi atenei. La conferma dell’esistenza di una forte domanda sociale organizzata viene dal fatto che le schede di segnalazione (che contenevano almeno 10 campi informativi da compilare, dagli aspetti anagrafico-localizzativi, a quelli riguardanti le destinazioni urbanistiche e le vocazioni territoriali) sono state compilate per il 70% da associazioni e comitati, per il 28% da singoli cittadini (mentre il 2% non risponde). E’ una domanda sociale consapevole e informata che fotografa il fenomeno del patrimonio in abbandono, che - sulla base delle 575 segnalazioni - riguarda per il 67% aree edificate, per il 18% incolti degradati o in evoluzione (7% incolti in evoluzione, cioè dove la natura sta prendendo il sopravvento e 11% dove impera il degrado), 4% aree di scavo (cave o altre forme di prelievo di inerti), 7% aree ex cantieri, mentre il restante 4% non risponde. Nelle schede di segnalazione erano anche identificati anche i rischi provocati dall’abbandono e dalla dismissione. Infatti, il vuoto, lasciato su un territorio densamente edificato in maniera disordinata e spesso ingiustificata, si trasforma in degrado: i rischi segnalati sono quelli dipendenti per il 36% da strutture pericolanti, per il 32% dall’inquinamento del suolo, per il 19% dai luoghi trasformati in discariche o depositi di materiali, per il 3% da altri fenomeni, mentre per il 10% non sono pervenute risposte. E’ una domanda sociale propositiva, visto che l’85% delle 575 schede pervenute al WWF Italia contiene idee e proposte di riutilizzo ambientale e sociale delle aree censite, con proposte che riguardano per il 49% una riqualificazione green delle aree (per il 20% a verde pubblico, per il 15% per ricomporre la rete ecologica, per il 9% ad orti urbani e sociali, per il 5% ad uso agricolo), mentre per il 47% il riutilizzo urbanistico. La varietà degli edifici e delle aree abbandonate - o, in minor misura, sottoutilizzate - restituita dal censimento WWF è impressionante, e parimenti ampio è il novero delle proposte di riutilizzo. Gli edifici di elevata qualità storico-architettonica rappresentano una parte consistente del dismesso segnalato (oltre un decimo del totale, dei quali circa la metà ottocenteschi e novecenteschi, gli altri più antichi) spaziando da interi centri storici abbandonati – o loro parti consistenti – a palazzi, castelli, fornaci, colonie marine, stabilimenti industriali di pregio architettonico, gasometri, cinema e teatri. Il recupero di questi edifici storici presenterebbe molteplici risvolti positivi. In buona parte sono infatti collocati in parti centrali delle città, possono ospitare funzioni pregiate e

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sovente rappresentano un elemento importante della identità collettiva e della storia dei luoghi. Circa il 25% dei casi di abbandono segnalati riguarda edifici riconducibili alla cessazione di attività produttive; certamente è il portato della nota contrazione delle attività manifatturiere in Italia - avviata oltre 30 anni fa ed accentuata negli ultimi 10 - ma le ragioni di tanto abbandono sono anche diverse, e il campione emerso ne restituisce alcuni volti. Nella parte largamente maggioritaria dei casi si tratta di edifici recenti, isolati oppure inseriti in aree attrezzate, e la loro collocazione si presenta come una delle variabili più significative ai fini delle opportunità di riutilizzo. Nel censimento WWF sono state segnalate una trentina di strutture militari abbandonate o sottoutilizzate, in buona parte localizzate in ambito urbano e quindi suscettibili di usi plurimi, anche residenziali; in alcuni casi si tratta di strutture comprensive di ampi spazi aperti, che potrebbero quindi contribuire ad incrementare verde e spazi di relazione per molti cittadini. Sono state segnalate anche ampie zone di territorio aperto in passato utilizzate per esercitazioni ed oggi recintate ma inutilizzate, e che di conseguenza potrebbero essere coltivate oppure guidate verso la rinaturalizzazione. Anche le reti infrastrutturali sono soggette a fenomeni di abbandono; si tratta ad esempio di tracciati ferroviari dismessi, che peraltro – soprattutto se collocati in contesti ambientali di qualità – in alcune recenti buone pratiche sono stati riutilizzati come percorsi naturalistici; va aggiunto che i tracciati abbandonati, se di converso presenti in contesti urbani, possono rivelarsi molto utili per incrementare la mobilità ciclopedonale. Una categoria decisamente trasversale del dismesso è quella degli edifici interrotti, costituita sia da manufatti la cui realizzazione non è mai stata portata a termine sia da manufatti che, una volta terminati, non hanno conosciuto utilizzo alcuno. Il ventaglio tipologico degli interrotti è piuttosto ampio, ricomprendendo sia attrezzature pubbliche (sono stati segnalati un auditorium, una cittadella giudiziaria, un museo, un parco urbano, una biblioteca; caso abbastanza sorprendente, anche residenze a basso costo finanziate con fondi pubblici) sia edifici privati quali uffici, hotel, centri sportivi. Una seconda categoria trasversale di dismesso è rappresentata da spazi aperti - in genere pubblici; ne sono stati segnalati almeno una decina; piccole aree verdi, un’ arena, una spiaggia - che non sono da considerarsi abbandonati in senso stretto, ma che sono talmente malgestiti da generare una sorta di protesta da parte di cittadini, che rinvengono in questo trattamento una ingiuria analoga a quella dell’abbandono. Sono percentualmente poco consistenti, ma denunciano una incuria nella manutenzione urbana – come suggerisce la esperienza comune – purtroppo estremamente diffusa. Per fare in modo che questa domanda sociale si tramutasse anche in

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un’azione nei confronti delle istituzioni, il WWF ha ritenuto che fosse necessario lanciare il segnale della possibilità di una mobilitazione diffusa. Dopo aver invitato i cittadini a sottoscrivere l’appello online “No al consumo di suolo, sì al riuso dell’Italia”, il WWF ha lanciato la proposta di Laboratori territoriali, promossi dalle proprie Sezioni regionali o in collaborazione con altre associazioni, che coinvolgano comitati di cittadini, docenti universitari ed esperti locali. La proposta del WWF di ridisegnare insieme il futuro di aree abbandonate o degradate è stata lanciata in occasione del convegno nazionale svoltosi il 31 maggio e 1 giugno nell’Aula Magna del Dipartimento di architettura e urbanistica dell’Università Roma Tre sono state segnalate proposte ed eseperienze pilota su cui concentrare la partecipazione e l’azione sociale, a seconda della maturità (dal punto di vista progettuale e istituzionale) dell’iniziativa. Questa prima mappa delle possibili vertenze su cui avviare una interlocuzione, non per forza conflittuale con le amministrazioni locali, sono: l’Antico albergo dei ferrovieri a Pescara (Abruzzo), la Pineta costiera di Agrigento (Sicilia), Il Parco della Città a Potenza (Basilicata), il Fortino Capo dell’Armi a Reggio Calabria (Calabria), gli Impianti di depurazione di Napoli (Campania), la ex discarica Lo Uttaro e i laboratori territoriali del WWF Caserta (Campania), l’ex convento di Ripa a Forlì (Emilia Romagna), il consumo del suolo e la tutela del paesaggio nelle nuove politiche regionali (Friuli-Venezia Giulia), l’Area di elevato pregio paesaggistico nel comune di Riposto (CT, Sicilia), l’area ““Ad duas lauros” a Roma (Lazio), l’ex cava di argilla in località Valloni presso Savona (Liguria), l’Area ex-Falk (Novate Mezzola, SO, Lombardia), l’ex-Cava a Chivasso (TO, Piemonte), l’ecomuseo di Casole d’Elsa (SI, Toscana), le Barene di Campalto (Venezia – Mestre, Veneto) e, infine, il caso studio di Saline Joniche (Calabria). L’altro valore aggiunto del modo di operare del WWF Italia è stato quello dell’integrazione tra il sapere collettivo, che emerge dalla mobilitazione civica, con i saperi esperti dell’università e delle professioni. Ciò ha portato alla pubblicazione dell’e-book “Riutilizziamo l’Italia: Report 2013: dal censimento del dismesso scaturisce un patrimonio di idee per il Belpaese”, disponibile e scaricabile gratuitamente da tutti/e sul sito www.wwf.it/riutilizziamolitalia. Si tratta della pubblicazione antologica più completa, mai uscita in Italia, sul consumo di suolo e sulla rigenerazione del territorio e del tessuto urbano a cui ha contribuito la Rete Docenti di “RiutilizziaAMO l’Italia”, composta da 27 professori di 12 diversi atenei.

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RIUSO TEMPORANEO A MILANO. CITTADINI FLÂNEUR O AUTO-MANUTENTORI? Isabella Inti >POLIMI >TEMPORIUSO.NET

Questo saggio vuole ripercorrere la recente esperienza dell’associazione temporiuso.net e di alcuni docenti del Politecnico di Milano, nel proporre un percorso di ricerca [Ricerca che ha ottenuto il finanziamento della Fondazione Cariplo per la pubblicazione in corso - Inti I., Cantaluppi G., Persichino M. (a cura di) (2014) Temporiuso. Manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono, Ed. Altreconomia] e azione per l’attivazione di progetti pilota e politiche pubbliche di riuso temporaneo di spazi in abbandono e sottoutilizzati nella città di Milano. E’ possibile estendere queste pratiche ad altri contesti in Italia? Questo è l’auspicio, ma anche l’occasione di confronto che una rete di associazioni, artisti, architetti, urbanisti si pone da circa tre anni, su questioni come la mancanza di una nuova legislazione, di assi di finanziamento, di campagne di sensibilizzazione alla cittadinanza per il riuso di immobili e spazi aperti degradati, sottoutilizzati, sfitti, incompiuti. Iniziamo da Milano. Perdersi per poi tracciare il sentiero Ci incontriamo sotto Palazzo Marino e il cuore batte forte. Il Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano Gabriele Pasqui chiede: “Emozionati? Avete capito cosa stiamo facendo?”. Siamo convinti che non sempre si debba esser del tutto consapevoli quando si indagano nuovi fenomeni o si sperimentano nuovi strumenti di lettura e progetto di parti di città in abbandono. Meglio perdersi ed errare, dove l’errare potrebbe essere considerato come un valore piuttosto che

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un errore [Careri F. (2006), Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi], provare a ritrovare la strada, organizzare incontri ed azioni sitespeci±c e poi capire che si è già innescato un nuovo progetto. Però quel giorno, il 30 marzo 2012, eravamo consci e raggianti, quando abbiamo sottoscritto con il Comune di Milano e il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano il “Protocollo d’Intesa per l’avvio sul territorio milanese di sperimentazioni di riuso temporaneo di edifici ed aree in abbandono, sottoutilizzate o di prossima trasformazione” [Delibera Comunale P. G. 205399/2012]. Erano anni che sognavamo di ufficializzare queste pratiche in Italia, e adesso si poteva dire: “volete introdurre nuovi cicli di vita in spazi in abbandono con progetti di riuso temporaneo? A Milano e Sesto San Giovanni si può fare”. Sì perché la prima amministrazione pubblica a credere e voler sperimentare il riuso temporaneo di ex spazi industriali dismessi, è stata quella del sindaco Giorgio Oldrini a Sesto San Giovanni, con il quale abbiamo realizzato i progetti Ex Breda Green House (2009) e Made in Mage (2010-13). Dal 1 Aprile 2012 alle associazioni culturali, agli artisti, agli artigiani e alle start-up, agli studenti e ai possibili turisti low-cost, lo scherzo l’ha fatto il Comune di Milano. Da dove iniziare però il percorso che dalla segnalazione degli oltre 3 milioni e 700 mila metri quadri di spazi in abbandono avrebbe portato ai primi risultati? Sapete già la risposta, attraversando la città e perdendoci. Spazi in abbandono? Il biketour e la mappatura partecipata Scali ferroviari abbandonati ed ex caserme, fabbriche e centri commerciali dismessi, cascine e capannoni agricoli in disuso, palazzi ed appartamenti vuoti in città, uffici e negozi sfitti e ancora slarghi e spazi interstiziali tra infrastrutture, campi incolti e terrain vagues… Edifici, aree urbane e spazi aperti sono soggetti a cicli di alto e basso utilizzo, nel corso dei quali vi sono dei momenti di transizione, di incertezza e di immobilismo. E’ in questo tempo di mezzo tra vecchia e nuova destinazione d’uso, che è possibile sperimentare attività e progetti temporanei (usi ad interim) che possono offrire nuovi scenari di rigenerazione urbana [“Constituting the Interim”, la costituzione dell’interim (stato e tempo di mezzo) è una ricerca di STEALTH.unlimited (Ana Dzokic, Marc Neelen) and Iris de Kievith, avviata per offrire una cornice, delle regole condivise e degli strumenti per attori che avviano progetti di riuso temporaneo e prefigurano scenari di trasformazione urbana. Ricerca su invito di Optrek/laboratorium van de tussentijd, 2010]. Gli spazi vuoti possono essere intesi come riserve urbane per la sperimentazione dei sogni collettivi … [Pulska Groupa, Atti del seminario internazionale Pula Postcapitalyst City, 14-16 Agosto 2009] Per periodi di tempo mutevoli sono spazi resistenti alle pressioni e speculazioni economiche, liberi di accogliere e lasciare sedimentare un capitale sociale. Questi luoghi divengono un laboratorio dove osservare le tattiche di autorganizzazione della città post-capitalista. Prima mossa sarà quindi mappare e conoscere questi luoghi. Mutuando l’arte del vagabondaggio del ²kneur, che negli anni ‘20 si trasforma nelle “visite-

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escursioni” del dadaismo che propongono “ la visite a des endroits choisi, en particulier à ceux qui n’ont vraiment pas de raison d’exister” [Volantino Dadaista, 1921 (Dada a Saint Jullien le Pauvre, 14 aprile 1921)], abbiamo reinterpretato quelle pratiche aggiungendoci le nostre fedeli compagne di viaggio, le biciclette. Milano è amministrativamente suddivisa in 9 zone, pertanto abbiamo organizzato 9 biketour, giri in bicicletta per mappare gli spazi in abbandono e quelli sottoutilizzati, ma anche per conoscere le diverse realtà locali che avevano già attivato progetti e iniziative di riciclo urbano. Quali spazi riattivare? Le schede spaziali e la votazione cittadina Tra Maggio e Luglio 2012 abbiamo osservato cos’è oggi una città delle ex funzioni commerciali, industriali, abitative, ricreative, ma abbiamo anche scoperto i nuovi terreni di sperimentazione sociale e urbana di Milano, nati nei territori non pianificati, ai confini [a Milano alcuni gruppi di cittadini ed associazioni, come le reti di attivisti ADA Stecca e Isola Pepe Verde, hanno convinto i rappresentanti politici e i grandi investitori internazionali ad includere gli interessi degli abitanti, come spazi per centri socio-culturali in comodato gratuito e giardini di comunità, nei piani di trasformazione urbana. Con strategie di sviluppo flessibili si possono testare ed ottenere nuove parti di città vivibili] e tra le isole della trasformazione dei grandi progetti internazionali. I tour in bicicletta si son trasformati da momenti di mappatura collettiva di spazi e lotti vuoti, a pomeriggi di scoperta, di conoscenza e dibattito pubblico sul futuro degli spazi in attesa. Eravamo pronti per una nuova fase, pensare con i cittadini e i Consigli di Zona come riattivare gli spazi in abbandono. Ma da dove partire? In altre città come a Berlino il Senatsverwaltung für Stadtentwicklung (Il Dipartimento per lo Sviluppo Urbano) organizza ciclicamente gli Offenen Veranstaltungen für Zwischennutzungen degli incontri aperti tra proprietari, associazioni culturali, artisti e cittadini, perché si confrontino su quali progetti di riuso temporaneo di spazi in abbandono promuovere in modo strategico [Urban Pioneers: Berlin: Stadtentwicklung Durch Zwischennutzung/Temporary Use and Urban Development in Berlin”, a cura di K.Overmeyer, 2007. Nel libro si spiega la procedura tipica berlinese dei “Zwischennutzung”, usi temporanei. L’immagine legata a queste pratiche è di una “Berlino povera ma sexy”, dove se un proprietario di terreni o edifici in abbandono non può riqualificare le aree, le può dare a delle realtà di artisti, associazioni, cittadini che per un tempo limitato, possono svilupparvi un progetto di riuso temporaneo. Nel momento in cui al proprietario vengono fatte delle proposte economiche, per riconvertire il sito, gli spazi vengono richiesti indietro]. Diversamente ad Amsterdam la pubblica amministrazione ha l’ufficio Bureau Broedplaatsen (Incubatori di creatività), che gestisce la mappatura on-line e l’assegnazione di spazi in abbandono e fruibili come Incubatori della creatività culturale, con progetti di riuso temporaneo di circa 5 anni. A Milano, in occasione delle giornate dell’OCA allo Spazio Ansaldo, abbiamo organizzato la votazione delle Schede Spaziali [O.C.A.Officine Creative Ansaldo, dal 14 al 17 Giugno 2012, per tre giorni questi

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spazi hanno ospitato iniziative ed eventi proposti direttamente dal mondo dell’associazionismo, dell’imprenditorialità, della creatività cittadina. Le regole, gli indirizzi, le forme di gestione e utilizzo delle Officine son stati discussi e sperimentati nei quattro giorni]. Con il motto “Riattivare spazi in abbandono non è fantascienza!” abbiamo portato una piccola navicella spaziale, l’Astronave dei BiSogni con oblò trasparenti e delle schede con 27 immagini di spazi urbani da votare [l'Astronave dei Bisogni è un progetto del collettivo di artisti Hors Commerce e nasce per raccogliere i bisogni e i sogni degli abitanti della Zona 5]. “Come si vota? Per ogni zona abbiamo segnalato 3 possibili spazi in abbandono o sottouti¬lizzati dove voi cittadini vorreste realizzare i vostri progetti. Fate una croce su uno spazio per zona che vorreste veder riattivato per primo. Le votazioni sono orientative e gli spazi più votati verranno indicati ai Consigli di Zona”. I cittadini hanno votato centinaia di schede, che poi abbiamo mostrato a diversi consiglieri comunali e agli Assessori all’Urbanistica, allo Sport e Tempo Libero, alla Cultura, alla Casa, al Demanio, al Decentramento, per capire la reale fattibilità degli spazi da riattivare. Non volevamo certo esasperare o deludere i cittadini con gli ennesimi progetti irrealizzabili. Son stati quindi selezionati 9 spazi, uno per zona, da progettare con studenti, abitanti, ed esperti durante un workshop e seminario internazionale “Le giornate del riuso temporaneo di Milano/ Temporary reuse days in Milan”. Che tipo di vocazione e ciclo di vita ridare? Il workshop di progettazione Quanto proposto dai ricercatori e attivisti di TempoRiuso a Milano è avviare progetti che utilizzano il patrimonio edilizio esistente e gli spazi aperti vuoti, in abbandono o sottoutilizzati di proprietà pubblica o privata per riattivarlo con progetti legati al mondo della cultura ed associazionismo, allo startup dell’artigianato e piccola impresa, dell’accoglienza temporanea per studenti e turismo low-cost, con contratti ad uso temporaneo a canone calmierato. Invece che lasciare i vuoti urbani in attesa di risorse economiche e nuove destinazioni d’uso non è più realistico introdurre un nuovo ciclo di vita nel “tempo di mezzo” in quegli spazi, sia esso di una settimana magari legato ad un ciclo espositivo di un artista, o di 3-5 anni abbinato ad un ciclo abitativo di uno studente o ancora di 2-3 anni legato allo startup e incubazione di artigiani, associazioni, studi di giovani creativi? [dal 2008 le associazioni cantieri isola e precare.it, riunite oggi in Temporiuso. net, e alcuni ricercatori e studenti del laboratorio multiplicity.lab del DiAP, Politecnico di Milano, hanno avviato riflessioni, workshop e progetti pilota che individuano i livelli di intervento architettonico per avviare progetti di riuso temporaneo. Parte di questa ricerca è stata pubblicata in Territorio n.56, ed. Franco Angeli, 2011]. Gli spazi vuoti nelle città rappresentano il distacco che separa le istituzioni pubbliche dalle energie vitali della società civile [Boeri S. (2009), Anticittà, Il Saggiatore]? E allora si è voluto partire nella progettazione proprio dagli spazi in abbandono di proprietà pubblica. Il workshop “ Milano, nuovi spazi per il riuso temporaneo” è stato dedicato alla progettazione di idee, di nuove vo¬cazioni, all’organizzazione spaziale,

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al modello gestionale individuando dei dispositivi per il riuso temporaneo di 9 spazi in abbandono e sottoutilizzati presenti nel tessuto insediativo delle 9 zone di Milano. Il workshop, parte dell’evento internazionale “Le giornate del riuso temporaneo/ Temporary reuse days”, ha avviato tavoli di confronto e seminari tematici dedicati agli strumenti per la progettazione e alle politiche di riuso temporaneo, all’autoco¬struzione, al non consumo di suolo. Durante il workshop gli studenti e i cittadini hanno assistito e partecipato a dibattiti e lezioni aperte di docenti ed esperti del Po¬litecnico, di altre università italiane ed internazionali quali Philipp Misselwitz e Janin Wouter (Urban Catalyst/International Urbanism Institute of Urban Planning,University of Stuttgart , Jaap Schoufour (+oofd Bureau Broedplaatsen Amsterdam , Patrizia Di Monte e Ignacio Gravalos (esto non es un solar , Gravalos Di Monte (Arquitectos, Zaragoza , al confronto con gli Assessori e membri dello staff della Provincia e del Comune di Milano e con diverse associazioni, ONG, artisti e fotografi italiani attivi nel documentare e proporre progetti di riuso di spazi in abbandono. I nove spazi in abbandono o sottoutilizzati oggetto del workshop sono emersi dai temporiuso bike tour ed incontri pubblici nelle 9 zone, durante i mesi di aprile-luglio 2012, parte del percorso progettuale "temporiuso x Milano" (www.temporiuso.org). Oltre 70 studenti, cittadini ed esperti hanno visitato, ripensato e presentato delle idee progettuali: L’ex Casello del Dazio di pza. V Giornate (Zona 1); Le ex Cucine della Scuola del Parco Trotter (zona 2); l’ex stu¬dentato Rombon (zona 3); le palazzine liberty 2,3,7 SOGEMI, in Viale Molise (zona 4); il Mercato coperto rionale di Via Montegani (Zona 5); la piscina estiva Argelati (Zona 6) la piscina del Lido di Milano (Zona 7); il piazzale della Fabbrica del Vapore (zona 8); la piscina estiva ed ex spazi sportivi Scarioni (zona 9) nel quartiere Niguarda. Sostenibilità economica e livelli di architettura temporanea: le variabili tempo, programma d’uso e manutenzione Ma son fattibili questi progetti? Quale volontà politica potrebbe sostenerli? I proprietari degli immobili perché dovrebbero accettare un uso temporaneo in assenza di regole chiare e di incertezza economica? I progetti di riuso temporaneo avvengono in spazi residuali o edifici dismessi. Questi spazi, come ad esempio gli ex edifici industriali, diventano una sorta di “contenitore” di nuove funzioni temporanee. Per permettere l’inserimento di queste funzioni, può essere necessario mettere in sicurezza i locali utilizzati con interventi “di base” come la rimozione di detriti, il consolidamento strutturale minimo, l’installazione di sistemi antincendio, la dotazione o il ripristino delle infrastrutture primarie. Le nuove funzioni inserite possono avere a loro volta bisogno di un supporto architettonico per il loro espletamento. La qualità e il costo degli interventi architettonici ed infrastrutturali sono commisurati in base a tre fattori: la durata del riuso temporaneo concessa dal proprietario, il tipo di programma di riuso e lo stato di manutenzione. In particolare il programma di riuso

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sarà certamente legato anche alle caratteristiche dell’immobile o spazio aperto, alle sue dimensioni, orientamento, accessibilità, all’esistenza di un cluster di attività simili nel contesto. Esiste un quarto fattore, il coinvolgimento degli usufruttuari, come associazioni, artisti, cittadini, nell’autocostruzione e auto-manutenzione degli immobili, che diamo per scontato, affinché gli spazi riattivati siano progettati, “adottati” e curati dagli utenti stessi. Come associazione Temporiuso.net abbiamo definito tre diversi livelli di intervento [Temporiuso Pocket Guide. Guida tascabile che spiega come attivare in 7 mosse un progetto di riuso temporaneo di spazi in abbandono o sottoutilizzati. A cura di Temporiuso.net e DiAP Politecnico di Milano, Poligraph, 2010]. “Livello 0” prevede una concessione d’uso breve, ad esempio da uno a dieci giorni, un programma limitato legato ad evento artistico o performance, uno stato manutentivo scarso, la messa in sicurezza dell’immobile e la dotazione di infrastrutture primarie mobili (generatore elettrico, riscaldamento ad aria, bagni chimici, fornelli di cucine a gas per il campeggio), l’inserimento di arredi interni, esterni ed allestimenti temporanei facilmente removibili, l’utilizzo di materiali di recupero o completamente riciclabili (pallets in legno, ex cartelloni pubblicitari, tubi innocenti per impalcature, scarti di lavorazione plastici, lignei, metallici e ancora teli per video-proiezioni), un progetto di immagine coordinata (cartellonistica, pagine web) che segnali la presenza del progetto di riuso temporaneo al quartiere e alla città. “Livello 1” prevede un periodo di riuso più lungo, tra uno e tre anni, adatto ad esempio ad ospitare il ciclo abitativo di studenti o lo start-up di associazioni e cooperative, la fornitura di infrastrutture impiantistiche primarie stabili (luce, elettricità, acqua, servizi igienici), oltre alla dotazione di arredi interni, esterni e allestimenti temporanei facilmente removibili e il riuso di materiali di recupero o completamente riciclabili e un progetto di comunicazione legato al quartiere e alla città. Il “Livello 2” prevede un periodo di attivazione di cinque anni con possibilità di rinnovo, utile ad artigiani, associazioni, professionisti, la fornitura di infrastrutture impiantistiche primarie stabili (luce, elettricità, acqua, servizi igienici), l’installazione di strutture architettoniche leggere permanenti, ma sempre indipendenti strutturalmente dall’edificio (murales di facciata, progetti site specific di public art, mezzanini, spazi “box in the box”, container). Queste diverse modalità d’intervento sono osservabili in numerosi progetti di riuso temporaneo sia stranieri che italiani. Tutti possono partecipare? L’invito alla creatività Tornando a Milano, finito il workshop, da Ottobre a Novembre 2012, la Pubblica Amministrazione e i consiglieri di zona hanno rivisto i progetti di idee per una nuova vocazione, programma di attività e architetture temporanee per i 9 spazi in abbandono e ne hanno selezionati quattro, perché fossero avviati sia degli studi di fattibilità per la sostenibilità economica, che delle prime sperimentazioni.

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Ad esempio "revolve - mercato coperto Montegani", in parte sottoutilizzato, dove abbiamo coinvolto i commercianti e gli artisti di Hors Commerce nel ripensare un’immagine coordinata per il mercato, con i loghi delle botteghe stampati ad inchiostro su tessuto, gli studenti del Politecnico hanno ridisegnato una mappa in ingresso che orientasse i cittadini sulla vendita dei cibi, dei designer e degli studenti hanno realizzato nuovi arredi come sedute e tavoli in autocostruzione con materiali di riciclo, ma soprattutto son stati organizzati 5 pranzi pubblici con mostre d’arte, musica live e passeggiate di quartiere, nuovi commercianti hanno chiesto gli stalli vuoti e si è inaugurato lo stallo Re8 per l’ospitalità di attività di quartiere nel Mercato. I giornali hanno titolato “Boqueria Montegani, a Milano nel mercato si mangiano tapas fresche” e l’Assessorato al Commercio ha promesso la revisione degli orari e modi d’uso dei mercati. Ma quando trattiamo spazi vuoti, una volta ottenuto il permesso di avviare dei progetti di riuso temporaneo, come ripensare l’assegnazione di spazi in abbandono? E’ importante aprire un processo e poi rendere gli spazi accessibili a tutti, o meglio a chi vuole proporre dei progetti. E’ possibile attivare nuovi spazi ad uso comune e delle nuove comunità di pratica per dei progetti di riuso temporaneo, tramite una selezione degli usufruttuari con bando pubblico? Diversamente dalle occupazioni e autogestioni promosse da movimenti antagonisti o all’utilizzo spontaneo da parte di residenti di alcuni spazi residuali in attesa di trasformazione, il riuso temporaneo vede la figura di un intermediario che provochi l’innesco del processo. Gli usufruttuari del riuso temporaneo sono solitamente scelti tramite bando pubblico o “Invito alla creatività” da una giuria di esperti, composta dagli attivatori del processo di riuso, dalla proprietà, da esperti e da realtà di quartiere attigue allo spazio vuoto. Nel bando si chiede quindi di partecipare, di presentare le attività che si vorrebbero insediare corredate da un piano economico e un crono programma e di dare la disponibilità a condividere spazi e tempi con altri partecipanti e con il quartiere. Nell’invito alla creatività “P7_ Liberty Ospitalità e Scambio” leggiamo “Invito alla presentazione di un progetto e programma di attività per l’avvio di atelier, laboratori, spazi co-working al piano terra della Palazzina 7 di Viale Molise 62, Milano. Rivolto a associazioni culturali, Onlus e gruppi informali (e in via di formalizzazione) di cittadini attivi nel campo del riuso, della mobilità sostenibile, dell’auto-costruzione e progettazione di spazi e momenti di socialità. Le realtà partecipanti dovranno essere attive nella Zona 4 o capaci di attrarre pubblici diversi e progetti di valorizzazione territoriale a scala locale”. Un patto etico: il contratto sociale e il tempo da donare per automanutenzione e servizi al quartiere Le modalità di assegnazione degli spazi con contratti d’uso temporaneo prevedono la possibilità di usare uno spazio gratuitamente o a canone sociale, di pagare una quota per il mantenimento e gestione dell’immobile, ma anche il dovere di curare con manutenzione ordinaria gli spazi e attivare

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servizi e progetti con la comunità locale. In tal modo gli usufruttuari, seppur per tempi limitati, fruiscono, reinventano e condividono con la città un bene comune. Un esempio i contratti siglati a Milano da associazioni e studenti alla “P7. Palazzina Liberty Ospitalità e scambio”. Così si legge “Ai vincitori verranno dati gli spazi in contratto a canone gratuito, verranno richieste le spese di mantenimento e del tempo da dedicare sia all’automanutenzione e cura dell’edificio che ad attività per il quartiere e Zona 4”. Le associazioni e gli studenti vincitori del bando non hanno tardato a contribuire alla cura dello spazio, dipingendo, riparando infissi, allestendo spazi comuni, come pure hanno organizzato workshop e installazioni artistiche, dibattiti aperti, grigliate e pranzi pubblici, quali momenti conviviali per conoscere e accogliere proposte dai vicini, dalla proprietà e dai consiglieri di zona. L’arte dello stare insieme talvolta comincia nel sedersi a tavola, chiacchierare e condividere un pranzo. Nuove figure professionali? Quale può essere il ruolo dell’architetto nei processi di riuso temporaneo? Penso ad almeno tre possibili specializzazioni della nostra professione. Agente di riuso: individuare i luoghi in abbandono, fare da mediatore tra proprietà e futuri usufruttuari e definire un programma di riuso degli spazi in abbandono o sottoutilizzo, richiede un’esperienza spesso maturata sul campo, un curriculum redatto sulla base di progetti realizzati. Come proporsi ad una pubblica amministrazione o a dei privati, proprietari di immobili vuoti? Vi sono solitamente tre tipi di situazioni: l’immobile è già stato individuato da un gruppo di artisti, associazioni o cittadini e l’Agente di ri-sviluppo può fare da mediatore con la proprietà suggerendo scenari di riutilizzo; in secondo luogo l’Agente si può candidare ad una Pubblica Amministrazione per un percorso che va dalla “mappatura dell’abbandono” allo start-up di alcuni progetti pilota; infine l’Agente del riuso è chiamato dalla proprietà come consulente per dare suggerimenti sulla normativa, le proposte progettuali, il percorso da seguire, i rischi e i vantaggi del riuso temporaneo o a lungo termine. Attivatore e gestore di riuso: svelare l’esistenza di un luogo e riscoprirne l’aura e l’immaginario, candidarsi per la gestione dell’immobile e dei suoi usufruttuari ed avviare lo start-up del progetto. Uno dei ruoli più complicati nei processi di riuso è sicuramente quello dell’attivatore e gestore di uno spazio, perché implica sia la capacità manageriale di stilare un businessplan e verificare la sostenibilità del progetto, sia una capacità relazionale tra proprietà e nuovi utenti, tra vecchi e nuovi abitanti di un contesto. La sfida sarà quella di conciliare la valorizzazione della storia dei luoghi, con l’introduzione di nuovi significati, valori, modi d’uso ed economie informali. Solitamente la fase di start-up di un progetto di riuso temporaneo è anche un esperimento di coabitazione tra sconosciuti, di associazioni, artisti selezionati con l’invito ala creatività. Lo scambio di saperi e la possibilità di definire nel tempo una comunità di pratica, sarà l’esito o meno di un processo imprevisto, che il gestore sarà tenuto a monitorare.

