Il territorio degli scarti e dei rifiuti

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08 IL TERRITORIO DEGLI SCARTI E DEI RIFIUTI


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Il territorio degli scarti e dei rifiuti

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IL TERRITORIO DEGLI SCARTI E DEI RIFIUTI

A CURA DI ROSARIO PAVIA ROBERTO SECCHI CARLO GASPARRINI

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Editor: Roberto Filippetti Copyright © MMXIV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–7406–0 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: luglio 2014

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PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università IUAV di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Università degli Studi di Napoli “Federico II” Politecnico di Bari Università degli Studi di Palermo Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino

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INDICE

PRESENTAZIONE Il territorio degli scarti e dei rifiuti Rosario Pavia

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INTERVENTI INTRODUTTIVI Progetto e rifiuti Rosario Pavia

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Perché gli architetti si occupano di scarti e rifiuti Roberto Secchi

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Dross-mapping. Le terre dei mostri Piero Ostilio Rossi

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Waste, Drosscape and Project in the Reverse City Carlo Gasparrini

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Dalla waste land alla smart land: fra memoria e desiderio Renato Bocchi

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CONTRIBUTI DELLE UNITÀ DI RICERCA Il design dei materiali per la valorizzazione delle macerie. Il caso del cratere aquilano Stefania Camplone

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Il resto come principio Antonio Alberto Clemente

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Rifiuti fragili. Appunti per il progetto urbano Matteo di Venosa

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Mappe per paesaggi dello scarto agricolo Lucina Caravaggi, Anna Lei

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Il ciclo di vita dei veicoli Andrea Grimaldi, Dina Nencini, Francesca R. Castelli, Maria Clara Ghia, Gianpaola Spirito

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Il ciclo dell’edilizia Orazio Carpenzano, Alessandra Capanna, Paola Veronica Dell'Aira, Paola Guarini, Lina Malfona

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Le aree dello scarto: studio delle relazioni spaziali Giambattista Reale, Damiano Cerrone, Maurizio Alecci

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Riciclare i paesaggi della bonifica Roberto Filippetti

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Geografie dello scarto vs. geografie del riciclo. Disegni di una traiettoria possibile Anna Terracciano

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Litorale domitio: nuovi racconti nelle trame dell’acqua Enrico Formato, Massimo Lanzi

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Napoli est. Naturartificiale, verso nuovi metabolismi ibridi Enrico Formato, Libera Amenta, Susanna Castiello, Cecilia Di Marco

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Re-cycling waterscape nella piana del fiume Sarno Emanuela De Marco

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Promemoria per un progetto di re-cycle Paola Galante

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Il valore ambientale del recupero delle risorse estratte e accumulate nei territori delle cave. Il caso del Bacino di Apricena (FG) Alessandro Reina, Maristella Loi, Vincenzo P. Bagnato

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Nuovi processi di riciclo per i paesaggi estrattivi come brownfields Nicola Martinelli, Francesco Marocco, Giovanna Mangialardi

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Cataloghi di realtà. L’architettura del territorio inverso Sara Marini

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Per un archivio dello scarto Sissi Cesira Roselli

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Manuale dello scarto. (D)istruzioni per l’uso Vincenza Santangelo

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IL PUNTO DI VISTA DEGLI AMMINISTRATORI Il territorio dei rifiuti come risorsa per la rigenerazione urbana Giovanni Caudo

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L’impronta industriale e socio-tecnica del rifiuto: per una nuova consapevolezza Estella Marino

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Imbattersi nei rifiuti Patrizia Gabellini

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Drosscapes e beni comuni Carmine Piscopo

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PRESENTAZIONE

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IL TERRITORIO DEGLI SCARTI E DEI RIFIUTI Rosario Pavia >UNICH

Re-cycle Italy è un progetto di ricerca nazionale (PRIN), coordinato da Renato Bocchi, che ha presso avvio nel febbraio 2013 e a cui partecipano 11 sedi universitarie e 3 associate, con proprie unità operative e laboratori locali. In occasione del seminario Riciclare i territori fragili, tenutosi presso il Dipartimento di Architettura dell’Università "Gabriele d’Annunzio" di Pescara-Chieti il 9 ottobre 2013, un gruppo di studiosi e ricercatori appartenenti ad alcune di queste sedi (Pescara, Roma, Napoli, Bari, Venezia, Milano, Reggio Calabria) ha avviato un primo confronto sul lavoro in corso sul tema dei rifiuti e degli scarti, riconoscendolo come questione centrale per immaginare un nuovo metabolismo urbano della città contemporanea. È soprattutto in questo ambito che le nozioni di riciclo, di recupero, di riuso assumono senso e prospettiva. I rifiuti e gli scarti svelano una realtà misconosciuta, del tutto trascurata dal piano e dal progetto. Nonostante la loro presenza pervasiva e crescente (colta con anticipo dall’arte e da un intellettuale visionario come Kevin Lynch quasi un quarto di secolo fa) e il loro peso nell’economia formale e sommersa (recentemente in Europa il peso economico del settore è stato valutato intorno ai 145 miliardi di euro), i rifiuti e gli scarti non hanno un

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adeguato riconoscimento nel sistema produttivo industriale, né una idonea rappresentazione nelle analisi e nelle rappresentazioni cartografiche che sono alla base delle politiche di governo del territorio. La loro assenza nella cartografia di piano è il segno di una rimozione culturale profonda che solo ora, a fronte di una crisi ambientale ed economica di dimensione globale, inizia ad essere scalfita. Siamo circondati da nuovi mostri: rifiuti (urbani, speciali, pericolosi), acque e suoli inquinati, discariche legali e abusive, resti di processi produttivi (scorie, scarti, ma anche aree, infrastrutture e stabilimenti dismessi che Alan Berger ha incluso nell’ampia categoria dei drosscapes), terreni agricoli in abbandono, pezzi di città obsolete e in dismissione… Una realtà in espansione, dominante ormai rispetto al territorio e al paesaggio ufficiali. Un mondo inverso che va rilevato, esplorato, rappresentato in nuove mappe. Una città inversa che attende di essere inclusa in un progetto di rigenerazione. I nuovi mostri incidono sul cambiamento climatico, sulla qualità ambientale, producono degrado urbano, sprechi, consumi di energia, di materia, di suolo, sono fattori di rischio per la salute e la sopravvivenza delle popolazioni. Questo mondo inverso costituisce il vero scenario da cui partire per dare coerenza alle politiche ambientali e urbane, trasformando i rifiuti e gli scarti in risorsa (in materiali da riciclare nei sistemi produttivi e di costruzione della città, in riserva di suoli urbanizzati e compromessi da rimettere in gioco nel tempo secondo procedure flessibili e adattive). Occorre un cambiamento di prospettiva: i rifiuti, gli scarti, i drosscapes come bene comune, come fondamento di un nuovo modo di intendere il territorio, il costruito, i consumi, i cicli di produzione, in un’ottica progettuale responsabile incentrata sulla riduzione dei consumi energetici e dei rifiuti e che sempre di più deve sostenere opere di bonifica e di rigenerazione dei suoli, delle acque, delle infrastrutture, dell’edificato esistente. Il progetto di rigenerazione assume il riequilibrio ambientale e la resilienza come obiettivi delle strategie del riciclo. In questa prospettiva è indispensabile conoscere i processi che generano gli scarti e i rifiuti, le filiere del loro smaltimento e riciclo. Processi, flussi e impianti in cui i rifiuti si depositano, si trasformano o vengono sepolti e abbandonati. Il discorso vale per i rifiuti urbani e speciali, ma anche per i resti dei processi produttivi e di costruzione della città. È sul territorio che i rifiuti e gli scarti si depositano occupando spazio, inquinando il suolo e l’ambiente, producendo una pluralità di filiere e di pratiche. Dietro tutto questo esi-

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ste una regolamentazione sterminata che dal livello europeo coinvolge, spesso con scarsa efficacia, i Paesi membri, le regioni e i comuni, ma a ben vedere non troviamo in questo elaborato corpo normativo nessuna attenzione allo spazio, alla qualità urbana e del territorio. È questa una delle contraddizioni da rimuovere con la ricerca e il progetto. Assumere il territorio dei rifiuti e degli scarti come il nuovo contesto, come un nuovo suolo tridimensionale su cui intervenire progettualmente è un atto di responsabilità e di impegno per il futuro. Il territorio dei rifiuti e degli scarti colto nel suo spessore e nelle sue stratificazioni deve trasformarsi in una complessa infrastruttura al servizio del riequilibrio ambientale e della riqualificazione urbana. Agire in questa direzione significa trasformare profondamente il settore imprenditoriale che oggi sostiene la gestione dei rifiuti e degli scarti produttivi: eliminando le organizzazioni illegali, richiedendo più efficienza, più tecnologia, più competenza. Il risultato sarebbe una economia avanzata, forte, in espansione. Verosimilmente è in questo processo di trasformazione che possono affermarsi i settori più innovativi della green economy. Dopo il seminario di Pescara, sono stati organizzati un dibattito su Progettare il riciclo (11 ottobre 2013) presso IN/Arch Lazio e due incontri di lavoro (novembre 2013 e febbraio 2014) presso il Dipartimento di Architettura e Progetto di Roma "La Sapienza". Con il coordinamento delle unità operative di Pescara, Roma e Napoli si è promosso il presente volume e impostata la partecipazione al programma di ricerca Horizon 2020.

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INTERVENTI INTRODUTTIVI

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PROGETTO E RIFIUTI Rosario Pavia >UNICH

La questione dei rifiuti coincide con la questione ambientale. I rifiuti non sono più assimilati e metabolizzati dall’ambiente, dal terreno, dalle acque, dall’atmosfera… I rifiuti producono un diffuso inquinamento, sono fattori attivi del cambiamento climatico e del surriscaldamento del pianeta, consumano spazio e risorse economiche. Sono un danno ambientale e un danno economico. La gestione dei rifiuti incide direttamente sulla qualità del territorio, del paesaggio, della città, tuttavia continua ad essere una attività settoriale, al di fuori del piano (territoriale urbanistico) e del progetto di architettura. Il sistema normativo e le modalità di gestione delineano un quadro farraginoso, contraddittorio, disomogeneo, confuso, che aumenta l’inefficienza, l’illegalità, il disordine. La gestione è una macchina imperfetta e oscura di cui sfugge la struttura e la logistica. I rifiuti sono stati sempre una risorsa, il loro riuso, recupero e riciclo fanno parte della storia della città. Quando si compie il loro distacco, il loro allontanamento dalla vita sociale ed economica? Perché il mercato dei rifiuti riciclabili continua ad essere un sottomercato, una economia in parte sommersa, non trasparente, di cui conosciamo ben poco?