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Il processo di progettazione dell’intermediario sarà come quello del bricoleur (Jacob, 1981), una combinazione tra un flusso di eventi per certi versi casuale e un processo selettivo, tale che solo alcuni elementi possono perdurare. Nel migliore dei casi l’intermediario provocando l’innesco delle interazioni tra i diversi soggetti, potrà divenire agente di uno sviluppo imprevisto. Situazionista e Cooperante del riuso: alcuni progetti ed architetture temporanee possono divenire dei veri e propri feticci e la loro presenza attirare l’attenzione pubblica in luoghi abbandonati o sottoutilizzati. Come nel caso del Küchen monument [il progetto e le performance di Küchen monument sono descritti nel libro “acting in public” di raumlabor con J. Maier,, ed. jovis verlag GmbH, 2008; il progetto di raumlabor e Plastique Fantastique era presente quale membrana gonfiabile per ospitare la sede nomade della rivista Domus, alla XXII Biennale di Venezia 2010], una “buble-architecture”, dispositivo mobile con membrana gonfiabile d’aria, all’interno del quale sono stati organizzati eventi di pranzi, balli e cinema comunitari, del collettivo di architetti ed artisti raumlabor e Plastique Fantastique a Berlino, o ancora i cartelli segnaletici con l’obbligo di saluto e gli arredi mobili di sdraio e ombrelloni per la convivialità nello spazio pubblico creati dall’associazione esterni a Milano. La provocazione di una cittadella temporanea “MetaVilla” all’interno del Padiglione francese alla X Biennale di Architettura di Venezia, del collettivo parigino Exyzt, che grazie ad una impalcatura in tubi innocenti, che occupava metà padiglione dal piano terra fino al soffitto, ospitava un Hotel, una cucina aperta, un bar, una sala lettura, e sul tetto una SPA con docce, sauna e una mini piscina. O ancora gli interventi site-specific di amache di Sleepy Island nel quartiere Isola a Milano dell’artista Stefano Boccalini o la falegnameria sociale e gli “arredi abitabili” degli artigiani-designer Controprogetto all’Ex Fadda di San Vito dei Normanni (Br) [è uno degli oltre 150 spazi riattivati grazie al programma “Bollenti Spiriti” di Regione Puglia (2006-2013)] . La presenza di questi oggetti relazionali, crea nuovi immaginari negli spazi residuali, pur non privandoli della loro identità. Questi arredi ed oggetti feticcio abitati e colonizzati dagli utenti ne esaltano lo spazio, che diviene medium di socialità. L’impegno di molti attivisti, architetti, designer, artigiani ed artisti nel progettare e reinfrastruttuare gli spazi in abbandono ha dunque una doppia matrice. Da un lato un approccio situazionista e ironico simile ad alcuni interventi fantascientifici come “l’architecture mobile” di Yona Friedman o alle visioni di “Walking city” degli Archigram, dall’altro un metodo di intervento progettuale cooperante che potremmo definire di “tecnologia della sopravvivenza” e di “infrastrutturazione leggera” (Oswalt, 2003), che pur non rinunciando a dispositivi ed invenzioni tecniche ad hoc, persegue l’obiettivo del riuso, del riciclo, della realizzabilità di progetti con materiali e competenze locali, seguendo un filone che da Buckminster Fuller e Cedric Price, arriva agli attuali progetti di autocostruzione di centri comunitari, scuole e ospedali di Architecture for Humanity nei paesi in via di sviluppo [Progetti con tecnologie low-tech e modalità d’intervento di autocostruzione

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per nuovi insediamenti abitativi, ospedali, scuole, centri comunitari, sono descritti nel libro Give a damm. Design like you. Architectural responses to Humanitarian Crises di Architecture for Humanity, Thames&Hudson, 2006]. Start-up di uno spazio e comunità di progetto: la vera scommessa è la cura dei luoghi Ma come valutare il successo o insuccesso dei progetti? La nostra capacità di avere innescato e/o sedimentato un nuovo immaginario e dei servizi autorganizzati per le comunità locali? La forza degli agenti di riuso, degli attivatori, dei situazionisti e degli usufruttuari degli spazi di divenire nel tempo delle comunità di progetto autonome saranno parte di un processo aperto, indeterminato. I progetti di riuso comune saranno l’esito di continui processi di selezione, assestamento, espulsione, condivisione di pratiche tra comunità elettive e nuove popolazioni. Le finalità sociali visibili in molti dei progetti di riuso informale avviati sono la possibilità di accogliere ed incubare popolazioni provenienti da diverse culture e discipline e in tal modo implementare lo scambio tra saperi, rigenerare e lasciare sedimentare un capitale sociale. Inoltre nel caso di politiche di riuso temporaneo (spesso unite a politiche di competizione internazionale nell’attrazione culturale giovanile) queste possono sostenere, fare rete e talvolta essere il nuovo contenitore per spazi autogestiti che ottengono in tal modo un riconoscimento legale e dei contratti d’uso temporaneo a fronte dell’offerta socio-culturale e dell’impegno gestionale nel recupero di spazi in abbandono. Gli spazi temporanei informali ed istituzionalizzati possono essere considerati luoghi della partecipazione e condivisione, luoghi dove poter esperire nuove forme di comunità e dove poter prendere il controllo e la gestione degli spazi, anche se per poco tempo e con attività di scopo limitate. L’obiettivo raggiunto è quello di poter sperimentare un’attitudine del fai-da-te, DIY, con pochi dispositivi per l’azione, in collaborazione o in alternativa all’attesa del progetto demiurgico della pianificazione urbana. Sono luoghi dove poter contribuire allo sviluppo urbano con processi di rigenerazione che utilizzano energie e competenze dal basso. In Italia siamo solo all’inizio? Diffondere le pratiche: la rete dei “riutilizzatori dal basso” Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una pluralità di soggetti istituzionali ed informali, che si sono attivati per promuovere ricerche, campagne di sensibilizzazione e strategie di intervento per il futuro riuso di un’enorme patrimonio di edifici, paesaggi e spazi aperti in stato di abbandono e sottoutilizzo. Solo per citare le esperienze più note, oltre alla ricerca in corso PRIN ReCycle diretta dal prof. Renato Bocchi dello IUAV, è attiva la campagna del WWF Italia “Riutilizziamo l’Italia” che ha avviato dei laboratori di mappatura dell’abbandono a scala nazionale, un’indagine a cura di una rete di docenti di numerose Università italiane pubblicata nel Report

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“Riutilizziamo l’Italia 2013”, quanto un convegno nazionale alla presenza del Ministro per l’Ambiente Orlando al quale son state presentate le firme dell’appello per una legge “NO al consumo di suolo, SI’ al riuso dell’Italia” [una sfida che punta alla riqualificazione delle aree e dei manufatti dismessi, disincentivando il consumo di nuovo territorio. L’appello chiede l’introduzione di strumenti normativi e fiscali che consentano di ri-utilizzare prioritariamente aree abbandonate, dismesse o degradate, promuovendo il ruolo dei cittadini nel riuso e la collaborazione tra le diverse Amministrazioni pubbliche]. Secondo le stime del CNAPPC- Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori in Italia vi sono circa 6 milioni di immobili a fine vita, pertanto è necessaria sia una normativa adeguata per il rilancio di un’economia legata ai cicli di riuso, sia una riforma della professione dell’Architetto. Grazie agli sforzi del progetto nazionale "Ri.u.so." (Rigenerazione urbana sostenibile) attivato assieme ai costruttori dell'ANCE e a Legambiente, il presidente del CNAPPC Leopoldo Freyrie è riuscito durante il passato Governo Monti a promuovere “il Piano Città” e attualmente è in corso di verifica il “Decreto Valore Cultura” che all’art.6 renderebbe possibile “Immobili statali (come caserme inutilizzate ) dati in locazione a canone agevolato a cooperative o associazioni di giovani artisti residenti in Italia perché li trasformino in atelier”. Come rimanere immobili di fronte a questo scenario di crisi e desolazione, ma anche consapevoli delle grandi opportunità di trasformazione del nostro Paese e della nostra professione? Una geografia in movimento e una rete informale di “riutilizzatori dal basso” composta da associazioni, artisti, studi di architetti, pianificatori tra i 25 e 45 anni ha promosso dal 2009 ad oggi, dibattiti, incontri pubblici, workshop di idee e di autocostruzione, a partire dal patrimonio in abbandono di diverse città italiane [Alterazionivideo (Milano, Berlino, NYC), ICSplat Studio NoWa (Palermo), Temporiuso.net (Milano), Smallab (Bari), Spazi docili (Forlì), Manifestso2020 (Trieste), Esibisco (Firenze, Berlino), ExFadda (San Vito dei Normanni-Br), Manifatture KNOS (Lecce), Impossible Living (Milano), Lost & Found (Viterbo), Primule e Caserme (Udine) , RudereProject (Agrigento), SpazioGrisù (Ferrara), TSppon (Roma), URBE (Torino) e molti altri]. La mappatura dell’incompiuto e dell’abbandono, un Manifesto etico per il riuso, la progettazione condivisa e la riattivazione con architetture temporanee, le modalità pubblica di assegnazione degli spazi, la sostenibilità economica e lo scambio di beni comuni con i contesti locali, sono i cardini di un processo di riattivazione di immobili e spazi aperti dal basso, con il coinvolgimento di tutti gli strati della cittadinanza, di esperti e Flâneur.

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01 - Ex Zuccherificio Eridania. Foto di S. Verna 02 - Cicli Indecisi 2012 - Fornace Maceri Malta 03 - Totally Lost presso Ex Deposito ATR Forli. Foto di M. Bencivenga


SPAZI INDECISI. ESPERIMENTI DI RIGENERAZIONE URBANA Francesco Tortori >Spazi indecisi

Se si smette di guardare il paesaggio come oggetto di attività umana, subito si scopre una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è dif±cile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra, né a quello della luce. Si situa ai margini. Gilles Clement

12 giugno, ex Zuccherificio Eridania – Forlì, Cicli Indecisi 2012. La gente supera, con la bici a mano, il cancello solitamente chiuso con un lucchetto, in lontananza, sopra gli alberi si scorge la mole imponente dell’ex Zuccheri±cio Eridania, edi±cio industriale di grande importanza per la città nel © 00, oramai in abbandono da decenni e condannato ad un degrado progressivo. Molte delle 500 persone, di tutte le età, che partecipano a “Cicli Indecisi” non sono mai entrate nell’ex Zuccheri±cio e non hanno idea dell’atmosfera che quella Cattedrale del Lavoro emana. La gente si guarda in giro, è disorientata, curiosa, si avvicina all’edi±cio decadente, sbircia dai ±nestroni rotti l’interno, scatta foto a raf±ca, ne scopre i graf±ti. Intanto un contrabbassista suona al centro dell’immenso corpo principale dello Zuccheri±cio. Incute rispetto, ci si sente davvero piccoli al suo cospetto. Alle spalle del musicista, il graf±to di una Madonna opera di un

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artista brasiliano. La sensazione è di essere in una San Galgano industriale. Lo Zuccherificio Eridania è da decenni al centro di innumerevoli progetti di recupero da parte di studenti, laureandi, architetti, dirigenti pubblici, associazioni che ne prospettano una seconda vita da cinema multisala, da centro commerciale, da museo dello zucchero, ecc. Progetti che, soprattutto in questo momento storico ed economico, sono altamente improbabili per costi di ristrutturazione, come per quelli futuri di gestione. Cicli Indecisi 2012 mostra e dimostra come sia possibile trasformare il decadente scheletro di un’architettura industriale in un parco archeologico da fruire in sicurezza come accade ai Fori Imperiali a Roma. Un intervento di riuso leggero che si oppone paradigmaticamente agli interventi pesanti tradizionali in termini non solo di risorse ma di pensiero. L’oggetto della sperimentazione: gli spazi indecisi, rifiuti dell’urbanizzazione da rigerenerare Sono spazi indecisi i luoghi abbandonati, ai margini, dismessi, deantropizzati del nostro territorio. Luoghi dimenticati dall’uomo e dalla nostra società per incuranza e in-cultura o in attesa di un utilizzo migliore. Luoghi su cui manca una progettualità concreta, una reale volontà di agire e soprattutto il convolgimento della cittadinananza e delle sue energie più attive. Luoghi che, nonostante la loro attuale condizione di abbandono, continuano a raccontarci storie, riflesso di un trascorso vitale: in questi luoghi si intreccia la Storia che ha determinato i motivi alla base del primo mutamento di quello spazio fino a portarlo, nelle condizioni attuali, ai giorni nostri e le piccole storie, fatte di persone che in quei luoghi hanno vissuto, lavorato, agito che li si sono intrecciate. Queste storie ci pongono interrogativi sul passato e sul presente di questi luoghi, ma soprattutto sul nostro presente e futuro: cosa produceva quella fabbrica ora dismessa? Chi ci lavorava? Perché è stata abbandonata? Succederà anche alla fabbrica dove lavoro? Questi luoghi rappresentano l'inconscio urbano, il luogo più profondo e inconsapevole dell'agire dell’ uomo e del suo vivere quotidiano; è la parte che si trova al di sotto della città viva, della (non sempre) razionale urbanizzazione. Sono portatori di valori peculiari, stratificati, profondamente radicati nella memoria del territorio. Al contempo rappresentano potenziali opportunità di trasformazione del territorio ed elementi strategici per la riqualificazione del paesaggio attraverso processi inclusivi in un’ottica di sostenibilità sociale, economica, ambientale e gestionale. Ogni territorio possiede i propri spazi indecisi peculiari: ne raccontano le vocazioni, la storia e il declino industriale, come quello culturale, urbano, rurale e lo connotano. In particolare gli spazi indecisi del territorio

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romagnolo, al centro delle riflessioni e delle azioni di Spazi Indecisi comprendono: - luoghi di interesse storico artistico: castelli, rocche, conventi, chiese, ecc.; - luoghi di aggregazione peculiari di questo territorio come le case del popolo, ma anche arene e cinema all’aperto, discoteche, colonie, palestre, ecc.; - luoghi di passato “scomodo”, come l’architettura del ventennio; - luoghi di produzione ora divenuti archeologia industriale: zuccherifici, fornaci, cave, magazzini, profondamente legati alle risorse specifiche dell’ambiente che le accoglieva; - frammenti di paesaggio e sistemi paesaggistici diffusi come parchi fluviali, verde interstiziale infrastrutturale, sistemi di fortificazione su area vasta, case coloniche, case cantoniere, ecc.; Sono frammenti di storie da riconnettere attraverso nuove trame di senso, elementi peculiari del paesaggio da valorizzare come sistema, capaci di generare ricchezza – non solo culturale – per il territorio. Spazi Indecisi, l’urgenza di agire Spazi Indecisi è un collettivo multidisciplinare fondato nel 2010 in Romagna con l’obiettivo di tutelare il territorio contro il consumo del suolo, attraverso la valorizzazione dell’insieme degli spazi indecisi del territorio romagnolo. Spazi Indecisi ha l’ambizione di valorizzare e rigenerare gli spazi in abbandono o in disuso, favorendo processi innovativi di rigenerazione urbana “leggera” attraverso interventi che spaziano e ibridano in modo innovativo i diversi linguaggi contemporanei (arti visive, fotografia, musica, ecc.), progettazione partecipata, design urbano, architettura e fundraising. Il progetto nasce dall'urgenza di partecipare alla vita pubblica ed offrire il proprio contributo e la propria sensibilità al territorio, promuovendo interventi reali su questi luoghi attraverso la logica della partecipazione e del riuso leggero degli spazi, animando il tessuto culturale locale, attivando quelle realtà che vogliono partecipare alla riappropriazione degli spazi comuni del territorio per farli emergere dal subconscio urbano fino alla nostra coscienza. I primi interventi si sono concentrati sull’area romagnola, tuttavia luoghi d’interesse per la ricerca sono già stati identificati nel resto del Paese e anche all’estero. L’attività di Spazi Indecisi si è concentrata su tre direzioni: - mappatura e conoscenza: indagare i luoghi ai margini attraverso una mappatura, che conta ad ora circa 500 luoghi, in costante aggiornamento e visitabile sul portale www.spaziindecisi.it, piattaforma che raccoglie fotografie, video, informazioni storiche, ricordi in modo da conservare una memoria di questi luoghi e di diffondere una riflessione sul territorio e sui paesaggi a cui questi spazi appartengono; - valorizzazione: mostrare di questi luoghi un valore storico, emozionale,

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sociale, culturale che viene dal passato e prospettare, attraverso l’ibridazione dei diversi linguaggi dell’espressività contemporanea (fotografia, arte, architettura, design o musica) un nuovo valore emotivo, simbolico, contemporaneo, che sia fondante, stimolante per la generazione di nuove sfide, percorsi. - riuso: presidiare e alimentare il dibattito sul futuro di questi luoghi promuovendo interventi reali in questi luoghi, attraverso la logica della partecipazione e del riuso leggero, interventi a basso costo ma dall’alto contenuto creativo, che mostrino e dimostrino le infinite vie di rigenerazione di questi spazi. La e-sperimententazione di un metodo Prima fase: conoscere per sensibilizzare per generare valore Momento fondante per il percorso progettuale di Spazi Indecisi è un’indagine conoscitiva del territorio di intervento attraverso un’operazione di mappatura dei luoghi abbandonati. La ricerca, finalizzata a censire e catalogare i luoghi indecisi, è condivisa con la cittadinanza, attivata attraverso open-call fotografiche, esplorazioni partecipate alla caccia di fotografie e/o interviste sui luoghi e ricerche di archivio in collaborazione con professionisti del settore. Il risultato finale è un’innovativa mappa di comunità interattiva “open source”, in costante ampliamento ed aggiornamento, che raccoglie sul sito internet, per ogni luogo segnalato, localizzazione geografica, fotografie, video, materiali grafici ed informativi forniti dagli utenti. Sono predisposte schede descrittive tipo, facilmente compilabili dal mappatore, dove implementare tutte le informazioni basilari quali coordinate geografiche, foto, storia ecc., consultabili direttamente dal sito ed in costante aggiornamento. La raccolta di materiale vuole fornire una memoria a questi luoghi che rischiano di sparire senza che nessuno se ne accorga. Tale fase rimane continuamente in atto, in quanto gli spazi indecisi mutano al passare del tempo e dei tempi. Questa fase di ricercaesplorazione partecipata, ha diversi obiettivi: una maggior conoscenza del territorio, il coinvolgimento di soggetti locali (università, fotografi, associazioni culturali, associazioni fotografiche, ecc.), la messa in rete dei luoghi per la valorizzazione di percorsi potenzialmente turistico/percettivi, l’esperienza diretta dei luoghi attraverso l’occhio critico della macchina fotografica, la riscoperta attraverso la ricerca dei luoghi non convenzionali e non utilizzati, oramai dimenticati. Seconda fase: intervenire per provocare, per stimolare Una finalità concreta e tangibile di Spazi Indecisi è agire, attivare questi luoghi, attraverso eventi ed installazioni urbane, in collaborazione con artisti e creativi, con l’obiettivo si sviluppare una consapevolezza estetica e culturale sulla presenza di questi luoghi dimenticati. Case abbandonate, rotonde incolte, edifici fatiscenti, ecc. diventano così

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campo di indagine e di ricerca per architetti, artisti, fotografi, urbanisti, paesaggisti, filosofi, scrittori e cittadini per mettere in relazione passato presente e futuro, e produrre cultura, una riflessione, una rielaborazione contemporanea, che solo le arti (nella loro accezione più ampia) possono generare. Attraverso l’organizzazione di eventi e percorsi di partecipazione realizzati con il coinvolgimento del tessuto locale (associazioni, artisti, imprese, amministrazioni, proprietari) l’associazione Spazi Indecisi ha potuto riattivare temporaneamente diversi luoghi marginali, facendoli rivivere, seppur temporaneamente, quali spazi della città, per la città ed i suoi cittadini. Tornare a vivere gli spazi, prima ancora di riqualificarli, riaccendere la luce sulle storie e sulle forme dei luoghi per far percepire nuovamente la loro presenza, la loro anima. Solo allora, dopo aver ridato esperienza degli spazi al cittadino, si potrà riflettere sulle modalità di riconnessione di questi, sul come ricomporre un puzzle fatto di frammenti che hanno riacquistato significato. Questo metodo che si fonda su un approccio prettamente operativo, conoscitivo, inclusivo e “militante”, si pone l’obiettivo di scardinare le consuete prassi amministrative di definizione dei bisogni della città e dei suoi cittadini e di approccio al “problema spazi in abbandono”. Ecco tre esperienze concrete del collettivo che rappresentano un climax nell’attività di Spazi Indecisi. Cicli Indecisi: percorsi di riscoperta contemporanea “Cicli Indecisi” nasce nel 2011 come un percorso cicloturistico per le vie del centro di Forlì alla ricerca e alla scoperta di alcuni spazi indecisi storici della città, riattivati e resi vivi grazie ad interventi che spaziano e dialogano fra storia, storie vissute e arti contemporanee. Il format è stato più volte sperimentato con successo e riproposto anche in altri formati come percorso di riscoperta delle aree verdi nascoste del centro. Nella seconda edizione di "Cicli Indecisi" tenutasi lo scorso 8 e 9 settembre 2012, che ha contato la partecipazione di circa 500 persone giunte con la propria bicicletta, sono stati riaperti diversi spazi della città, ravvivati da mostre fotografiche, performance artistiche site specific, reading musicati, sonorizzazioni, concerti, videoproiezioni e installazioni artistiche. L’evento, attraverso la diffusione che i media locali e non, ha rigenerato un dibattito sugli spazi indecisi di Forlì e del territorio nell’opinione pubblica e nell’amministrazione stessa che ha stimolato l’attivazione di percorsi di riqualificazione di alcuni spazi abbandonati della città. L’elemento fondante di "Cicli Indecisi" è rappresentato dal fattore esperienziale con il quale si vuole trasmettere l’importanza primaria della riappropriazione simbolica delle persone nei confronti dei luoghi. E dal volere mostrare uno sguardo diverso sulla progettazione futura di questi

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spazi (vedi esempio dell’Ex Eridania citato a inizio testo). "Totally Lost": un progetto visuale sui residui di architetture “da dimenticare” "Totally Lost" nasce dalla collaborazione con il progetto europeo ATRIUM Architecture of Totalitarian Regimes of the XX Century in Urban Management e dalla presa d’atto che il patrimonio architettonico dei regimi totalitari in Europa e in particolare in Romagna, presenta, oltre a beni architettonici già recuperati e valorizzati, numerosi edifici di valore storico ed architettonico in stato di abbandono. Luoghi che connotano il nostro territorio e che non devono essere dimenticati, nonostante e proprio per il loro passato scomodo. Il progetto si configura in tre fasi: 1) Call esplorativa fotografica e video: lancio di una open call europea sui residui dell’architettura dei regimi totalitari del XX secolo a cui hanno partecipato oltre 200 fotografi da 11 Paesi europei, con oltre 2500 foto, 60 video segnalando oltre 250 luoghi da “dimenticare”. Sul territorio romagnolo sono state organizzate esplorazioni fotografiche. 2) Mappatura on line in continuo aggiornamento: il materiale fotografico e testuale raccolto è archiviato on line in una mappa ad hoc sia sul sito di "Totally Lost" sia sul sito di Spazi Indecisi e diffusa attraverso i partner del Progetto Atrium a livello europeo; 3) Esposizione itinerante in location ad hoc: il materiale fotografico e video diventa una esposizione, allestita all’ex deposito delle corriere ATR, edificio razionalista in stato di abbandono, visitata da oltre 1.000 persone. La mostra "Totally Lost" sarà esposta in altre location individuate fra le architetture totalitarie in stato di abbandono in Italia e all’estero, divenendo così un metamostra in grado di aprire al pubblico luoghi solitamente inacessibili. Il progetto Totally Lost non vuole fare i conti con il passato, ma capire come prospettare questi spazi nel futuro immaginandone nuovi usi e guardandoli come contenitori di nuovi e “democratici” contenuti. Spazio ATR: verso una rigenerazione urbana dal basso L’ex Deposito delle Corriere ATR edificio di pregio costruito nel 1935, 6000 mq (di cui 3000 mq coperti) in centro storico a Forlì, dopo anni di progetti e proposte faraoniche quanto improbabili di ristrutturazione, nel 2011 diventa luogo di interesse, di azione e di sperimentazione diretta per due realtà culturali della città che pressochè in contemporanea ne intravedono le potenzialità e decidono di sporcarsi le mani: Spazi Indecisi, lo riusa nel 2011 come spazio espositivo all’interno di Cicli Indecisi ed. 0, e Città di Ebla lo trasforma nella sede di Ipercorpo, importante festival di arti performative. Inizia così una collaborazione sempre più stretta fra Città di Ebla e Spazi

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Indecisi, a cui si affianca Romagna Creative District, che porta nel 2013 ad aprire lo spazio al pubblico per circa 14 giorni con eventi di indiscusso valore culturale e di ricerca, quali l’edizione 2013 di Ipercorpo, l’esposizione Totally Lost e Inquiry Design a cura di RCD. Lo spazio inizia anche ad aprirsi ad alcuni addetti ai lavori nel campo delle arti e della creatività, incarnando una delle auspicabili declinazioni dello spazio quale luogo di produzione di cultura contemporanea: diventa così sede di shooting fotografici, location per cortometraggi e video musicali. Solo nel 2013 sono oltre 2500 le persone che entrano in Spazio ATR e diverse decine le realtà culturali e artistiche che ne entrano in contatto diretto. Il primo risultato di questo percorso è raggiunto e da qui è difficile tornare indietro: lo spazio entra nell’immaginario collettivo della città e non solo come luogo per le arti contemporanee. Spazio ATR è un percorso dal basso che muove i suoi primi ma decisi(vi) passi, con la consapevolezza che le risorse proprie limitate (tempo, fondi, professionalità) devono essere ben soppesate, ma che ogni piccolo risultato raggiunto verso una sempre maggiore apertura dello spazio, acquista il valore di una conquista. Conclusioni, anzi le premesse L’esperienza Spazi Indecisi è ricca in quanto povera (economicamente) perchè costringe a sperimentare e sperimentarsi. Alla base dell’agire di Spazi Indecisi c’è la consapevolezza del valore emotivo e conoscitivo dell’esplorazione, del contatto diretto, della scoperta di questi luoghi, quale chiave per una riapproproriazione simbolica e culturale dei luoghi ai margini. Il paesaggio urbano, non può essere capito, osservato dall’alto, ma diventa un sistema complesso da indagare e interrogare, con cui interagire ed entrare in contatto. In una parola “sentirlo”. Da questo sentire empatico parte la riflessione, l’azione, l’intervento nelle sue infinite sfumature. Per Spazi Indecisi l’intervento su ogni spazio indeciso non è digitale, 0 o 1. Bianco o Nero. Restauro da milioni di euro o abbandono. Lo stesso luogo deve essere pensato in modo differente a seconda delle molteplici e complesse dinamiche che costituiscono il contesto in cui lo spazio si colloca: il tempo (momento storico, culturale, economico, ecc.), le forze che possono riattivarlo, la volontà della comunità e delle sue realtà, gli interessi economici, le condizioni dell’edificio, ecc.. Lo stesso luogo può essere ristrutturato integralmente, riattivato temporaneamente, valorizzato culturalmente, lasciato all’abbandono o addirittura abbattuto. La chiave è agire.

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01 - La fascia ferroviaria a Sud di Milano, evidenziata con un tratto viola. In verde, le aree a parco (servizi) ed in giallo gli scali in futura dismissione e le aree verdi di possibile utilizzo (stepping stones) per la riconnessione con il Parco Agricolo Sud (in verde tratteggiato). Cartografia elaborata da G. Trivellini 02 - Uno stagno temporaneo in cui avviene la riproduzione del Rospo smeraldino (Bufo viridis) nell’area dello scalo di San Cristoforo, zona sudovest di Milano. Foto di M. Trentin 03 - Un prato di fronte allo scheletro della ex “Stazione cuccette� dello scalo di San Cristoforo. Foto di M. Trentin 04 - Boschetto di Ailanto (Ailanthus altissima) nello scalo di Porta Romana, zona sud est di Milano. Foto di M. Trentin 05 - Rotaie dismesse invase da vegetazione nello scalo di Porta Romana. Foto di M. Trentin 06 - Riccio fototrappolato durante una sessione di monitoraggio nel mese di giugno 2013. Foto di N. Gilio


ROTAIE VERDI: VALORIZZAZIONE DEL SEDIME FERROVIARIO COME CORRIDOIO ECOLOGICO Martina Trentin Guido Trivellini >WWF Italia >Cooperativa Eliante

Introduzione Lo spazio è una risorsa scarsa nella città di Milano, vale letteralmente oro. L’occupazione dello spazio da parte dei cittadini ha portato a cercare nuove strade, soluzioni e punti di vista, a occupare strutture inutilizzate e riutilizzare perfino gli spazi interstiziali. Chi non può avere un giardino cerca la strada del balcone verde o della gestione comunitaria (nel 2013 il Comune ha sdoganato i “Giardini Condivisi”): [Deliberazione di Giunta Comune di Milano 1143 del 25/5/2012] chi può letteralmente mettere le mani su un pezzo di terra, lo fa. Questa voglia di uso dello spazio a tutti i costi, tuttavia, non ha portato sempre ad una riflessione coordinata: ha prevalso spesso la spinta a far proprio in qualche modo un pezzo di città, piuttosto che la creazione di un sistema che rispondesse in modo coordinato ad una analisi precisa delle necessità. L’uso e il riuso delle superfici a tutti i costi hanno portato a considerare soltanto l’uomo nel bilancio delle finalità, escludendo ogni altra possibilità: lo spazio libero è dell’uomo e per l‘uomo, non ci sono facili convivenze con aspetti più naturalistici o con “vuoti” pianificati. Ci sono poi alcune aree che non sono utilizzabili e che per questo fanno ancora più gola, colpiscono la fantasia ed i desideri delle comunità che vivono nel circondario. Le aree di rispetto ferroviarie sono tra queste: spazi, a volte enormi come gli scali, circondati da muri o proibizioni

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invalicabili. Veri e propri canali che scorrono tra i palazzi creando una circolazione parallela che penetra il cemento e lo attraversa. Nel caso di Milano connettono la cintura della circonvallazione con l’esterno, trasportando persone e, storicamente, merci. Al contempo sfiorano i parchi urbani, bordeggiano aree abbandonate o lasciate alla fantasia della speculazione, passano accanto a lotti inutilizzati, che vengono invasi da specie pioniere che ricreano condizioni di equilibrio ecologico a metà tra l’ambiente esterno alla città e un ambiente totalmente nuovo. La natura si ricostruisce da sé con quello che l’uomo le lascia: incuria e brandelli di terreno. Spesso nel giro di pochi mesi si vengono a creare veri e propri boschetti, prati formati da specie pioniere e generaliste o da semi scappati dai giardini: scarso valore ecologico, ma grande dimostrazione di forza e resilienza. I sedimi ferroviari presenti nel territorio comunale di Milano, insieme alle adiacenti fasce di rispetto ferroviario (inedificabili) [Le fasce di rispetto ferroviario sono regolamentate dal D.P.R. 11 luglio 1980 n. 753 e dalla legge 12 marzo 1968 n. 120] e agli scali in futura dismissione che restituiranno nuove aree a verde, hanno una buona potenzialità da un punto di vista ecologico poiché costituiscono un'ampia rete continua di spazi non edificati, che collega l'interno della città con le estese aree naturali extraurbane (ad esempio: Parco Sud, Parco del Ticino, Parco Nord) (fig 1). La proposta di Rotaie Verdi nasce da queste riflessioni, integrate dalla possibilità storica di poter interagire con le comunità milanesi, sensibilizzate alla partecipazione nella gestione del proprio territorio, e di poter contribuire a modificare la percezione del verde aggiungendo una categoria: un verde usabile e vivibile, ma meno addomesticato. Come percepiamo il verde in città All’interno delle pianificazioni territoriali a ogni scala, il verde pubblico rientra nella categoria dei “servizi” mentre le reti ecologiche, quando esistono, sono “infrastrutture”. Come possiamo far percepire che questi “oggetti” della pianificazione hanno un valore intrinseco, non sono semplici strumenti? Spesso la percezione è che il verde pubblico sia un servizio solo se ci si possa agire in maniera diretta: correre, giocare a pallone, passeggiarci. Ma se invece non fossimo necessariamente noi ad agire lasciando l’ambiente sullo sfondo, se l’ambiente fosse un soggetto come noi da guardare, ascoltare, annusare, a volte lasciar stare: saremmo ancora disposti a considerarlo un servizio? La proposta è legata ad un concetto di verde selvatico urbano (“wild urban”) che permetta di avere anche del verde che non sia un deserto per la biodiversità, che permetta alla Natura di ricrearsi un proprio equilibrio anche in città: è un servizio ecosistemico anche l’andare ad esplorare, lo scoprire animali e piante, il riscoprire ambiti fino ad oggi non accessibili ufficialmente. Il momento storico lo permette, è maturo:

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nascono discipline di interazione con la città come il parkour , che rende la città parte dell’esplorazione dei propri limiti [Il parkour è una disciplina metropolitana nata in Francia agli inizi degli anni ‘90. Consiste nel seguire un percorso stabilito, superando qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di movimento possibile e adattando il proprio corpo all'ambiente circostante]. E’ maturo il momento culturale, in cui si fa strada la voglia di maggiore naturalità nel vivere: ne sono testimoni la richiesta di cibo “bio” e la nascita di negozi con merci provenienti dalle cascine, o la rinascita del turismo di prossimità; gli spazi della città vengono riempiti con balli popolari “clandestini”, che animano a sorpresa le nuove piazze che di notte altrimenti diventano deserti. In questo frangente è possibile inserire il concetto di valore dei servizi ecosistemici, che possono sostenere il salto culturale dei cittadini verso un nuovo atteggiamento nei confronti dei sistemi verdi. Infine, il fascino del “giardino nascosto” che le aree ferroviarie hanno sempre esercitato su chi ci vive attorno: proibite, chissà cosa nascondono. Un po’ come quando si guarda oltre i limiti della siepe che chiude il giardino più bello del paese, quello in cui non si può entrare e dove sono certamente nascoste meraviglie incredibili. Ed effettivamente, entrando negli ambiti ferroviari a Milano, si trova un mondo parallelo nascosto ai più, fatto di piccole discariche abusive, aree abbandonate, piccoli ruderi, interi villaggi abusivi di nomadi e rifugi di emergenza di immigrati. Ma ci sono anche boschetti, prati fioriti, nuvole di farfalle variopinte, stagni ricolmi di uova di rospo, nidi e cinguettii (figg 2, 3, 4). Una collezione di spazi invisibili dove vivono alla luce del sole molti invisibili. La Natura e la sua incapacità di adeguarsi alle regole umane è tra questi, anche lei si riguadagna ogni metro appena l’uomo smette di diserbare, tagliare, strappare, scacciare. L’habitat in equilibrio, anche se formato da specie alloctone, ha un suo valore intrinseco che in città, dove è impossibile avere una forma canonica di habitat autoctono, ha comunque un valore rappresentativo: esempio è come i milanesi difendano perfino gli ailanti (Ailanthus altissima) che spaccano le rive dei navigli, pur di avere un albero in più sotto casa [“Via Filarete, alberi salvati dal taglio”, Corriere della Sera Milano 9 marzo 2011 e “Il taglio dei “poveri” ailanti e il Naviglio Pavese spoglio”, Corriere della Sera Milano 10 dicembre 2013]. In fondo, anche le specie meno pregiate o le alloctone possono rendere un servizio: la resilienza è quella caratteristica che consente ad un ecosistema di ripristinare un proprio equilibrio, di cercare di ritornare al punto di partenza dopo una forte perturbazione. Per i gestori del verde pubblico, spesso, questo è un problema: rami che crescono a dismisura, prati da rasare in continuazione, viali da diserbare, costi per la società. Ma se rovesciassimo il punto di vista, se la società avesse modo di utilizzare

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e apprezzare quel disordine (che disordine non è) legato alla biodiversità che si fa strada nelle oasi urbane? Quelli che sono costi diventerebbero risparmi. Questo, naturalmente, dipende dal rapporto che abbiamo instaurato con il verde, dalla nostra concezione di “servizio” che il verde deve fornirci. Rotaie verdi: visionari per (la) Natura Le opportunità attorno a cui è cresciuta la proposta di Rotaie Verdi sono diverse. Prima tra tutti la realizzazione dell’Accordo di Programma (AdP Scali) per la dismissione degli scali urbani da parte di Rete Ferroviaria Italiana (RFI) e la loro cessione al Comune di Milano. Un’occasione unica di ripensare spazi immensi, ormai completamente inglobati nel tessuto cittadino. La seconda opportunità è la presenza di EXPO 2015, che per 6 mesi renderà Milano la vetrina delle vetrine costringendo a nuovi approcci nell’offerta di servizi e razionalizzando l’utilizzo dei propri talenti. L’obiettivo finale di Rotaie Verdi è ipotizzare l’inserimento del corridoio ferroviario urbano in una logica di più ampia rete ecologica, che possa sfociare nelle aree agricole adiacenti all’area metropolitana: le aree verdi urbane quale mezzo di connessione ecologica tra la fascia ferroviaria e le aree agricole esterne. Le oasi (“stepping stones”) di appoggio a questa rete si collocheranno nelle aree verdi ricavate all’interno degli scali in dismissione. Questo implicherà la realizzazione di linee guida e di una progettazione di massima che favoriscano un approccio “wild”, volto a creare oasi urbane sullo stile di quelle londinesi [London Wildlife Trust: http://www.wildlondon.org.uk/]. Attraverso uno studio di fattibilità, il progetto valuta l’idoneità ambientale, reale e potenziale, della fascia ferroviaria attiva e degli scali, proponendo delle linee guida di gestione della stessa fascia di rispetto ferroviario (in collaborazione con RFI) e delle future aree verdi negli scali (in collaborazione con il Comune di Milano). Sulla base di un lavoro istruttorio svolto dal WWF fin dal 2009, oltre che sulla scia di esperienze precedentemente realizzate all’estero come la High Line di New York [http://www.thehighline.org/] o le oasi urbane di Londra, le proposte si possono riassumere con: - la valorizzazione ecologica della fascia di rispetto ferroviaria, anche in esercizio, come corridoio ecologico urbano; - la creazione di Oasi Urbane (stepping stones della rete ecologica), mediante la proposta di gestione naturalistica delle parti degli scali che saranno destinate a verde, - la creazione di una ipotesi di rete ecologica che consideri il binario ferroviario e le oasi come elementi principali di connettività intra-urbana e di riconnessione con le aree extra urbane [la tematica della connettività ecologica è divenuta di recente molto rilevante in Lombardia, ed è stata istituzionalizzata dalle Autorità Regionali mediante l’inclusione nel Piano Territoriale Regionale (PTR) della Rete Ecologica Regionale

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(R.E.R, d.d.g. 3376 del 3 aprile 2007, d.g.r. 8/10962 del 30 dicembre 2009), a sua volta basata sull’identificazione delle “Aree prioritarie Lombarde”, realizzata a seguito del lavoro congiunto di Fondazione Lombardia per l’Ambiente e WWF Italia]. Si tratta di aree a naturalità sub-idonea ma continua, identificate con l’anello ferroviario milanese, che diventerebbe il possibile mezzo di integrazione con altri progetti a valenza naturalistica. E’ basilare l’impiego di strumenti di tipo partecipativo, soprattutto per l’ascolto del territorio e per la definizione di uno strumento di salvaguardia e supporto della rete ecologica urbana (paragonabile al “contratto di rete” già implementato in Regione Lombardia) [per approfondimenti sullo strumento del “Contratto di rete” vedi Lenna, P. (2001), La rete ecologica lombarda e alcune azioni attuative, Territorio n. 58, FrancoAngeli]. E’ indispensabile, infatti, comprendere come la comunità si porrà di fronte a queste nuove proposte: i dubbi saranno molti, così come le paure, legati al disordine e all’impressione di “non controllo” che può dare un prato non rasato, all’idea che dietro una fronda non potata si possa nascondere qualcosa di sgradevole. La cittadinanza, tuttavia, è in un momento di presa di coscienza del proprio territorio e dei propri diritti e doveri verso di esso. La ricerca degli spazi ed il loro uso va spesso in direzione di una riappropriazione della città, coerente con la rivalutazione della propria appartenenza ad un territorio, anche in transizione. In questo senso, una nuova forma di servizio del verde, fruibile ma di concezione diversa da quella classica del parchetto verde di colore ma grigio di biodiversità, ha trovato il momento maturo per proporsi e riproporre i valori che fanno parte di quella ricerca di appartenenza ad una terra (anche di adozione) che pervade le città in questi anni. La presenza di oasi urbane gestite con cognizione naturalistica porterebbe a Milano un concetto di verde già presente in altre metropoli mondiali, comunque fruibile, garantendo patches di superficie minima vitale sufficiente per flora, fauna invertebrata e piccoli vertebrati che costituiscono la biodiversità urbana. Stakeholders engagement, ovvero “credeteci con noi” Il progetto è cresciuto e si è adattato a mano a mano che è stato discusso con tutte le parti interessate individuate durante il percorso, raccogliendo idee e suggestioni ma anche mettendosi in discussione rispetto a questioni pratiche e tecniche. Le idee di base sono state diffuse e discusse da subito, messe a disposizione dei cittadini con l’intenzione di creare una nuova filosofia di verde, secondo un approccio del tipo: “più siamo a pensarla così, più è facile che si realizzi”. Quindi la vision è stata comunicata nei suoi principi e nell’idea di base già durante la sua fase di identificazione e promozione. Questa strategia è risultata premiante in quanto portare l’idea a

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finanziamento è risultato più facile, seguendo un percorso un po’ più lungo del solito che ha tuttavia consentito una forte base di accettazione da parte dei tecnici interessati, che a questo punto ci credono e si spendono in prima persona, e della comunità che a mano a mano viene raggiunta. Quello finanziato è, pertanto, il frutto di una evoluzione, in qualche modo scritto a molte mani pur aderendo ad una idea centrale che è sempre rimasta coerente con se stessa: un verde gestito in modo naturalistico che può farcela a ritagliarsi uno spazio in città e una città che ha voglia di un verde un po’ più selvatico e spontaneo, che porti con sé una biodiversità sana e in movimento. Certo, non ci si deve aspettare il cervo a Milano, ma piccoli animali e piante che possono riconquistare il proprio spazio rispetto alle specie alloctone (ad esempio a scapito dell’Ambrosia artemisifolia, a cui lo sfalcio tardoestivo dell’erba può spalancare lo spazio per crescere). E’ stato basilare prestare attenzione al messaggio da portare: poiché è in corso un delicato processo per l’AdP Scali, e poiché la “fame” di spazi progettuali può generare sovrapposizioni, va posta grande attenzione ad eventuali messaggi allarmanti o fuorvianti, così come al pericolo di creare aspettative, positive o negative. Credere ad idee che (ancora) non si possono vedere o toccare: proporre uno studio di fattibilità Una difficoltà non da poco riguarda proprio l’oggetto stesso di Rotaie Verdi: comunicare uno studio di fattibilità non è semplice, senza sostituirsi alle autorità o ai privati. Si tratta di proporre delle linee guida gestionali, dei suggerimenti da integrare in contratti quadro di manutenzione del verde, idee da proporre alla gestione del verde condominiale. Come tali, dovranno coinvolgere ed eventualmente convincere le autorità, i responsabili tecnici della manutenzione, gli abitanti dei condomini. I primi risultati, naturalmente, sembrano poco spettacolari se visti in un’ottica non ecologica: pochi animali, soprattutto uccelli, ricci, minilepri, rospi e gechi. Qualche farfalla (gli altri insetti non sono facilmente comunicabili) e una enorme biodiversità botanica che caratterizza un ambiente quasi mediterraneo, punteggiato da specie che sembrano arrivare da ogni parte del mondo, veicolate attraverso i carri merci, portate da comunità di nuovi cittadini e filtrate attraverso i giardini circostanti (figg 5, 6). Se, tutto sommato, la gestione del verde “naturalistica” può sollevare problemi esclusivamente di manutenzione lungo le linee ferroviarie in funzione, maggiori perplessità sembrano venire dalle aree che dovranno diventare parchi, soprattutto negli scali in dismissione, circondati da zone percepite come poco illuminate e in cui il dibattito sulla sicurezza è già decisamente caldo. La sfida è dunque nel coinvolgere gli abitanti dei quartieri per usare il verde in modo che il presidio sul territorio sia attivo e che i parchi, le “oasi”,

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vengano vissuti senza tuttavia sentirsi defraudati di un verde “canonico”. Riutilizzare gli spazi a verde in modo che i servizi che offrono siano percepiti come un elemento di per sé, un investimento nel futuro e non solo come uno sfondo più o meno gradevole su cui si muove la comunità. Come già detto, il coinvolgimento degli attori è avvenuto da subito, gradualmente, indagando le questioni che si aprivano a mano a mano, senza paura di comunicare un’idea che si è difesa da sola proprio grazie al fatto che ogni attore coinvolto l’ha fatta propria nel tempo e vi ha trovato proprie motivazioni. A partire dai principali interlocutori, RFI e il Comune di Milano, che da subito hanno sollevato perplessità e curiosità. Un approccio di integrazione con la comunità è stato utilizzato già in fase di scrittura del progetto: sono state analizzate le aree circostanti, per capire quali fossero le loro vocazioni e per comprendere in che tessuto socio-economico ci stessimo muovendo. Si va infatti dalle aree di nuova speculazione e riqualificazione legate ai Navigli e a via Savona, nuovi quartieri della moda e del design, a quartieri come Giambellino, caratterizzato da una estrema diversità culturale e da tensioni dovute al tessuto sociale e urbano di periferia, dove la domanda di spazi per l’incontro e la socialità, per i giovani, per l’espressione artistica in generale è molto forte. L’area di Porta Romana è altrettanto in evoluzione, a partire dalla costruzione della torre Prada, in un ambito che ha una serie di problematiche legate alla sicurezza, alla presenza di immigrazione, sacche di povertà e tensioni sociali. Un ambito che confina idealmente con Parco Sud e la campagna, dove al contempo fioriscono realtà come Cascina Cuccagna [http://www.cuccagna.org/] e negozi a km zero, dove il numero dei treni della linea S9 del passante sta incrementando, mentre il disagio dovuto al rumore e alle vibrazioni cresce di conseguenza. Una volta venuti a conoscenza del progetto, sono stati gli stessi attori del territorio a farsi avanti, i progettisti a voler agganciare ulteriori piccole proposte a una azione interessante proprio per la riscoperta e il riutilizzo di aree “proibite”. Queste richieste sono rivolte sia ad un uso temporaneo che permanente nel tempo, al riutilizzo di edifici per la rinascita dei quartieri e per l’uso dei sensi nella scoperta di nuovi spazi. La risposta del territorio è stata dunque attiva e viva, ma non priva di critiche. Prima tra tutte la valutazione se, in un momento di crisi sociale ed economica, sia davvero importante pensare al verde come servizio essenziale. Le sfide, pertanto, saranno nel prossimo anno di progetto: lo studio di fattibilità dovrà valutare se, affrontando in modo strategico la gestione del verde secondo le linee guida proposte, si andrà incontro o meno ad una riduzione di costi di gestione, o per lo meno ad una valutazione reale del servizio, anche socio-economico, offerto alla cittadinanza.

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01 - La valle del Menago nel 1589 a Cerea (VR) 02 - Piano strategico ambientale - Consorzio di Bonifica Veronese 03 - Le locandine di informazione degli incontri con la popolazione 04 - Le Vallette durante i lavori Novembre 2007 05 - Vista del parco a lavori ultimati 06 - Planimetria di progetto 07 - Sezione della passerella e del terreno 08- Foto aerea durante il cantiere nella fase di scavo 09 - Fase di cantiere 10 - Libellula 11 - Airone nel parco a lavori ultimati


VALORIZZAZIONE AREA VALLETTE NEL COMUNE DI CEREA (VR) Marco Abordi

L’area delle Vallette di Cerea è situata all’interno della così detta Valle del Menago costituita da una depressione valliva scavata in origine da un antico ramo del fiume Adige all’interno di un conoide sabbioso. Il Menago scorre pensile al margine orientale della valle, a seguito delle secolari opere di bonifica. Nell’area delle Vallette la funzione di scolo delle acque basse, ora, viene svolta dallo scolo Fossà Palanca. Il Fiume Menago ha origine da alcuni fontanili in località Cà di David a sud di Verona, attraversa i centri abitati di Villafontana, Bovolone e Cerea e si immette nel Tartaro Canal Bianco in località Santa Teresa in Valle (fig 1). La prima consistente opera di bonifica della valle del Menago risale al 1218. Successivamente il corso dell’antico Menago è stato, a più riprese, modificato per permetterne lo sfruttamento, a fini di forza motrice, dai numerosi molini e pile sorti lungo il suo percorso. La situazione attuale risale ad interventi realizzati alla fine del 1700. Ciò ha consentito l’utilizzazione agricola dei terreni vallivi lungo l’intera paleovalle, da Villafontana sino all’ingresso nel territorio delle Valli Grandi Veronesi. In tale area di passaggio, tra la media pianura veronese ed i terreni depressi delle antiche valli, si è potuta mantenere pressoché integra la preesistente palude del Brusà, recentemente riconosciuta di importanza internazionale con il suo inserimento nella convenzione di Ramsar. Nel passato il legame di Cerea con il fiume Menago e con i suoi boschi sempre stato molto forte tanto da influenzare la scelta del simbolo dello stemma araldico del Comune nel quale viene rappresentato un albero di cerro. Nel 1300 il bosco di proprietà del Comune di Cerea era di 3.491 campi e nel 1714 di 8.506 campi. La rinaturalizzazione dell’Area delle Vallette accresce il complessivo valore

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ecologico del pregiato contesto ambientale rappresentato dalla “Riserva Naturale della Palude” del Brusà. Inoltre costituisce un primo importante passo verso la riqualificazione dell’intera asta fluviale del Menago. Il contesto ambientale Il fiume Menago è una delle aste fluviali che da nord scendono verso il Tartaro-Canal Bianco parallele al corso dell’Adige. Esse rappresentano, all’interno del contesto territoriale regionale, degli importanti elementi di connessione ecologica da recuperare e valorizzare. L’area delle Vallette rappresenta un importante tassello del corridoio ecologico che, partendo dalle risorgive a sud di Verona, attraversa la pianura della bassa veronese per giungere sino al Tartaro-Canal Bianco. Per questo motivo il progetto prevede delle aree ad elevata naturalità lasciate alla libera evoluzione; questa scelta oltre che creare dei siti che consentano alla fauna di trovare rifugio e non essere disturbata dai fruitori del parco, consente un notevole abbassamento dei costi di gestione e manutenzione. Tale situazione si verificherà nell’area costituente le isole nelle nuove Vallette. Nella figura 2 sono evidenziati i principali ambiti di intervento per la valorizzazione delle acque nel territorio della pianura veronese in destra Adige, definiti nel Piano strategico ambientale e territoriale nelle aree di pertinenza dei Consorzi Riuniti di Verona [aprile 2005, terra srl www. terrasrl.com] (fig 2). Le origini del progetto L’iniziativa è stata promossa dal Comune di Cerea che ha inteso restituire alla propria gente un pezzo di terra estorto alle acque e al vissuto quotidiano. La sola produzione agricola, in situazioni ambientali e territoriali simili, non si giustifica ormai più e la necessità di nuovi spazi collettivi di prossimità e di alta qualità è ormai prioritaria rispetto ad altre funzioni. La proposta comunale, rientrava pienamente nella visione strategico territoriale del Consorzio di Bonifica che prevedeva lungo il Menago e gli altri fiumi di risorgiva la valorizzazione dei corridoi ecologici (vedere alle pagine seguenti). Poichè, su scala provinciale e regionale gli intenti di valorizzazione territoriale vanno in questa direzione, il Comune di Cerea ha ritenuto opportuno avviare preliminarmente un processo di verifica e poi di confronto con la propria popolazione. Nel marzo del 2005 prima e nel febbraio del 2006 poi, il Comune ha presentato il progetto dapprima in forma preliminare e poi definitiva. Il confronto con i cittadini è stato promosso come forma di partecipazione attiva alle scelte ed ha dato preziose indicazioni anche per la progettazione delle opere (vedi locandine). Una volta acquisito l’accordo pubblico, Comune e Consorzio si sono fatti promotori del progetto presso la Regione che ha concorso alla realizzazione dell’intervento (fig 3). La realizzazione Il particolare contesto ambientale e il carattere innovativo degli obbiettivi progettuali hanno attribuito all’intero processo, dalla progettazione alla realizzazione, una connotazione sperimentativa e di affinamento

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progressivo delle metodologie e delle scelte esecutive (fig 4). La fase di progettazione vera e propria è stata preceduta da una intensa attività di raccolta dati e di analisi, quali: - studio delle carte storiche e dell’evoluzione dei luoghi nei secoli passati - rilievo topografico tridimensionale del terreno - indagini geotecniche di portanza dei terreni e indagini stratigrafiche del suolo - indagine archeologica preventiva al fine di definire con esattezza le aree interessate da reperti dell’età del bronzo - rilievo delle reti tecnologiche presenti (elettrodotti, cavi telefonici, gasdotto interrato ecc.) - studio biologico dell’area per verificare le ripercussioni del progetto nel ciclo biologico delle specie presenti e potenzialmente richiamabili (particolare attenzione è stata dedicata alle zanzare e alle nutrie). L’area interessata si estende su una superficie di circa 21 ettari. Gli elementi principali del progetto riguardano la creazione di un’area umida, la realizzazione di un percorso ciclopedonale su passerella in legno poggiante su pali e la formazione di camminamenti su fondo stabilizzato (fig 5). Gli specchi d’acqua, con estensione complessiva di oltre 40.000 mq, sono stati ottenuti mediante asportazione di circa 110.000 mc di terreno torboso. Gli invasi hanno profondità massima di 4 m dal piano campagna e presentano scarpate a lieve pendenza, con banchine sommerse al fine di creare ambienti ed ecotipi diversificati. La passerella è dotata di rampe di ingresso in corrispondenza degli accessi dalle piste ciclabili lungo gli argini del Menago e del Canossa. La lunghezza complessiva è di circa 500 m. La struttura è composta da 90 moduli di 6 metri di lunghezza e 2 metri di larghezza. L’intero impalcato è stato realizzato in legno di larice e poggia su una struttura composta da colonne e traversi in acciaio “Corten” (la patina di ossido prodotta in superficie protegge dall’ulteriore degrado). A loro volta le colonne in acciaio risultano incernierate alle sommità dei pali battuti in cemento armato. In totale sono stati infissi 240 pali di lunghezza variabile da 6 metri a 12 metri (fig 6). I camminamenti, realizzati a quota campagna, permettono di usufruire delle aree a verde con un percorso complessivo, tenendo conto anche della passerella, di 3.200 metri. Altri elementi elementi caratteristici dell’opera sono: - la piattaforma in legno di larice di metri 6x8 da utilizzare come punto di osservazione - il ponticello in legno di larice per l’attraversamento dello scolo Palanca, lungo il camminamento a sud che conduce all’interno del boschetto esistente - il ponticello per attraversare lo scolo Canossa, realizzato in continuità con la passerella. Tale struttura permetterà il futuro collegamento con Via S.Chiara di San Vito - la derivazione del Fiume Menago mediante un sifone a cavaliere d’argine con portata massima di 68 l/sec (fig 7). Il progetto è stato concepito per consentire, in fase realizzativa, l’introduzione di eventuali modifiche migliorative sia per quanto attiene gli elementi architettonici, sia per quanto riguarda le modalità esecutive. La particolare natura dei luoghi, caratterizzata dalla presenza di un

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potente strato di torba, non ha consentito di progettare con certezza le modalità di escavazione e movimentazione di tale tipo di materiale. In effetti l’impresa esecutrice ha dapprima adottato un sistema che ha permesso di lavorare con terreno asciutto mantenendo la falda opportunamente abbassata, ma in seguito è dovuta tornare al classico sistema di escavo in falda mediante benna mordente. Le ditte esecutrici hanno operato in un contesto non agevole per il quale risultava fondamentale l’esperienza maturata in attività svolte in ambienti paludosi a bassissima portanza statica. Solo l’elevata professionalità delle maestranze ha permesso di realizzare le opere previste garantendo nel contempo la necessaria continuità dei deflussi idrici. La torba scavata, per far posto all’area umida, non ha costituito semplice materiale di rifiuto, bensì è stata opportunamente valutata in termini economici e ceduta all’impresa esecutrice consentendo in tal modo importanti economie sui costi di progetto. La passerella in legno è stata realizzata “su misura” in opera in conseguenza del suo andamento curvilineo e per il disallineamento, inevitabile, dei pali di fondazione. Di fatto ogni modulo, di 6 metri circa di luce, risulta diverso da tutti gli altri. La passerella è in legno di larice e poggia su pali in acciaio “Corten”. Permette la fruizione dell’area ad una quota altimetrica tale da consentire una visione privilegiata degli scorci paesaggistici neo ricostruiti e costituisce una importante connessione tra le due parti della città di Cerea attraversata dal Fiume Menago (fig 8). Per le sistemazioni a verde, sono state rispettate le direttive del Piano d’Area della Riserva del Brusà, che prevedono l’utilizzo di specie arboree ed arbustive esclusivamente autoctone, quali acero campestre, carpino bianco, frassino, pioppo bianco, pioppo nero, farnia, salice, olmo ecc. Sono stati piantati 1.3 ha di nuove superfici boschive, utilizzando 4.600 individui di arbusti e piante arboree di 27 specie diverse tipiche dei boschi planiziali della bassa pianura veronese. Nelle zone più drenanti sono stati messi a dimora la farnia, olmo campestre e frassino ossifillo, il carpino bianco, l’acero campestre, il pioppo tremulo accompagnati dal prugnolo spinoso, corniolo, viburno, nocciolo e biancospino. Nelle aree più umide invece sono stati utilizzati l’ontano nero, il frassino, il salice bianco accompagnati da arbusti più resistenti all’acqua. Le specie utilizzate sono tutte piante autoctone provenienti da vivai locali che producono piante certificate partendo da materiale genetico locale. I boschi sono intercalati con grandi superfici aperte formate da 4.8 ha di prati fruibili e da 1.6 ha di prati umidi con vegetazione igrofila. Per le tipologie di bosco ed i sesti d’impianto ne sono stati previsti tre tipi in relazione alla funzionalità ecologica e fruibilità: 1 Bosco non fruibile; 2 Bosco fruibile con difficoltà; 3 Selva completamente fruibile (fig 9). La prima tipologia è una formazione boscosa molto fitta che, a seguito dell’avviamento, non avrà più bisogno di manutenzione. La seconda consente un utilizzo ricreativo condizionato dallo stato vegetativo. La terza presenta piante rade che consentono alla luce di filtrare e formare un sottobosco erboso fruibile. Anche le specie utilizzate nelle semine dei prati fruibili sono state oggetto di particolare selezione, oltre ad aver utilizzato specie in grado di produrre un prato fiorito (con un gradevole risultato estetico), sono stati selezionati

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ecotipi in grado di formare un fitto tappeto erboso molto resistente al taglio continuo e al calpestio. In fase esecutiva sono stati adottati opportuni accorgimenti per contrastare i problemi derivanti dalla presenza di nutrie e zanzare. Il risultato finale è quello di un area naturale fruibile e godibile, grazie a circa 4 km di camminamenti e piste ciclabili, immersi nel verde dei prati e ombreggiati da filari e boschetti di specie autoctone e tipiche del sito. Il futuro delle vallette L’ultimazione delle opere di progetto non costituisce la conclusione del processo di trasformazione di questo spazio. Anzi, proprio da questo momento prende avvio la costruzione del luogo con un progressivo appropriamento da parte degli abitanti di Cerea che, attraverso il vivere quotidianamente questo spazio in forme diverse, faranno delle Vallette un punto identitario per tutta la comunità. La bonifica del paleoalveo e la sua gestione agricola intensiva hanno reso inospitale questo pezzo di terra al centro del comune, annullando e allontanando l’acqua dal vivere quotidiano. Le nuove trasformazioni morfologiche hanno permesso di ricreare uno spazio d’acqua, un ambiente ricco di vita, di specie e di habitat di grande valore. In effetti, a lavori appena iniziati, il vecchio deserto agricolo si è popolato di grandi quantità di libellule, creature del vento, animali leggeri e armoniosi. La libellula esprime la leggiadria e la leggerezza del mondo naturale ed è ammirata per la sua grazia ed eleganza. I giapponesi l’hanno eletta a simbolo della loro isola, associandola anche al successo in genere, alla forza, al coraggio e alla gioia. Per i nativi di America è un animale totemico, simbolo di trasformazione e le libellule sono in genere associate alle anime dei morti. Secondo alcuni l’etimologia di libellula sembra rifarsi al termine latino Libellus, diminutivo di Liber (libro) richiamando l’attitudine di questi animali a tenere le ali combaciate come i fogli di un libro. Secondo altri, invece, libellula deriva da Libella (livella) visto che in volo, con la sua forma a T e il corpo sullo stesso piano delle ali, richiamerebbe l’aspetto dello strumento di misurazione. La libellula è quindi portatrice di un duplice messaggio. Da un lato, il libro simbolo dell’analisi e sintesi della conoscenza. Il richiamo alla storia dell’uomo e del territorio conservata nella biblioteca naturale di torbe delle Vallette diventa evidente (fig 10). Dall’altro, l’equilibrio e la trasformazione, la capacità di affrontare i cambiamenti con forza, accogliendo il nuovo nel rispetto del passato, cogliendo la magia e l’essenza dei processi di trasformazione dinamici, in una continua evoluzione del rapporto tra uomo e natura. L’ecosistema delle Vallette necessiterà di un periodo di transizione per crescere e trovare un suo equilibrio. Lo potrà fare anche attraverso l’opera dell’uomo che si prenderà cura di questo territorio, favorendo la sua evoluzione e la creazione di un paesaggio, di un palcoscenico collettivo della vita in cui ognuno può recitare la propria parte. Le Vallette di Cerea vanno ora vissute, abitate, frequentate, trasformate in questo spirito cogliendo le magie che la Natura quotidianamente ci offre, superando la sola idea di protezione attraverso i piani ed i divieti, innamorandosi, raccontando storie e sognando il futuro (fig 11).

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UN TEATRO COME BENE COMUNE CRONACA PARZIALE DI UN PROCESSO DI MESSA IN COMUNE DI UNO SPAZIO PER FARE CULTURA IN COMUNE Andrea Baranes Chiara Belingardi >Teatro Valle Occupato

Il Teatro Valle Occupato e la Fondazione Teatro Valle Bene Comune Il Teatro Valle è il più antico teatro di Roma ancora in funzione. È stato costruito nel Settecento e si trova nel cuore della città, a pochi passi dal Senato della Repubblica. È un tipico teatro all'italiana, di elevato pregio architettonico e simbolico, avendo ospitato alcuni spettacoli importantissimi per la storia del teatro (uno fra tutti, la prima assoluta di “Sei personaggi in cerca di autore” di Pirandello) e per essere stato luogo di alcune rivoluzioni teatrali (qui ha recitato una donna per la prima volta nello Stato Pontificio). Fino al 2010 è stato gestito dall'Ente Teatrale Italiano, che giusto in quell'anno è stato chiuso dal ministro Tremonti come “Ente inutile” nel DL n.78 del 31 maggio 2010 “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” [Art. 7 comma 20 e allegato 2]. Secondo il decreto le sue funzioni venivano raccolte dalla pubblica amministrazione, in questo caso il Ministero dei Beni Culturali. A un anno di distanza dalla prima protesta dentro il teatro contro la chiusura dell'ETI [Costantini E. (2010), Attori e registi al Valle contro la chiusura dell’Eti, in www.roma.corriere.it, 09/06/2010, 28/01/2013], il giorno dopo la vittoria del Referendum contro la privatizzazione dei servizi idrici, il 14 giugno 2011 un gruppo di lavoratori e lavoratrici dello spettacolo ha occupato il Valle. Uno dei primi atti pubblici compiuti dagli occupanti è stato appendere degli striscioni, tuttora presenti, che recitano “Come l'acqua, come l'aria, la cultura è un bene comune”.

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Nelle intenzioni iniziali l'occupazione sarebbe dovuta essere un atto dimostrativo e durare solo tre giorni, ma data la risonanza che ha avuto a livello nazionale si è deciso di provare a rimanere e a dare corpo a una proposta di riforma del sistema di gestione della cultura in generale e dei teatri in particolare. La decisione, in continuità con la vittoria referendaria e conseguente all'incontro con alcuni esperti giuristi che stavano già da tempo lavorando sulla questione dei beni comuni (in particolare Ugo Mattei e Stefano Rodotà), è stata quella di creare una istituzione che si collocasse all'interno della categoria dei beni comuni, in grado di “aprire uno spazio d’azione tra la logica del profitto dei privati e l’asfissiante burocrazia pubblica”, di generare “connessione tra lotte molto diverse, moltiplicando spazi di confronto e piani del conflitto” e “relazioni: il fare comune è un’alternativa concreta per sottrarre le nostre vite e il nostro lavoro agli effetti della crisi e delle politiche di austerità” [Teatro Valle Occupato (2011), Chi siamo, in www.teatrovalleoccupato.it, 28/01/2013]. Si è proceduto quindi su un doppio binario: da un lato il lavoro istituente per la creazione di una fondazione, chiamata “Teatro Valle Bene Comune” e dall'altra la pratica di apertura e di messa in comune dello spazio. Se all'inizio dell'occupazione erano state coinvolte centinaia di persone, principalmente lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, con il passare del tempo sono avvenute delle mutazioni sia nel numero dei soggetti coinvolti a vario titolo nella attività, sia nella composizione sociale: persone di diverse età, formazioni e professioni hanno trovato posto nelle attività che vengono svolte, comunque con una prevalenza di soggetti dotati di alta formazione e di mestieri artistici e culturali. Una fondazione istituente: la fondazione Teatro Valle Bene Comune Ciò che ha fatto muovere i primi passi del percorso di creazione di una fondazione per la gestione del Valle è stato un desiderio di durabilità dell'esperienza nel tempo coniugato alla volontà di creare un'istituzione che desse concretezza al tema dei beni comuni, dotandolo di un significato di fattibilità pratica, non solo di rivendicazione: “per intraprendere un processo costituente della cultura come bene comune capace di diffondersi e contaminare ogni spazio pubblico, innescando una trasformazione profonda del modo di agire e di pensare” [Fondazione Teatro Valle Bene Comune (2013), Statuto, in www.teatrovalleoccupato.it, 28/01/2013]. Altrettanto importante era l'idea che il “diritto vivo sgorga dalle lotte per l'emancipazione e l'autodeterminazione dei popoli e dei soggetti” (ib.), ovvero di riuscire a cambiare le istituzioni partendo dalle azioni. Mancando nel sistema giuridico italiano la possibilità di una categoria terza tra il pubblico e il privato, la scelta è stata quella di adattare attraverso apertura e partecipazione una istituzione di diritto privato. La scelta è caduta sulla fondazione, perché dotata di una certa libertà di azione a fronte di una base ideale molto forte. A partire da questo presupposto, si trattava di costruire un organismo che

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tenesse insieme stabilità ed elasticità, che quindi andasse d'accordo con il mutare delle condizioni di vita e di partecipazione dei suoi membri e mantenesse la spinta ideale proprie delle organizzazioni informali. Una seconda necessità era quella di mantenere insieme l'agilità di un luogo in cui si prendono quotidianamente decisioni con la presa di parola orizzontale di tutti i membri. La fondazione è costituita sulla base di tre documenti di pari valore: lo Statuto, il Codice Politico e la Vocazione [Fondazione Teatro Valle Bene Comune (2013), Statuto; Fondazione Teatro Valle Bene Comune (2013), Codice Politico; Fondazione Teatro Valle Bene Comune (2013), Vocazione; in www.teatrovalleoccupato.it, 28/01/2013] che contengono rispettivamente l'insieme delle regole di funzionamento, l'insieme degli ideali politici a cui la fondazione è ispirata e le linee guida per la gestione artistica del teatro (attività, programmazione, direzione artistica). Il processo di scrittura dei documenti è durato circa due anni, in cui si è lavorato alla creazione di diverse versioni, rese pubbliche e discusse in diverse fasi, corrispondenti grosso modo a due cicli. La prima versione dello statuto, uscita dal confronto interno all'occupazione, è stata pubblicata online per essere commentata ed emendata; gli emendamenti sono stati discussi in assemblea interna in prima battuta e pubblica successivamente. Dopo alcuni mesi è cominciato un processo di revisione e adattamento delle regole di funzionamento della fondazione scritte nello statuto alle consuetudini dell'occupazione e scrittura del Codice Politico e della Vocazione. Tutti i documenti sono stati messi online per nuovamente per la raccolta di commenti e modifiche, che sono state nuovamente discusse durante alcune assemblee pubbliche. In particolare per la scrittura della Vocazione si è teso a coinvolgere lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, che hanno espresso il desiderio di un teatro centrato sulla sperimentazione e sulla narrazione del contemporaneo. Si può dire che il cuore della fondazione sia l'azione del “fare comune che trasforma il mero spazio fisico in un bene comune” [Fondazione Teatro Valle Bene Comune (2013), Codice Politico] e nella ricerca dell'orizzontalità e della codecisione tra i suoi membri. L'organo di presa delle decisioni è un'assemblea, chiamata “la Comune”, formata da tutti coloro che sostengono la fondazione e che sono materialmente coinvolti nelle attività. La Comune si trova periodicamente e decide per consenso. Il coordinamento delle attività è affidato a un consiglio esecutivo turnario composto da dodici membri la cui durata in carica e ricambio sono stati calcolati in modo da dare possibilità di continuità nelle azioni e rinnovo costante. Esiste inoltre un'assemblea più grande, che raccoglie tutti coloro che contribuiscono in termini di tempo o di apporti economici alla vita della fondazione, ma che non hanno la volontà o la possibilità di fare parte della Comune. Si può quindi dire che la fondazione sia uno strumento anche di coinvolgimento e di apertura al territorio, grazie alla possibilità di avere momenti di partecipazione aperti e chiari, e alla possibilità di prendere parte all'azione a diversi livelli (attraverso un sostegno economico, il

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lavoro una tantum, il coinvolgimento diretto nella vita quotidiana del teatro). Coloro che hanno contribuito versando una quota per la creazione di questa fondazione hanno superato le cinquemila persone. La cultura come bene comune L'occupazione e la fondazione hanno lo scopo di realizzare la cultura come bene comune e questo viene praticato a vari livelli: dall'accessibilità della sala durante le serate (fatto salvo il principio di riconoscimento del lavoro artistico), ai ragionamenti sui diritti d'autore, alla organizzazione di visite guidate, alle presentazioni di libri, dibattiti e altri momenti di formazione. Una particolare attenzione è data alle nuove generazioni, a cui è dedicata una programmazione specifica, e ai rapporti con le scuole. La formazione e l'autoformazione a vari livelli sono tra le attività centrali del Valle: attraverso la condivisione dei saperi si tende al superamento delle barriere che li rendono facilmente appropriabili ed esclusivi. L'autoformazione è condotta attraverso un metodo orizzontale di apprendimento con lo scopo di approfondire alcuni temi di interesse comune: il lavoro, le istituzioni, i beni comuni e il diritto alla città sono stati tra gli argomenti principali. Il teatro è anche aperto alla collaborazione con soggetti istituzionali, in particolar modo i ricercatori e le università. Il teatro Valle e la città L'occupazione di un luogo e l'interazione con altri soggetti a partire da quel luogo implica un cambiamento dello spazio e del suo intorno in senso sia fisico sia simbolico: l'occupazione implica il presidio costante e di conseguenza il cambiamento dei tempi e luoghi di vita delle persone coinvolte, che attraverso le loro attività attraggono altri soggetti e rimettono in circolo il bene rappresentato dallo spazio stesso. Come accennato all'inizio, il teatro si trova nel centro storico di Roma e questa posizione geografica non è neutrale: il centro della città è il luogo dei palazzi del potere, della rendita immobiliare, della “vetrina”, del turismo e dello shopping. L'occupazione del Valle ha riportato nel centro della città persone che normalmente ne sono escluse o ne sono lontane. Il quartiere è per lo più svuotato dalla vita quotidiana e gli abitanti sono pochi: la comunità degli occupanti è formata da persone che vengono da altri luoghi della città o della provincia (qualcuno anche da altre città, avendo scelto di stabilirsi a Roma in funzione del Valle), che magari devono percorrere lunghi tragitti per arrivare. In questo senso si può parlare di comunità elettiva, più che territoriale. Fin da subito si è deciso di intendere il teatro come agorà, come piazza di incontro, formazione del pensiero politico e di scambio dei saperi. E in qualche modo di rendere lo spazio aperto ad “altre cittadinanze” che qui potessero trovare luogo o risonanza, sia per le espressioni artistiche, sia per l'organizzazione politica: in questo senso sono stati organizzati, fra le altre cose, un Festival “Queer”, “Porrajoms” una serata dedicata al popolo rom e sinti, e via di seguito. Se si percepisce la città di Roma come una città

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“costruita con un'intenzione di emarginazione delle periferie sull'accesso al centro” (come emerso durante uno degli incontri di autoformazione sul Diritto alla Città che si sono tenuti a partire dall'inizio del 2012), l'occupazione del Valle ha teso a ribaltare completamente questa logica. La politica delle relazioni, la “Rete” e la Costituente per i Beni Comuni L'attività politica è dunque portata avanti attraverso relazioni con movimenti, associazioni, comunità e gruppi. Attraverso queste relazioni di parità ci si federa e ci si rafforza, senza perdere le proprie identità e i propri obiettivi. Per lo più sono persone già organizzate quelle con cui si costruiscono discorsi ed eventi, perché viene ricercata la relazione diretta e orizzontale. Le relazioni non si esauriscono a livello cittadino: più o meno nello stesso periodo in cui è cominciata l'occupazione del Valle sono nate altre occupazioni in tutto il territorio nazionale: Milano, Venezia, Pisa, Palermo, Catania, Messina, oltre che Roma, sono città che hanno visto nascere occupazioni “culturali”, che hanno formato una rete (la “Rete dei Teatri”) a livello nazionale con l'obiettivo di condividere attività e idee e di rafforzarsi a vicenda. Altro momento in cui si intessono relazioni che travalicano i confini cittadini è quello della Costituente per i Beni Comuni. Questo è un movimento formato da giuristi che lavorano sul riconoscimento legale dei beni comuni e da alcuni movimenti, tra quelli della difesa del territorio e di lotta per il diritto all'abitare, la “Rete dei Teatri”, i movimenti per la ricostruzione de L'Aquila e via dicendo. Gli obiettivi sono molteplici e vanno dalla scrittura di un Codice per il riconoscimento giuridico dei Beni Comuni, alla costruzione di una rete tra i movimenti, alla diffusione del discorso e il suo rafforzamento nel dibattito politico nazionale contemporaneo. L'idea sottesa è che il pensiero a proposito di beni comuni sia progredito dal tempo della Commissione Rodotà [si intende per Commissione Rodotà un gruppo di giuristi che nel 2007 erano stati incaricati dall'allora governo Prodi di formulare una proposta di legge riformare le norme che regolano la proprietà pubblica. La Commissione incluse una terza categoria di beni, tra quelli pubblici e privati: i beni comuni, strettamente collegati ai diritti fondamentali della persona e per tanto inalienabili, indisponibili. La gestione dei beni restava allo Stato] e del Referendum sull'acqua, grazie alle pratiche che si sono mosse non solo in difesa, ma per la creazione di nuovi beni comuni. Queste pratiche hanno generato competenze e saperi, che hanno pari dignità e valore delle competenze e saperi teorici. Dall'unione di queste due conoscenze nascerebbe un diritto autenticamente vivo, che possa essere utilizzato dai movimenti. In questo anche si persegue l'obiettivo della cultura come bene comune: nel dare valore e perseguire la produzione allargata e lo scambio delle conoscenze.

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LA RIGENERAZIONE URBANA NELLA PERIFERIA ROMANA UN’ORIGINALE ESPERIENZA DI PARTECIPAZIONE SU SCALA CITTADINA Luciano Bucheri >Domus Aurea Onlus

Dal 1996 nella periferia romana si è avviato un processo originale di riqualificazione e rigenerazione di ampi territori urbani compromessi da sviluppo edilizio spontaneo successivo alla seconda guerra mondiale, spinto dalla forte offerta di lavoro innestata da una capitale in forte sviluppo urbano. La sua originalità, probabilmente unica per organicità e dimensione, è dovuta sia allo stretto rapporto di funzione, nella realizzazione delle opere pubbliche e nella pianificazione ed attuazione urbanistica, tra le Istituzioni Amministrative di governo locale e regionale, ed i cittadini, sia al livello e alla qualità del coinvolgimento diretto degli stessi protagonisti dell’inurbamento spontaneo, nella diretta organizzazione e gestione delle attività di riqualificazione e rigenerazione. Il processo partecipativo, aperto nel 1996 con la costituzione di circa 150 Associazioni Consortili e Consorzi in tutta la cinta romana esterna al Grande Raccordo Anulare, man mano si è evoluto fino a pervenire, negli ultimi anni, quasi ineluttabilmente verso le problematiche della qualità della rigenerazione dell’edificato e del territorio e sui temi della sostenibilità ambientale e del risparmio energetico. Un processo sorto, inizialmente, a fronte di bisogni primari, nella ricerca di soluzioni amministrative capaci di renderne rapida la loro soluzione. La mancanza dei servizi primari (reti fognanti, illuminazione pubblica, approvvigionamento idrico in centinaia di borgate sorte negli anni 60/70 e

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nei nuovi nuclei di più recente organizzazione, anni 80/90), ha certamente favorito l’impegno diretto dei cittadini alla realizzazione, mediante i cosiddetti Consorzi di Autorecupero, delle opere pubbliche mediante la procedura dello scomputo degli oneri di urbanizzazione provenienti dai condoni. Dopo quasi 20 anni dall’inizio di questa esperienza, che ha coinvolto organicamente oltre 30.000 famiglie, grazie certamente ai buoni risultati, ma grazie soprattutto alla crescita dell’esperienza maturata sul campo, quegli stessi cittadini, convinti ormai di poter essere, da consorziati, protagonisti nell’organizzazione dei loro territori, hanno condiviso l’ampliamento della loro partecipazione anche alla pianificazione urbanistica, alla gestione delle opere pubbliche, fino a porsi l’interrogativo circa la qualità dell’organizzazione territoriale. Tale processo consortile nella periferia romana ha avuto, come punto di partenza, il comma 9 dell’art. 39 della Legge 724/94, che autorizza la realizzazione delle opere a scomputo mediante l’utilizzo degli oneri concessori provenienti dai condoni, anche mediante l’organizzazione di forme consortili tra titolari di condono. Tale norma è stata inserita nella proposta di legge su iniziativa delle Organizzazioni della periferia romana e di parlamentari romani, che avevano ben colto la necessità di una svolta decisa, senza la quale il disagio di decine di migliaia di famiglie poteva trasformarsi in dramma sociale. Certo, le poche parole inserite nell’articolo 39 della L. 724 non potevano far minimamente immaginare che si sarebbe aperto un incredibile varco ad una forma nuova di organizzazione per la realizzazione delle opere pubbliche, con la partecipazione e la responsabilità assunta direttamente dai cittadini. Ma, d'altronde, è sempre così; un processo, sia economico, che sociale, che politico, se possiede giuste premesse, vive di proprie leggi: cresce, si sviluppa, ramifica verso risultati prima non immaginati. E’ interessante cogliere la dimensione del fenomeno o, più precisamente, da quale dimensione dei bisogni si è potuto originare un modello partecipativo assolutamente originale. A fronte di un’area urbanizzata della città di Roma uscita dalla seconda guerra mondiale, pari a 5.000 ettari, alla fine degli anni ‘60 vengono riconosciuti 4.000 ettari di aree sorte spontaneamente; successivamente si avvia nella seconda metà degli anni ’70 la manovra dei nuclei ex abusivi delle Zone “O” per altri 4.700 ettari. Nel 1997, con la Variante delle Certezze, vengono perimetrati altri 2.700 ettari relativi a 71 Toponimi. È facile fare il raffronto tra la dimensione urbana di Roma nel dopoguerra e l’estensione della città spontanea cresciuta in tre decenni, come rilevabile dalle seguenti tabelle:

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Tabella zone o e toponimi

QUANTITA' URBANISTICHE PIANI DI RECUPERO NUCLEI EX ABUSIVI NUCLEI EX ABUSIVI

ZONE "O" TOPONIMI TOTALE NUCLEI EX ABUSIVI

ETTARI

ABITANTI Attuali

Aggiuntivi

Pubblici

Totali

74 69

4.900 2.610

265.000 65.357

156.000 49.913

6.950

421.000 122.220

143

7.510

330.357

205.913

6.950

543.220

Tabella condoni

DATI RIASSUNTIVI DOMANDE DI SANATORIA EDILIZIA COMUNE DI ROMA QUANTITA' COMPLESSIVE SANATORIE RICHIESTE E RILASCIATE LEGGI

Presentate

Rilasciate

Reiettate

da Rilasciare

47/1945

413.188

295.531

1.541

116.116

724/1994

96.491

60.074

8.143

28.274

326/2003

85.770

4.299

1.598

89.873

TOTALE

595.449

359.904

11.282

234.263

LEGGE DI CONDONO N. 47/1985 TIPOLOGIA 1 / 2 NUOVA COSTRUZIONE/AMPLIAMENTO DOMANDE TOTALI DI SANATORIA TIPOLOGIA 1 / 2

N° N°

413.188 241.897

QUANTITA' SANATORIE ASSOCIATI CONSORZI DI AUTORECUPERO LEGGI 47/1985 724/1994 326/2003 TOTALE

Presentate 18.426 11.654 1.197 31.277

Rilasciate 11.964 6.064 37 18.065

Reiettate

da Rilasciare 6.462 5.590 1.160 13.212

Tabella lotti medi toponimi

SUPERFICIE MEDIA DELLE PARTICELLE RICOMPRESE NEI PERIMETRI DEI TOPONIMI TOPONIMI 12.6 15.4 18.3

Radicelli - Consorzio dei Pini

Via di Monte Stallonara Podere Zara - Via Fraconalto (s. Luigi) 19.8 Tragiatella 20.2 A Pantarelli - Via Anguillarese A 20.9 B Cesano Via Baccanello - Via Colle Febbraro 8.14 Finocchio - Valle della Morte 11.3 Cava Pace 20.6 Santa Cornelia - Via Monte del Gatto 8.6 Consorzio Valle della Borghesiana 8.9 Finocchio - Via di Vermicino 11 NUCLEI CONSORZIO PERIFERIE ROMANE

Mq perimetro

Nr. Lotti

569.700

443

Mq medio 1.286

297.100

138

2.152,90

127.100

86

1.477,91

1.470.400 269.800

1.075 93

1.367,81 2.901,08

629.900

321

1.962,31

503.800 498.600

413 296

1.219,85 1.684,46

132.600

110

1.205,45

1.750.000

1.523

1.149,05

1.395.000 7.644.000

1.313 5.811

1.062,45 1.315,44

Non è tema di questa nota, è però necessario sottolineare che l’origine di tale macroscopico fenomeno di inurbamento disordinato di massa deve essere ricondotto certamente al disagio economico di vaste parti delle regioni del centro e del sud d’Italia (caratteristico il riferimento a particolari luoghi di provenienza di quasi tutte le borgate romane), ma tutt’altro che marginale lo strumento dei frazionamenti abusivi che ha

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riguardato migliaia di ettari, al servizio della speculazione fondiaria. Questo intreccio, tra bisogni di massa e speculazione, da un lato ha determinato il trasferimento del costo sociale dell’inurbamento, dato dalla mancata realizzazione dei servizi con lo scopo di massimizzare la redditività dell’industria edilizia, verso le generazioni successive, dall’altro ha spinto alla ricerca, proprio per il drammatico peso dell’assenza dei servizi, verso l’autorganizzazione dei cittadini di interi quartieri. Come è stato possibile trasformare una facoltà, quella aperta dalla L. 724, pur ricca concettualmente, in un processo organizzativo vasto che ha, nel concreto, applicato lo spirito proprio della cultura cooperativa e, cioè, in sintesi, nel processo di autogestione, tra intervento economico - direi anche imprenditoriale - e rispetto dei valori sociali? L’autorganizzazione ha spostato l’azione dei cittadini della periferia dalla sola mobilitazione conflittuale alla partecipazione, organizzazione e gestione del processo partecipativo ed i primi risultati concreti hanno dato credibilità al nuovo modello mai sperimentato e su cui si sono potute innestare nuove aree di intervento più complesse. Nella prima metà del 1996 si sono costituiti i consorzi, nella seconda metà del medesimo anno sono stati presentati i progetti al Comune di Roma, tutti riferiti alla realizzazione di reti fognarie ed impianti di illuminazione pubblica. A luglio del 1997, quindi solo dopo pochi mesi, sono stati inaugurati i primi due cantieri organizzati e gestiti da due Consorzi. Dopo un anno e mezzo, grazie all’esistenza delle reti fognarie, è stato possibile servire i medesimi quartieri con la rete idrica. Un risultato che ha conferito decisiva credibilità al modello partecipativo ed autogestito, che ha fatto raggiungere dimensioni di massa alla partecipazione in ogni borgata e nucleo dei cittadini. Tra l’altro, la qualità del processo, oltre a far assumere dimensione di massa alla partecipazione dei cittadini, ha permesso di avvicinare al modello anche i titolari, cittadini ed imprese, di regolari permessi di costruzione, nella ormai convinzione che con l’autorganizzazione era possibile, contemporaneamente, realizzare rapidamente opere pubbliche e realizzarle secondo priorità, dove più erano necessarie. Senza l’esperienza e le forme organizzative che via via hanno subito correzioni ed aggiornamenti, senza l’abitudine e la crescente consapevolezza da parte delle migliaia di cittadini sul modello partecipativo dei Consorzi di Autorecupero, non sarebbe stato possibile far assumere ai Consorzi, costituiti da migliaia di cittadini, il ruolo di proponenti per la pianificazione urbanistica dei Piani di Recupero dei Toponimi. Infatti, l’elaborazione dei progetti urbanistici esecutivi per la cui legittimità è necessaria la condivisione di almeno il 75% dei valori catastali degli immobili ricompresi nei perimetri urbanistici, richiede un più diretto coinvolgimento decisionale di ogni proprietario (la dimensione dei lotti medi ricompresi nei Toponimi è di circa mq 1.400. tab. n. 3); conseguente, quindi, l’esigenza di assumere maggiori conoscenze, maggiori informazioni tecniche e profonda convinzione del processo decisionale collettivo. Non c’è dubbio: senza il grande lavoro partecipativo, oserei dire anche educativo, che hanno rappresentato le opere a scomputo già nei primi anni, sarebbe stato impensabile la partecipazione in autogestione che ha contraddistinto l’attività di progettazione collettiva dei Toponimi. Da considerare, tra l’altro, che il livello della nuova sfida, inizialmente, era stato sottovalutato sia dal Comune che dai Consorzi. Il primo bando per la presentazione dei Piani di Recupero degli ex nuclei

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abusivi fu emanato nel 2001, mentre l’adozione da parte del Consiglio Comunale dei primi 26 progetti esecutivi è avvenuto ad aprile 2013, ben 12 anni dopo; molto meno dei 25/30 anni richiesti per le Zone “O” di diretta iniziativa pubblica, ma comunque tempi inaccettabili. È vero, però, che in questi 12 anni esperienza, consapevolezza collettiva e strumentazione è venuta crescendo in modo significativo, tale che il processo partecipativo dell’autorecupero è divenuto, ormai, a Roma, una certezza politica ed organizzativa. Solo superando, ad esempio, la parzialità di giudizio che può emergere dalla sola interpretazione tecnica del fenomeno, è possibile leggere il valore della integrazione di funzioni diverse organizzata dall’Autorecupero, un vero e proprio sistema di alleanze, che si è prodotto tra Pubblica Amministrazione, cittadini, imprese, tecnici, sistema bancario per la definizione, programmazione, gestione ed attuazione di un progetto di assetto territoriale ad ampia scala. Da queste complessità, che richiedono una crescente qualità ed ampliamento dei gruppi dirigenti dei Consorzi di Autorecupero, emergono costantemente sensibilità ed aperture verso nuove frontiere. Il tema della rigenerazione, ad esempio, che in urbanistica ha ormai assunto una centralità strategica, trova tra i cittadini organizzati della periferia romana immediata comprensione, sia perché insita nelle caratteristiche della necessaria trasformazione dei loro quartieri, sia anche per la sensibilità alla qualità del territorio, quale prodotto di anni di partecipazione diretta anche alle scelte dirette. In questo stesso quadro di processo si inserisce l’attenzione al tema della sostenibilità, che l’adozione dei primi 26 Toponimi ha reso di grande attualità. Modellare i progetti dei Toponimi, quindi una parte importante della città, sia in fase di pianificazione che di attuazione secondo criteri di compatibilità ambientale ed energetica, fa assumere all’Autorecupero una funzione di eccezionale modernità. Le ACRU stanno dimostrando di possederne la necessaria consapevolezza; ne è riprova la costituzione di Domus Natura onlus, promossa dal Consorzio Periferie Romane e dai Consorzi di Autorecupero aderenti. Domus Natura, per scelta dei cittadini organizzati ed in forza della dimensione delle aree urbane oggetto di trasformazione, ha il compito di creare collaborazione, coordinamento e sintonia tra tutti quei soggetti utili alla concreta e praticabile attuazione degli obiettivi della sostenibilità ambientale e del risparmio energetico: ricerca, Pubblica Amministrazione, utenti, produttori, tecnici. E per questo Domus Natura, proprio nella sua ragione costituente di strumento dell’Autorecupero di ampi territori da rigenerate della periferia romana, ha sottoscritto un protocollo con l’Università La Sapienza e Roma Capitale, quale sintesi delle principali figure capaci di aprire una nuova frontiera per la qualità del territorio grazie ad una partecipazione consapevole di massa.

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01, 02, 03, 04, 05 - Laboratori


IL PROGETTO “BORGHI ATTIVI” ED IL "VILLAGE DESIGN STATEMENT" Alessio di Giulio Marco Polvani >CEA "Torre del Cornone" di ILEX

I piccoli centri colpiti dal terremoto d’Abruzzo del 6 aprile 2009 si trovano oggi in un momento chiave della propria storia. Il sisma ha inferto un durissimo colpo alle già deboli comunità locali, alla loro economia, alla loro visione del futuro, mettendo ancor più in luce fenomeni già in corso da decenni: declino numerico ed invecchiamento della popolazione, svuotamento dei centri storici, spostamento degli abitanti in edifici nuovi, abbandono del territorio rurale. Queste piccole comunità, depositarie di storie e di identità straordinarie, si pongono oggi una serie di domande: cosa fare dei centri storici? Quando si completerà la ricostruzione? I nuovi arrivati – lavoratori o profughi di altri centri colpiti - sono estranei o nuovi membri della comunità? Questi cambiamenti cancelleranno il paesaggio e l’identità locale? Cosa fare del territorio che circonda il paese? Cosa fare, in futuro, dei villaggi “provvisori” sorti di fianco ad esso? Domande cui non è facile dare una risposta, soprattutto in un momento in cui le amministrazioni locali sono impegnate nella sempre più complessa fase del “post sisma”. È necessario, quindi, mettere in opera processi di progettazione partecipata che consentano di ri-disegnare il futuro. Per rispondere a questa necessità il WWF di Teramo, sostenuto dal Centro di Educazione al Paesaggio “Torre del Cornone” di Fontecchio (AQ), ha lanciato nel 2011, come capofila di una rete di associazioni, enti locali e CEA, il progetto “Borghi attivi: Statuto partecipato dei paesi d’Italia” (www.

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borghiattivi.it) che è stato finanziato dal bando per la Progettazione Sociale “Emergenza Abruzzo” dell’ACRI (Associazione delle Casse di Risparmio). L’intervento ha coinvolto le comunità locali di cinque paesi pilota colpiti dal sisma – Civitella Casanova, Fontecchio, Fano Adriano, Pescomaggiore (L’Aquila) e Santa Maria del Ponte (Tione) – in altrettanti percorsi di progettazione partecipata per elaborare il cosiddetto “Statuto dei luoghi” conosciuto in Gran Bretagna come “Village Design Statement” (VDS) che possiamo tradurre come “dichiarazione sulla pianificazione del paese” o meglio “Statuto dei Luoghi”. Il VDS è stato sviluppato per far fronte a problemi ben noti: i cambiamenti economici e demografici e le nuove espansioni urbane, tendono ad inglobare – in Inghilterra come qui da noi - le aree rurali e portano alla perdita delle identità locali e del paesaggio rurale, allo sfaldamento delle comunità ed al perdersi della loro visione del futuro. Esattamente come sta accadendo a tanti abitanti del territorio colpito dal sisma che oggi, sempre di più, si sentono “stranieri in casa”: nuovi iniziative economiche e nuovi insediamenti trascurano la necessità di rispettare le caratteristiche, i paesaggi e le “visioni” locali, finendo per minacciare l’unicità di ciascun luogo che si è andata formando in secoli di storia e di stratificazioni culturali e di usi diversi del territorio. Il progetto ha proposto, in ciascuno dei cinque comuni coinvolti, la realizzazione di uno “Statuto dei Luoghi” ed ha rappresentato quindi, per il nostro territorio, un mezzo ed un fine al tempo stesso: mezzo, in quanto ha portato le comunità locali coinvolte a progettare ed a dichiarare le proprie idee per il futuro; fine, in quanto ha aiutato a ristabilire legami sociali durante la raccolta e la condivisione delle informazioni, l’elaborazione delle linee guida, la riscoperta della identità locale. Il percorso In una prima fase del progetto, si coinvolgono gli abitanti nel “raccontare e raccontarsi” il proprio paese, le abitudini, i problemi, i ricordi, l’aspetto degli edifici, storici e moderni. Poi si passa a delinare assieme - le azioni che si vorrebbe veder realizzate per migliorare il paese, il suo aspetto, il suo ambiente, il suo paesaggio e la sua economia; - una lista di “suggerimenti”, rivolti a tutti i cittadini, per far sì che le caratteristiche uniche del paese e del territorio vengano considerate, conservate e potenziate. Grazie a questo lavoro condiviso, ogni comunità ha elaborato così una sorta di “Atlante dei luoghi” (raccolta condivisa delle caratteristiche del paese e della sua gente) ed il proprio “Statuto dei Luoghi” (linee guida per lo sviluppo locale ispirate all’Atlante) che viene adottato dalle Amministrazioni Locali, quale strumento di indirizzo per la ricostruzione ed il rilancio dei paesi. In ciascuna delle cinque località, il metodo ha preso una sua strata peculiare che lo adeguato alle caratteristiche del luoghi. Di seguito,

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illustriamo brevemente come il Village Design Statement/ Statuto dei Luoghi si è sviluppato a Fontecchio e nella frazione di San Pio. Il concorso fotografico Il primo metodo utilizzato per ascoltare le opinioni dei cittadini è stato il concorso fotografico “Raccontami il tuo Paese” nel quale si è chiesto agli abitanti di fotografare alcuni aspetti specifici di Fontecchio, per evidenziarne tanto gli elementi di valore quanto gli aspetti problematici. Nel corso della mostra delle foto vincitrici è stato reso possibile agli abitanti apporre dei segnapunti per esprimere il proprio accordo sulle cose belle e su quelle brutte ritratte dai partecipanti. Nello spazio della mostra, inoltre, sono stati distribuiti alcuni prestampati dove i cittadini hanno potuto suggerire particolari belli o brutti del paese, non presi in considerazione dai partecipanti al concorso. Gli incontri con associazioni, categorie, scuole e le interviste alle singole persone La seconda metodologia adottata per coinvolgimento degli abitanti di Fontecchio è stata una serie di incontri mirati con gruppi ristretti ed omogenei di abitanti, finalizzati ad ascoltare i problemi più sentiti dalle singole categorie. Nei mesi tra settembre e dicembre 2011, perciò, si sono svolti a Fontecchio incontri con le principali realtà associative del paese - l’Associazione Culturale Pico Fonticulano e la locale associazione della Protezione Civile “Fons Tychiae”, il gruppo parrocchiale - nonché con gruppi omogenei di cittadini come i gestori di strutture turistiche e ricettive, gli esercenti, gli agricoltori, un piccolo gruppo di lavoratori stranieri e, infine, i bambini e gli adolescenti del paese. Una momento particolare di ascolto si è voluto creare anche con i bambini della scuola elementare del paese, che sono stati guidati in percorsi di riscoperta del paese, dei suoi mestieri tradizionali e, con l’aiuto di alcuni nonni, dei giochi del passato. I bambini più grandi poi hanno brevemente lavorato su una proiezione del paese di qui a venti anni ed hanno costruito una mappa per lo sviluppo turistico. In parallelo agli incontri sono state realizzate anche una serie di interviste con alcune persone “chieva” del paese da cui è stato possibile ricavare informazioni relative alla memoria storica di Fontecchio, i suoi luoghi significativi e le sue caratteristiche specifiche. Le passeggiate guidate ed il “Cantiere Pilota” Il terzo strumento utilizzato è costituito da alcune “passeggiate guidate ed auto-guidate”, ovvero percorsi di riscoperta del paese e del paesaggio intorno, dove gli abitanti hanno potuto confrontarsi con alcuni esperti universitari di storia, botanica ed architettura e così apprendere ed insegnare al tempo stesso il valore del luogo e le sue caratteristiche specifiche.

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Un altro percorso di apprendimento e scambio di saperi è stato il cosiddetto “Cantiere Pilota” durante il quale i docenti del Politecnico di Milano – incaricati di redigere il piano post-sisma di recupero del centro storico - si sono confrontati con i cittadini e con alcuni tecnici, sui diversi metodi di restauro delle facciate negli edifici del centro storico. Il questionario, l’assemblea ed i laboratori di approfondimento Tutti i dati raccolti nelle precedenti fasi sono stati raccolti in un questionario distribuito casa per casa, nel quale sono state riportate tutte le questioni problematiche emerse negli incontri. Attraverso il questionario si è consentito a tutti esprimere la propria opinione circa l’importanza e le priorità delle cose da fare. I risultati del questionario sono stati poi rielaborati in laboratori successivi in modo da valutare la fattibilità dei progetti emersi ed amalgamare meglio le diverse proposte presentate. Alla fine di questi incontri sono state redatte alcune linee guida provvisorie che sono state di nuovo poste all’attenzione della cittadinanza con un’assemblea pubblica organizzata in gruppi di lavoro che hanno fornito ulteriori indicazioni. Sono aseguiti alcuni momenti di lavoro più approfondito in gruppi ristretti per mettere a fuoco particolari punti di interesse. L’estetica del paese Un incontro conclusivo è stato dedicato alla redazione, assieme ai cittadini, di una lista di caratteristiche del paese e del suo territorio che si ritengono importanti per la conservazione e la valorizzazione della sua identità. Da questa ricognizione nasce una serie di indicazioni e proposte rivolte a chi si accinge a restaurare una casa o a costruirne una nuova, a realizzare un giardino o ad arredare uno spazio pubblico, ad intervenire, in sostanza, sulle caratteristiche estetiche del paese. Alcuni problemi e limiti Il progetto "Borghi Attivi" ha previsto modalità diverse di coinvolgimento delle persone, per consentire a tutti di dare il proprio contributo nei modi più confortevoli. Il numero degli abitanti coinvolti è stato soddisfacente e superiore rispetto ad altri percorsi partecipativi simili; una buona metà della popolazione, infatti, ha preso parte alle iniziative, ha restituito i questionari ed ha partecipato ai vari incontri . Nonostante ciò, tuttavia, occorre rilevare che molti abitanti non hanno preso parte al progetto o perché disinteressati o perché sfiduciati sulla sua effettiva efficacia. Le divisioni presenti in paese, inoltre, hanno contribuito a far sì che una parte dei paesani guardasse con diffidenza a quest’iniziativa, in quanto sostenuta dall’amministrazione corrente. Un nostro limite, quindi, è stato quello di non aver fatto capir bene a tutti l’autonomia e l’indipendenza del progetto dalle divisioni (politiche e non) che caratterizzano Fontecchio.

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Un’analisi imparziale delle persone coinvolte, tuttavia, dimostra che il progetto è riuscito ad intercettare individui appartenenti a tutte le categorie, indipendentemente dagli schieramenti o dalle divisioni di parte. Poiché questo progetto intende essere solo il primo passo di un percorso partecipativo più vasto, è nostro impegno fare in modo che, in futuro, anche i limiti dovuti alle divisioni di paese siano superati.