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I rifiuti per poter trasformarsi pienamente in risorsa economica e ambientale, hanno bisogno di essere al centro di un cambiamento culturale: nelle politiche, nei comportamenti, nella pianificazione, nel progetto. La loro gestione deve entrare in un progetto di territorio e di comunità. I rifiuti (urbani, industriali, agricoli) pongono la questione della bonifica dei siti inquinati, delle discariche, dei drosscapes. I rifiuti richiedono la bonifica e la manutenzione del territorio. Di questo si tratta. Nei confronti della bonifica dei suoli e la gestione dei rifiuti non c’è attenzione da parte delle discipline tradizionali del piano e del progetto di paesaggio e di architettura. La loro drammatica evidenza non ha ancora prodotto un processo di innovazione disciplinare. Mancano le conoscenze, i saperi (dalla biologia alla geologia, dall’ingegneria ambientale all’idraulica, dall’agraria alla botanica, alle scienze naturali, alla chimica e alla climatologia…), manca un aggiornamento circa le tecnologie appropriate e le innovazioni dello sviluppo scientifico. La questione dei rifiuti e della bonifica delineano per il piano e il progetto una dimensione nuova, aprono alla grande scala, la dilatano e nello stesso tempo richiedono un’attenzione alla correlazione transcalare. Dal macro al micro, dal territorio delle grandi reti, a quello minuto dei contesti locali. Tra le due scale c’è una distanza crescente. Anche in questo risiede la crisi delle discipline del piano e del progetto. Mentre fino alla prima metà del secolo scorso la bonifica era sostanzialmente idraulica ed interveniva su terreni naturali per trasformali in terreni agricoli e urbani, oggi l’operazione di bonifica è richiesta da siti industriali inquinati, dismessi e attivi, da discariche di ogni tipo. I processi di produzione e lo smaltimento dei rifiuti lasciano sul territorio le loro tracce, costruiscono i nuovi paesaggi del drosscape, producono un immenso mosaico di aree degradate e a rischio. La vastità del fenomeno pone complessi e difficili problemi di bonifica, di riuso, di riciclo. La crescente presenza di wastelands e di EURZQ±HOGV impongono modalità nuove di manutenzione del territorio, procedure innovative di bonifica, in grado di contenere i costi, di arginare e mettere in sicurezza le aree inquinate. Riciclare ma anche preservare, riqualificare ma anche far convivere i territori urbani e produttivi, con quelli contaminati. La ricerca di questo difficile equilibrio è uno degli scenari emergenti della città del XXI secolo. Il landscape urbanism, ampliando la dimensione dell’intervento proget-

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tuale (senza tuttavia trovare le strumentazioni attuative adeguate), se da un lato ha posto la questione della qualità del territorio nel suo insieme, dall’altro ha affrontato il problema solo a livello di superficie, di disegno di suolo. Non basta. Occorre uno sguardo più profondo, che consideri il suolo in tutto il suo spessore, capace di coglierne la complessità minerale e organica, il suo meccanismo metabolico e la dinamica interna delle sue falde freatiche. Il suolo nella sua stratificazione e nel suo rapporto con la superficie, con l’irraggiamento, l’atmosfera. Il suolo come resilienza e capacità di assorbire calore e anidride carbonica. William Morris, all’inizio della modernità, assegnava all’architettura la cura della crosta terrestre. Oggi la crosta terreste è fatta di suoli naturali e suoli artificiali, di terreni urbanizzati e di sterminate distese d’asfalto e cemento, di immense superfici di copertura di edifici. Come intervenire su questa crosta aggiuntiva, come renderla partecipe di un progetto di riconversione e di riqualificazione ambientale? Il pianeta funziona come una straordinaria infrastruttura al servizio dell’equilibrio ambientale, come infrastruttura riproduce le condizioni che consentono la nostra vita. È questa la ragione per cui, da sempre, la natura è presa a modello dall’architettura. Oggi la natura non sembra più sufficiente a riprodurre l’equilibrio ambientale, non è più in grado di metabolizzare gli scarti, i rifiuti, la pressione dei processi insediativi e produttivi. Il mondo è sempre più un ibrido di artificio e di natura. Reti naturali, come i fiumi, sono anche reti infrastrutturali. Le opere infrastrutturali tradizionali, dalle autostrade alle piattaforme logistiche, sono interventi settoriali, corpi estranei al territorio, funzionali alla produzione e distribuzione di beni, ma non alla qualità dell’ambiente. Il pianeta è sempre più fragile e ostile, il surriscaldamento ha avviato un cambiamento climatico con effetti negativi sulle condizioni ambientali, i territori sono a rischio e minacciati da catastrofi che con difficoltà potremmo definire semplicemente naturali. Il tempo delle trasformazioni ambientali non è più quello infinitamente lento della geologia. Gli ecosistemi si trasformano velocemente, a volte con grande rapidità. Nel corso del XXI secolo i mutamenti saranno consistenti e verosimilmente anche catastrofici. Rispetto a questi scenari quale può essere il ruolo del piano e del progetto? Mentre la geoingegneria, accettando il fallimento della politica internazionale nei confronti delle emissioni di gas serra (ovvero i rifiuti dell’energia fossile) e la inevitabilità di eventi catastrofici, ricerca soluzioni

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radicali e fantascientifiche, la cultura del progetto sembra essersi bloccata. È inerme di fronte alla nuova scala del cambiamento ambientale. Il progetto non può rinunciare alla politica, non può non contribuire a una trasformazione delle modalità di produzione e di consumo. Non può non essere utopia concreta. Nello stesso tempo deve misurarsi con la nuova scala dei fenomeni, intendendo le città, i suoli, le aree dismesse e inedificate, le reti naturali e quelle artificiali come infrastrutture al servizio dell’equilibrio ambientale, come dispositivi resilienti in grado di riprodurre le condizioni che rendono abitabili i territori. Dobbiamo immaginare territori attraversati da reti infrastrutturali e ambientali insieme. Reti artificiali che si naturalizzano e reti naturali che si rafforzano attraverso la scienza e la tecnologia. Un sistema di grandi reti interconnesse tra loro e a quelle minori dei territori locali. In fondo, la sconnessione tra la scala del tessuto urbano e quella delle reti territoriali, che Françoise Choay individuava come la ragione della crisi dell’urbanistica e della urbanità, la ritroviamo ancora più esasperata quando le discipline del piano e del progetto tentano di aprirsi alle tematiche della sostenibilità ambientale. Eppure è proprio da questa nozione di infrastruttura ambientale che dobbiamo partire non solo per rendere il territorio più abitabile, ma anche per restituirgli una struttura, una leggibilità. Un sistema di reti infrastrutturali ambientali di grande dimensione che danno forma e continuità ai territori e alle metropoli e sistemi di reti minori alla scala delle comunità, dei cluster locali. Probabilmente è proprio dall’equilibrio tra queste diverse scale d’intervento che potrà svilupparsi un progetto per una nuova modernità. Oggi è più chiaro, la diffusione urbana si è realizzata in grandi concentrazioni e in forme decentrate e molecolari. L’organizzazione per comunità, per cluster urbani può essere sviluppata sia nei territori della dispersione, sia nel sistema denso delle metropoli. Il modello della energia decentrata, per cui le comunità e i territori producono energia privilegiando le fonti rinnovabili, esemplifica una modalità di intervento urbanistico territorio per ambiti molecolari dove è possibile ridurre i consumi, gli scarti, i costi di trasporto e di distribuzione. Il modello trova i suoi precedenti nell’urbanistica di Geddes e di Abercrombie: una metropoli organica, molecolare in cui i parchi entrano nei quartieri, ne definiscono i contorni e le interconnessioni. Anche nell’Europa continentale del Nord c’è stato questo orientamento: a Colonia e a Copenaghen nei piani di Schwarz e di Rasmussen il verde entra nella città come parco e come agricoltura. Allora non era

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ancora percepita la questione ambientale, ma quelle reti del verde si ponevano già come infrastrutture per la città del futuro. Il verde e l’agricoltura come infrastrutture ambientali che aumentano la resilienza e la salute della città e ne riciclano gli scarti organici come compost fertilizzante. È anche questa capacità di assorbire i rifiuti organici trattati che rende il suolo una infrastruttura ambientale. La città e il territorio per poter sopravvivere hanno bisogno di riorganizzarsi attraverso sistemi interrelati di infrastrutture ambientali alle diverse scale. In questa prospettiva il tema dei rifiuti costituisce, a suo modo, un nuovo paradigma la cui centralità è del tutto sottaciuta. In che misura i rifiuti sottendono un cambiamento di paradigma? La questione ambientale ha posto negli ultimi anni l’urgente richiesta di ridurre il consumo di energia fossile, di acqua, di suolo, di scarti, ricercando soluzioni alternative e sostenibili. Una strategia in questa direzione non è facile (come dimostrano l’inefficacia degli accordi internazionali sull’ambiente e il dominio del big oil), ma implica un profondo cambiamento culturale, sia nei comportamenti delle persone e delle comunità, sia nelle politiche di intervento, nella dimensione locale come in quella territoriale e globale. Il tema dei rifiuti rende evidente questo intreccio e l’esigenza di cambiare concettualmente ed operativamente le modalità d’intervento. La gestione dei rifiuti, ora separata dalla pianificazione e dall’architettura, deve essere riportata nei piani territoriali e urbani, realizzandosi attraverso progetti ed opere di qualità. Il ciclo dei rifiuti da processo oscuro deve trasformarsi in filiera visibile, integrata nella città, nel territorio, nel paesaggio; da danno ecologico in servizio per il riequilibrio ambientale. In questo senso la gestione dei rifiuti è anch’essa una infrastruttura ambientale, le sue filiere hanno la funzione di ridurre i rifiuti da trasferire in discarica (e in prospettiva di eliminarli) trasformandoli in risorse attraverso il riuso e il riciclo. Le filiere dei rifiuti sono complesse e si articolano per tipologia di prodotto, i loro impianti, oggi opere settoriali e misconosciute, dovranno divenire macchine ecologicamente efficienti, opere d’ingegneria, ma anche di architettura. Espressioni come “zero rifiuti”, “dalla culla alla culla”, sono obiettivi che richiedono un cambio di paradigma: nella progettazione e nella produzione di manufatti, nello smaltimento degli scarti e nel loro riciclo. La questione dei rifiuti impone una visione d’insieme. Esige che il prodotto sia già pensato per essere riciclato o riassorbito dall’ambiente. Oggi siamo solo all’inizio, il consumo e il processo di produzione rilasciano