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01 - “MANIFESTO” Bando 1° virtual Workshop “Ri-abitare Ferrhotel”, Pescara 02 - “Progetto 8n0ve”. Progetto partecipante 03 - “Progetto S&F”. Progetto partecipante


IL RECUPERO DELL’EX ALBERGO DEI FERROVIERI A PESCARA: IL FERROHOTEL Camilla Crisante Chiara Rizzi Alberto Ulisse >WWF >Architetture senza Frontiere Abruzzo >UNITN >UNICH

Il WWF ha inserito nella campagna Riutilizziamo l’Italia il recupero dell’exalbergo dei ferrovieri a Pescara – Ferrohotel situato nei pressi della stazione ferroviaria nel cuore della città di Pescara. Il laboratorio prevede un percorso partecipato già avviato dall'Università di Architettura di Pescara, Ass. Studentesca 360°, Emergency, Architettura senza frontiere Abruzzo e Comune di Pescara. Diverse sono state le iniziative realizzate intorno a questo tema di cui quella più recente attiene ad un Virtual Workshop dal titolo “Ri-abitare Ferrhotel”, presentato recentemente anche in occasione del III Forum PROARCH di Torino (4-5 ottobre 2013). Il Virtual Workshop “Ri-abitare Ferrhotel” è il primo workshop on line promosso dal Dipartimento di Architettura dell’Università G. d’Annunzio Chieti-Pescara e da Architettura Senza Frontiere Abruzzo onlus. I partner dell’esperienza – svoltasi nell’estate del 2013 – sono stati il WWF Abruzzo nell’ambito del programma nazionaleRiutilizziamo l’Italia e l’Assessorato all’Edilizia Residenziale Pubblica del Comune di Pescara. Ri-abitare il Ferrhotel, nasce da alcune riflessioni pregresse sviluppate durante due recenti esperienze: il progetto "cerc@casa" e il workshop Life in Pescara is ok. Entrambe le iniziative hanno coinvolto, oltre ad Architettura Senza Frontiere Abruzzo Onlus (ASF), numerosi altri soggetti. Il workshop “Life in Pescara is ok”, nato dalla collaborazione con Emergency

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e orientato a offrire un supporto al Programma Italia, ha elaborato, tra le altre, una proposta di riuso del Ferrhotel come poliambulatorio destinato alle fasce sociali più deboli. Particolarmente significativi sono stati i risultati del progetto cerc@casa , a cui hanno partecipato l’Assessorato alle Politiche della casa del Comune di Pescara (capofila), le amministrazioni comunali dell’area metropolitana Chieti-Pescara (ad eccezione del comune di Montesilvano), l’impresa sociale Progetti Sociali Srl e l’Associazione Donne Immigrate. Il progetto "cerc@casa" – co-finanziato dal Ministero dell’Interno e dal programma FEI dall’Unione Europea – ha gettato le basi per sviluppare un sistema sinergico di accoglienza e integrazione socio-abitativa rivolto ai cittadini non comunitari, attraverso un programma di housing intercomunale nell’area metropolitana Chieti-Pescara. Tale programma è stato articolato su tre ambiti di azione: mappatura georeferenziata dei flussi migratori nel contesto di riferimento; informazione e sensibilizzazione comunitaria per l’attuazione del diritto alla casa delle persone straniere; l’attivazione di servizio di front-office sperimentale presso le sedi centrali dei comuni partner. La mappatura ha messo in evidenza due aspetti fondamentali della questione: la distribuzione disomogenea delle famiglie immigrate e una elevata eterogeneità rispetto ai Paesi di provenienza. Tra le azioni di sensibilizzazione, una esperienza interessante è stata quella dei tavoli organizzati per cercare soluzioni abitative dignitose e a condizioni non discriminatorie, per il contributo fornito dai rappresentanti dell’associazione degli amministratori dei condomini. Un vademecum, redatto nelle lingue più diffuse tra gli stranieri, ha raccolto le regole per rispondere ai fabbisogni di vita delle persone e assicurare il rispetto reciproco tra proprietari e affittuari. Inoltre, un utile momento di confronto è stato il convegno Mille modi di dire casa: per una città dell’accoglienza. Obiettivo dell’iniziativa è stato quello di avviare una riflessione, a partire da studi ed esperienze in corso, sulla possibilità di sperimentare nuove forme residenzialità: dalla realtà, ormai diffusa e consolidata della Swedish cohousing association kollektivhus NU, fino al progetto Numero Zero a Torino, inaugurato lo scorso ottobre. Successivamente, il Ferrhotel, su indicazione di Architettura senza Frontiere, è stato segnalato come tema del Laboratorio Territoriale Abruzzo nell’ambito del programma nazionale del WWF “Riutilizziamo l’Italia – Idee e proposte per contenere il consumo di suolo e riqualificare il Belpaese”.

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In questo senso il Virtualworkshop si candida ad essere, oltre che uno degli esempi, tra i tanti possibili, di riciclo urbano, un processo utile alla ridefinizione di strumenti e strategie necessario ad affrontare una fase di affermazione di nuovi paradigmi di riferimento per l’architettura, l’urbanistica, il paesaggio. Infine, all’interno dei Laboratori urbani della Facoltà di Architettura di Pescara, strettamente legati al tema dell’abitare nella città costruita, il Ferrhotel è uno dei principali temi di riprogettazione per quel che riguarda il programma di rivitalizzazione urbana a partire dal patrimonio immobiliare pubblico. Il termine patrimonio, è qui inteso nella sua accezione più ampia, e non solamente, in chiave giuridica o economica, come il complesso dei beni mobili o immobili che una città possiede. Il Virtualworkshop si basa su una definizione di patrimonio urbano come patrimonio culturale. "Nel «patrimonio culturale» convivono due distinte componenti patrimoniali, perché due sono le utilità che esso genera: una si riferisce alla proprietà del singolo bene, che può essere privata o pubblica; l’altra ai valori storici, etici e culturali, sempre e comunque di pertinenza pubblica, cioè della comunità dei cittadini" [Settis S. (2011), Patrimonio culturale, Dizionari di Storia Treccani]. In questo senso, il Ferrhotel costituisce un caso emblematico. Il Ferrhotel, l’ex edificio dei ferrovieri in corso Vittorio Emanuele, a pochi passi dalla stazione centrale di Pescara appare come un edificio in pieno degrado, anche se di fatto è un edificio storico sottoposto a tutela. Secondo lo strumento urbanistico vigente (PRG) esso ricade in zona A “Complessi ed Edifici Storici – soggetti a speciale tutela complessi immobiliari o singoli immobili di interesse archeologico, storico, artistico o di particolare pregio ambientale, i cui valori richiedono una disciplina urbanistica di salvaguardia” (art. 29). Di fatto esso si inserisce nel tessuto urbano compatto in una posizione strategica, all’incrocio di due assi principali che collegano la città in direzione est-ovest e nord-sud. Le notizie storiche sull’edificio sono poche e frammentate, alcune delle quali possono essere lette direttamente sulla sua facciata principale, dove si trova una targa del 1917 dedicata a Cesare Battisti e che ricorda gli anni in cui l’edificio costituiva uno dei palazzi rappresentativi della città. Danneggiato durante i bombardamenti del 1943, l'immobile fu in seguito restaurato e utilizzato per alcuni decenni, fino a quando le funzioni che ospitava vennero trasferite in via Michelangelo. Da allora il Ferrhotel è in stato di abbandono e degrado.

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Nel 2010 l’ex Ferrhotel è stato inserito nell’elenco delle proprietà del Comune da alienare. Il valore dell’edificio è stato stimato intorno ai 5.300.000 di euro, che equivalgono a 5.300 euro al metro quadrato. Dopo due anni di dibattito, nel 2012 il Comune di Pescara ha inserito nuovamente il Ferrhotel tra gli immobili da vendere. Tuttavia, il dibattito non sembra affatto concluso. Renato Bocchi, in un suo intervento in occasione del convegno Re-cycle Italy, tenutosi a Venezia a febbraio 2013 per presentare l’omonima ricerca PRIN, ha evidenziato come sia ormai una questione imprescindibile per l’architettura e l’urbanistica la necessità di dare un contributo all’ideazione di nuovi cicli di vita nelle architetture, nelle città e nei paesaggi. E questo per almeno tre aspetti che le contraddistinguono: la loro natura umanistica, e quindi la loro capacità di produrre cultura; il loro forte coinvolgimento con le politiche socio-economiche, dunque per la loro incisività nelle scelte economiche e politiche; e infine, per la loro vicinanza e complementarietà con le tecniche e le tecnologie, ovvero per il loro diretto coinvolgimento nella produzione di strumenti d’intervento per la trasformazione. Il riciclo diversamente dal riuso e dalla rifunzionalizzazione, è un processo che riguarda necessariamente il modo di pensare la città, le sue forme e le sue relazioni. Il panorama italiano è costellato da episodi analoghi a quello pescarese, in cui la figura del Ferrhotel, sebbene collocata in una posizione strategica rispetto al tessuto urbano, è ormai svuotata della sua funzione originaria e verte in uno stato di abbandono e degrado. Le proposte progettuali presentate dagli studenti di diversi Dipartimenti di Architettura ed Ingegneria italiani hanno ridefinito un ruolo chiave dell’edificio del Ferrhotel, puntando ad una rivitalizzazione della struttura come nuovo spazio dedicato ai servizi collettivi, all’interazione sociale e alla condivisione pubblica. Tale nuova concezione potrebbe investire tutti gli episodi simili presenti lungo la ‘città adriatica’, così omogenea nella sua composizione urbana, con la volontà di usufruire di una rete di progetti con programmi condivisi. Inoltre la città di Pescara non dispone attualmente di strutture ricettive a basso costo dedicate ai giovani, nonostante la città offra in ogni stagione eventi a loro dedicati capaci di attirare fruitori provenienti anche da altre località. La necessità di un punto di ritrovo in grado di attivare il tessuto urbano porta alla definizione di un nuovo target di persone che possa vivere attivamente la città. Speso le proposte di progetto tendono a realizzare una struttura dinamica che combini le funzioni tipiche di un ostello a servizi

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ricreativi aperti a tutti. Viene ad individuarsi cosĂŹ un common ground alla quota stradale: si tratta di un ambiente reversibile, capace di cambiare funzione in base alle esigenze. Per il futuro si auspica un impegno civile e politico che possa cambiare non solo le aspettative che si sono prefigurate intorno alla riconversione del Ferrhotel, ma soprattutto rispetto a tessuti urbani esistenti ormai incapaci di essere ancora cittĂ .

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L’EXFADDA DI SAN VITO DEI NORMANNI 18 APPUNTI SU COME RIQUALIFICARE E GESTIRE UNO SPAZIO ABBANDONATO DOVE LE PERSONE POSSO FARE COMUNITÀ, IMPARANDO FACENDO E LAVORARE Roberto Covolo >ExFadda >Bollenti Spiriti Programma della Regione Puglia per le politiche giovanili 1) Siamo persone e organizzazioni che gestiscono l’ExFadda, uno spazio restituito alle idee a San Vito dei Normanni, nel cuore della Puglia. 2) Non vogliamo proporre un modello, il nostro business plan fa acqua da tutte le parti, viviamo di esperimenti, talvolta di espedienti “necessari” e siamo animati da grande passione. 3) “Ma come avete fatto?”. Primo ingrediente: un grande stabilimento vitivinicolo abbandonato da cinquant’anni, di proprietà del Comune. Discarica di inerti, deposito di mezzi della nettezza urbana, lamiere tutt’intorno: uno di quei posti in cui la mamma ti dice di non andare a giocare, ché ci sono le siringhe. Secondo ingrediente: noi. Un gruppo di imprese, associazioni e gruppi informali che si occupano di cultura, di arte, di welfare, di comunicazione, di rigenerazione urbana, di artigianato, di sport, di tecnologia, di cibo, di agricoltura e sviluppo locale. Terzo ingrediente: Bollenti Spiriti, il programma della Regione Puglia per i giovani [L’ExFadda è un Laboratorio Urbano nato nell’ambito di Bollenti Spiriti, il programma della Regione Puglia per i giovani. Il programma ha favorito la nascita di 150 nuovi spazi pubblici per la creatività e l’apprendimento non formale dei giovani]. Quarto ingrediente: un bando pubblico per gestire il primo ingrediente. 4) Un esperimento di progettazione partecipata e autocostruzione ci ha permesso di trasformare i grandi spazi dello stabilimento in un posto accessibile e accogliente, cucito su misura dei bisogni della comunità

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di persone e organizzazioni che per prima ha accettato la sfida, in cerca di opportunità. Lo abbiamo fatto senza spendere uno sproposito, creando alleanze, recuperando materiale dismesso, facendo leva sulla partecipazione, generando affezione e coinvolgimento. 5) Una buona regola riguarda l’apertura. Uno spazio di successo è “a bassa soglia”, accessibile, facile da raggiungere, piacevole e utile da attraversare, aperto a forme differenti di fruizione, ad orari differenti della giornata. Il vostro spazio è aperto ai curiosi e ai visitatori? E’ attraversabile? Le modalità di accesso sono chiare? I marciapiedi come sono? Avete pensato ai ciclisti, ai bambini, ai genitori con le carrozzine? Qual è il rapporto con gli altri elementi urbani prossimi allo spazio? 6) Rendere gli spazi recuperati utilizzabili dagli altri è una buona strategia. Avere qualcosa da fare dà alle persone un motivo per andare in un posto e per ritornarci. Quando in un posto non c’è niente da fare, quel posto rimarrà vuoto, il che, in genere, significa che qualcosa non va. Più attività sono in corso, più persone hanno l’opportunità di partecipare, meglio è. Cosa accade nel vostro spazio? Quanti tipi di attività si veri±cano? C’è un buon equilibrio tra uomini e donne? E tra giovani e anziani? Lo spazio è utilizzato tutto il giorno? Ci sono solo persone singole o anche persone in gruppo? Le persone lo usano per incontrarsi? Le persone che frequentano lo spazio si conoscono tra loro? Le persone che frequentano lo spazio rispecchiano la comunità in generale? 7) Fare di uno spazio sottratto all’abbandono un luogo confortevole non è solo una questione estetica. Se uno spazio è confortevole ed ha una buona immagine, abbiamo fatto già un bel passo in avanti. Comfort significa pulizia, decoro o, per esempio, disponibilità di posti a sedere. Il vostro spazio fa una buona prima impressione? Ci sono posti a suf±cienza per sedersi? Sono posti a sedere comodi? Gli spazi sono puliti? Chi è il responsabile della manutenzione? Come se ne occupa? 8) Ok, riusciamo ad essere accessibili, utilizzabili e confortevoli. Ma la nostra economia è fragile e incerta. Il problema principale non è la mancanza di idee, di persone competenti o di relazioni. Quello su cui dobbiamo lavorare è un nuovo modello organizzativo, una nuova filosofia del nostro “essere al mondo” che sia in grado di capitalizzare queste risorse e di dar loro un nuovo verso. Su questo dobbiamo lavorare. 9) Va bene, lo promettiamo: ci impegneremo per diventare più bravi ad accedere a tutte le forme di finanziamento possibile, per crescere e investire (programmi UE, bandi pubblici e privati, accesso al credito, finanza d’investimento , ecc.). Ma non è di questo che dobbiamo parlare. 10) Nel frattempo un caro saluto e un avviso a chi pensa di investire su di noi: non aspettatevi ritorni clamorosi. Quello che possiamo restituirvi è un mix di valore economico, sinergie con i vostri business abituali, comunicazione, reputazione, attenzione verso il territorio e le

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generazioni future. Vi pare poco? 11) Per avere buoni risultati nel “mercato”, il “mercato”, da solo, non basta. Questo perché il nostro “processo produttivo” si svolge sempre di più al di fuori dei nostri confini, fisici e organizzativi: coinvolge utenti, spettatori, fornitori, esperti, amatori, (senza contare il nuovo pubblico della Rete). Da qui discende un’intuizione decisiva sul tema dell’identità. 12) Possiamo affiancare alla nostra posizione consueta di produttori di contenuti quella di piattaforma per l’attivazione e l’interconnessione. Possiamo renderci utili, in altre parole, affinché persone e organizzazioni trovino vantaggioso (per motivi materiali o immateriali poco importa) mettersi in azione “su di noi” e comincino a parlare tra di loro. 13) Persone e organizzazioni attive, interconnesse, che condividono lo stesso ambiente fisico, unite da vincoli organizzativi, economici e da interessi comuni: in una parola, una comunità. Senza una comunità di riferimento la nostra stessa esistenza è a rischio. Dobbiamo chiederci, pertanto, dove finisce la nostra offerta (culturale, sociale, ecc.). Se finisce prima che inizi la nostra comunità, questo è un problema. 14) Ma come si crea una comunità? E’ prima di tutto una questione di fiducia. Se vogliamo che le persone comincino a fidarsi di noi, dobbiamo condividere per primi le nostre risorse: denaro (quando ne abbiamo), spazi (se ne usiamo meno di quanti ce ne servono), competenze, relazioni e reti (il nostro lavoro ci porta ad imparare continuamente e conoscere persone e organizzazioni interessanti: perché non spartire questo patrimonio?). Lasciamo decidere agli altri cosa lasciare in cambio: soldi, ma a che tempo, servizi, competenze, reti. I risultati possono essere sorprendenti. 15) Guardiamoci attorno. Il nostro spazio insiste su una strada, su un quartiere, su un paese, su una città, su comunità e reti di persone e di organizzazioni. Proviamo a valorizzare le risorse latenti e sottoutilizzate. Siamo in relazione con gli elementi vitali del nostro contesto oppure viviamo condizioni di isolamento? Lanciamo il giusto sguardo sulle risorse latenti e sottoutilizzate che abbondano intorno a noi? 16) Inserire la condivisione dei mezzi e la valorizzazione delle risorse latenti e sottoutilizzate nella nostra strategia (e all’interno del nostro budget) apre ipotesi inedite e può farci tirare una boccata di ossigeno. 17) La domanda delle domande allora è: possiamo generare valore economico? La risposta è: certo, ammesso che non sia l’unica cosa che abbiamo in mente. 18) Infine: non serve progettare tutto e non serve “mettere a sistema”. Esistono troppe variabili fuori dal nostro controllo. Molto meglio avere strategie adattive, atteggiamento aperto, curiosità per l’inatteso.

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BOLLENTI SPIRITI: AI VECCHI EDIFICI SERVONO GIOVANI IDEE L’ESPERIENZA DEI “LABORATORI URBANI” NEL PROGRAMMA DELLA REGIONE PUGLIA PER LE POLITICHE GIOVANILI Annibale D’Elia Marco Ranieri >Regione Puglia - Servizio Politiche Giovanili e Cittadinanza Sociale >Esperto di politiche giovanili La scommessa di Bollenti Spiriti Nel 2005 la Regione Puglia ha preso un impegno, che è anche una scommessa: cambiare radicalmente la prospettiva delle politiche pubbliche per i giovani e guardare sul serio alle nuove generazioni come una risorsa. Forse la più importante, a disposizione di una comunità, per cambiare rotta e far rinascere un territorio. Da questa visione è nata l’idea di realizzare, per la prima volta in Italia, un programma regionale interamente dedicato alle politiche giovanili. Non un singolo intervento o un progetto “ad effetto”, ma un insieme complesso di iniziative per raggiungere un obiettivo di lungo periodo: far emergere questa grande forza inespressa e trasformarla in energia di cambiamento. Il nome del programma dice tutto, “Bollenti Spiriti”. In questi anni, l’impegno si è tradotto in una serie di azioni per far partecipare i giovani alla vita attiva: borse di studio per corsi di alta formazione in Italia e all’estero (“Contratto Etico”, poi “Ritorno al Futuro”), sostegno ai gruppi informali di giovani pugliesi per trasformare le loro idee in progetti (“Principi Attivi”), un programma di apprendimento guidato dalla domanda di conoscenza (“Laboratori dal Basso”) e altro ancora. La scommessa consiste nella sperimentazione di un metodo di lavoro, comune a tutte le esperienze, per superare sia la tradizionale concezione di tutela delle nuove generazioni come fasce deboli, sia l’approccio per servizi, che vede i giovani come destinatari passivi delle iniziative a loro

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dedicate. Bollenti Spiriti prova a rovesciare l’approccio e immaginare che siano i giovani – i più colpiti dalla crisi e i più esposti ai rischi di esclusione – l’asset strategico su cui puntare per portare le nostre comunità oltre i limiti di un vecchio modello di sviluppo. Del resto, su chi scommettere se non sui nuovi cittadini, per sperimentare modalità nuove per creare valore, abitare il territorio, stare insieme? Questo è il racconto di una delle azioni del programma Bollenti Spiriti, “Laboratori Urbani”, dal punto di vista di chi ci lavora con passione all’interno dell’amministrazione regionale. Laboratori Urbani per rimettere in circolo le risorse di un territorio Ai giovani serve spazio. Lo sapevamo fin da primo giorno. Ce lo ha confermato una ricerca sul campo, lunga due anni, sulle risorse e i bisogni della popolazione giovanile in Puglia [“Cosa Bolle in Pentola?” – ricerca conoscitiva su risorse e bisogni della popolazione giovanile in Puglia – Università degli Studi di Bari, 2007]. Per “ri-ciclare” (ovvero rimettere in circolo) questa energia potenziale è necessario rompere l’incantesimo dell’apatia e della passività. Bisogna consentire ai giovani di mettere le mani sulla realtà e mettersi alla prova. Per fare questo, servono luoghi a bassa soglia, dove i nuovi cittadini possano attivarsi, sperimentare e maturare competenze. La Rete, da sola, non basta. Come non bastano i luoghi dell’educazione formale – le scuole, le università – o del consumo. Le energie giovanili cercano spazi, almeno quanto gli edifici abbandonati nelle periferie e nei centri storici delle nostre città hanno bisogno di energie per tornare a vivere. Da questa intuizione è nata “Laboratori Urbani”, un'azione di recupero di immobili dismessi di proprietà pubblica da trasformare in nuovi spazi sociali per i giovani: un'iniziativa ad alto impatto e un investimento inedito per il territorio pugliese, per contenuti, metodo e dimensioni. A marzo del 2006, la Regione Puglia ha lanciato un bando con cui ha chiesto agli enti locali di mettere sul piatto le proprie risorse immobiliari sottoutilizzate per creare una rete di contenitori per la creatività e l’apprendimento non formale, diffusi su tutto il territorio regionale. Ai comuni è stato chiesto di scegliere uno o più immobili da candidare ad una nuova destinazione, e di elaborare dei progetti di riuso coinvolgendo le comunità locali. L’amministrazione regionale ha messo a disposizione le risorse per ristrutturare gli immobili, arredarli e attrezzarli, destinando una quota del finanziamento allo start up delle attività di gestione. Sono stati finanziati 169 comuni pugliesi, che hanno candidato 71 progetti, mettendo a disposizione 151 edifici sottoutilizzati, per un totale di oltre 100.000 mq di superficie complessiva. Le risorse sono state reperite nell’arco di 3 anni - tramite l’Accordo di

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Programma Quadro “Politiche Giovanili” stipulato con il Ministero dell’Economia e delle Finanze e con il Ministero per le Politiche Giovanili - e ammontano complessivamente a 44 milioni di Euro. I comuni beneficiari hanno contribuito con ulteriori 10 milioni di Euro di quota di cofinanziamento. Attraverso l’azione Laboratori Urbani, palazzi storici abbandonati, edifici scolastici in disuso, antichi monasteri, ex mattatoi, mercati e caserme di proprietà pubblica sono stati ristrutturati e dotati di attrezzature, strumentazioni e arredi. Secondo l’iter previsto dal bando, una volta conclusa la ristrutturazione i comuni hanno messo a gara la gestione dei Laboratori, affidando gli spazi ad organizzazioni del territorio: imprese, cooperative, associazioni, anche aggregate in consorzi o raggruppamenti temporanei. Utilizzando risorse solitamente destinate alla realizzazione di opere pubbliche, la Regione Puglia ha finanziato interventi per recuperare ambienti fisici, ma anche per sostenere imprese sociali e culturali capaci di ri-animarli. Nell’arco di 7 anni, con tempi diversi a seconda della complessità dei lavori o della celerità delle amministrazioni, i Laboratori Urbani hanno aperto i battenti. Tutti insieme costituiscono un esperimento collettivo di rigenerazione urbana basata su giovani e creatività che, tra successi e criticità, è ancora in pieno svolgimento. Vecchi edifici e giovani idee A San Vito dei Normanni, poco lontano da Brindisi, dal recupero di uno stabilimento enologico abbandonato alle porte del paese è nato il Laboratorio Urbano ExFadda. In poco più di 3 anni è diventato uno degli spazi per la creatività e l’innovazione sociale più noti e apprezzati in Italia. Dall’altra parte della Puglia, a Manfredonia, nell’ex mercato ittico, lavora il Laboratorio Urbano Culturale intitolato a Peppino Impastato, epicentro dell’avventura imprenditoriale della locale cooperativa Pandemia. Oggi è il punto di riferimento per tutti gli amanti della musica live in provincia di Foggia. Insieme ad altri 10 Laboratori, il LUC ha promosso la nascita di “ReLab!” – Rete dei Laboratori culturali della Regione Puglia – un network di spazi pubblici per la creatività che hanno deciso di collaborare stabilmente per la promozione della cultura musicale, l’organizzazione di festival e la circuitazione di artisti. Tra questi il Laboratorio “Artefacendo” di San Giovanni Rotondo (Fg) che dal 2010 ospita una scuola di musica moderna e una sala prove, il Laboratorio Stazione “ArteMusica” di San Ferdinando di Puglia (Bat) che promuove percorsi di formazione e produzione in ambito musicale, e “ArteFranca”, il Laboratorio Urbano di Martina Franca (Ta) che ospita, tra le altre cose, laboratori formativi per tecnici del suono. Sulla musica lavorano anche il “Lab Creation”, nel centro storico di Mesagne (Br), e “Livello 11/8” di Trepuzzi (Le), che ha trasformato l’ex

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mercato dei fiori comunale, un capannone di cemento in periferia, in una delle sale da concerto più frequentate del Salento. A Lecce, il Laboratorio Urbano “Officine Cantelmo” è oggi uno student center di livello internazionale: mediateca, bar, sala studi e centro di formazione di giorno; palco per spettacoli e dance hall di sera. Ogni Laboratorio Urbano ha contenuti, vocazioni e caratteristiche proprie: luoghi per l’arte, lo spettacolo e il recupero delle tradizioni; luoghi di uso sociale e sperimentazione delle nuove tecnologie; servizi per il lavoro, la formazione e l’imprenditorialità giovanile; spazi espositivi, di socializzazione, di ospitalità ed educazione non formale. Dal 2008 ad oggi, l’azione Laboratori Urbani ha restituito una funzione alle ex officine della chiesa di San Domenico ad Andria, all’ex mercato ortofrutticolo di Gravina di Puglia (Ba), al macello comunale di Modugno (Ba), all’ex distilleria di Barletta, all’ex monastero dei frati domenicani a Cerignola (Fg) e ad una ex scuola abbandonata di Palagiano (Ta). Altri progetti di grande vitalità sono nati dal recupero di immobili più piccoli, come il “Rigenera” di Palo del Colle (Ba) o il “G.Lan” di Locorotondo (Ba). Nel capoluogo di regione è stata da poco presentata alla città l’”Officina degli Esordi”, uno spazio con sale prova e palchi attrezzati per lo spettacolo, che aspetta le ultime forniture per diventare pienamente operativo. Negli anni, sono arrivati anche importanti riconoscimenti a livello internazionale: nel 2009 Laboratori Urbani è stata indicata come best practice dalla Commissione Europea nell’ambito dell’Anno Europeo per la Creatività e l’Innovazione; nel 2013 è stata scelta come uno dei 100 migliori progetti di rigenerazione urbana in Europa nell’ambito di 100EUrban solutions, iniziativa dedicata alle buone pratiche comunitarie di trasformazione urbana e territoriale. Mentre scriviamo, febbraio 2014, sono in tutto 130 i Laboratori Urbani che hanno terminato i cantieri e individuato un soggetto gestore. La scommessa di tutti i progetti è riuscire ad essere nello stesso tempo spazi “sociali” e imprese sostenibili, valorizzando al massimo le risorse a disposizione: gli immobili recuperati, il contributo per il primo anno di gestione, la strumentazione, gli arredi e soprattutto lo sconfinato bacino di energia potenziale costituito dai ragazzi e dalle ragazze dei territori in cui operano. La fatica del cambiamento Le storie dei Laboratori Urbani - dal bando, all’apertura, al funzionamento a regime - sono avventure interessanti e complesse, tutte diverse fra loro. Molte sono caratterizzate da momenti di difficoltà, inciampi, ritardi e false partenze. Insieme raccontano la dimensione di una sfida che è, prima di tutto, culturale. Questa sfida non riguarda solo l’amministrazione locale proprietaria degli immobili (e, come si dice in gergo tecnico, “stazione appaltante”) ma tutti gli attori che danno vita e gambe ad un processo di riuso sociale di un bene abbandonato.

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Certo, le istituzioni locali beneficiarie del finanziamento regionale hanno avuto, e hanno tutt’oggi, una straordinaria e complicata partita da giocare. Per giocarla al meglio occorre capacità amministrativa (non sempre all’altezza della sfida), rapidità d’azione (tasto dolente, anche per le critiche situazioni in cui versano gli uffici dei comuni) e soprattutto volontà e determinazione. A Noicattaro, piccolo borgo a vocazione agricola in provincia di Bari senza un cinema e un teatro, il Laboratorio Urbano “Ex Viri” è stato finalmente restituito alla cittadinanza nel 2013 dopo un lungo stop, grazie ad una campagna di sensibilizzazione delle associazioni locali. Ci sono casi ancora più critici, 3 in tutto, in cui i lavori di ristrutturazione non sono ancora iniziati e il progetto rischia il definanziamento. Alcuni progetti dalle grandi potenzialità sono incastrati in un interminabile contenzioso tra l’amministrazione e il soggetto gestore. Un tassello fondamentale per il successo o l’insuccesso di un Laboratorio Urbano è, infatti, il soggetto individuato dall’amministrazione per gestire lo spazio. L’impegno è gravoso: il gestore deve garantire, nello stesso tempo, la missione sociale degli spazi e la sostenibilità economica dell’operazione, trovando un difficile equilibrio tra entrate e uscite, sfruttando ogni opportunità di fund raising e mantenendo una stretta connessione con le forze vitali di un territorio (imprese, associazioni, progetti giovanili etc.). Vale, per i gestori, lo stesso ragionamento esposto in premessa. La trasformazione di un edificio vuoto in un Laboratorio Urbano per i giovani è un processo sfidante che richiede in ugual misura competenza, volontà, relazioni e ingegno, oltre ad un’adeguata dotazione di strumenti e infrastrutture. Su quest’ultimo fronte, per potenziare la dotazione iniziale dei Laboratori (a volte insufficiente o diventata obsoleta) e per coinvolgere l’associazionismo di base, nel 2011 la Regione Puglia ha emesso un bando a sostegno della gestione degli spazi pubblici per la creatività. Ne hanno beneficiato 32 strutture dislocate nelle 6 province, tra cui 19 Laboratori Urbani e 13 progetti nati senza il sostegno regionale, come il centro culturale indipendente “Manifatture Knos” a Lecce, la “Casa delle Arti” a Conversano (Ba) o il “Km97”, nato dal recupero di un casello dismesso delle Ferrovie Sud Est nelle campagne del capoluogo salentino. Sul versante del rafforzamento delle competenze dei soggetti gestori, la Regione Puglia ha investito nella creazione di un “Centro Risorse” per i Laboratori Urbani, che nel biennio 2012 - 2013 ha realizzato attività di formazione, consulenza e accompagnamento al networking su tutto il territorio regionale. L’obiettivo di fondo di questo duplice intervento regionale è far nascere e consolidare una comunità di persone e organizzazioni impegnate nella gestione di spazi sociali per la creatività e l’attivazione, connessa al proprio interno e collegata con le reti internazionali di settore, come il network europeo “Trans Europe Halles”.

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Ma se, come detto, i soggetti gestori sono determinanti per la buona riuscita di un Laboratorio Urbano, in certi casi possono costituire un limite al loro sviluppo. È accaduto (poche volte, per fortuna) che le risorse destinate allo start up siano state utilizzate più per “adempiere” agli obblighi contrattuali piuttosto che a mettere le basi per proseguire le attività oltre il periodo finanziato, anche a causa della rigidità delle regole sugli appalti pubblici di servizi. Alcune esperienze, pur rispettando in pieno le norme e gli impegni formali, sono rimaste lontane dallo spirito di Laboratori Urbani e dalle azioni di sostegno della Regione Puglia, impermeabili ad ogni sforzo di coinvolgimento. Ad oggi, 19 Laboratori Urbani hanno esaurito il carburante destinato al decollo e si ritrovano chiusi in attesa di una ripartenza. Questi casi, che rappresentano la priorità dei prossimi interventi regionali, chiamano in causa un altro attore chiave per la riuscita di un progetto di Laboratorio Urbano: la comunità locale. Le persone (e le idee) riqualificano i luoghi Spazi, edifici, immobili non sono solo volumi, mura o coordinate geografiche. I luoghi plasmano la vita delle persone che li abitano e che li frequentano abitualmente. Vale anche il ragionamento inverso. Il presupposto dell’operazione Laboratori Urbani è che la riqualificazione dei luoghi abbandonati e dei quartieri periferici - nei quali si trovano molti degli immobili oggetto degli interventi - si basi anzitutto sulle persone, e che la qualità dell'intervento sia collegata al livello di partecipazione delle comunità. Da questo punto di vista, l'associazionismo sociale e culturale dei territori, le alleanze con le realtà di base e con i giovani, rappresentano elementi decisivi dell'operazione. Durante le fasi di progettazione (prima), e di ristrutturazione (poi), le amministrazioni più accorte hanno messo in campo esperimenti di progettazione partecipata e sensibilizzazione, per definire insieme alla cittadinanza le nuove destinazioni d’uso degli spazi. Il percorso verso la nascita del Laboratorio Urbano è stato accompagnato da forum civici, blog collettivi, incontri pubblici e passeggiate di cantiere. Quando l’azione dell’amministrazione è stata coerente e continua - e non episodica o interrotta da un cambio di amministrazione o di responsabile del procedimento – intorno al Laboratorio sono nate collaborazioni inedite tra chi non era abituato a dialogare: amministrazioni comunali, tecnici, realtà del terzo settore, giovani, creativi. Ma anche il ruolo delle comunità non va mitizzato. Accade che Laboratori Urbani “troppo frequentati” siano mal visti perché disturbano la quiete del circondario o gli affari degli esercenti commerciali. Succede che l’armonia tra operatori culturali di un territorio si incrini quando si passa dalla progettazione all’attuazione. A volte la comunità non persegue, compatta, il bene comune. La sfida è ancora una volta culturale, e l’esito non va dato per scontato. Vecchie idee mettono a rischio bellissimi progetti.

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Invece, lì dove si è creato un corto circuito positivo fra l’amministrazione, il tessuto associativo e il territorio, i Laboratori stanno svolgendo un'interessante funzione di piattaforma a sostegno delle comunità locali: mobilitano e attivano risorse e persone; producono più valore di quanto ne consumano; sono luoghi abitati dove si sperimentano nuovi modelli di economia e società. Comprendere quali siano le condizioni che favoriscono questo corto circuito, e sostenerle, è l’obiettivo della nuova programmazione regionale nel campo delle politiche giovanili. Anche per rispondere in modo nuovo alle emergenze sociali generate dalla crisi. Il futuro dei Laboratori Urbani “Tutti i giovani sono una risorsa” è il titolo del nuovo piano d’azione di Bollenti Spiriti per il biennio 2014 -2015. L’obiettivo è proseguire nella direzione intrapresa fino ad oggi dal programma, ma coinvolgendo una fascia più ampia della popolazione giovanile. Soprattutto i giovani che non lavorano, non studiano e non svolgono attività di formazione. I cosiddetti “NEET”, l’universo degli scoraggiati che ha gettato la spugna ed è scomparso dai radar delle politiche pubbliche. Una rete di spazi, distribuiti su tutto il territorio regionale, può svolgere un ruolo importantissimo in questo senso. Ce lo stanno già dimostrando quegli spazi che oggi si sperimentano sul terreno dell’innovazione sociale: come il “Salento Fun Park”, parco per le arti di strada e impresa creativa nati in un ex pattinodromo abbandonato di Mesagne (Br), o il teatro sociale “Tatà” nel martoriato quartiere Tamburi, a Taranto. L’obiettivo del Piano è fare in modo che tutti i Laboratori Urbani finanziati sul territorio pugliese vengano pienamente attivati, e che tutti gli spazi e le attrezzature siano messi a disposizione dei giovani e delle comunità locali. Per far questo, la Regione Puglia vuole consolidare il network dei Laboratori in possesso di determinati requisiti di qualità (stabilità delle convenzioni tra pubblico e privato, sostenibilità economica, vitalità degli spazi, trasparenza della gestione, apertura al territorio etc.). Nello stesso tempo, vuole affiancare gli enti locali e i soggetti gestori – ma anche gruppi giovanili, associazioni e comunità locali – nello sforzo per migliorare la qualità dei Laboratori e raggiungere i requisiti minimi per l’ingresso nella rete. Tutti insieme costituiranno l’infrastruttura territoriale per le politiche giovanili nella programmazione regionale 2014 – 2020. La scommessa e l’impegno dei Laboratori Urbani continua: puntare sulle persone giovani per rigenerare territori. Reinventare l’Italia partendo dalle idee.

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LABORATORIO RE-WIND. ESPERIENZA DEI PROGETTO E CANTIERE DI AUTOCOSTRUZIONE Consuelo Nava >UNIRC

Un contromanifesto: fattibilità delle vocazioni e democrazia della misura “(…) Siamo poveri di beni pubblici perché essi possono venire solo se sono diffuse piccole dosi di coraggio, di rispetto per la bellezza e di riguardo per i luoghi da cui non si possono escludere gli altri. Saremo tutti più ricchi non quando avremo ulteriormente incrementato il nostro bottino privato ma quando avremo restituito a tutti le strade, le spiagge e i giardini, quando saremo guariti dalla ricerca ossessiva della separazione e della distinzione. Allora la bellezza tornerà a visitarci. Non è possibile togliere il potere ai piazzisti se non si scopre la differenza tra l’esperienza del mondo e il suo acquisto in offerta speciale” [Cassano F. (2005), Pensiero Meridiano, Laterza, Roma, pag 21] Il workshop progettuale con cantiere di autocostruzione “ReWind”, per l’area costiera di Punta Pellaro (Reggio Calabria) è un’iniziativa nata con finalità scientifiche applicate alla valorizzazione ricettiva e sociale del territorio, sui temi dell’architettura sostenibile e del paesaggio, della coesione sociale e della legalità, in occasione delle attività promosse

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dal laboratorio PRIN Re-cycle Italy U.O. Reggio Calabria [Ricerca PRIN recycle Italy u.o. Reggio Calabria_Riciclare paesaggi dello Scarto: progetti sperimentali per la città metropolitana di Reggio Calabria. Resp. Scient.Prof. Arch.V.Gioffré] e Centro Interuniversitario ABITALab RC, dip. DArTe, Università degli Studi Mediterranea di RC, con la partecipazione di laureandi e laureati in architettura, associazioni, aziende ed enti e su interesse di una committenza privata che mette a disposizione il sito per farne luogo di sperimentazione, cantiere-laboratorio destinatario delle attrezzature che verranno progettate e costruite per ri-attivare la stazione di kitesurf e windsurf prima della nuova stagione estiva. Si propone un approccio che coniuga gli aspetti del riciclo del paesaggio e dell’ambiente con il riciclo delle risorse-materiali e dei flussi energetici, in un luogo di grandissime potenzialità naturali ed antropologiche: una rinnovata e cercata fattibilità delle vocazioni. Si risponde all’incapacità di custodire i luoghi, di innescare processi dell’abitare condivisi, di utilizzare virtuosamente filiere produttive fino al riciclo di ogni sfrido, reimpiegandone capacità e materiali, attraverso un progetto tendenzioso ed a favore delle “vocazioni”, per questo fattibile nell’attuazione del processo mentre si realizzano i prodotti. Si tratta di un’esperienza innovativa, sperimentale e connessa alla ricerca applicata, ma che si spinge verso l’ambizione di divenire un “nuovo modello dell’abitare temporaneo e sostenibile”, da esportare nei suoi processi culturali e realizzativi per altri tipi di contesti e scenari di costa calabrese. Sui temi dello sviluppo della ricettività costiera ne nasce quindi un “contromanifesto” . In Calabria il 70% dei centri abitati vive e si edifica tra la costa e le infrastrutture e negli ultimi 40 anni nessun “senso dei luoghi” ha riconnotato identità e caratteri dell’abitare in grado di preservare suolo, risorse naturali e filiere produttive locali. Nell’ultimo decennio, si è perso oltre il 25% di suolo permeabile e molte specie vegetali e di biotopi sono scomparsi. Alcun paesaggio e struttura dell’ambiente si sono salvati dalla necessità di “edificare” e “compromettere contesti sensibili”. Si è edificato indifferentemente non attivando processi di partecipazione alle scelte e condivisione degli spazi pubblici - collettivi e privati negli scenari pubblici. Il tema della permanenza e della temporaneità, delle trasformazioni urbane da mare a monte, della vocazione dei luoghi e del loro essere abitati da comunità insediate e da comunità provvisorie, pone la questione della sostenibilità degli impatti sui paesaggi e sulle strutture ambientali sempre più compromesse. Si ripropone inoltre la questione del rapporto tra aree urbane dismesse e gestione del consumo di suolo, quale necessaria condizione di rigenerazione di spazi di scarto attraverso azioni di riciclo. In particolare per la sperimentazione attuata con il progetto ReWind di seguito illustrato, tale metodologia trova una strategia sostenibile di progetto ed azione per la città metropolitana di Reggio Calabria. [Ricerca PRIN recycle Italy u.o. Reggio Calabria_Approfondimento sul tema: il riciclo delle aree dismesse e strategie sostenibili di gestione del suolo. Prof.ssa Arch.C.Nava (resp.del Laboratorio Recycle Rc)]

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A supporto del posizionamento culturale e tecnico si sostiene che non si tratta più di operare solo in termini di qualità e progetto, ma occorre intervenire con una nuova “democrazia della misura”, istruita in termini di quantità e processo, per una ritrovata inclusività capace di essere governata dai soggetti responsabili delle decisioni e delle visioni, quali attori e fruitori interessati, con una precisa delineazione della strategia sostenibile sul controllo dell’impatto sociale degli interventi. Le traiettorie di riferimento della sperimentazione tra teoria e prassi Il tema del riciclo affrontato dalla scala territoriale - urbana a quella del prodotto pone sicuramente questioni emergenti che negli ultimi decenni hanno dettato una rivoluzione in termini teorici e di prassi, anche con riferimento a contesti produttivi e sociali differenti. Alcune delle traiettorie perseguite, anche attraverso la sperimentazione sul caso ReWind qui presentato, ne assumono una condizione di impostazione ed ambizione radicale nel processo scelto e nei risultati perseguiti, a misura dell’esperienza sul campo. Di seguito alcune posizioni argomentate sulle tesi tra teoria e prassi. Alla scala “locale” prendendo ancor di più le distanze dai termini rigenerazione e riuso, “il paradigma riciclo” si è sempre più caricato della cifra ecologica e sociale attraverso una sperimentazione avanzata con ambiti di applicazione al progetto e sue realizzazioni, riuscendo a produrre anche sostanziali cambiamenti di approccio sulle metodologie e sui processi progettuali, tentando peraltro la via di una nuova qualità estetica ed anche di ricerca autoriale. In tal senso però, nei processi di definizione di nuove configurazioni e modelli formali, il processo di trasfigurazione della risorsa da un primo ciclo di vita o di fine vita (materia prima/materiale) ad un ciclo di vita con il riciclo (materia prima-seconda/nuovo materiale), ha dovuto sovvertire la legge tipica dei processi progettuali ex-novo. Per es. l’assunto teorico per cui nell’innescare leggi di governo dei processi “la regola precede la realtà” [Bauman Z. (2004), Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari, pag 40] ed anche il concetto tutto moderno della “distinzione tra prodotto utile e scarto” ha segnato il passo a favore di un concetto più globalizzante, connotante la necessità dell’epoca contemporanea della “cultura dei rifiuti”, in cui nell’infinito tutto diviene “riciclato senza fine, (…) oppure è eternamente esistente” [Bauman Z. (2004), Vite di scarto, Laterza, pag 118]. Quando la coscienza dell’esaurimento delle risorse a livello ambientale, del carico e degli impatti sugli ecosistemi complessi, come il clima, il suolo e la città, sono stati affrontati come questione“globale”, il termine riciclo si è potuto caricare di valori e significati etici ed economici, ha valso posizioni politiche ed ha ritrovato ragioni di costanti antropologiche e di evoluzioni tecniche, capaci di giudicare una nuova morale “dell’obsolescenza programmata” di prodotti e processi [Latouche S. (2013) Usa e getta. e follie dell’obsolescenza programmata, Bollati Boringhieri, Torino]. Era accaduto in epoca post-moderna, nei tempi della civiltà “usa e getta”, che

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si affidava alla produzione di massa la possibilità dell’abbassamento dei costi, ma ciò avveniva ponendo parimenti il dubbio se “il fatto di concepire appositamente un difetto tecnico non sia contrario all’etica” [Latouche S. cit. Stafford, 1958] o se invece “se il prodotto fosse concepito per durare nel tempo, l’utilizzatore si vedrebbe negati i benefici di un rapido progresso tecnico” [S. Latouche cit. Stafford in G.Slade, Made to Brake, 1958, pag 164]. Ciò comunque, pur non potendo trovare ancora oggi una posizione univoca di pensiero, subisce una rivoluzione proprio in termini paradigmatici, capovolgendo il cannocchiale e rinviando in termini globali alla crisi ecologica che pone il problema dell’accumulo e dello smaltimento dei rifiuti e dei prodotti di scarto e quindi, come propongono “gli obiettori di crescita”, alla necessità di “(…) inventare una nuova economia circolare, capace di rendere sistematica l’ecoconcezione di prodotti, tutti riciclabili, reimpiegabili, non tossici” [Latouche S. (2013) op. cit. pag 103]. In ambito tecnico e produttivo ciò porta a significare ogni azione attraverso la strategia cradle to cradle, dalla culla alla culla, condizione per cui ogni nuovo processo può nutrirsi della materia e dell’energia degli scarti di un ciclo già attivato e chiuso. In termini di azioni progettuali ciò determina che la qualità del nuovo spazio o oggetto trasfigurato attraverso la pratica del riciclo, mentre si preoccupa di controllare il passaggio dell’oggetto “dalla popolazione dei rifiuti” alla “popolazione degli inquinanti” [Maldonado T. (1970) La speranza Progettuale, PBE, pag.80], tenta una nuova via della “post-produzione”, in un nuovo mondo in cui “ il progetto non coincide più e soltanto con il segno più, con un incremento di cubatura, ma a monte torna a coincidere con una scelta” [Marini S. (2013), Post-produzioni o del problema della scelta in Recycland, (a cura di) S.Marini e V.Santangelo, Aracne ed, Roma, pag.17]. In termini di innovazione, tra le scelte possibili vi è anche quella di prolungare il ciclo di vita di un prodotto facendogli assumere uno sforzo d’uso assai mutevole nel tempo e nel passaggio da una vita all’altra, rendendolo oggetto di un’ulteriore trasfigurazione, associando al riciclo i temi dell’ibridazione e della multifunzionalità; sostenendo quindi un contesto produttivo in cui vi sia possibile includere l’azione spontanea, ritrovando nella “prassiologia della progettazione” [“la prassiologia è la teoria generale dell’azione efficiente” (cfr T.Kotarbinski, Praxiology – An Introduction to the Sciences of Ef±cent Action, Pergamon Press, Oxford, 1965)] un nuovo equilibrio tra “coscienza critica” e “coscienza progettuale” [Maldonado T. (1970) La speranza Progettuale, PBE, Torino, pag 129], con una deriva però più strettamente etico-pratica (e quindi politica) della necessità di una siffatta progettazione, misurata sui processi inclusivi con pratiche di riciclo. Agire sullo scarto, oppure sfrido, in termini progettuali come materia-seconda di un processo di riciclo, piuttosto che su componenti ed elementi provenienti da processi di riciclo ma capaci di essere rintracciati in filiere ordinate e disponibili, vuol dire “risignificare” stoccaggi di rifiuti e risorse fuori produzione; come vedremo dalla sperimentazione ReWind, ciò di fatto modifica il rapporto tra progetto e organizzazione del processo, tra spazio e funzione, tra

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ideazione e creatività, tra tempo d’uso e sforzo d’uso, tra dimensione e misura, tra qualità e quantità, tra tempi della progettazione e cantiere, tra attori del processo e loro interferenza nelle fasi. In tal senso tra i progetti che attivano azioni di riciclo e che assumono tali condizioni, operando una metodologia spinta ed innovativa in termini di processo e di prodotto, vi è l’esperienza dello Haka Recycle Office di Doepel Strijkers, a Rotterdam, realizzato nel 2010. Si realizza una zonizzazione in spazi pubblici e privati che può essere modificata. La piattaforma di lavoro offre uffici temporanei per gli attuali utenti. Il catering centralissimo è progettato per essere utilizztao nella prima fase dell'operazione come dispensa per le aziende sulle piattaforme e una cucina / bar durante gli eventi. Con spazio sufficiente e un layout flessibile, questa dispensa funziona come una cucina professionale per un operatore del ristorante in altra fase di funzionamento. Nell’area ufficio originale si trova un auditorium ed uno spazio espositivo, che possono funzionare come aree separate ma anche a spazi ibridi, con n muro di partizione acustica costruito 8000 kg di abbigliamento divisi in 9 elementi, assicura che lo spazio può essere adattato alle mutevoli esigenze. (fonti rivista : a+t Reclam n.39-40, 2012; sito web: http://www.doepelstrijkers.com/#/projects/70/ KRINGLOOP+KANTOOR+HAKA+GEBOUW/ trad.inglese-italiano, C.Nava)]. L’edificio è un 'Living Lab' per aziende, istituzioni e autorità in materia di acqua e di energia, aggregando la loro conoscenza e la ricerca. L'organizzazione dell'edificio segue i flussi che attraversano l'edificio nel quale l'interpretazione spaziale si basa sull'ottimizzazione energetica e la sostenibilità sociale. Haka Recycle Office di Doepel Strijkers (Rotterdam, 2010) Doepel Strijkers architetti ha riutilizzato il materiale di demolizione dalla costruzione pre- e post-bellica. Durante lo stoccaggio dei materiali di demolizione per i nuovi prodotti, il valore intrinseco dei materiali è stata la principale modalità di selezione. Ulteriori principi del processo di progettazione sono stati: minimo spreco, minimizzazione del funzionamento tecnico e facile rimozione. La progettazione ha tenuto conto della componente sociale nel suo processo. Una gran parte di oggetti sono stati costruiti da un team di persone diretti da una posizione di svantaggio sul mercato del lavoro, in libertà vigilata. Questo processo di implementazione con manodopera quali±cata a basso costo fa indirizzare verso dettagli ripetitivi semplici di design che non necessitano di complesse operazioni tecniche.Fornisce inoltre riferimenti per progettare con la consapevolezza di una realizzazione laboriosa e l’idea di un nuovo artigianato a prezzi accessibili. Ciò fa emergere i risultati di processo in un design che mostra nuove qualità che non sono più possibili con un processo di progettazione convenzionale. In collaborazione con AVR / Van Gansewinkel è trasparente la procedura che misura l'impatto dell'uso di materiali di demolizione e trasporto con l’aggiuntiva elaborazione su impronta di CO2 e il costo per ogni elemento. Inoltre vi sono anche gli aspetti tecnici rilevanti per il riutilizzo di materiali quali certi±cazione, sicurezza antincendio e costi di costruzione. La conoscenza acquisita fornisce una panoramica sulle potenzialità di applicazione di questa strategia per uno sviluppo della zona. Così è parte della più grande iniziativa che chiede una strategia alternativa per la rigenerazione spaziale, economica, ambientale e sociale dell'area; attraverso azioni di riciclo.

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Un tale progetto fa da riferimento per ciò che ha sempre considerato nei processi inclusivi di partecipazione il rapporto tra stakeholders ed operatori veri e propri, in cui lo staff di architetti e professionisti ha svolto spesso un’opera di mediazione e facilitazione nella raccolta della reale domanda sociale. In questo caso l’impatto sociale del progetto si misura fin dentro il processo di costruzione perché il programma punta ad abbassare i costi sociali, utilizzando manodopera proveniente da progetti di impiego di categorie svantaggiate ed anche il progetto è a misura della capacità degli stessi di produrre elementi e sistemi con i materiali da riciclo, risorse di scarto reimpiegate e non per questo si scarica della sua ambizione di qualità estetica, di programma e di innovazione. Il valore dell’occasione e dell’esperienza: il laboratorio ReWind Il sito di Punta Pellaro di proprietà privata ha sempre conservato un’attività connessa alla risorsa mare e vento, di tipo sportivo e ricettivo, ma con una vocazione ad accogliere la comunità degli utenti e dei visitatori, in uno spazio che conserva i suoi connotati naturali, con attrezzature stagionali e smontabili. L’affaccio diretto al tratto di mare che interessa tali attività ed un profondo arenile restituiscono un paesaggio molto significativo, che riesce a trattenere senza interruzioni gli scenari di uso del kitesurfing e del windsurfing all’interno di un tratto una unità di territorio paesaggisticamente e geograficamente notevole. La comunità che abita da sempre questo luogo riesce a conservarne le sue specificità nel tempo grazie ad un rapporto diretto e non mediato con le sue risorse naturali, mare e vento appunto, ma anche attraversamento, distanze e abitabilità delle aree. La committenza ha da subito espresso la volontà di non mutare questo aspetto e valore così naturale del sito e di voler conservare, per come è in atto, un rapporto diretto con le risorse del luogo. L’attentato incendiario che ha colpito le strutture del circolo esistente e la necessità di intervenire in tempi brevi per fornire le attrezzature essenziali all’apertura della nuova stagione, hanno aggiunto l’interesse per un’esperienza connessa ai temi del riciclo, della temporaneità, della partecipazione attiva di tutti i volontari possibili, dell’economia dell’intervento e della disponibilità a sperimentazioni sui temi dell’attrezzabilità e del funzionamento delle nuove strutture e la sua pubblica fruizione. La presenza di alcune associazioni come Libera e Pensando Meridiano a supporto dell’iniziativa, del loro impegno sui temi della legalità e della coesione sociale e territoriale, hanno restituito un valore aggiunto in termini di riproducibilità di una proposta che sovverte anche le regole di reazione sociale e civile in terre difficili come quella calabrese . Il pronto attivismo e la collaborazione tra privati, università, enti, aziende può connotarsi come un modello culturale di reazione-rigenerazione, mettendo in campo una risposta adeguata e collettiva che restituisca il funzionamento di un servizio, ma anche il risanamento di un luogo come “bene comune”, esso sebbene di proprietà privata, partecipa ai valori paesaggistici e sociali

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di un’intera comunità di riferimento ed è meta per tutti quegli abitanti e visitatori che arrivano ormai a Punta Pellaro da molte parti d’Europa. La sensibilità paesaggistica ed ambientale del contesto di progetto: Punta Pellaro Il sito di interesse, divenuto di sperimentazione, si trova sulla costa jonica a circa 15 Km a sud della città di Reggio Calabria ed è stato sempre attrezzato per accogliere strutture temporanee ed amovibili a servizio delle attività di sur±ng e balneazione di utenti ed appassionati di KiteSurf e di WindSurf, essendo geogra±camente e climaticamente il tratto di mare tra i più ventosi d’Europa e dove le correnti divengono eccezionalmente utili a praticare tali attività. I fondali che si allargano da punta Pellaro a Capo d’Armi sono di interesse comunitario per la loro vegetazione, il tratto di fondale di Punta Pellaro fa parte del SIC IT 9350172, di particolare interesse per la presenza del Posidonieto. Inoltre l’area di interesse di circa 11.550 mq, più di un ettaro di terreno, oltre 10 specie vegetali tra arbustive ed alberature, tipiche della macchia mediterranea ma anche di questo tratto di inizio jonio agricolo che un tempo produceva parimenti alberi da frutta, ma anche ulivi e viti, e nel suo aprirsi sull’arenile conserva ancora la ±oritura delle piante del giglio di mare, specie già protetta in area mediterranea. Il suolo così nutrito è ricco di acqua non salina e per questo favorisce la crescita spontanea di arbustive e di canneti in grande produzione. L’area a nord è delimitata da un muro di cemento di separazione con la proprietà contigua, che spesso taglia i venti provenienti da mare, lungo tutta l’area; l’accesso avviene da una strada carrabile ad est, mentre l’affaccio a mare verso l’arenile è sul fronte ad ovest ed a sud il tratto di costa ospita edi±ci residenziali sulla stessa fascia di litorale con±nante.

Le attività del Laboratorio Recycle: progetto ed azione di ReWind Il laboratorio si svolto in quattro fasi, organizzato in differenti azioni: 1) Lancio dell’iniziativa e selezione del gruppo di progettisti (10 giugno 2013 c/o DArTe). a) Laboratorio di promozione delle attività interne alla ricerca Recycle Italy; b) presentazione area di interesse ed incontro con la committenza, prima definizione del programma e del cronoprogramma. 2) Attivazione laboratorio per attività di Workproject Rewind (10-27 giugno 2013). a) Specificazione del programma, dei partners, dei gruppi di lavoro e della preparazione al sopralluogo ed alle giornate di progetto. b) Visita al luogo ed attività di rilievo e conoscenza risorse naturali e materiali già disponibili, scarti ed elementi dell’attrezzatura già utilizzata; consultazione con esperto specie vegetali, in presenza della committenza. c) Attivazione del blog di comunicazione dell’evento, suo progetto e realizzazione. d) Partecipazione, consultazione e confronti di supporto al processo di progettazione: forum con gli utenti (realizzazione di un video) [Comunicazione blog a cura di F. Andrea: (www.windrecycle. wordpress.com.) video_partecipazione degli utenti a cura di D. Emo: (https://www.youtube.com/watch?v=b-jgDgzg1pQ)], revisioni collettive e seminari di approfondimento con responsabili, committenza ed esterni (21 giugno 2013 intervento dell’antropologo M.F.Minervino). d) Definizione dei progetti alla fase definitiva e di approfondimento esecutivo e predisposizione del programma di cantiere di autocostruzione: contatti con le aziende dei materiali da riciclo (partecipazione a seminario SED –

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incontro pubblico - sui temi dell’uso dei materiali da riciclo alla presenza delle ditte fornitrici), attività di reperimento degli stessi e dei materiali provenienti da stoccaggi di rifiuto e di scarto (fornitori). e) Controllo degli impatti di CO2 per trasporto su programma di filiera corta. 3) Happening sulla chiusura dei progetti all’interno dell’iniziativa DArTe Open Day (4 luglio 2013 c/o DArTe). a) Discussione alla presenza del prof.M.Ricci della rete Recycle Italy e dell’arch.P.Malara, Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Reggio Calabria. b) Allestimento mostra sui progetti e sui materiali da riciclo, a cura del gruppo di progettazione. 4) Attivazione cantiere di autocostruzione a Punta Pellaro, realizzazione delle 8 aree attrezzate sul sito di sperimentazione. (5 luglio – 20 luglio 2013) a) Partecipazione alle fasi realizzative delle strutture dei progettisticostruttori, degli utenti del circolo ed attività di cantiere di riciclo b) Attività di Cantiere Evento (Open) durante le giornate di lavoro e montaggio. c) Aggiornamento continuo del blog con la descrizione ed il racconto delle attività. I Il percorso di partecipazione: la rete degli operatori e la rete dei ²ussi di informazione-comunicazione. L’impatto sociale con cui si è confrontata l’esperienza del Laboratorio ReWind ha interessato differenti categorie di attori e fasi del processo. Si è messo in atto un processo inclusivo in tutte le sue fasi di laboratorio, in cui anche le azioni convenzionali tipiche dei processi partecipativi hanno trovato nuove formulazioni in una condizione di progetto-azione. L’esperienza, che come precedentemente descritto si è svolta in quattro fasi e dodici azioni, ha coinvolto sette categorie di attori nel processo completo: la committenza, i consultants responsabili, i consultants esterni, i progettisti-costruttori, i partners, la popolazione degli utenti, il settore della produzione. [Attori del processo Rewind. Committenza: Arch. Antonio Catanoso _ circolo Katanhouse (Punta Pellaro) Attori del processo Rewind ResponsabiliB Consultants interni: Prof.V.Gioffré (respons.scienti±co PRIN Recycle Italy RC ; prof. ssa C.Nava, (resp.Laboratorio Recycle RC e Rewind

Consultants esterni: Dott.Giuseppe Logiudice (esperto agroforestale ; Arch.Paolo Malara (Presidente Ordine degli Architetti PPC di RC ; Prof.Arch.Mosé Ricci (Resp.Sede Genova PRIN ReCycle Italy ; Dott. Mauro Franceco Minervino (antropologo, esterno ricerca PRIN Recycle Italy RC

Progettisti-Costruttori- tutors: arch.tti Elisabetta Nucera, Antonia Di Lauro, Daniela Cricrì , Raffaele Astorino, giovani architetti e costruttori: Simone Busco; Carmela D’Agostino; Girolamo Fazzari, Danilo Emo, Vincenzo Figliucci, Andrea Franco, Tindaro Latino, Valentina Palco, Fortunato Tripodi, Francesco Zangara collab: Giuseppe Mangano; Francesco Nasso (writer + hanno partecipato al cantiere: Sign. Domenico Spinelli (operaio specializzato , Antonino Gioffré e Fabio Zema (Scuola KiteSurf

Partners: Centro Interuniversitario ABITALab; ass.ne LIBERA, Provincia di Reggio Calabria, Ass.

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ne Pensando Meridiano; scuola di KiteSurf e windsurf Circolo Katanhouse Utenti-Pubblico: utenti del circolo Katanhouse, visitatori dell’area Punta Pellaro, studenti, docenti, internauti Produzione/Fornitori- Aziende: Edilana (Sardegna , Ecoplan (Calabria , Carere (Calabria ; Mauro Caffè (sacchi di juta , Pedane Pallets e Cassette di Plastica (esercizi commerciali ; Bottiglie di plastica (utenti ; Gomme-penumatici (discariche @

Dalla matrice di incidenza formulata in sintesi per rilevare la frequenza degli attori nelle fasi del processo, si evince che la tipologia di progettazione condiziona fortemente il flusso di informazioni progettista-fornitore – committenza, proprio nella fase in cui l’esecutività del design necessità di riferimenti su materiali e disponibilità. Inoltre l’introduzione di figure di consultants esterni e di momenti di verifica di tipo interdisciplinare è servita da validazione e confronto sulle questioni emergenti nella fase di ideazione. Il percorso di partecipazione quindi non realizza una struttura ad albero di tipo gerarchico nel rapporto tra operatori ed informazione, quanto piuttosto una rete di flussi, che si scambia esperienze e risultati parziali a cui ancora contribuire in termini di scambio e di avanzamento del progetto e della realizzazione. L’impatto sociale del laboratorio ReWind in termini di coinvolgimento ed inclusione risulta esemplare, capace di sopperire alle carenze ed ai margini di errore di una tipologia di progetto del tutto innovativa, per la pratica del riciclo attuata e per l’alto significato di valore sociale e collettivo che assume nell’esperienza specifica di Punta Pellaro. L’impatto sociale del laboratorio ReWind in termini di coinvolgimento ed inclusione risulta esemplare, capace di sopperire alle carenze ed ai margini di errore di una tipologia di progetto del tutto innovativa, per la pratica del riciclo attuata e per l’alto significato di valore sociale e collettivo che assume nell’esperienza specifica di Punta Pellaro. C.Nava, Matrice di incidenza progetto-azione degli attori del Lab.ReWind, 2014

PROCESSO ATTORI Committenza Consultants responsabili Consultants esterni Progettisti/ Costruttori Partners Utenti Pubblico Produzione (aziende/fornit)

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II. I progetti sostenibili e di riciclo: cicli di risorse (±liera corta e cicli d’uso (programma

L’attività progettuale attivata già in fase di visita al luogo ha significato una forte coscienza delle qualità e della sensibilità del contesto, in presenza dei suoi valori ambientali e paesaggistici e certamente già di vocazione di uso. Così come precedentemente descritto, il luogo ha una sua naturale propensione a farsi abitare dalla comunità dei surfisti e dei visitatori e sono gli stessi che con le loro attività ne vivono e modificano gli spazi. Il concept generale del masterplan di progetto ha quindi tenuto conto di un programma direttamente connesso alle attività già espresse e quelle adeguatamente sopportabili ancora, senza stravolgere le qualità spaziali e di risorse del sito, assecondando, seppure in una proposta di nuove strutture, un programma funzionale di aree ed attrezzature compatibili con il luogo e la comunità. Il tema del riciclo, del design accessibile e controllato per la traduzione in fase costruttiva, dei materiali da impiegarsi sulla filiera corta, della temporaneità e del diretto rapporto configurazioniutilità, sono stati i requisiti di progetto che hanno interessato tutte le nove proposte; poi, nella definizione di ogni area attrezzata, un valore importante è stato consegnato al rapporto con l’esposizione al sole ed ai venti, con la vegetazione presente, con lo spazio attrezzabile e con i modelli di uso previsti nella giornata. Il gruppo di progettazione ha quindi espresso tali qualità in 8 progetti per 8 aree interne al sito. Il livello di informazione tecnica espressa negli elaborati grafici, con forte declinazione al racconto dei progetti, ha proiettato gli scenari d’uso sostenibili attraverso la definizione tecnica e spaziale delle strutture e dei componenti (total recycle design), la definizione qualitativa e quantitativa della filiera dei materiali, i requisiti ambientali e le prestazioni dei sistemi, le istruzioni tecniche per il montaggio ed assemblaggio delle strutture, le visioni dei luoghi. Naturalmente tutta l’area, per tutte le 8 proposte progettate e realizzate è stata interessata da un progetto di rete acqua, luce e pozzi wc connessi alle strutture servite. Di seguito una breve descrizione dei caratteri dei progetti. 1) Agro±led of wind (progetto di G. Fazzari, V. Figliucci, C. D’Agostino), organizza a nord lo spazio dell’orto, un transetto agricolo trasversale al muro di cemento, anch’esso progettato per accogliere spalliere verdi. Una stazione di compostaggio, un bike shed, l’organizzazione di spazi separati di ombra con la sistemazione del canneto. L’orto (per spezie ed aromi) viene realizzato con pedane in pallet e fioriere in sacchi di juta e bottiglie di plastica, porta piante in stuoia di lana di pecora della ditta Edilana. Sono previste sedute e spazi di sosta in ombra e comunque protette dal vento. 2) Events Space (progetto di V. Palco, F. Zangara), organizza a nord lo spazio eventi, utilizzando una sezione del muro di cemento e rivestendolo con stuoia di juta e canne, come supporto della scena e riferimento dell’area palco realizzata su pallets e rivestimento Ecoplan : pannelli