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rifiuti che debbono essere selezionati e trattati prima di poter essere riciclati. Per questo è importante gestire con efficienza le loro filiere, intenderle come infrastrutture ambientali i cui flussi e impianti si distendono sul territorio aumentandone la resilienza e la qualità. Come progettare queste filiere? L’inizio non può che essere la conoscenza delle condizioni attuali della gestione dei rifiuti, una mappatura dei flussi e degli impianti. Il punto di partenza sono le unità abitative e di produzione: dal contesto locale, dove avviene una prima differenziazione per tipologia di prodotto, i rifiuti vengono trasferiti in centri di raccolta e trattamento, da qui i materiali riciclabili vengono avviati verso le varie destinazioni dall’industria, all’agricoltura, al settore delle costruzioni, alla produzione di energia. La parte non riciclabile viene trasferita in discariche. Oggi le filiere sono inefficienti, le reti disconnesse, la logistica confusa. I risultati in Italia sono modesti (circa il 50% dei rifiuti finisce in discarica), l’emergenza travolge la vita di molte città italiane. Le prime mappature ci dicono tuttavia che esiste una relazione necessaria tra la dimensione domestica e locale e quella di area vasta i cui confini superano spesso l’ambito regionale. L’osservazione delle mappe, delle immagini satellitari dei territori ci dicono che le filiere dei rifiuti convivono con l’urbano, intersecano i paesaggi di qualità e quelli della dismissione, dell’abbandono, del degrado; che esiste all’interno della rete dei rifiuti un intreccio tra cave e discariche, il che dimostra, ancora una volta, la profondità della figura del riuso e del riciclo; che il ciclo dei rifiuti produce anch’esso nuovi drosscapes, lasciando sul territorio aree degradate e discariche dismesse in abbandono. L’osservazione rivela la modesta qualità nell’architettura e nel design degli impianti, l’assenza di un’attenzione urbanistica e paesaggistica. Nel mondo, tuttavia, emerge qualche segnale positivo e di speranza: alcune discariche dismesse sono state trasformate in parchi e anticipano un’utopia possibile. La riconversione in grande parco metropolitano di Fresh Kills a State Island di fronte a Manhattan va in questa direzione. Per trasformare le filiere del ciclo dei rifiuti in una infrastruttura ambientale integrata nel territorio e nella città occorre partire da questa mappatura conoscitiva che rivela l’indissolubilità dell’azione individuale e collettiva, la forte correlazione della scala locale con quella territoriale, il dispiegarsi di una responsabilità sociale che inizia inevitabilmente nello spazio domestico, l’affermarsi di una consapevolezza che senza una diffusa responsabilità nei confronti dei rifiuti le città ne sarebbero sommerse.

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Allo sguardo lucido e sensibile di Italo Calvino tutto questo era chiaro con molto anticipo: “nel momento in cui svuoto la pattumiera piccola nella grande e trasporto questa... fuori dall’ingresso di casa, pur agendo come umile rotella del meccanismo domestico, già mi investo d’un ruolo sociale, mi costituisco primo ingranaggio d’una catena di operazioni decisive per la convivenza collettiva, sancisco la mia dipendenza dalle istituzioni senza le quali morrei sepolto dai miei stessi rifiuti… Di qui devo partire per chiarire le ragioni che rendono agréée la mia poubelle”. La poubelle, il bidone dell’immondizia diventa il simbolo di un patto sociale necessario e agréée, accettato, gradito. Ma forse dietro il termine agréée c’è anche una richiesta di gradevolezza, di bellezza, di progetto. In fondo è l’evidenza di questo intreccio a fare del rapporto tra progetto e rifiuti un paradigma.

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Maurizio Alecci, Baracche di pescatori alla foce del Tevere

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PERCHÉ GLI ARCHITETTI SI OCCUPANO DI SCARTI E RIFIUTI Roberto Secchi >UNIROMA 1

La crisi economica e la crisi ambientale sono alla base di questo sorprendente interesse. Certamente il drastico restringimento delle opportunità lavorative suggerisce di cercare occasioni di lavoro fuori dagli ambiti geografici di appartenenza e di ampliare i domini della professionalità. La crisi di sviluppo nel mondo occidentale spinge verso la ricerca di commesse da parte delle nuove economie emergenti. Numerosissimi negli ultimi anni sono i trasferimenti di imprese e agenzie professionali nei paesi dell’Estremo Oriente e dell’America Latina. La stessa penuria di incarichi nella sfera tradizionale dell’attività progettuale in termini di piani, edifici e allestimenti, suggerisce l’urgenza di riguadagnare competenze scientifiche e operative che progressivamente sono state sottratte al mestiere dell’architetto e acquisite da specializzazioni sempre più spinte generate dalla divisione tecnico-scientifica del lavoro. Probabilmente è subentrata una certa stanchezza dei dibattiti interni alla disciplina sulla sua presunta autonomia, una certa insoddisfazione delle brillanti quanto inefficaci dispute su moderno e postmoderno, delle disquisizioni sulle scritture architettoniche, come decostruttivismo e minimalismo che hanno animato gli eventi e la pubblicistica dell’architettura degli ultimi decenni.

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Certamente la disillusione al cospetto dei tanti fallimenti dell’architettura sia dei “mostri metropolitani” (si fa qui riferimento alla denominazione attribuita al fenomeno di queste nuove emergenze architettoniche da Antonino Terranova in Mostri metropolitani, Meltemi Edizioni, Roma 2001), le spettacolari architetture delle megalopoli contemporanee, autoreferenziali, inammissibili consumatori di energia, e di piani urbanistici impossibilitati a cogliere la complessità dei fattori in gioco nella continua modificazione delle relazioni territoriali nel quadro dell’economia globalizzata, inducono ad una revisione profonda degli atteggiamenti progettuali e dei paradigmi scientifici con i quali affrontare le questioni poste alle nostre discipline dai fenomeni emergenti. Certamente abbiamo visto crescere intorno a noi nuove sensibilità sui temi della sostenibilità ambientale, economica e sociale e non solo presso gli studiosi e le istituzioni ma anche presso l’opinione pubblica ed il mondo dell’associazionismo. Si può legittimamente pensare che questo insieme di spinte ci abbiano finalmente resi partecipi dei moniti di Hans Jonas circa la nostra responsabilità di progettisti nei confronti delle generazioni future? Si può credere che siamo più consapevoli, con “l’uomo antiquato” di Guenther Anders (Anders G., L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2007) della necessità di agire secondo phronesis, con maggiore cautela e saggezza poiché non possiamo prevedere e governare le ricadute delle nostre azioni? Siamo pronti a fare un passo indietro, assegnare ai nostri progetti non l’appropriazione di spazi e luoghi come suggerito dal dominio della tecnica ma la loro cura? Siamo desiderosi di concepire i nostri interventi perché si offrano non alla proprietà dei loro abitanti ma alla loro locazione, come ci suggerisce Michel Serres (Serres M., Il malsano, Edizioni Il Nuovo Melangolo, Genova 2009)? Vogliamo proporci come “guardiani” dei territori e delle città, come “pastori custodi del pascolo”, come ci suggerisce Platone (cit. in Emery N., /ªDUFKLWHWWXUD GLI±FLOH )LORVR±D GHO FRVWUXLUH, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2007)? Rifiuti, scarti e comportamenti Nel quadro delle annunciate catastrofi ambientali propiziate dal cambiamento climatico e dall’esaurimento delle fonti di energia e determinate dall’inarrestabile aumento dell’entropia, la questione dei rifiuti occupa un

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posto significativo. La loro presenza nei nostri territori si è fatta così rilevante quantitativamente, diffusa e pervasiva da contaminare tutti i nostri paesaggi, tutto il nostro habitat. Difficile ormai uno sguardo ampio che possa escluderli dalla nostra percezione. I rifiuti accompagnano la nostra vita quotidiana, a casa, al lavoro, nel tempo libero, la vita privata e quella pubblica. Sono il risultato della produzione o del consumo. Ci riguardano personalmente. Come gli animali, marchiamo i nostri territori depositando i nostri scarti, attraverso questi ci appropriamo di quelli. Come ha mirabilmente dimostrato Michel Serres “contaminiamo per possedere” (Serres M., op. cit.). Gli scarti sono prodotti dall’insediamento sul suolo, dalla sua occupazione, dal suo sfruttamento, dalla sua trasformazione, dalle produzioni che vi si allocano. Le attività produttive, per essere più precisi, producono scarti, le attività del consumo producono rifiuti. Tutte insieme depositano i loro resti nel suolo. Il pianeta e la sua biosfera sono il loro ricettacolo. Poiché sono un fattore di distruzione, fino a quando potranno sostenerne la presenza? Le discariche infestano i territori, sopra e sotto i suoli, generano inquinamento dell’aria e dell’acqua, minacciano la salute, provocano morte, sottraggono suolo prezioso, offuscano la qualità estetica dei paesaggi. Nessuno le vuole nel proprio territorio. I Comuni conducono le loro battaglie perché non siano localizzate all’interno dei loro confini e così pure comitati e associazioni si costituiscono in difesa di ambiti territoriali più ristretti, i condomini e gli esercizi commerciali si battono per tenere più lontani i cassonetti dai fronti stradali su cui prospettano. Da tempo è noto che solo la raccolta differenziata spinta ed il trattamento dei rifiuti in vista del loro riciclo può costituire una soluzione almeno parziale. Più radicalmente, soltanto la produzione di oggetti già predisposti nella fase di progettazione al loro disassemblaggio ed al riciclo dei loro componenti potrebbe condurci ad una soluzione più completa anche se non definitiva. Ma perché questo si realizzi non sono necessarie solo nuove tecnologie e modelli di pianificazione e di governo efficienti delle reti preposte, è necessaria una vera e propria rivoluzione culturale articolata su due punti: da un lato sarebbe necessario acquisire consapevolezza diffusa che i rifiuti prodotti dal consumo e gli scarti della produzione costituiscono una ricchezza, dall’altro bisognerebbe che la nozione di bene comune e la sua traduzione in valore nell’azione politica e sociale tornasse ad occupare un