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colorati riciclati al 100% in sanza delle olive e pvc. L’area pubblico è organizzata con sedili in balle di paglia e pallets, sacchi di yuta riempiti di scarti di cellophane, plastiche. Il palco è concepito per mantenere la permeabilità del suolo e la permabilità alla pioggia ed al dilavamento da manutenzione. L’area è fornita da rete elettrica e punti luce, si possono svolgere spettacoli ed eventi diurni e notturni. 3) Drink Zone (progetto di S.Busco), completa lo spazio piccola ristorazione a supporto del bar-caffetteria realizzato in legno, disponendo le aree sosta ancora sotto il muro a nord, che in questa sezione è invece dipinto su supporto continuo di pittura bianca con figurazioni a tema realizzate da un giovane progettista-writer. Le zone di ombra sono organizzate ed attrezzate su pedane di legno e pallets su letto di ghiaia, con tavolini realizzati con cassette di plastica impilate e piani orizzontali con tavolame in legno di carpenteria. Le aree ristoro sono separate da pareti basse realizzate con bottiglie di plastica porta verde e riempite d’acqua. 4) Surfers Zone (progetto di A. Franco, V. Figliucci), si organizza lo spazio a supporto delle attività sportive del circolo, con sistemi di pedane in pallets che strutturano piani orizzontali e pareti verticali, suddividendo lo spazio in area lavaggio kite, lavaggio mute, lavaggio windsurf. E’ possibile disporre le tavole e le vele, anche in appoggio alle pareti verticali, ulteriormente elevate per la presenza di canneti impilati nella sezione strutturale dei pallets. Tutte le aree sono percorribili ed accessibili da una pedana messa a dimora sulla nuova sistemazione del suolo, realizzata attraverso la movimentazione e l’orografia piu utile alla continuità complanare ede accessibile dei percorsi. Gli stessi terminano trasversalmente con strutture di sedili e sdraio completate con cuscini, sacchi di juta riempiti di plastica da rifiuto. A servizio vi è l’area docce con tavole di windsurf riciclate, accessibili anche per disabili e lo spazio raccolta-rifiuti differenziati con realizzazione di contenitori in plastica e pallets di legno. L’area è servita da punti luce e naturalmente dalla rete dell’acqua e sistemi di scarico naturali per la permeabilità dei suoli, con pendenze controllate che ne favoriscono l’allontanamento veloce dalle aree lavaggio e di sosta. L’area ospita inoltre un sistema a verde realizzato con pneumatici bonificati e dipinti, sacchi di juta e terra vegetale. 5) Spiaggia interna (progetto di F. Tripodi), si organizza lo spazio ricettivo già esistente con affaccio al mare, in contiguità con il limite dell’area ricettiva verso la spiaggia ad ovest. Si effettua un intervento sulla recinzione esistente in metallo ritagliando finestre-cannocchiale posizionate per favorire gli sguardi alle diverse altezze sull’orizzonte a mare. Tutta l’area è definita nel perimetro verso l’interno da un sistema a verde con divisorio in legno a spalliera e funi di corda di canapa del tipo navale. Viene predisposta una panca lungo tutto il divisorio metallico di affaccio a mare con il recupero delle tavole da carpenteria; sdraio e sedili in pallets e cuscini sacchi di juta. Gli ombrelloni parasole realizzati con i pali di castagno e fogliame di palma. Il suolo della spiaggia interna

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ha isole in ghiaia nel battuto continuo di sabbia del litorale. 6) Surfers Shop & Chines Box WC (progetto di L. Tindaro), vengono ritirati dall’area industriale di Gioia Tauro n.4 containers – merci in metallo, di cui n.2 accidentati, per attivare azioni di riciclo delle strutture e componenti dei box ed alloggiarvi spazi di servizio per il deposito kite-surf, shop, wc. Le pareti d’involucro vengono modificate con operazioni di ritaglio e predisposizione di sistemi integrati per il controllo termoigrometrico degli ambienti interni (una pelle ventilata realizzata con il riciclo delle bottiglie di plastica) e la protezione dal sole; l’accessibilità interna è garantita dal sistema interno-esterno di pedane che svolgono la funzione di solaio sopraelevato sul suolo; l’attrezzabilità dei wc è garantita anche per i disabili ed i rivestimenti sono realizzati con gli elementi di mattonelle in ceramiche recuperate dalle forniture di campioni dismessi dell’azienda Carere (Reggio Calabria). Le pareti vengono trattate e dipinte con lettering per l’individuazione delle funzioni che ospitano ed anche rivestite con stuoie di canne. Si predispongono inoltre i box per accogliere sulla copertura, l’integrazione di moduli fotovoltaici e solari, ove possibile anche questi da riciclare da elementi dismessi ed ancora funzionanti, assemblabili. 7) Sail sleep (in (progetto di D. Emo), vengono progettati moduli in pallets, trasferibili anche in spiaggia quali spazi-riposo. Il piano di riposo è rivestito con i moduli in Ecoplan e può essere protetto con il riciclo delle vele da surf. Sono possibili tre assetti, con la predisposizione di una funzione sdraio riparata dal sole (mezzomodulo); con funzione riposo per 1 persona (modulo singolo), con funzione riposo per 2 persone (modulo binato). Tali strutture rispondono alla richiesta di brevi soggiorni temporanei di visitatori in sostituzione di attrezzature da campeggio convenzionali. 8) Lounge Zone e Modulo abitativo (progetto di G. Ristagno), nell’area antistante il modulo bar viene allestita una lounge zone con moduli di sedute protette dal sole e dal vento, realizzate con elementi di pallets in legno, utilizzati per piani sedute e spalliere, per sistema mobili di tettoia e protezione. Vengono progettati moduli per sedute singole e doppie, moduli sdraio, con la possibilità di utilizzare anche i cuscini in sacchi di juta riempiti. Sono predisposti per accogliere il sistema di luci, elementi di protezione come tappeti di canne e vele dismesse e stuoie di juta e l’appoggio di oggetti (bibite, riviste, etc). I moduli sono trasportabili e sollevati dal suolo attraverso la struttura stessa di appoggio dei pallets; in assetto abitativo, la struttura si chiude e si completa come se fosse un box e si adatta alle esigenze del riposo in soggiorno temporaneo, a completamento delle strutture pensate con il progetto “sail sleep (in)”. III Il cantiere di autocostruzione: il controllo dell’impatto economico, ecologico e sociale. Nella fase del workproject tutte le proposte hanno considerato fortemente la fattibilità delle realizzazioni per la fase successiva del cantiere di

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autocostruzione. Il progetto si è caricato dei temi dell’innovazione e della sostenibilità soprattutto nelle scelte di tipo insediativo delle aree del lido, dei livelli di funzionamento ed abitabilità, dell’apertura delle strutture sui temi dell’attrezzabilità e della temporaneità, dell’adattiva alle condizioni climatiche sensibili. Le scelte tecniche dei sistemi e delle componenti progettate hanno puntato ad un design essenziale ma anche facilitato per sistemi e spazi a basso contenuto energetico e ambientale, a basso livello di manutenzione e con un’alta capacità di adattamento ai luoghi e di ibridazione tra materiali differenti. La distanza tra qualità del progetto e qualità processuale delle fasi realizzative è stata tutta assorbita dal tema della disponibilità delle forniture sui materiali da riciclo. Il cantiere di autocostruzione infatti si è giovato di una grande quantità dei materiali provenienti da materiale-scarto e rifiuto, non solo quindi da materia di riciclo. Ciò ha significato prolungare le fasi di design esecutivo nel laboratorio di cantiere, adattando le soluzioni progettuali alla risorsa reperita. Si tratta di un nodo problematico da evidenziare nella differenza tra uso di pratiche di riciclo da materiali di altre filiere oppure uso di pratiche di riciclo da post-produzione e scarto. Quest’ultima ipotesi consente di incidere sull’economia dei costi di cantiere, ma è evidente che prolunga la fase progettuale e la presenza degli operatori addetti anche in fase costruttiva, in questo caso trattandosi di un’esperienza in cui i progettisti erano anche costruttori, il processo è stato continuo e diretto. Il carattere innovativo dei progetti ha quindi assunto carattere di creatività in fase di cantiere, facendo evolvere le idee frutto della fantasia e dell’invenzione della fase progettuale. Questo momento, affrontato in presenza delle forniture disponibili, ha inoltre creato occasioni di relazione e scambio tra gli attori presenti nel laboratorio-cantiere. L’esperienza di sperimentazione è uscita così da una direzione del tutto individuale (autoriale) e si è trasformata in un’impresa collettiva, aiutando lo sviluppo del momento creativo e coinvolgendo più attori nella fase di montaggio delle strutture. Una reazione partecipativa indotta da questioni di “economia di piccola scala” e per un “progetto aperto” alle modificazioni di se stesso, per questo più utile. “Le tecniche della sperimentazione e della ricerca non finalizzate, aiutano lo sviluppo della creatività. Queste due attività vanno svolte in modo sistematico altrimenti si avranno solo dati parziali e non si sarà sicuri di aver sperimentato ogni possibilità utile” [Munari B. (2005), Fantasia, Laterza, Bari, pag 121]. Per la realizzazione dei progetti sono previste circa 15 categorie di materiali, la maggiorparte sono provenienti da sfridi, rifiuti o lavorazioni di materia da riciclo, di cui si è realizzata la mappatura per mantenere la filiera corta e controllare gli impatti da Co2 ed anche quelli socio-economici. Le categorie utilizzate appartengono al riciclo delle cassette di plastica

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da frutta o bevande (o km), le bottiglie di plastica (0 km), le tavole da surf e le vele da surf (0 km), i pallets in legno recuperati da stoccaggio di panificio (2 km); balle di paglia (5 km); sacchi di juta, contenitori del caffè (azienda Mauro 7-25 km); pneumatici – rifiuto (13 km); pali e travi in legno da manutenzione bosco (38 km); 4 containers accidentati da zona portuale ( 66 Km, G.Tauro); materiale ecoplain, rivestimenti riciclato in pvc e sansa delle olive (85 km, Polistena- RC), materiale Edilana, stuoie in lana di pecora (790 km, Sardegna). Il controllo della distanza di provenienza della fornitura ha concesso il controllo dell’impatto di C02 per i trasporti. Come si evince dalla matrice progetto/modello, sono molto bassi tutti i valori riferiti ai processi produttivi di CO2 dei singoli progetti, dei costi del materiale di forniture acquistate (parte delle forniture totali) e delle azioni che hanno coinvolto gli operatori del cantiere di autocostruzione. Naturalmente tali economie sono possibili proprio per la tipologia di cantiere di “autocostruzione” e “di riciclo”, assai più conveniente di un cantiere verde, così come in uso nei processi di sostenibilità. Naturalmente mantenendo identici i progetti, se l’approvvigionamento del cantiere fosse stato con riferimento a materiali non di scarto e di rifiuto, i costi economici ed anche di impatto da trasporto sarebbero stati assai differenti e più incisivi; la manodopera forse meno bisognosa di capacità artigianali e di re-design esecutivo insieme. Oltre il cantiere: dall’esperienza ReWind ad azioni di Re_learning ecoCity C’è un significato migliorativo ed esterno all’esperienza che qualifica il laboratorio ReWind oltre i tempi del cantiere e della sua realizzazione, che potremmo dire riscatta l’area di intervento con un triplice effetto, in grado di risignificare tre paradigma. Il primo effetto è riferibile, alle pratiche di “laboratorio-cantiere continuo” assunto dalla committenza e dagli utenti del circolo, che anche dopo il laboratorio, hanno intrapreso ancora azioni utili, realizzando altre strutture con la stessa pratica del riciclo. Ci si riferisce per esempio al completamento dei servizi wc con altri containers e della fornitura di acqua calda con collettori solari autocostruiti. Tale effetto è anche riferibile ad ulteriori approfondimenti di ricerca per la sperimentazione progettuale attuata sull’evoluzione dei moduli in pallets e prototipi, svolta a carattere universitario con la tesi di laurea di G.Ristagno. Quindi con l’aggiornamento della parte documentale dell’esperienza e della comunicazione sul blog ReWind. Il secondo effetto è riferibile alla “qualità dell’abitare e della ricettività”, con cui si sono svolte le attività estive del circolo, in termini di soddisfazione dell’utenza, per la comodità degli spazi progettati, la loro adattività rispetto al livello d’uso, la loro carica di significato condiviso ed identitario per l’esperienza svolta. Il terzo effetto è riferibile alla capacità di rendere esportabile una tale esperienza nei suoi caratteri collettivi di “apprendimento” cosi come

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intesa da K. Lynch, quando descrive la la necessità di ritrovare esperienze di “learning ecology” in Good City Form. Egli afferma esplicitamente che l’approccio più adatto è quello di una “learning ecology”, di un’ecologia che tenga ben presente il ruolo di attori “in grado di modificare coscientemente se stessi e dunque di cambiare le regole del gioco…Alle note caratteristiche degli ecosistemi, con la diversità, l’interdipendenza, il contesto, la storia, la retroazione, la stabilità e la processualità ciclica, dobbiamo aggiungere caratteristiche come i valori, la cultura, la consapevolezza, il cambiamento in progresso (o regresso), l’invenzione, la capacità di apprendere ed il collegamento tra esperienza interiore ed azione esteriore”. Ed è anche per questo che tra i peggiori tipi di spreco Lynch annovera quello di vite e di intelligenze [Lynch K. (1990), Deperire. Ri±uti e Spreco, Cuen]. Con l’esperienza di Re_Learning EcoCity, si proiettano scenari e visioni capaci di riciclare gli scarti, per rigenerare e riciclare flussi di energia e materia in contesti sensibili, sia urbani che extraurbani. Un nuovo modo di riutilizzare i materiali in un nuovo ciclo di vita e di energia. Vere e proprie azioni di agopuntura che si possono realizzare, mettendo in atto processi di inclusione diretta o indiretta, in una nuova dimensione del glocale, capace di esportare le esperienze in altri luoghi e con altre comunità. Ciò appare ancora più opportuno in un momento in cui il tessuto economico dei territori è molto debole e le città, le aree junkspace e wastspace (del rifiuto e di rifiuti), sono spesso spazi senza luoghi. Spazi in cui però nei prossimi 20 anni andrà ad abitare l’80% della popolazione mondiale, dovendo incidere con un consumo di suolo prossimo allo zero. Laboratori di vita e conoscenza in cui le pratiche di riciclo urbano, condotte attraverso la qualità sociale ed ambientale dei processi, potranno trovare la giusta alleanza tra ecologia ed economia, tra etica ed estetica. “La città è quel commutatore che integra conoscenza e tecnica globali e contesti d’azione locali, quel dispositivo che connette interazione diretta e a distanza” [Perulli P. (2009), Visioni di città, PBE, Torino pag 149]

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01, 02, 03, 04 - Alcuni momenti della partecipazione giovanile 05, 06, 07, 08, 09, 10 - Alcuni dei materiali prodotti dai giovani durante le sessioni di partecipazione 11, 12 - Alcune delle tavole del progetto


UNA ESPERIENZA DI PARTECIPAZIONE GIOVANILE A REGGIO CALABRIA IL PAESAGGIO COME COSTRUTTO STRATEGICO PER TRASFORMARE LA PERIFERIA DESTRUTTURATA IN LUOGO DI COMPETIZIONE ECONOMICA E AMBIENTALE Giuliana Quattrone >CNR - IIA

Caratteri della periferia destrutturata e nuove centralità dei quartieri Nelle periferie urbane e nelle aree periferizzate ovvero destrutturate delle città è possibile riscontrare diversi “vuoti urbani” ma anche diverse “aree dismesse” sia agricole, che industriali, che residenziali. È facile individuare tre situazioni precise e ricorrenti: un dismesso agricolo, costituito dalla campagna ai bordi delle città, abitata da frange di popolazione urbana, diventata terreno “dismesso” senza alcuna destinazione. Si tratta di terreni non più agricoli, perché in attesa di venire occupati dai processi di urbanizzazione, questi ultimi, però, negli ultimi tempi, vedono un grande rallentamento per cui queste aree intermedie non hanno più probabilità di diventare edificabili e giacciono nel limbo del “dismesso”. Vi è poi un dismesso industriale che ha lasciato sul territorio una serie di “scheletri”, soprattutto nelle aree residenziali periferizzate o nei territori decentrati e frammentati della desertificazione agricola. In ultimo è riscontrabile un dismesso abitativo costituito da alloggi non più idonei e vecchie strutture pubbliche abbandonate localizzati in quartieri di basso edificato con costruzioni obsolete in cui, per ragioni economiche, non è ipotizzabile una loro ristrutturazione e/o un loro recupero. Tutti questi tipi di dismessi e molti vuoti urbani sono presenti nella periferia di Reggio Calabria e sono gli elementi fondamentali del dissesto

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e della destrutturazione territoriale della città, quando, invece, potrebbero essere luoghi strategici e diventare centri di riferimento molto importanti se restituiti a funzioni sociali moderne, nonchè luoghi di competizione economica e ambientale. La riappropriazione (anche tangibile) di questi ambiti passa dalla partecipazione degli abitanti, e in particolare dei giovani, poco a poco condotti ad approfondire la conoscenza del proprio territorio e a sviluppare processi creativi di trasformazione territoriale. Il passaggio alla città post-moderna, tutt’ora in corso, ha avviato una profonda trasformazione delle tradizionali specializzazioni funzionali del territorio urbano con effetti diretti sull’identità della città, dei suoi luoghi e dei suoi quartieri [Scateni S. (2006), Periferie. Viaggio ai margini delle città, Laterza, Bari]. Così il termine “periferia” rischia di risultare obsoleto mentre si sviluppa la città policentrica. Ciò è in particolare molto evidente nella città di Reggio Calabria, dove il passaggio in atto da una struttura monocentrica delle funzioni direzionali ad una policentrica, verso la definizione della costituenda città metropolitana, a cui hanno contribuito anche la delocalizzazione di importanti servizi commerciali, finanziari, comunicativi fuori dal convenzionale centro cittadino, ha modificato (e sempre più lo sarà in futuro), anche le tradizionali gerarchie territoriali in modo tale che alcune aree periferiche sono salite di rango mentre alcune parti interne alla città hanno perso la loro centralità sotto il profilo economico e lavorativo. E’ il caso della periferia nord oggetto di sperimentazione per un ridisegno della funzioni urbane più rispondenti alle aspettative e ai desiderata dei giovani. Nell’ipotesi che la condizione della città contemporanea impone di prendere in considerazione il delicato equilibrio tra continuità (storicoculturale) e trasformazione, e nell’ottica che la città debba essere ripensata non solo come spazio fisico ma anche sociale, i giovani sono stati coinvolti per esprimere come percepiscono la città, il significato che attribuiscono agli spazi di relazione, come vogliono che questa cambi, per rispondere alle loro esigenze e necessità, e cosa propongono per innovare e ridefinire la città in cui vivono. L’attivazione del loro “sentire”, attraverso modalità strutturali di coinvolgimento e partecipazione nella costruzione delle politiche urbane, può contribuire allo sviluppo della qualità della vita per tutti ricomponendo un assetto ambientalmente e socialmente qualificato. Così è stato chiesto ai giovani di pensare a: “la città che vorresti”, ovvero la città in cui vorrebbero riconoscersi, proponendo un manifesto di azioni che hanno presentato e discusso con tecnici professionisti e rappresentanti delle istituzioni e delle politiche giovanili.

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I giovani e la città: la sperimentazione progettuale partecipata La sperimentazione si è concretizzata nell’attivazione di un processo di partecipazione giovanile orientata alla rigenerazione di una parte della città (periferia nord) ed è stata sviluppata nell’ambito del progetto “Giovani e istituzioni: i sentieri di una possibile collaborazione” [il progetto, finanziato dall’Unione Europea, che è partito a febbraio 2012 e si è protratto per otto mesi è stato strutturato in alcuni momenti fondamentali: innanzitutto è stato svolto un lavoro preliminare di formazione, informazione e raccolta di opinioni con i ragazzi delle scuole e i giovani universitari coinvolti nel progetto, poi si è passati all’organizzazione di un convegno/workshop, declinato in quattro giornate, che si è tenuto dal 28 al 31 marzo 2012, successivamente si è sviluppata una fase di comunicazione on line e degli incontri laboratoriali di progettazione partecipata che si sono svolti per diversi mesi, infine l’ultima fase ha riguardato la sistematizzazione dei risultati e la valutazione del progetto]. Partendo dalla constatazione di un ambiente politico-istituzionale caratterizzato dall’assenza di canali di riferimento per le giovani generazioni, da degrado sociale, dall’indifferenza e dalla distanza delle Istituzioni verso i reali bisogni dei giovani, il progetto ha cercato di favorire processi di autonomizzazione dei giovani, cercando di garantire e tutelare quegli spazi essenziali, fisici e culturali, aperti ai giovani, affinché questi siano partecipanti attivi della realtà sociale, contribuendo personalmente alla costruzione della “cosa pubblica”. Infine, il progetto ha cercato di sviluppare il “senso di appartenenza” e la nascita di una nuova “coscienza cittadina”, fondati sulla capacità e sul desiderio di partecipazione attiva e condivisione di interessi comuni quali la riqualificazione urbana, la mobilità, e il recupero del decoro urbano del territorio di riferimento, il tutto attraverso lo sviluppo di pratiche sostenibili e processi partecipativi [Quattrone G. (a cura di) (2012), Giovani, città e istituzioni. Percorsi di partecipazione e creatività giovanile nella piani±cazione urbana, Città del sole edizioni, Reggio Calabria]. Il progetto ha previsto la collaborazione di giovani ragazzi residenti nel territorio calabrese delle ultime classi delle scuole superiori e dei primi anni dell’università [complessivamente un campione di 500 giovani con un’età compresa tra i 18 e i 22 anni]. Attraverso di esso i giovani sono stati sensibilizzati a rimuovere quegli ostacoli che non permettono alle giovani generazioni di essere protagoniste della costruzione del proprio futuro, appropriandosi di quegli spazi di potere che spesso non vengono loro riconosciuti; diventando così loro stessi soggetti promotori di iniziative. In particolare il progetto ha inteso indagare il rapporto tra i giovani e la

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città, intesa come senso di appartenenza, valutazione sui servizi per i giovani, modalità di partecipazione giovanile alla vita cittadina, alla politica locale. Per rispondere a obiettivi così vasti si è resa necessaria l’adozione di approcci metodologici di tipo partecipativo: open space tecnology, metaplan, appreciative inquiry. Il progetto è stato organizzato in 5 fasi: I Fase – Comprensione - conoscenza del contesto: - Sondaggio : i ragazzi hanno compilato dei questionari per poter valutare la loro conoscenza ex-ante riguardo ai temi trattati; sono stati inoltre, forniti dei materiali cartografici e si è richiesto loro di partecipare attivamente con la preparazione di filmini, interviste agli altri studenti della scuola, fotografie, e quant’altro ritenuto opportuno per documentare come i ragazzi vedono la città, le istituzioni e la loro partecipazione alla vita cittadina; - Studio : i responsabili del progetto hanno fatto una sintesi sugli studi di settore, le politiche attuate e da attuare dalle istituzioni locali; - Comprensione del contesto: è stata fatta una sintesi dei lavori dei ragazzi e della fase studio, per presentare il contesto, che è stata divulgata tramite un video. II Fase – Interazione - apprendimento non formale: - Ascolto degli esperti: durante le quattro giornate di convegno esperti del settore giovanile (dirigenti, politici, studiosi) e rappresentanti delle istituzioni locali hanno presentato l’importanza della partecipazione attiva dei giovani e in che modo questi possono collaborare alla vita sociale; - Confronto con gli esperti: è stato previsto, in ogni giornata di convegno, un confronto attivo, in cui i ragazzi hanno potuto fare delle domande mirate agli esperti, e ai rappresentanti politici delle istituzioni per meglio comprendere l’importanza del loro ruolo; - Simulazione: per meglio far comprendere i meccanismi di decisione pubblica, si è cercato di far partecipare i ragazzi ad un tavolo di discussione con i rappresentanti politici istituzionali su alcune tematiche individuate dai giovani, simulando l’attività di un consiglio locale. III Fase – Proposte - workshop: - Ideazione: durante le sessioni di workshop in aula si è cercato di ideare un modello di politiche giovanili da proporre alle istituzioni, per favorire il dialogo fra i ragazzi e gli enti locali; - Risoluzione: dopo aver individuato i problemi, nella fase preliminare del

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lavoro, si sono cercate delle metodologie risolutive insieme ai ragazzi; - Proposta: si è arrivati alla proposizione di un Manifesto di azioni dei giovani sulla città e su come loro ritengano di dover essere ascoltati dalle istituzioni per poter partecipare e collaborare alle scelte che li riguardano, lo stesso è stato oggetto di discussione con i rappresentanti politici delle istituzioni durante l’ultimo giorno del Convegno. IV Fase – Progettazione - laboratorio: - Partecipazione: durante i lavori del laboratorio sono state organizzate diverse sessioni d’incontro utilizzando alcuni metodi di partecipazione quali l’open space tecnology e il metaplan; - Strategie: i risultati delle sessioni di partecipazione sono stati finalizzati a identificare strategie di intervento e priorità d’applicazione e schemi d’azione con l’ausilio di professionisti tecnici; - Valutazione: le soluzioni evidenziate sono state valutate in base alla sostenibilità realizzativa, alla fattibilità tecnica, all’economicità finanziaria e alle possibilità di successo. V Fase- Monitoraggio - prodotti finali: - Sintesi: finito il workshop è stato proposto un questionario ex-post ai ragazzi per monitorare in che modo quest’esperienza è stata utile alla loro formazione; - Risultati: i prodotti finali e i percorsi seguiti, che sono stati oggetto di discussione anche nei lavori del laboratorio, sono confluiti in un libro e in un dvd; - Feedback: l’attivazione di un portale interattivo con un forum digitale ha consolidato il processo partecipativo che ha assunto la stessa rilevanza del risultato. Il riciclo della periferia come fonte di opportunità per i giovani Durante gli incontri e le sessioni del lavoro di partecipazione i giovani si sono potuti confrontare tra loro e con professionisti che hanno cercato di concretizzare in progetti reali le loro indicazioni. I metodi utilizzati hanno fatto riferimento a metodologie di apprendimento non formale e metodi di partecipazione applicati alla pianificazione del territorio. Il laboratorio è stato configurato come uno spazio d’incontro e di narrazione di storie, di visione della città come luogo dei valori. Sono stati condivisi, durante gli incontri, saperi, sguardi e sogni con un approccio rivolto al dialogo piuttosto che alla discussione, e si è cercato di tradurre la diversità di opinioni in creatività. I metodi di progettazione partecipata sono stati utilizzati in una prospettiva interattiva e di confronto incrociato dei risultati. I giovani hanno provato a

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dare delle indicazioni su come possono venire risolte alcune problematiche della città e su come vorrebbero che venissero modificate alcune aree della città per renderle più consone alle loro esigenze anche in modo creativo. Così, nello specifico, seguendo la metodologia, i giovani divisi in gruppi, confrontandosi, hanno seguito le seguenti fasi: - Conoscere il quadro della realtà locale; in questa fase i gruppi hanno analizzato i problemi e le criticità, ma anche i punti di forza del loro ambiente relativamente alle tematiche loro assegnate. - Sognare il futuro ovvero cosa potrebbe esserci; in questa fase i gruppi hanno sviluppato delle visioni che si basano sugli aspetti positivi scoperti nella prima fase. - Creare ovvero cosa ci dovrebbe essere; in questa fase le visioni dei giovani assumono delle forme concrete, vengono definiti obiettivi che saranno obiettivi positivi, concreti, raggiungibili. - Realizzare ovvero come attuarlo; in questa fase i gruppi hanno cercato di confrontarsi con le istituzioni per poter attuare i loro progetti, proponendo e chiedendo cioè: chi fa, con chi, che cosa, quando, entro quale termine. - Riciclare il territorio; in questa fase i gruppi hanno cercato soluzioni sostenibili per realizzare i loro obiettivi senza ulteriore spreco di risorse e attribuendo nuovi usi a infrastrutture manufatti e territori dismessi. Nel tessuto urbano reggino i quartieri periferici sono territori contrassegnati da molteplici fattori di debolezza e svantaggio, risultando più “fragili” di altri. In alcuni quartieri periferici la concentrazione di problematiche sociali e territoriali e l’isolamento socio spaziale aumenta la probabilità che negli ambiti locali di interazione vengano perpetuati i circuiti dell’esclusione sociale. Queste disuguaglianze territoriali risultano piuttosto eloquenti guardando la mappa della città che è stata realizzata dai ragazzi, durante le sessioni di analisi (problemi e criticità) del laboratorio. I giovani hanno evidenziato la necessità di trasformare le “fratture” in “soglie” con interventi di riqualificazione urbanistica che facciano da ricucitura della maglia urbana. Hanno scelto come campo di indagine e di approfondimento progettuale la periferia nord del Comune di Reggio Calabria e in modo particolare la trasformazione di un’area del tutto periferica e marginale quale quella di Arghillà, attribuendogli il ruolo di centralità con una connotazione di “area destinata ai giovani”. Le idee dei giovani emerse durante le riunioni del laboratorio per questa area, e in generale per tutta la periferia nord, sono state successivamente tradotte sotto forma di elaborati progettuali e tavole tecniche. Una vasta

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zona, dunque, quella della periferia nord reggina, Archi,Gallico, Catona, Arghillà, per i giovani, concepita come un’area in cui un mix di funzioni garantiscano la massima fruibilità degli spazi da parte della cittadinanza e del mondo dei giovani in particolare: una porta d’accesso ai settori produttivi del tempo libero, della formazione dell’innovazione e della ricerca scientifica applicata, destinati a produrre sviluppo sostenibile e incremento occupazionale. Per questa area i giovani hanno inteso costruire un ampio progetto di riqualificazione, ammodernamento e infrastrutturazione di scala urbana volto a raggiungere più elevati livelli di competitività in termini di vivibilità, qualità ambientale e valorizzazione delle risorse naturali e antropiche con sette progetti strategici di riconfigurazione strutturale. Nel progetto dei giovani è stata data particolare attenzione alle aree aperte (aree dismesse, potenzialmente dismettibili, seminabili di confine, orti urbani interclusi, agrumeti interclusi, verde urbano, verde attrezzato, verde sportivo) che diventano una sorta di filtro tra il territorio aperto e il costruito. Si arriva così ad una vera e propria strategia per il rilancio del territorio, con la quale si risponde alle esigenze di giovani e non, e si creino delle opportunità di crescita attorno ad una nuova polarità individuata nell’area nord di Reggio Calabria.