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posto di rilievo nelle istituzioni e nei comportamenti dei cittadini. Solo allora si delineerebbe la possibilità di pensare al mondo dei rifiuti ed ai processi dello scarto come a una risorsa. Ci si potrebbe allora legittimamente domandare perché i rifiuti, questa materia prima prodotta da tutti debba avere valore e generare profitto solo per pochi (in modo legale o illegale) e non debba essere invece pensata come bene comune. E perché dal momento che entra prepotentemente a far parte del paesaggio non debba essere soggetta anch’essa alla tutela cui ci obbliga l’articolo 9 della nostra Costituzione. Il governo e la gestione dei drosscapes, i paesaggi dello scarto, in quanto componenti essenziali dei paesaggi contemporanei, vanno ascritti alle istituzioni della tutela e della cura del patrimonio e del paesaggio. Riprendendo quanto asserito dalla Corte costituzionale italiana “l’ambiente è un bene giuridico in senso proprio”, è ”un sistema complesso, adattivo, comune”. “Il rapporto giuridico intercorrente tra uomo e ambiente è un rapporto di appartenenza e non di proprietà dominicale, nel senso che l’ambiente appartiene all’uomo, non perché ne disponga, ma perché lo ‘usi’ correttamente, lo tuteli e lo protegga anche per le nuove generazioni” (Maddalena P., in Leone A., Maddalena P., Montanari T., Settis S., Costituzione incompiuta, Einaudi, Torino 2013). Descrizioni, rappresentazioni e progetto La questione del riciclo degli scarti della produzione e del consumo occupa un posto preminente anche in molte agende delle amministrazioni, tale è il disagio manifestato dai cittadini nei confronti dell’inefficienza della raccolta dei rifiuti solidi urbani e dello spettacolo indecoroso offerto dalle strade e dagli spazi incolti delle nostre città. L’obiettivo del riciclo si propone come prioritario anche per molte aziende produttrici che vorrebbero non disperdere nulla delle materie prime utilizzate, né dei loro sottoprodotti e ridurre gli ingenti costi degli smaltimenti cui sono costrette dalle norme vigenti. Il riciclo assume una rilevante importanza anche per le associazioni dei consumatori che vorrebbero essere informati completamente dei tracciati dei loro beni di consumo, che siano alimentari o d’altro genere. E, ancora, l’obiettivo del riciclo è presente in molte proposte di esperti, di comitati e di organizzazioni che si propongono la custodia del territorio ed hanno compreso che solo una risposta alternativa in termini economici allo smaltimento può debellare gli effetti nefasti dell’accumulo

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di scarti e rifiuti e battere la “concorrenza” criminale che da tempo ne ha fatto una risorsa a proprio vantaggio. È noto quanto le economie emergenti chiedano di acquistare i loro scarti ai paesi occidentali che non sono in grado di riciclarli. Ben cinque porti del Mediterraneo si contendono oggi il relitto della nave da crociera Concordia. Ridurre dunque al minimo lo smaltimento attraverso il conferimento in discarica è ormai obiettivo condiviso anche se ben lontano dall’essere conseguito. Non pochi sono gli studi sulla possibilità di fare del settore dei rifiuti un’attività organizzata su un piano industriale. Da qualche anno si susseguono convegni dedicati a questa materia e la letteratura in proposito è diventata sempre più copiosa. Non altrettanto si può dire però dello studio sulle ricadute di questo fenomeno sul territorio sia in termini di descrizione dello stato di fatto, sia in termini di previsioni sulle conseguenze delle tendenze in atto, sia in termini di progettazione di modelli spaziali virtuosi ai fini della soluzione del problema nel quadro dell’equilibrio ambientale e della tutela dei nostri paesaggi. Al di là delle numerose inchieste giornalistiche e delle molte raccolte di immagini che fotografano una realtà sempre più allarmante, si sente l’urgenza di elaborazioni scientifiche di conoscenza di questi fenomeni nella loro complessità e di proposte progettuali. La cartografia a disposizione della progettazione urbanistica manca di una identificazione dei luoghi dello scarto e delle reti di relazioni che li alimentano. Siti e flussi non sono né censiti, né studiati. Né per coglierne le criticità, né le potenzialità di trasformazione. Il progetto urbanistico manca degli strumenti necessari a descrivere una realtà che, anche quantitativamente, intuiamo avere forte rilevanza. Sarebbe il caso di misurarla e di descriverne tutte le caratteristiche. Il progetto urbanistico si avvale di rilevazioni insufficienti. Esso non ha finora tenuto presente la realtà di questi luoghi e di queste reti di flussi. I luoghi dello scarto – drosscapes nella recente letteratura – per lo più sussistono in aree indicate come aree verdi, aree di rispetto, aree interstiziali o marginali di perimetri a diversa destinazione d’uso. Né abbiamo ad oggi mappe di rischio a riguardo. Insomma la verità della città reale è ben diversa da quella rappresentata dalle planimetrie colorate dei piani. Sarebbe il caso di aggiornarla. Ci sono una città e un territorio inesplorati che convivono con l’immagine e la cartografia tradizionali ma non coincidono con la nostra percezione ed

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attendono di avere una risposta dalla pianificazione economica, territoriale e dalla progettazione architettonica. Si tratterà dunque di pianificare ubicazione e dimensionamento delle attività tenendo in massima considerazione le problematiche che emergono dalla produzione di scarti e di rifiuti e di progettare le infrastrutture necessarie raccordandole alle altre. Le infrastrutture naturali, le infrastrutture verdi urbane, le infrastrutture della mobilità e della logistica e quelle per la produzione di energia. È prioritario oggi, infatti, rivedere l’insieme delle reti in modo integrato e fare della progettazione infrastrutturale la principale leva del risanamento ambientale. Dalla postazione di architetti è di questa strategia che ci si deve far carico, ovvero delle soluzioni da suggerire in termini di ubicazione, connessioni di rete, qualità spaziali, inserimento nei contesti ambientali e paesaggistici. Si tratterà di elaborare soluzioni nelle diverse dimensioni nelle quali si determina il fenomeno progettando spazi, siti e reti logistiche con i quali far fronte: - al deposito degli scarti e dei rifiuti sul territorio e nelle nostre città; - alla raccolta in centri dedicati; - al trattamento dei materiali selezionati; - alla trasformazione dei sottoprodotti o delle materie prime ricavate in nuovi prodotti; - alla trasformazione degli scarti ultimi in energia. La progettazione di questi impianti deve mirare non solo alla ottimizzazione delle prestazioni per il massimo rendimento nel ciclo produttivo reinnescato secondo un piano industriale collaudato, non solo deve ridurre al minimo i rischi per la sicurezza di chi lavora e di chi abita il territorio interessato, non solo deve ridurre al minimo l’impatto con l’ambiente rispettando tutti gli indicatori definiti dalle norme, essa deve mirare alla conquista di un nuovo spazio dell’immaginario architettonico. La presenza rilevante di questi impianti nei nostri paesaggi deve impegnarci in una stagione di ricerca architettonica come fu in passato per il progetto delle ferrovie, degli aeroporti o degli stabilimenti industriali, e come fu ogni volta che si dovette dar forma a nuovi artefatti a servizio degli uomini e della loro convivenza. Non si tratta semplicemente di inserire con il minimo impatto ambientale ed estetico, ma di considerare i drosscapes componenti dei nostri paesaggi a tutti gli effetti e dare loro forma, non di nasconderli o di mimetizzarli.

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Si dischiude pertanto una gamma di temi architettonici quasi inesplorata, interpretata sinora in una logica solo funzionalistica, in base alla prestazione tecnica riferita all’efficienza della macchina ed alla coerenza ed economia del sistema di produzione, come se esso fosse chiuso e autoreferenziale. Si annuncia la possibilità di nuove frontiere futuriste: al mito della velocità e della macchina dominatrici del mondo, si sostituirà quello della pacificazione con la biodiversità della natura e della riconciliazione nella riscoperta della cura, nel rispetto dell’ospitalità profanata del nostro pianeta? Processi, reti, luoghi dello scarto La produzione di scarti e rifiuti fa capo a processi: questi disegnano reti di relazioni tra soggetti e tra spazi. I vari settori della produzione agricola e industriale, della distribuzione, dell’amministrazione, della ricerca, del tempo libero descrivono processi che disseminano i loro scarti in termini di occupazione di suoli, di materiali e di flussi in uno spazio ormai globalizzato. L’estensione e la complessità dei flussi che descrivono le diverse filiere della produzione dipendono dai loro componenti e dai loro materiali, dalle strutture del riciclaggio e dall’organizzazione dei mercati dei sottoprodotti che se ne ricavano. Non tutte le filiere danno luogo ad attività del riciclo organizzate sul piano industriale, ben strutturate e pianificate per dimensione e localizzazione secondo criteri validi. Ed in ogni caso, quasi mai si fanno carico del proprio impatto ambientale generando stabilimenti e siti definiti da morfologie di qualità. Può capitare che i siti della raccolta e quelli della trasformazione siano tra loro lontanissimi proprio perché conseguono alle condizioni imposte dal mercato in situazioni di arretratezza del settore di trasformazione e riciclo dei rifiuti e degli scarti. I costi e le ricadute negative del riciclo devono essere ricondotti ad un controllo razionale, solo così l’ambiente potrà realmente beneficiarne. Se infatti l’industria del riciclo non fosse a sua volta sostenibile dal punto di vista ambientale finirebbe per peggiorare addirittura la situazione presente. Sarà pertanto necessaria una pianificazione secondo la redazione di un piano industriale delle attività del riciclo per i diversi settori produttivi e studiare il dispiegamento delle sue infrastrutture sui territori in modo che realizzino le massime convenienze per i settori ma anche la tutela degli ambienti e dei paesaggi coinvolti.