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LA TECNOLOGIA ACCESSIBILE. UNA METODOLOGIA SPERIMENTALE PER FAVORIRE LA PARTECIPAZIONE ATTIVA DEGLI ABITANTI Adriano Paolella >UNIRC

La tecnologia accessibile Il padiglione americano alla Biennale di Venezia 2012 “Spontaneous Interventions” [La Biennale di Venezia (2012), Biennale di Architettura XIII, Catalogo, Common Ground, Marsilio, Venezia; AA.VV. (2012), Spontaneous Interventions, in Architect. The magazine of the American Institute of Architects, Agosto 2012] ha palesato che il progetto non è monopolio degli esperti. Questa condizione, già da tempo praticata da molti progettisti, sarebbe dovuta risultare già palese ai più solo dall’osservazione dei meccanismi di formazione del paesaggio che evidenziano quanto sia difficile perseguire la qualità di un bene comune, quale appunto il paesaggio e gli insediamenti, senza una diffusa consapevolezza e comunanza di intenti. Alla base di una elevata qualità insediativa vi è una azione coesa della comunità e non la sommatoria di gesti creativi individuali incoerenti. I buoni progetti rimangono segni isolati, ottimi per essere oggetto di primi piani fotografici ma nella maggior parte dei casi incapaci di orientare da soli la qualità dell’unità di paesaggio e dell’insediamento. Del resto se l’azione individuale avesse questo potere saremmo in presenza di una struttura sociale troppo centralizzata e pericolosamente autoritaria. Nel caso si voglia avviare un percorso di recupero, riuso, re-cycle delle trasformazioni abbandonate e attraverso di esso si tenda a riqualificare una situazione insediativa degradata e degradante quale quella del nostro Paese non si può non considerare indispensabile fruire di una estesa partecipazione attiva dei cittadini coerente con gli obiettivi della riqualificazione. I soli interventi pubblici e imprenditoriali, come facilmente

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riscontrabile, non son in grado di garantire quella capillarità di interventi, anche di piccole dimensioni, fondamentale per la riqualificazione del paesaggio e dell’ambiente, attivabili dalla mobilitazione delle comunità. Ma per permettere tale mobilitazione si deve comporre un rapporto diverso tra progettisti e comunità, riconoscendo ad esse il diritto, solo limitato dalla salvaguardia degli interessi comuni e dalla garanzia di non danneggiare alcuno, di definire il proprio habitat. In tale maniera si intende che i cittadini possano generare qualità, sviluppare una energia positiva e non, come per decenni si è ritenuto, siano esclusivamente portatori di interessi personali, furbi, speculativi che minano il decoro e la qualità degli insediamenti e che perciò necessitino di essere controllati e gestiti. L’impoverimento culturale e tecnico delle comunità, è parte della strategia del mercato globale che sostituisce capacità locali con merci globali e non ha interessato solo il settore delle costruzioni. Ma la presenza di una ignoranza diffusa, a ben guardare molto minore di quanto si voglia fare credere, non giustifica la non considerazione delle richieste e dei desideri e l’alienazione di capacità che oltre ad essere un diritto sono condizione antropologica dell’esistenza umana. Tutto ciò deve stimolare l’impegno da parte dei tecnici di predisporre metodi, linguaggi, soluzioni in grado di facilitare la riqualificazione culturale delle comunità sul tema insediativo facendo attenzione a non fagocitare all’interno di procedimenti l’energia positiva che l’autonomia degli individui e delle comunità riesce ad esprimere. Numerosi sono i gruppi di cittadini che si sono attivati per recuperare beni abbandonati; per i tecnici si tratta solo di constatare la presenza di questa capacità, di questa diffusa tensione a riprendere ciò che è stato inibito per anni, facendo attenzione a non riproporsi come unici soggetti abilitati ad attuare le trasformazioni a non imporre percorsi il cui grande valore è anche nell’autonomia delle proposizioni e nella loro “indisciplinatezza”. Per svolgere un processo partecipativo/creativo in cui sia possibile l’attivazione diretta della popolazione, così come testé accennato, è necessario proporre soluzioni tecniche che consentano la costruzione, manutenzione e gestione da parte degli abitanti. Soluzioni quindi tecnicamente accessibili. E’ la stessa modalità che si applica quando si opera correttamente a supporto delle comunità nei “Paesi in via di sviluppo” con quelle comunità che si trovano in situazioni di necessità e di scarsità di risorse. Ma la limitatezza delle risorse disponibili non è una questione dei territori poveri; è una condizione operativa con cui tutti si debbono misurare. Inoltre alla questione della limitatezza delle risorse si aggiunge quella dell’eticità del loro uso: trasformazioni che non danneggino l’ambiente, che siano effettivamente utili alle comunità, che rispondano per dimensione alle effettive necessità e alle modalità di utilizzazione in sintesi che non sprechino risorse. Ciò impone ovunque che il progetto comprenda la cultura tecnica delle comunità in cui opera, non sia demagogico, non riproponga stereotipi inattuabili e, senza pregiudizi, affronti e contribuisca a rispondere alle reali

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necessità, piegandosi alle ragioni sociali ed ambientali che lo motivano. E’ altresì fondamentale che il progetto faciliti la gestione diretta da parte delle comunità rafforzando il senso dell’abitare, così che esse, riconoscendo nelle soluzioni adottate la risposta ai loro desideri, possano difendersi dalle trasformazioni generate per soli fini speculativi e perseguire l’inalienabile diritto della massima qualità dell’abitare. Per fare questo si richiede una attenzione ai materiali e alle soluzioni tecnologiche che permetta una riduzione dei costi del recupero, riuso, recycle, e l’attivazione delle comunità nella fase di costruzione e gestione dei progetti. Il metodo sperimentale Il metodo è in corso di definizione nell’ambito della ricerca PRIN “Recycle Italy” [Ricerca PRIN “Re-Cycle Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio: gruppo di lavoro “La partecipazione attiva dei cittadini” Responsabile l'Autore con: Arch. Vincenzo Corigliano, Arch. Dario Costanzo, Arch. Daniela Cricrì, Arch. Laura Zampaglione; Unità di ricerca dArTe Università Mediterrranea Reggio Calabria responsabile Prof. Arch. E. Gioffrè; Coordinatore nazionale Prof. Arch. R. Bocchi] e dell’atelier di Tesi Atelier di Tesi dArTE Università Mediterranea di Reggio Calabria. [Atelier di tesi dArTE Università Mediterranea di Reggio Calabria “Re-Cycle. Progetti di Riuso e Riciclo urbano ed edilizio. Riduzione del consumo dei suoli, ef±cienza energetica, riquali±cazione del paesaggio” Coordinatore l'Autore] Il metodo prende spunto da Cullen [Cullen G. (1971), Townscape, Archiectural Press, Londra] per le sue interpretazioni percettive degli spazi urbani, per la capacità di interpretare piccoli segni attraverso i quali comprendere le condizioni dell’insediamento, la sua qualità, le modalità di uso; dalle interpretazione degli spazi e dalle considerazione, anche in questo caso percettive, di Lynch [Lynch K. (1990), Progettare la città. La qualità della forma urbana, Etas, Milano]; alle sperimentazioni e riflessioni attuate da Ward [Ward C. (1998), La città dei ricchi e la città dei poveri, Piccola Biblioteca Morale (PBM), edizioni e/o, Città di Castello], Piano [Piano R., Arduino M., Fazio M. (1980), Antico è bello. Il recupero della città, Laterza, Bari], De Carlo si vedano, nell’estesa letteratura esistente, De Carlo G. (2013), L'architettura della partecipazione, Quodlibet, Macerata, Guccione M., Vittorini A. (a cura) (2005), Giancarlo De Carlo. Le ragioni dell’architettura, Electa Mondadori, Roma e i frequenti articoli di grande interessi contenuti nella rivista Spazio e Società diretta da De Carlo che per decine di anni ha segnalato progetti e sperimentazioni in cui la definizione delle trasformazioni si misurava con la presenza ed i contributi delle comunità). Una particolare attenzione è stata posta alle sperimentazioni attuate da Kroll [Kroll L. (1999), Tutto è paesaggio, Testo & Immagine, Torino, Kroll L.(2012), Tout est paysage, Sens & Tonka éditeurs, Parigi e Bouchain P. (2013), Simone & Lucien Kroll. Une architecture habitée, Actes Sud] e Erskine [Ray S. (1978), Ralph Erskine: architettura di bricolage e partecipazione, Dedalo, Roma] per la capacità di interpretazione progettuale delle indicazioni degli abitanti. Il metodo praticato si situa nel percorso di una ricerca condotta dell’autore

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sui rapporti tra comunitĂ e spazi, e raccolta in diverse pubblicazioni, in cui si tende ad interpretare le potenzialitĂ sociali e ambientali dei luoghi attraverso l’analisi percettiva degli stessi e le interviste agli abitanti [Paolella A. (2002), Tecnologie per il recupero ecologico e sociale dell’abitare, Papageno Edizioni, Palermo; Paolella A. (2003) Progettare per abitare. Dalla percezione delle richieste alle soluzioni tecnologiche, Eleuthera, Milano]. Le recenti esperienze statunitensi, giĂ precedentemente citate, e le attivitĂ di molte associazioni (ad es. Officine Zero e Teatro Valle a Roma, Bollenti Spiriti in Puglia, Isola pepe verde e Macao a Milano) indicano come l’azione diretta dei cittadini abbia travalicato i sistemi di partecipazione consolidati imponendo richieste ed attuando autonomamente la sistemazione di spazi abbandonati. Infine di grande interesse per la riflessione attuata hanno avuto anche interventi quali Elemental [Aravena A., Iacobelli A. (2012), Elemental. Manual de vivienda incremental y diseno partecipativo, Hatje Cantz Verlag Editore, Ostfildern] dove i progettisti si pongono al servizio di una comunitĂ e definiscono insieme l’ambito del lavoro direttamente attuato dalla stessa permettendo il raggiungimento di soluzioni abitative altrimenti irraggiungibili e le esperienze di Fathy [Fathy H. (1985), Costruire con la gente, Editoriale Jaca Book, Milano] e piĂš recentemente di Carola [Candiotto M. (2012), Fabrizio Carola in Africa: le cupole in terra cotta dell’architetto napoletano, in Archietturaecosostenibile.it] nella definizione di tecniche attuabili dalle comunitĂ locali. Una particolare riflessione, che ha contribuito ha definire la seguente metodologia, è stata quella relativa alle modalitĂ di partecipazione proprie delle etĂ diverse degli abitanti; si è ritenuto infatti che adottare un metodo unico per tutte le fasce di etĂ , dai bambini agli anziani, non fosse possibile (si veda Box). Riflessioni e metodi per la partecipazione di bambini e anziani ai processi di riuso e riciclo di aree ed edifici abbandonati di Germana Paolella DeÂąnizioni e criticitĂ Per poter comprendere le difÂącoltĂ ed i punti critici di una progettazione partecipata con dei bambini è opportuno fare brevemente luce sul modello di sviluppo cognitivo degli stessi. Piaget >Piaget J. (19 , La psychologie del l’enfant, Press Universitaires de France, Parigi@ individua piĂš fasi per lo sviluppo di un bambino: senso motoria (0-2 anni , preoperatoria (2- anni , operatoria concreta (7-11 anni , operatoria formale (11 anni-Âąne dell’adolescenza . La distinzione per età è solo indicativa in quanto i passaggi fra una fase e l’altra sono graduali e diversi da bambino a bambino. Nella fase preoperatoria il bambino ha una percezione quasi magica del mondo: vengono attribuiti sentimenti ed intenzioni anche ad oggetti ed eventi Âąsici. Inoltre il bambino non è in grado di comprendere la reversibilitĂ delle azioni. Nel pensiero di un bambino dai 7 agli 11 anni (stadio operatorio concreto compare la reversibilitĂ delle azioni ma ancora non è presente la capacitĂ di pensiero astratto che comparirĂ solo nella preadolescenza [Camaioni L., Di Blasio P. (2007 , Psicologia dello sviluppo, SocietĂ Editrice il Mulino, Bologna@. I concetti di tempo e spazio non sono assimilabili a quelli di un adulto: prima di tutto sono strettamente legati e difÂącilmente scindibili, in secondo luogo per i bambini Âąno ai 7- anni il concetto di tempo non è lineare. InÂąne i bambini sono pervasi da un sentimento di “giustizia immanenteâ€? per il quale la punizione

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per i comportamenti cattivi è inevitabile. Le regole sono fondamentali perchĂŠ la loro trasgressione viene considerata sbagliata in assoluto, indipendentemente dalle intenzioni sottostanti [Piaget J. op. cit@. Gli studi di Piaget sono stati criticati da alcuni progettisti [Paba G. (200 , I bambini costruttori di cittĂ ed ambiente, in “Vivere la cittĂ di oggi, progettare la cittĂ di domani atti del convegno, Modena 1 /19 Novembre 2005â€?, Artestampa, Modena; Lansdown B. (2004 , Partecipation and young children, Bernard van Leer Foundation, “Early Childhood Mattersâ€?@, perchĂŠ sembrava loro che potessero essere utilizzati per affermare l’impossibilitĂ di partecipazione da parte dei bambini. In questa sede, invece, la premessa sulle fasi dello sviluppo del bambino vuole essere utilizzata come spunto per l’individuazione delle criticitĂ nel lavorare con queste fasce d’etĂ , considerando la diversitĂ di esigenze fra un adulto e un bambino [Simpson B. (1997 , Towards the Participation of Children and Young People in Urban Planning and Design, “Urban Stud.â€? 34-907@ ad esempio evitando di incorrere nell’errore, piuttosto comune, di chiudere la possibilitĂ della sua partecipazione pensandolo come ad un “piccolo adulto [Lansdown B. op. cit.@. Dalle teorie sullo sviluppo dei bambini si possono individuare diversi problemi ai Âąni di una loro partecipazione alla progettazione: - Il concetto di tempo. I bambini, soprattutto i piĂš piccoli, non sono in grado di comprendere le esigenze temporali di un progetto: dopo essere stati consultati è perfettamente ragionevole per loro attendersi immediatamente dei risultati tangibili. - Il concetto di spazio. L’interpretazione delle indicazioni fornite può essere molto complessa se non si accoglie il diverso punto di vista che ha il bambino. - Il senso di giustizia immanente. Sarebbe impossibile spiegare ad un bambino, soprattutto se piccolo, che un progetto al quale ha partecipato non è stato realizzato, mentre invece ne è stato realizzato un altro o che, per motivi indipendenti dalla propria volontĂ , non ne sarĂ realizzato alcuno. - Le regole del gioco. Per il bambino è fondamentale che quello che gli viene detto venga rispettato con la massima accuratezza. In molti articoli viene posta una delicata questione: se il bambino debba essere considerato un cittadino di oggi o di domani [Simpson B., op. cit.; Lansdown B., op.cit.@. Si ritiene che il bambino debba essere considerato in entrambi i modi. Cittadino di oggi, riconosciuto anche dalla Convenzione dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, all’interno della quale si speciÂąca che il bambino-ragazzo ha diritto a partecipare alle scelte che lo riguardano (Art 12 . Nello stesso tempo il bambino crescerĂ e sarĂ un cittadino anche di domani. SarĂ certamente un cittadino diverso. Per questo motivo è fondamentale non frustrarlo nelle sue prime esperienze di partecipazione attiva alla vita pubblica: un bambino frustrato e tradito può diventare un adulto deluso [Castelnovi P. (200 I bambini e le cittĂ : idee in movimento, atti del convegno Vivere la cittĂ di oggi, progettare la cittĂ di domani , Modena 1 /19 Novembre 2005, Artestampa@ e disinteressato a ciò che lo circonda. Si pone a questo punto un altro non marginale problema: è piĂš importante la protezione dei bambini o permettere loro di esercitare i propri diritti? La migliore risposta sembra essere quella del compromesso ovvero fornire al bambino un’autonomia adatta al livello di maturazione cognitiva e nello stesso tempo proteggerlo da ciò che non può comprendere. A partire da quest’ultimo concetto sono state sviluppate le introduttive indicazioni metodologiche raccolte nel presente contributo. Per quanto riguarda gli anziani si sceglie l’appartenenza alla fascia in base all’attivitĂ , considerando persone appartenenti ad essa coloro che sono in pensione o che sono coniugi di pensionati. Ăˆ stato scritto molto sulla partecipazione dei bambini, quasi nulla invece sulla partecipazione degli anziani e, in particolare, gli articoli pubblicati riguardano quasi esclusivamente la partecipazione

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alla progettazione di “centri anzianiâ€?. Gli anziani hanno in comune con i bambini alcune criticitĂ : l’orizzonte temporale è ristretto, non possono pensare di aspettare anni per vedere un progetto realizzato, e nello stesso tempo anche il loro spazio è vissuto diversamente da un adulto lavoratore. Una persona media considera lo spazio come legato a spostamenti e mete [Triolo F. (2003 , I bisogni dei bambini e responsabilitĂ di pianiÂącazione, in In folio Rivista del dottorato di ricerca in pianiÂącazione urbana e territoriale dell’universitĂ di Palermo, Nƒ15, dicembre@; l’anziano, come il bambino, non ha esigenza di spostamenti rapidi. In questo modo assume molto piĂš importanza il percorso [Triolo F. ib.@ e nello stesso tempo anche lo spazio che attraversa si riduce. Proprio a causa delle diverse percezioni di spazio e tempo gli anziani sembrano essere spesso interpellati nelle decisioni riguardanti i “centri anzianiâ€? e raramente per una pianiÂącazione a piĂš ampio raggio. Viste le precedenti criticitĂ , gli anziani potrebbero ritirarsi dalla partecipazione, sentendo di avere bisogni cosĂŹ diversi dall’adulto lavoratore, non sentendosi utili e, nello stesso tempo, sapendo che non necessariamente potranno godere del progetto terminato. Nello stesso tempo è importante che gli anziani siano coinvolti nel processo decisionale; sia perchĂŠ prima o poi anche i lavoratori diventeranno anziani ed avranno presumibilmente delle esigenze simili, sia perchĂŠ loro sono in possesso della memoria dei luoghi. Si può affermare che gli anziani possono offrire uno sguardo sul passato, i bambini-ragazzi sul presente e gli adulti lavoratori sul futuro. Dalle precedenti considerazioni nascono le seguenti ipotesi metodologiche. Indicazioni metodologiche Per quanto riguarda i bambini, è fondamentale che vengano coinvolti in una fase avanzata ed operativa, in cui possano effettivamente vedere la realizzazione del progetto. Ăˆ importante renderli partecipi della strutturazione dei luoghi in cui, secondo la deÂąnizione di “partecipazioneâ€? di Zimmermann [Zimmerman M.A. (199 , Empowerment e partecipazione della comunitĂ , in Psicologia di ComunitĂ , Sipco, n.1/1999@, il loro parere potrĂ realmente essere ascoltato (parco giochi, scuola, ludoteca,ž e le loro idee realizzate. SarĂ centrale spiegare chiaramente ai bambini quale sia il loro ruolo e quali saranno le fasi di attuazione del progetto, chiarire bene le “regoleâ€? e fare in modo di non impegnarsi in nulla che non si possa effettivamente realizzare. Le modalitĂ con cui potranno essere coinvolti saranno quelle che piĂš si avvicinano alle loro capacitĂ e che maggiormente stimolino la loro creativitĂ (disegni, racconti, fotograÂąe, sculture

[Simpson B., op. cit; Lansdown B., op. cit.@. Potrebbe essere utile dividere il processo in piĂš fasi, secondo le indicazioni di Castelnovi [Castelnovi P., op. cit.@ che individua tre funzioni fondanti: l’esplorazione, il progetto e l’identitĂ . 1 Presentazione delle “regole del giocoâ€?. 2 Esplorazione della situazione attuale da parte dei bambini con resoconto creativo come sopra accennato (per i bambini dai 3 ai 6 anni sarĂ necessario in ogni caso raccogliere un commento alle loro creazioni perchĂŠ potrebbero essere di difÂącile interpretazione . 3 Proposta di intervento da parte dei bambini-ragazzi. 4 Elaborazione delle criticitĂ (raccolte anche dalla descrizione dell’attuale situazione da parte del progettista. 5 Presentazione di alcune possibilitĂ progettuali e scelta da parte dei bambini. 6 Realizzazione del progetto. In questa fase sarebbe consigliabile che i bambini-ragazzi assumano un ruolo attivo (pitturare, seminare,ž . Per quanto riguarda gli anziani la proposta è di far costruire loro una memoria storica del luogo attraverso racconti, foto e disegni. Questa memoria potrebbe essere trasmessa ai bambiniragazzi tramite uno o piĂš delegati. Successivamente, gli anziani ed i bambini potrebbero portare le loro proposte ed i loro ricordi a

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conoscenza anche degli adulti lavoratori che, a seguito di questo incontro potranno progettare in maniera più consapevole dell’identità del paesaggio (Convenzione Europea del Paesaggio, 2000 e delle esigenze di quella parte di popolazione che abitualmente viene poco considerata. Questo inoltre potrebbe essere una promozione dei legami sociali che sono centrali nella progettazione partecipata [Ripamonti E. (2006 , Sviluppo di comunità e progettazione partecipata, in SKILL n.31/2006@. Per quanto riguarda i bambini-ragazzi la scelta dei luoghi in cui applicare il progetto è orientata primariamente alle scuole, in quanto sono collettori certi della quasi totalità dei bambini presenti sul territorio. Per quanto riguarda gli anziani, si potrebbe coinvolgerli nella progettazione cominciando a riunire gli utenti dei centri anziani o meglio indicendo delle riunioni pubbliche, aperte a sole persone anziane, all’interno delle quali proporre la suddetta forma di partecipazione e veri±carne con loro l’interesse, in modo di aumentare il più possibile il numero di persone coinvolte.

Si è quindi proceduto a limitare la partecipazione dei bambini mentre si è operato affinché fossero inseriti nei questionari e negli incontri spazi specifici per persone anziane. Il metodo di partecipazione è strutturato in modo da fornire elementi di riflessioni e stimolare negli abitanti ragionamenti coerenti rispetto alle scelte fattibili, in un confronto paritetico tra i partecipanti e i progettisti. Di seguito si illustrano in sintesi le diverse fasi del percorso partecipativo. Osservazione Da una adeguata osservazione delle modalità con cui le comunità insediate hanno trasformato i luoghi si possano raccogliere elementi interpretativi dei desideri, delle aspettative, delle necessità dei cittadini. L’osservazione non deve essere offuscata da pregiudizi, né finalizzata alla formulazione di un giudizio (condanna/assoluzione), ma deve tendere a capire quale siano state le pulsioni e le motivazioni che hanno originato le trasformazioni. Così facendo, senza scivolare in giudizi demagogici o superficiali, cercando di arrivare all’origine profonda della domanda trasformativa, è possibile comporre un quadro informativo difficile da ottenere in altra maniera. In maniera diversamente sviluppata le comunità insediate adattano gli spazi alle proprie esigenze e le interpretano e danno valore ai luoghi sia a livello individuale che collettiva. Tale valorizzazione avviene spesso per cultura orale, come nelle Vie dei canti, [Chatwin B. (1988), Le vie dei Canti, Adelphi, Milano] o per sensazioni e memoria personale ma questo patrimonio comune, seppure spesso non comporta trasformazioni fisiche, fa parte della comunità (sensazioni, ad esempio di rischio o di tranquillità, in una crescente strutturazione leggende, miti, spiritualità diffusa [si veda Carloni Z. (2001), La sacralità della natura, in Vocabolario, Papageno editore, Palermo], componendo una cultura che non può rimanere fuori dall’oggetto della progettazione. Intervista A completamento dell’interpretazione dei segni si tenterà, attraverso le interviste, di comprendere come gli abitanti percepiscano i luoghi e i problemi, come interpretano, usano, valutano lo spazio e quali siano i

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loro desideri. L’intervista inoltre è lo strumento per stimolare una riflessione tra gli abitanti, a fare emergere il legame individuale e collettivo che lega gli abitanti a quel contesto ad aumentare la consapevolezza sulle qualità presenti e le qualità raggiungibili con un progetto che possa godere della partecipazione attiva dei cittadini (si veda Box). La scheda di rilevamento di E. Arena, R. Battaglia, E. Caldarera, E. Ciccone, M. Crucitti, G. Dattilo, E. De Masi, A. Donato, L. Errante, F. Fammartino, A. Franzè, V. Furfaro, V. Giurlanda, S. Grasà, M. Iero, I. Meduri, C. Palma, G. Tripodi, Arch. V. Corigliano, Arch. L. Zampaglione La scheda è l’esito di un lavoro di gruppo in cui il docente ha stimolato e veri±cato le elaborazioni, lasciando ampio margine alle scelte degli studenti dell’Atelier di Tesi dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria dipartimento dArTe “Re-cycle. Progetti di riuso e riciclo urbano e edilizio. Riduzione del consumo dei suoli, ef±cienza energetica, riquali±cazione del paesaggio”. Una prima parte della scheda è stata impostata per raccogliere le opinioni degli abitanti nei confronti del luogo che abitano cercando di fare emergere giudizi afferente le sensazioni e interpretazioni soggettive. Ad esempio si è ritenuto che domande sul livello di soddisfazione dei servizi e sulla mobilità fossero marginali, risultandone evidente, anche ad una conoscenza super±ciale, l’inadeguatezza ed essendo spesse falsata della ripetizione acritica di giudizi derivanti da confronti con un modello insediativo e di mobilità spesso estranei agli speci±ci contesti. L’attenzione è stata invece posta ad evidenziare le relazioni tra abitante e luogo al ±ne di fare emergere il valore che il primo dà al secondo, la profondità del rapporto, la piacevolezza percepita. Il tentativo è di incrementare la consapevolezza di abitare un luogo speci±co (per quanto destrutturato dalle trasformazioni postbelliche , delle qualità in esso presenti, del legame esistente e quindi dell’opportunità di divenire parte attiva nel recupero e nella riquali±cazione delle parti di quel territorio a cui l’abitante è collegato. Domande quali “Con quale immagine rappresenterebbe il luogo dove vive?” o “ Qual è la parte che ritiene più bella/brutta” mirano a differenziare il territorio prossimo, a quali±carlo, a capire il valore delle sue parti. Un territorio che nel tempo si è trasformato ed ancora oggi si trasforma; domande quali “Quale sono state le trasformazioni più signi±cative negative/positive nel territorio” sono volte ad avviare un confronto in sede di intervista che mostri quanto la qualità del luogo sia l’esito di trasformazioni di segno diverso che si svolgono contemporaneamente alla presenza dell’intervistato in quel territorio e quindi anche con la sua responsabilità sia che egli sia stato una parte attiva sia che abbia assunto un ruolo passivo. Un altro gruppo di domande afferisce alla modalità con cui l’abitante usa lo spazio, quale siano al di fuori della sua residenza le zone dell’insediamento e delle aree limitrofe che usa di più, nelle quali si riconosce e ottiene piacere a frequentare. La terza parte è volta a fare soffermare l’intervistato sulla sua conoscenza dell’area/manufatto abbandonato potenzialmente oggetto del progetto, attraverso il richiamo della memoria a quello che era il sito prima della trasformazione (nel caso di cittadini più anziani , informandosi sulla dimistichezza con l’area (è entrato, l’ha utilizzata, etc. , stimolando l’espressione di un giudizio qualitativo e di un interesse al suo recupero anche attraverso un suo impegno diretto. Il questionario si conclude facendo esprimere gli intervistati su come desiderano l’assetto percettivo del futuro intervento. Vi è infatti un troppo diffuso pregiudizio nei confronti degli abitanti, sostenuto da una scadente cultura progettuale, per cui si ritiene che essi desiderino abitazioni

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individuali di bassa qualità compositiva e con arredi di dubbio gusto. Indipendentemente dal giudizio su tali valutazioni, che minano il diritto di esprimere un desiderio e di riconoscere il valore che esso comunque assume, è obiettivo della scheda da un lato di fornire nuovi elementi, anche formali, alla cultura insediativa dei cittadini (oggi ridotta all’aridità della necessità e della speculazione e di leggere al di là delle richieste nel campo delle esigenze che le motivano e che si celano ad una lettura super±ciale. Anche per questo, ad esempio, nelle immagini presentate si utilizzano abitazioni la cui forma non afferisce al linguaggio comunemente usato nel territorio dall’autocostruzione e dalla speculazione. L’intervista più che a raccogliere informazioni è lo strumento per stimolare una ri²essione tra gli abitanti, volta a contribuire a sostanziare i rapporti tra comunità e luoghi a fare emergere il legame individuale e collettivo che lega gli abitanti a quel contesto ad aumentare la consapevolezza sulle qualità presenti e le qualità raggiungibili con un progetto che possa godere della partecipazione attiva dei cittadini. Le domande sono semplici e si attendono risposte semplici, dirette, senza "superfetazioni". La compilazione delle schede sarà fatta nei prossimi mesi e la scheda varierà in ragione delle osservazioni mosse dagli intervistati e dalle veri±che da parte degli intervistatori.

Istruttoria Gli operatori predispongono i materiali conoscitivi su cui i cittadini possono attuare le scelte (elenchi critici sui beni disponibili, sulle problematiche e sui possibili interventi). Primo incontro con gli abitanti: “Coerenza-Incoerenza”, “Raccolta dei desideri” L’incontro è finalizzato ad esplicitare l’importanza della coerenza delle scelte progettuali e dell’incompatibilità della compresenza di soluzioni orientate ad assetti conflittuali (ad esempio: area industriale e turismo; speculazione edilizia e qualità del paesaggio). Ciò serve ad avvalorare l’importanza delle scelte ed a condividere come esse debbano essere contenute all’interno di uno scenario organico a cui tende ogni azione svolta su quel territorio e come le azioni distoniche danneggino seriamente l’ottenimento dei risultati desiderati. Sono definiti due modelli insediativi teorici, due scenari che estremizzano diverse e opposte configurazione del territorio; il primo denominato “economia locale” caratterizzato dall’uso delle risorse presenti sul territorio, allo sviluppo di attività locali, il secondo denominato “economia industriale” caratterizzato dalle attività di trasformazione di risorse provenienti da altri luoghi e dalla produzione rivolta ad un mercato non locale. Il metodo prevede di comporre insieme con i cittadini un elenco (una bozza è già stata elaborata in sede di gruppo di lavoro) costituito dalle attività e dai manufatti coerenti con gli obiettivi di ciascuno scenario. Tale attività tende a sviluppare la consapevolezza degli effetti delle scelte partendo dal presupposto, contrario a quello su cui si fonda la società dei consumi, che scelte afferenti a modelli insediativi diversi si ledono reciprocamente. Ad esempio lo scenario “economia locale” si caratterizza da una mobilità limitata, da un edificato non invasivo, da una agricoltura non industrializzata, dalla presenza di attività produttive artigianali o piccole e medie industrie collegate con la produzione locale e non concorrenziali

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all’uso agricolo dei terreni. Lo scenario “economica industriale” si caratterizza dalla presenza di infrastrutture di grandi dimensioni, per sostenere gli impianti produttivi anch’essi di elevate dimensioni, un tessuto insediativo denso (scaturito dalla necessità di alloggiare gli addetti delle unità produttive). A questi caratteri insediativi/produttivi corrispondono dei caratteri percettivi, anch’essi oggetto di elencazione. Così il primo scenario sarà caratterizzato da un mosaico variato di colture, da una copertura vegetale continua, da una naturalità più elevata, da una prevalenza del colore verde, mentre il secondo sarà caratterizzato da monocolture e serre, da una naturalità meno evidente, da una prevalenza del colore grigio. L’ultima parte dell’incontro è finalizzata a fare esprimere ai cittadini i desideri per la sistemazione dell’area/edificio abbandonato; il gruppo di lavoro avrà predisposto delle icone con le possibili attività e soluzioni spaziali adottabili facendo in maniera da evidenziarne la coerenza con lo scenario (colore verde, colore grigio). Confronto sulla realizzabilità e la coerenza dei desideri stessi (le soluzioni individuali una volta analizzate collettivamente e ritenute possibili diventano comuni) finalizzato a scremare quanto ritenuto incoerente o non attuabile. Agli abitanti, oltre a partecipare alla definizione di un quadro complessivo, è chiesto di comporre un elenco di interventi definito in base all’impegno individuale di attuarne direttamente una parte (“ho bisogno di un capanno per prendere il sole”, “sono disposto a curare un giardino”, etc.). Elaborazione temi progettuali Sintesi critica da parte degli operatori delle informazioni e delle indicazioni sviluppate. Sulla base delle informazioni raccolte e l’istruttoria operata stesura delle prime ipotesi progettuali definendo soluzioni dimensionali, funzionali ed economiche effettivamente attuabili. Le ipotesi saranno presentate con ragionamenti e grafie facilmente interpretabili. Secondo incontro con gli abitanti “Prime ipotesi” Presentazione delle prime ipotesi progettuali elaborate; confronto con gli abitanti e ulteriore definizione del progetto; valutazione congiunta dei vantaggi e svantaggi delle scelte; elaborazione di eventuali alternative per ridurre gli effetti negativi a parità di efficacia. Composizione di scenari per soggetto attuatore: a) interventi pubblici (ad es. esproprio dei terreni, eventuale bonifica, etc.); b) interventi di sostegno a cooperative e singoli imprenditori nell’avvio di attività produttive; c) azioni individuali di manutenzione o gestione, anche improduttiva, di parte del progetto; d) interventi svolti da gruppi di cittadini. All’interno dell’incontro verranno anche definiti gli interventi di eliminazione o mitigazione degli elementi di disturbo. Prime quantificazioni comuni dei costi per intervento (ad es. costo Alto/ medio/basso). Elaborazione progetti Gli operatori sulla base di quanto emerso elaborano il progetto in

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particolare il progetto di soluzioni tecnologiche direttamente agibili da parte degli abitanti. Nella scelta delle soluzioni saranno considerati, con l’obiettivo di ridurre al minimo il “peso” ambientale della costruzione, la riutilizzazione delle strutture esistenti, il recupero di materiali e componenti di scarto, l’uso di materiali e componenti di basso costo. Nell’ambito di tale attività saranno definite le soluzioni tecnologiche accessibili che caratterizzeranno il progetto. Terzo incontro con gli abitanti “Il progetto” Presentazione del progetto ai cittadini. Il progetto può essere presentato pubblicamente. Raccolta ulteriori osservazioni. Conclusioni La partecipazione attiva degli abitanti, protagonisti positivi della riqualificazione dei propri territori, facilita il riciclo, recupero e riutilizzo di aree e di edificati funzionali alle comunità. Ciò non limita la responsabilità e la creatività del progettista. Egli applicherà le proprie competenze e conoscenze alla definizione di soluzioni che considerino le necessità e i desideri dei cittadini, i caratteri dei luoghi e definirà un progetto qualificato proprio dalla concreta capacità di interpretare e rispondere alle esigenze. La sperimentazione attivata vuole appunto contribuire a verificare un metodo che consenta l’attivazione degli abitanti, proponga soluzioni tecnologiche accessibili, definisca un rapporto corretto tra progettista e comunità.

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Finito di stampare nel mese di agosto del 2014 dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. » 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma

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People meet in the re-cycleD city è il nono volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. La ricerca è fondata sulla volontà di far cortocircuitare il dibattito scientifico e le richieste concrete di nuove direzioni del costruire, di palesare i nessi tra le strategie di ridefinizione dell’esistente e gli indirizzi della teoria, di guardare al progetto quale volano culturale dei territori. People meet in the re-cycleD city affronta il tema della partecipazione attiva dei cittadini ai progetti di riuso e riciclo degli edifici e delle aree abbandonate. Intervenire sull’enorme spreco di merci e di risorse rende possibile soddisfare le esigenze con una migliore utilizzazione dei manufatti e ridurre al contempo gli effetti negativi prodotti nell’ambiente. Questa azione che, rispetto a quanto in essere, costituisce una inversione di tendenza deve, per risultare effettivamente incisiva, essere diffusamente praticata e quindi partecipata dai cittadini. Nell’aprire il progetto alle comunità, nel rispondere alle reali esigenze e ai desideri delle stesse, i progettisti affronteranno modalità operative, diverse da quelle consolidate, che li potrebbero condurre a superare quell’autoreferenziarsi disciplinare, che tanto frequentemente li ha astratti dalla società e resi succubi di una limitata tipologia di committenti, e a confrontarsi con temi e comportamenti che stimoleranno in loro una creatività applicata alla risoluzione di problemi e al soddisfacimento delle richieste delle comunità stesse. Nella pubblicazione sono state raccolte riflessioni, ricerche ed esperienze di ricercatori e operatori, ritenendo che la rileggibile vicinanza di intenti, seppure espressa con linguaggi e metodi diversi, palesi con chiarezza le grandi potenzialità esistenti per trasformare l’attuale modello culturale troppo spesso sotteso da logiche demagogiche e di consumo. ISBN

euro 21,00

978-88-548-7467-1


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