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Le reti, dunque, sono dettate dalle diverse filiere delle singole attività produttive e dalle reciproche interrelazioni. Lungo i tracciati sui territori di rifiuti e scarti delle filiere di attività si costituiscono i luoghi dello scarto. Essi debbono essere oggetto di una progettazione integrata non considerata solo dal punto di vista funzionale all’efficienza della filiera ma dal punto di vista della riduzione del loro impatto sull’ambiente e sui paesaggi, della qualità dello spazio. Isole ecologiche, stazioni di raccolta, impianti di selezione e rottamazione, impianti di trattamento dei materiali selezionati, impianti di produzione di energia derivante dalla trasformazione dei sottoprodotti derivati vanno progettati in un’ottica di efficientamento della rete e di qualificazione degli spazi e dei paesaggi che costituiscono. Per l’abitazione, ad esempio, la raccolta differenziata impone la progettazione dello spazio domestico della cucina; dello spazio della raccolta condominiale; dello spazio per la raccolta dalla strada o dall’isola ecologica. Indirizzi progettuali Uno sguardo che si limitasse a studiare il problema della progettazione di questi spazi dal solo lato dell’efficienza di filiera senza mettere al centro né le relazioni di rete con le altre filiere nel teatro d’azione sul territorio, né le loro qualità architettoniche finirebbe per produrre nuovi scarti. Il progetto di questa rete di nuovi luoghi del riciclo degli scarti e dei rifiuti sarà pertanto estremamente complesso: - dovrà tenere presente i problemi e le opportunità che la liberazione di discariche e luoghi dello scarto portatori di degrado riconsegnano ai paesaggi ed agli usi delle comunità insediate. I drosscapes dovranno essere bonificati, la loro bonifica comporterà costi importanti ma necessari per il risanamento ambientale e per il restauro del paesaggio. Ma i costi saranno giustificati dal fatto di poter essere impiegati prioritariamente per realizzare una nuova rete di spazi pubblici. La restrizione di questo genere di spazi, cui stiamo assistendo negli ultimi decenni deve essere interrotta a vantaggio della restituzione ai cittadini della rete di spazi nei quali possano riconoscere i diritti-doveri della propria appartenenza ad una comunità e la propria sovranità in quanto beni comuni; - dovrà attribuire nuovi valori e nuovi usi alle aree liberate e questo, ovviamente non solo in rapporto alle suscettività delle stesse, ma alla

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possibilità di istituire le relazioni territoriali e funzionali più idonee al conseguimento degli obiettivi della strategia di rigenerazione definita per l’area vasta di cui quelle aree fanno parte; - dovrà individuare dove trasferire le attività delocalizzate. E questo porrà il problema della scelta tra una localizzazione di prossimità e una espulsione dal territorio considerato. Porrà, più in generale, il problema di scegliere tra una strategia della diffusione e una strategia della concentrazione dei luoghi per la raccolta e il trattamento di scarti e rifiuti che, ancora una volta, non dovrà dipendere soltanto da criteri di ottimizzazione delle filiere e del piano industriale nel quale sono ripensate, ma anche dalla idoneità a costituire nuove infrastrutture compatibili o addirittura di sostegno delle infrastrutture naturali; - dovrà tenere conto, infine, dell’accettabilità sociale dell’ubicazione mediando tra le esigenze della razionalità dei processi di trasferimento e di trattamento degli scarti prodotti dalle diverse filiere e le esigenze delle comunità insediate, il cui consenso sarà necessario ai fini della pacifica attuazione del progetto.

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Opicinus de’ Canistris, il Bacino del Mediterraneo, BAV, Codice Vaticano Latino 6435, fol. 73v, particolare, metà del XIV secolo.

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DROSS-MAPPING LE TERRE DEI MOSTRI Piero Ostilio Rossi >UNIROMA 1

La cartografia è una disciplina nella quale storicamente il rigore e la precisione scientifica convivono con una fantasia sfrenata e talvolta perfino giocosa perché nella costruzione di una mappa è sempre necessario un vigoroso atto d’immaginazione. Una mappa infatti “non rappresenta il mondo ma lo produce attraverso l’immaginazione” come ci ricorda Jerry Brotton, professore di Studi rinascimentali alla Queen Mary University di Londra nel suo straordinario libro La storia del mondo in dodici mappe (Feltrinelli, Milano 2013). “Per secoli – scrive Brotton – il solo modo di comprendere il mondo fu il ricorso alla fantasia e le mappe del mondo mostravano, in modo immaginifico, quale aspetto avrebbe potuto avere il mondo fisicamente inconoscibile. I cartografi non si limitano a riprodurre il mondo ma lo costruiscono (…) Una mappa manipola sempre la realtà che cerca di mostrare. Essa opera per analogia: su una mappa una strada è rappresentata da un simbolo particolare che ha ben poche somiglianze con la strada stessa, ma coloro che guardano la mappa accettano il fatto che il simbolo sia come una strada. Invece di imitare il mondo, le mappe elaborano segni convenzionali che finiamo per accettare come i sostituti di ciò che essi non potranno mai riprodurre fedelmente” (Ibidem, p. 26).

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È il problema con il quale il cartografo si confronta abitualmente: nel tentativo di produrre una mappa è necessario che egli ricorra ad un procedimento di riduzione, di selezione e di rappresentazione analogica anche perché l’eccesso di precisione, come ci ricorda il ben noto paradosso di Borges (“I Collegi dei Cartografi eressero una mappa dell’Impero che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso...” – Borges J.L., Del rigore nella scienza, in «Los Anales de Buenos Aires», 1946) nuoce quanto la vaghezza alla capacità di sintesi che la mappa deve possedere e che deve esprimere attraverso il suo impianto grafico. La storia della cartografia mostra come le differenti sintesi proposte dalle mappe siano instrumentum regni e quindi strettamente legate ai contesti storici, culturali, religiosi e politici che le hanno prodotte e come la loro capacità di immaginazione e di trasfigurazione sia funzionale a specifiche strategie. Ho avuto occasione di misurarmi con questa realtà molti anni fa, in occasione della mia tesi di laurea quando, su indicazione del mio relatore Paolo Marconi, analizzai le sorprendenti mappe redatte da un singolare cartografo trecentesco, il monaco lombardo Opicinus de’ Canistris. Opicinus è autore di due codici manoscritti, redatti intorno alla metà del secolo e conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Codice Vaticano Latino 6453 e Codice Palatino Latino 1993), nei quali la sua visionaria imaginerie a sfondo cosmologico e geografico si unisce ad un non comune talento di cartografo e di disegnatore. La sua geografia ha infatti un profondo carattere politico e nelle sue mappe la dimensione strettamente cartografica – che stupisce per la sua corrispondenza alla realtà se confrontata con altre mappe coeve – è trasfigurata attraverso un livello di comunicazione simbolico e allegorico. Si tratta di una sorta di geografia politica di carattere antropomorfico che ha il suo baricentro nel bacino del Mediterraneo (che diviene talvolta il diabolicum mare e assume la forma di un diavolo), nella quale l’Europa e l’Africa hanno sembianze ora maschili ora femminili e sembrano confabulare tra loro attraverso lo stretto di Gibilterra. Nel primo manoscritto (il Palatino Latino 1993) l’Europa viene di solito rappresentata come un uomo – un cavaliere – e l'Africa come una donna che sussurra senza pudore al suo orecchio; nel secondo invece l’Europa è disegnata come una giovane donna insidiata da un subdolo arabo. L’Africa “perfida meretrice” del primo manoscritto manifesta le sue dubbie tendenze invitando con il dito di Capo Bon il cavaliere ad avvicinarsi mentre con l’altra mano (nascosta) si accinge a sottrargli la

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penisola del Peloponneso. Ma in alcune mappe l’Europa ha anche attributi di carattere sessuale di ambigua androginia con il sesso femminile a Venezia e quello maschile a Pavia, la città natale di Opicinus. La singolarità delle sue visioni geografiche emerge ancor più se messa a confronto con l’iconografia e la struttura cartografica delle più importanti mappe medievali del XIII e del XIV secolo; ne cito solo due tra le più note di quel periodo: le mappaemundi di Ebstorf e di Hereford, la prima redatta intorno al 1240, la seconda – forse la più famosa del mondo cristiano e non a caso scelta da Brotton tra le dodici analizzate nel suo libro – intorno al 1300. Il loro impianto è molto simile: sono orientate con l’est in alto, hanno la città di Gerusalemme come punto centrale e sono strettamente connesse a figurazioni di carattere teologico; entrambe non possono essere considerate delle mappe nel senso moderno del termine: sono immagini del mondo definite dalla teologia, non dalla geografia, nelle quali i luoghi sono visti attraverso la fede e non per la loro posizione (Brotton J., op. cit., p. 112) e per questo la logica della loro forma ha un carattere centrifugo: procede da Gerusalemme verso l’esterno e più ci si allontana dal centro, più il disegno della mappa e la realtà geografica moderna divergono. In tutte e due le mappe, ma soprattutto nella mappamundi di Hereford la descrizione delle terre incognite è affidata a notazioni di carattere figurativo che ne evocano il mistero, gli enigmi e la pericolosità: sono le Terre dei Mostri. Nell’immaginario medievale, il mostro è una figura favolosa e terrificante perché è una forma contro natura nella quale, come è tipico di ogni processo immaginativo che combina in modi diversi dalla norma ciò che conosce, le figure antropomorfe e zoomorfe sono il risultato inatteso e spesso bizzarro di parti e di elementi noti che vengono deformati, straniati o connessi tra loro in maniera insolita o inverosimile. Seguiamo la descrizione di Brotton della Mappa di Hereford: “Quanto più in alto sulla mappa si guarda, tanto più sparsi diventano gli insediamenti, le leggende più complicate e strani mostri e strane forme cominciano a fare capolino. Una linea attraversa l’Asia Minore e ci viene detto che 'vede attraverso i muri e urina una pietra nera'. L’Arca di Noè sta ancora più in alto, in Armenia, al di sopra della quale due creature terrificanti camminano avanti e indietro attraverso l’India. A sinistra, una tigre; a destra una 'manticora' con 'una tripla fila di denti, il volto di un essere umano, gli occhi gialli il colore del sangue, un corpo da leone, coda da scorpione, voce

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1_ Opicinus de’ Canistris, il Bacino del Mediterraneo, BAV, Codice Palatino Latino 1993, fol. 20r, particolare, metà del XIV secolo.

2_ Un Blemma lungo le coste dell’America del Sud nella Mappa di Piri Reis, 1513.

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sibilante'. (…) Se ci si addentra in Asia la mappa rappresenta il Vello d’Oro, il mitico grifone, scene di cannibalismo grottesco e una nota sui temibili sciti che sono detti vivere in caverne e fare coppe per bere con le teste dei loro nemici”. “Passando sulla destra alla rappresentazione dell’Asia – prosegue Brotton – la mappa immagina un mondo non meno meraviglioso e terrificante. Coccodrilli, rinoceronti, sfingi, unicorni, mandragole, fauni e una razza molto sfortunata 'con un labbro prominente con cui si fanno riparo al volto dal sole' abitano le regioni a sud-est. (…) La raffigurazione dell’Africa non ha alcun rapporto con la realtà geografica: la sua unica funzione sembra sia spiegare le origini del Nilo e mostrare un mondo di altri popoli 'mostruosi'. Andando verso sud dal Monte Espero, la mappa raffigura una serie di creature fantastiche, con caratteristiche e comportamenti bizzarri (…) ancora più a sud la mappa raffigura 'Etiopi Marmini' con quattro occhi; un popolo senza nome 'che ha bocca e occhi sulle spalle', i 'Blemmi' con 'la bocca e gli occhi sul petto', i Filli, che 'mettono alla prova la castità delle loro mogli esponendo i neonati ai serpenti' (in altre parole, uccidono i neonati concepiti illegittimamente); e gli Imantopodi che hanno la sfortuna di dover 'strisciare più che camminare'. (…) Andando a sud del punto in cui una mappa moderna porrebbe l’equatore, le razze presentano caratteristiche ancor più mostruose e bizzarre. Una figura barbuta con un turbante, seno di donna e genitali maschili e femminili indica un popolo di 'entrambi i sessi, innaturale in molti modi'; sopra un individuo senza nome con 'una bocca sigillata' che può mangiare solo da una cannuccia; sotto 'Sciapodi che, anche se hanno una sola gamba, sono estremamente veloci e sono protetti dall’ombra delle piante dei loro piedi; gli stessi sono chiamati anche Monoculi'. La mappa raffigura gli Sciapodi con una gamba sola (e tre dita del piede in più), ma anche con un solo occhio. Infine, il catalogo delle razze mostruose si completa al largo della costa orientale dell’Africa con un popolo senza orecchie, gli Ambari, le piante dei cui piedi sono opposte” (Ibidem, pp. 110-112). Gli Sciapodi, gli Ambari (abitanti degli antipodi) e i Blemmi della Mappa di Hereford sono figure mostruose ben note nel mondo figurativo dei secoli dell’epoca di mezzo. Jurgis Baltrusaitis, che è tra i più importanti studiosi dell’iconologia medievale (cfr. Baltrusaitis J., Il medioevo fantastico, Adelphi, Milano 1973), fa risalire le immagini di questo genere di creature antropomorfe alla tecnica di costruzione dei “grilli” gotici, termine che

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in origine designava piccoli esseri con corpi composti da combinazioni di teste e poi, più in generale, esseri fantastici formati di parti di animali diversi: teste su zampe, teste su zampe con testa di uccello o di cavallo, volti umani sul petto di cavalli o sul petto di aquile, teste su gambe, teste multiple, ecc. I Blemmi, ad esempio, sono una stirpe mostruosa formata da creature prive di testa di cui parla Plinio il Vecchio nel I secolo nella Naturalis Historia: “si dice che i Blemmi non abbiano il capo, e che abbiano la bocca e gli occhi nel petto”; Plinio riprende per altro quanto scriveva Erodoto già nel V secolo a.C. riportando la credenza diffusa tra gli abitanti della Libia che ritenevano che la parte occidentale del loro Paese fosse abitata da uomini privi di testa e con i lineamenti nel torso. Uno dei questi esseri appare anche sulle coste dell’America del Sud nella Mappa dell’ammiraglio turco Piri Reis (1513). Ma quando la scoperta del Nuovo Mondo e i viaggi dei grandi navigatori del XVI secolo portarono i confini delle mappe al di là dell’Oceano, furono i mari a trasformarsi nel luogo del mistero e del pericolo e a popolarsi quindi di mostri e di esseri fantastici. Un repertorio di queste creature occuperebbe molte pagine: Chet van Duzer ne ha di recente pubblicato un inventario nel suo bel libro Sea Monsters on Medieval and Reinassance Maps (Van Duzer C., Sea Monsters on Medieval and Reinassance Maps, The British Library, London 2013). Anche in questo caso, un rapido cenno ad alcune carte di grande rilievo espressivo: la splendida “Carta Marina” di Olaus Magnus (1539), la Cosmographia Universalis di Giacomo Gastaldi (1561) o la mappa dell’Islanda del cartografo fiammingo Abraham Ortelius pubblicata nel 1570 nel volume Theatrum Orbis Terrarum. La “Carta Marina” è la prima carta geografica dei Paesi del nord Europa a noi nota e i mari che descrive sono quelli, compresi tra l’Islanda, la Norvegia e la Scozia, che hanno al centro l’arcipelago delle Orcadi e le Isole Fær Øer. Sono mari terribili e tempestosi abitati da orche, balene, draghi marini, serpenti di mare, pistrici, crostacei giganti, ma anche un mostro “visto nel 1537”, balene che divorano vascelli, marinai che ancorano la loro nave ad una balena scambiandola per un’isola. I cartografi del Medioevo e del Rinascimento costruirono a loro volta “grilli” marini, un fantastico bestiario ottenuto combinando in maniera continuamente variata un ampio repertorio di musi, pinne, creste, spine, zanne, denti, artigli e possenti code. Tra le creature misteriose e aggressive che popolano

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i mari appaiono sirene (ormai con il corpo di pesce e non più di uccello, come in Omero), ippocampi, draghi che sputano fuoco, tritoni con coda di serpente, ma anche misteriosi vecchi con lunghe barbe e mani palmate come nella Cosmographia di Gastaldi o nell’atlante manoscritto di Urbano Monte (1590). In una delle mappe di Gastaldi (La descriptione dela Puglia, 1567) appare perfino un singolare e buffissimo maiale marino con testa di cane e zampe palmate (cfr. Warner M., Here Be Monsters, in «New York Review», 19 dicembre 2013). I mostri continueranno a popolare i mari delle carte geografiche fino al XVII secolo, poi lentamente, anche per l’evolversi delle conoscenze zoologiche, scompariranno lasciando il posto a mappe con un tripudio di navi e sempre meno sirene in vista. Quei mostri rimarranno però a lungo radicati nella fantasia degli scrittori: basti pensare a I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, a Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne o a Moby Dick di Herman Melville. Anche José Arcadio Buendia, che ignorava completamente la geografia del territorio intorno a Macondo, sapeva però che a sud la palude grande “si confondeva a occidente con una distesa acquatica senza orizzonti, dove c'erano cetacei dalla pelle delicata con testa e busto di donna che perdevano i naviganti con la malia delle loro tette madornali” (Garcia Marquez G., Cent’anni di solitudine (1967), Feltrinelli, Milano 1973, p. 18). Oggi l’unico mostro d'acqua che sopravvive tenacemente nell’immaginario collettivo è “Nessie”, il mitico mostro di Loch Ness, ma i mari sono in realtà popolati da nuovi mostri assai meno immaginari e altrettanto terrificanti: sono le isole di spazzatura – in gran parte detriti di plastica – che galleggiano sulle superfici degli oceani e che si sono accumulate nel corso degli ultimi cinquant’anni per l’azione dei venti e delle correnti sino a raggiungere estensioni inimmaginabili. Il più grande di questi accumuli di rifiuti è la Great Pacific Garbage Patch che fluttua – come ci ricorda Rosario Pavia (Pavia R., No waste, in «PPC. Piano Progetto Città», n. 27-28, dicembre 2013, pp. 10-12) – in un’area compresa tra la California e le isole Hawai e, nelle stime più prudenti, raggiunge un’estensione di 700.000 chilometri quadrati (l’Italia è grande 301.000 kmq). “The Garbage Patch State” è infatti il titolo dell’installazione creata dall’artista Maria Cristina Finucci nella corte di accesso a Ca’ Foscari in occasione della Biennale d’Arte di Venezia del 2013 per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su un fenomeno che sta assumendo dimensioni sconvolgenti tanto che l’arcipelago dei rifiuti ha raggiunto ormai un’estensione

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3_ Abraham Ortelius, Mappa dell'Islanda, particolare, 1570.

4_ Urbano Monte, Atlante manoscritto, particolare, 1590.

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confrontabile con quella di un grande Stato. Fondato ufficialmente a Parigi l’11 aprile 2013, lo Stato di Plastica – cinque isole con una estensione totale stimata in molti milioni di kmq – ha aperto la sua prima “ambasciata” al MAXXI di Roma nell’aprile del 2014. E proprio delle Terre dei Mostri, a proposito del problema dell’accumulo e dello smaltimento dei rifiuti, ha parlato il geografo Franco Farinelli intervenendo all’Aquila, all’incontro conclusivo del seminario Re-cycle Italy. Riciclare territori fragili organizzato dall’Unità di Ricerca di Pescara del nostro PRIN il 9 e il 10 ottobre 2013. Uno dei temi che l’UdR della "Sapienza" sta affrontando nell’ambito del PRIN riguarda proprio come mappare e come rappresentare queste moderne Terre dei Mostri, i paesaggi dell’abbandono e dello scarto che oggi infestano le aree periurbane delle maggiori città e sembrano materializzare Leonia, la città invisibile di Calvino che nel suo metabolismo produce cumuli enormi di spazzatura di ogni genere (“Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori dalla città, certo: ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto…” – Calvino I., Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, pp. 119-121). Né le aerofotogrammetrie, né le tavole tematiche dei Piani Regolatori, né gli studi di ingegneria ambientale e nemmeno le immagini satellitari di Google Earth riescono infatti a restituire una raffigurazione convincente di questa città inversa, diffusa e pervasiva che con logica sistemica si insinua ai margini delle infrastrutture, dei sistemi idrografici, nelle aree neglette, nelle maglie larghe dei tessuti generati dallo sprawl urbano e ingloba edifici in abbandono, complessi industriali dismessi, depositi di ogni genere, discariche. Non sono sufficienti aride carte bidimensionali che individuino le superfici occupate da questi paesaggi scoria; in esse il degrado e l’incuria sono sterilizzati dalla gamma multicolore delle campiture necessarie a definire legende sufficientemente articolate. Se la prima operazione è quella di mappare i drosscapes per individuarne sottoinsiemi, caratteri comuni e specificità, il passo successivo dovrebbe essere quello di fornirne una convincente rappresentazione; quello che stiamo studiando di ottenere utilizzando le potenzialità espressive dei sistemi GIS – e di cui si dà conto in maniera dettagliata in un’altra sezione di questo quaderno (cfr. Reale G., Cerrone D., Alecci M., Le aree dello scarto:

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studi delle relazioni spaziali, pp. 127-139) – è un’immagine dinamica capace di dare corpo e figura al mostro, di superare il principio della trasposizione grafica di una ricognizione per trasmetterne il valore percettivo ed emozionale. Nei dipinti di Hyeronimus Bosch, e dei suoi seguaci, ad esempio, spesso la natura e in particolare le rocce e le montagne assumono particolare vigore espressivo attraverso figurazioni teratomorfe e antropomorfe che trasfigurano il paesaggio in mostri ora aggressivi ora sonnolenti proprio per metterne in scena la manifesta ostilità. Il San Cristoforo di Pieter Huys sembra mettere in scena quella “terra dei fuochi” campana – territorio di sversamento illegale di rifiuti di ogni genere – di cui si sono purtroppo di recente occupate le cronache, anche giudiziarie, del nostro Paese. Nella letteratura scientifica più recente, le aree in stato di degrado o di abbandono per le cause più diverse vengono indicate con i termini brown±HOGV, JUH\±HOGV e JUHHQ±HOGV. I EURZQ±HOGV sono di norma terreni precedentemente utilizzati a scopi industriali o commerciali che sono fisicamente degradati da elementi inquinanti o da basse concentrazioni di rifiuti tossici o comunque pericolosi. In generale, si tratta di aree industriali o artigianali dismesse, depositi di materiali o stabilimenti per attività che prevedevano l’uso di particolari sostanze chimiche. I JUH\±HOGV sono invece aree e manufatti abbandonati o economicamente sottoutilizzati perché scarsamente efficienti; in origine la parola veniva usata per definire i "ghostboxes", i centri commerciali dismessi, e l’uso del termine grey sta ad indicare le grandi estensioni di asfalto – per lo più aree di parcheggio – che caratterizzano questi siti. Più in generale, il termine può essere utilizzato per designare i luoghi dell’abbandono e quindi aree di norma recintate sulle quali insistono fabbricati di modesto livello, spesso deteriorati o fatiscenti. I JUHHQ±HOGV sono terreni non edificati e incolti situati prevalentemente in aree urbane ma talvolta anche zone rurali; si tratta spesso di aree non coltivate perché in attesa di una destinazione economicamente più redditizia in termini di rendita urbana o di estensione limitata e quindi non compatibili con le dimensioni minime di una coltivazione o di un’azienda che sia produttiva; talvolta includono piccoli fabbricati agricoli o di servizio. In particolare, i JUHHQ±HOGV sono un tipico sottoprodotto dello sprawl urbano e di un genere di crescita della città che – nel nostro Paese – si tende a definire, con un consolidato eufemismo, “spontanea” ma che è in realtà una ben sperimentata forma di sviluppo abusivo e illegale.

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%URZQ±HOGV, JUH\±HOGV e JUHHQ±HOGV sono alla base della nostra mappatura e delle nostre valutazioni qualitative; tutti insieme rappresentano una componente rilevante di quella figura urbana per la quale Rem Koolhaas ha coniato nel 2001 il termine junkspace, “spazio spazzatura”, che include aree del tutto prive di qualità architettonica ma spesso ricche di utilità economica. Se lo space-junk (la spazzatura spaziale) sono i detriti umani che ingombrano l’universo – scrive Koolhaas – il junk-space (lo spazio spazzatura) è il residuo che l’umanità lascia sul pianeta. Il prodotto costruito della modernizzazione non è l’architettura moderna ma il junkspace. Il junkspace è ciò che si coagula mentre la modernizzazione è in corso, costituisce una delle sue ricadute. In questa visione apocalittica della città contemporanea è come se tutte le conquiste della modernizzazione fossero simultaneamente espulse nel territorio come per un improvviso rigurgito. Di questa forma di rigurgito, di questa nuova “terra dei mostri”, pensiamo sia necessario studiare una forma di rappresentazione.

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WASTE, DROSSCAPE AND PROJECT IN THE REVERSE CITY Carlo Gasparrini >UNINA

Il ritorno dei mostri nelle immagini di città “Gorgogliando, nel corso del Seicento i mostri sembrano sparire dalle carte geografiche, per agguattarsi in fondo ai mari dove si erano ritirati” (Farinelli F., I mostri, l’Atlante e il mondo, in I segni del mondo. Immagine FDUWRJUD±FD H GLVFRUVR JHRJUD±FR LQ HWj PRGHUQD, La Nuova Italia, Scandicci 1992). Così Franco Farinelli più di vent’anni fa raccontava la scomparsa dei mostri dalla faccia della Terra espulsi da un mostro più grande e implacabile, “il percorso terrestre rettilineo”, nella dura battaglia tra valori e scale combattuta alle soglie della geografia moderna per “misurare” lo spazio (Kehlmann D., La misura del mondo, Feltrinelli, Milano 2006; ed. or. Die vermessung der welt, Rowohlt Verlag GmbH, Reinbeck 2005) a cui si aggiunse nel Novecento quella per “sincronizzare” il tempo (Galison P., Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincaré. Imperi del tempo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004.; ed. or. Einstein’s Clocks, Poincaré’s Maps. Empires of Time, W. W. Norton, New York 2003). Negli ultimi decenni le retoriche pervasive del paesaggio e le semplificazioni spazio-temporali delle restituzioni cartografiche non sono state in

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grado di descrivere le dinamiche contestuali di miniaturizzazione/bigness e sovrapposizione/distanziamento dei materiali urbani della città contemporanea. Né di dar conto delle dinamiche dei flussi che li attraversano, rendendo indecifrabile il loro rapporto con i luoghi e con gli andamenti sussultori e ondulatori dei loro usi da parte di combinazioni variabili di soggetti sociali autoreferenziali. Quelle retoriche semplificazioni hanno quindi opposto una fiera e intenzionale resistenza anche al riemergere dei mostri legati alla macchina impazzita del metabolismo urbano, quei luoghi dello scarto e del rifiuto spesso invisibili agli occhi distanti e meccanici delle rilevazioni aerofotogrammetriche e alle codificazioni topografiche standardizzate, sia sopra sia sotto la pelle del pianeta. Oggi però i mostri cercano nuovamente uno spazio adeguato nelle nostre descrizioni interpretative e questo richiede uno sforzo di radicale ripensamento dello strumentario tradizionale per poter rovesciare la priorità delle scale rispetto ai valori, affermata dalla modernità. O forse addirittura di tentare una possibile conciliazione virtuosa tra queste due opzioni del racconto urbano, così distanti e conflittuali fino ad oggi. “La città che conosciamo, oltre la memoria e la topografia, nasconde una moltitudine di attività sconosciute” che costituiscono “il lato in ombra della nostra presunta realtà sterilizzata” in cui è sancita la separazione del desiderabile dal non voluto (Scanlan J., Spazzatura. Le cose (e le idee) che scartiamo, Donzelli, Roma 2006; ed. orig. On garbage, Reaktion Books, London 2005). Quando lo scarto e il rifiuto entrano in contatto con “il rispettabile e il pregiato”, gli esiti pervasivi di questa perdita di controllo del processo mettono in crisi la città e la razionalità stessa della separazione tra “ciò che ha valore da ciò che non ne ha”. La costruzione di adeguate modalità interpretative del “dark side of change” (Lynch K., Wasting away, Sierra Club Books, San Francisco 1990; trad. it. a cura di Southwork M., Deperire, Cuen, Napoli 1992) è un riferimento ineludibile per maneggiare quella città inversa costituita dagli spazi dilatati prodotti dall’esplosione urbana in cui vivono anche i mostri del metabolismo urbano, bellamente ignorati dalle produzioni cartografiche correnti. Questo sguardo non ha infatti ospitalità nelle tradizionali modalità di rappresentazione zenitale o diagonale. Nel corso degli ultimi decenni è stato piuttosto campo di ricerca di fotografi, scrittori e artisti VLWH VSHFL±F, più raramente ha informato le immagini del-

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la città nei piani e nei progetti di architetti e urbanisti. D’altro canto non si tratta di aggiungere un layer in più ai GIS, ma piuttosto di modificare sostanzialmente le forme e le tecniche della rappresentazione attraverso uno sguardo progettuale, riaffermando nuovamente la centralità della topologia rispetto alla topografia. La rappresentazione dinamica e tridimensionale relativa alla crisi dei cicli di vita di suoli e acque per effetto delle dinamiche pervasive di produzione degli scarti e dei rifiuti della città mette infatti in tensione sia le tradizionali categorie descrittive dello spazio, sia le astratte e discontinue scansioni temporali delle rilevazioni. Il bisogno di intercettare e raccontare adeguatamente quei processi tende dunque a produrre una “deformazione” dello spazio/tempo per restituire adeguatamente la loro intensità e variabilità. La realtà aumentata della nostra esperienza quotidiana di esplorazione attraverso Google Earth e i suoi derivati suggerisce una strada diversa di sperimentazione interpretativa e di rappresentazione, capace di dare risposta ad alcune esigenze che ci appaiono oramai domestiche e quotidiane. Quelle cioè di racconti non lineari che consentono attraversamenti bidirezionali di scale attraverso continui switch dallo sguardo d’assieme al collage multidimensionale di immagini, dati, testimonianze e racconti dello spazio urbano e delle sue pratiche in continuo aggiornamento. In questo senso, la descrizione interpretativa mantiene una tensione fertile tra il disegno selettivo e comunicativo della città inversa, deformata dai suoi mostri e dai suoi progetti, e le continue incursioni nella varietà dei suoi materiali, luoghi e flussi. Network paesaggistici e città inversa. Materiali e cicli di vita dei drosscapes La reverse city è un tema che ricorre da tempo nel dibattito sulla città. Anni fa Paola Viganò ci ha raccontato le radici di una progressiva consapevolezza di architetti e urbanisti in merito alla crescente inversione dei rapporti tra pieni e vuoti legata ai processi di modificazione della città contemporanea: da Colin Rowe ai disurbanisti e al Frank Lloyd Wright di Brodoacre City, fino alle proiezioni della città-regione e agli esiti dell’esplosione urbana in cui il vuoto “diventa elemento strutturale e strutturante della città e del territorio” (Viganò P., La città elementare, Skira, Milano 1999). Ma il bisogno di fare i conti oggi con questo rovesciamento non è solo riconducibile ad un aggiornamento delle tradizionali categorie morfo-

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1_ Napoli, Mappa del Duca di Noja, 1775. Dettaglio della scala metrica con mostri.

2_ +LODU\ 3RZHOO 7KH *DPHV IRWR GL )HGHULFR )LJj 7DODPDQFD

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logiche del progetto di suolo e delle figure di città che esse producono. Né solo ad un bisogno di “abitare nella natura”, in cui gli spazi aperti divengono il “naturale” complemento di nuove forme insediative. Si tratta piuttosto di un radicale rovesciamento di attenzione e di priorità in cui il vuoto e il suo elevato potenziale ambientale, economico e sociale diviene un attore principale del ripensamento paesaggistico e valoriale delle città. Le macro e microporosità della dispersione urbana sono attraversate da flussi e aspettative di diversa consistenza e provenienza, ingombrate da usi specializzati o incerti e transitori e da relitti di economie rapidamente scomparse, da ecologie in crisi prodotte dalla frammentarietà decisionale della macchina urbana e dal suo uso irrazionale di suoli, acque, rifiuti ed energia. Nel vuoto il protagonista è dunque la densità del paesaggio nella sua accezione più dinamica, preoccupante ma anche promettente campo fertile per la convergenza di una molteplicità di domande e azioni che lavorano sulle relazioni tra flussi e luoghi. Qui interagiscono, si giustappongono e spesso confliggono il mosaico degli spazi rurali urbani e periurbani (ruralscapes), il pattern delle acque superficiali e profonde (waterscapes), il sistema delle reti infrastrutturali (infrascapes) e la diffusione delle aree di scarto e rifiuto (drosscapes). Questi paesaggi artificiali sollecitano i margini interni ed esterni della città, configurando un sistema di landscape networks che contribuiscono a ripensare la sua forma, la sua ecologia e la sua offerta “pubblica” di spazi. Il loro rafforzamento valorizza la porosità urbana facendo leva su una rete di spazi aperti multifunzionali alimentati da processi sociali di salvaguardia e valorizzazione di alcuni “beni comuni” irrinunciabili, dando nuova linfa all’intuizione del “progetto di suolo” degli anni ‘80 (Secchi B., Progetto di suolo, in «Casabella», n. 520-521, 1986, e Progetto di suolo 2, in Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero, a cura di Aymonino A. e Mosco V.P., Skira, Milano 2006). In questo senso essi possono contestualmente contribuire ad un diverso metabolismo urbano, basato su princìpi di resilienza della città e sulla sua capacità adattiva alle domande indotte dai cambiamenti climatici sia dal punto di vista ambientale, sia dal punto di vista sociale e produttivo, attraverso lo sviluppo di una diversa base economica, una più robusta coesione territoriale, nuovi valori di senso e d’uso degli spazi urbani. I network di infrastrutture blu, green e slow sono inoltre in grado di produrre una progressiva metamorfosi dei diversi pattern insediativi in matrici di

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paesaggio, ospitando i dispositivi diffusi della loro rigenerazione ecologica e partecipando attivamente al riciclo delle risorse scarse (Gasparrini C., Nuovi racconti della città contemporanea, in «Urbanistica», n. 140, 2009 e Città da riconoscere e reti eco-paesaggistiche, in «PPC», n. 25-26, 2011). I drosscapes possono trasformarsi dunque da “buchi neri” in materiali essenziali e prioritari per l’attivazione di tattiche ancorate a questa prospettiva strategica. Per Alan Berger (cfr. Berger A., Drosscape. Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York 2007; Designing the Reclaimed Landscape, Taylor and Francis, New York 2008; Systemic Design can change the world, SUN, Delft 2009) in questa grande e variegata famiglia rientrano i vuoti residuali nei tessuti (landscapes of dwelling), i depositi temporanei (landscapes of transition), gli spazi infrastrutturali interstiziali (landscapes of infrastructure), le discariche (landscapes of obsolescence), i centri commerciali abbandonati (landscapes of exchange), le basi militari e altri EURZQ±HOGV (landscapes of contamination). Le sue riflessioni sono alimentate da una crescente consapevolezza che, negli Stati Uniti, ha assunto la dimensione del fenomeno. Da circa vent’anni la United States Conference of Mayors ha avviato una ricognizione dei drosscapes, quantunque con riferimento alla sola componente dei EURZQ±HOGV. Supportata anche da specifici atti legislativi – come la “Small Business Liability Relief and Brownfields Revitalization Act” del 2002 – la USCM ha posto progressivamente al centro della propria attenzione e delle proprie azioni le politiche di rigenerazione di queste aree. In una sequenza serrata di rapporti è stata evidenziata la dimensione, la gravità e la dinamica del fenomeno che, pur in assenza di un censimento dettagliato ed esaustivo, registra un numero complessivo di siti inquinati oscillante tra i 400 e i 600mila. Di questi solo una piccola parte era stata interessata nel 2010 da processi di bonifica e trasformazione, 25mila siti per un’estensione di circa 15mila ettari (USCM – United States Conference of Mayors, 1DWLRQDO 5HSRUW RQ %URZQ±HOGV 5HGHYHORSPHQW, 2006, voll. VI 2006, VII 2008, VIII 2010; Recycling America’s Land: National 5HSRUW RQ %URZQ±HOGV 5HGHYHORSPHQW, vol. IX, novembre 2010; %URZQ±HOGV Redevelopment: Reclaiming Land, Revitalizing Communities. A Compendium of Best Practices, vol. V, novembre 2010). Il trasferimento e il ripensamento della tassonomia di Berger al contesto geografico italiano e a quello campano consente di disegnare un arcipelago di spazi aperti di svariata dimensione contaminati e degradati dalle

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scorie del metabolismo urbano, agricolo e industriale. In queste waste areas che configurano una porosità critica della città – come si legge nelle immagini curate dal Laboratorio Re-cycle dell’Unità di Ricerca di Napoli in questo libro – non rientrano solo i relitti di aree ed edifici dismessi, i EURZQ±HOGV e gli spazi residuali e interstiziali. Le ricadute ecologiche, ma anche urbane, produttive e di senso dei drosscapes si estendono infatti ben aldilà dei siti compromessi, coinvolgendo una molteplicità di spazi non solo brown ma anche grey e green investiti dagli effetti della contaminazione di acqua, suolo e aria, con un effetto-domino reticolare che interessa parti consistenti degli ecosistemi e dei tessuti insediativi. Queste ricadute determinano processi di compromissione di diversa natura anche su altri materiali urbani, in esito soprattutto alla pervasività e distorsione del ciclo dei rifiuti e delle acque reflue: i suoli coltivati urbani e periurbani interessati dall’inquinamento chimico delle discariche contigue; gli ecosistemi legati alle acque superficiali e di falda e alla vitalità ambientale dei sistemi dunali costieri modificati da dinamiche diffuse di consumo del suolo; fino ai tessuti critici dell’urbanizzazione turistica, spiazzati dall’esaurimento della domanda di seconde case e devastati da processi di abbandono e riutilizzo precario (Gasparrini C., Riciclare drosscapes a Napoli, in Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio, a cura di Marini S., Santangelo V., Aracne, Roma 2013). Non si tratta quindi solo di ampliare e precisare una tassonomia ma anche di coinvolgere alcune componenti relazionali connotanti della struttura geografica, infrastrutturale e insediativa della città. Gli esiti ambientali prodotti dall’esaurimento e dal mancato controllo di cicli industriali, agricoli, commerciali, immobiliari, estrattivi e metabolici della città, accelerano e alimentano infatti l’esaurimento del ciclo vitale di suoli e acque superficiali e profonde. Questo processo intercetta la variegata e instabile nebulosa della dispersione insediativa, mette in crisi il mosaico dei paesaggi agrari e si infiltra negli spazi interstiziali della rete infrastrutturale e del suo indotto – dalla logistica precaria alla rottamazione dei veicoli usati – alimentati dalle smagliature spesso dilatate del ciclo dei rifiuti in cui il segmento di quelli tossici ha assunto nel tempo una rilevanza enorme. Questi luoghi restano così in bilico tra il congelamento della loro estraneità ambientale alle dinamiche urbane, le sollecitazioni autocentrate e spesso inefficaci alla ripermeabilizzazione e rinaturalizzazione puntuali, un approccio pianificatorio di esclusivo contrasto normativo al consumo di

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suolo e le prassi legali e illegali della saturazione edificatoria (Gasparrini C., Unhappy drosscapes in Campania felix, in «PPC», n. 27-28, 2013). La dimensione dell’arcipelago di drosscapes e dei flussi che li alimentano è fenomeno esteso e complesso anche in Italia, dove si registra però un problema grave di conoscenza. Un rapporto dell’Associazione dei servizi pubblici locali di igiene ambientale del 2010 censiva 12.638 siti inquinati che interessano migliaia di Comuni e di cui non si hanno informazioni circa l’estensione territoriale. Ma il Censimento non comprendeva le Regioni che non avevano trasmesso i dati, prime fra tutte quelle meridionali dove si concentrano alcune delle situazioni più gravi (Federambiente, Rapporto ERQL±FKH, 2010). Sulla base di dati dell’ISPRA, la Relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti del 2009-2012 evidenzia che fin dal 2008 i siti potenzialmente contaminati sono circa 15mila, a cui vanno aggiunti i circa 1.500 siti minerari abbandonati e i 57 “Siti di Interesse Nazionale” (SIN). Da soli questi ultimi interessano 250mila ettari – senza considerare peraltro le perimetrazioni più recenti – e cioè circa il 3% del territorio nazionale e oltre 330mila ettari di aree a mare. Ben 5 SIN particolarmente estesi ricadono solo nell’area urbana napoletana (Litorale Domizio Flegreo-Agro aversano, Litorale Vesuviano, Bacino del Sarno con 39 Comuni, Napoli orientale e Coroglio-Bagnoli) coinvolgendo il 16% del territorio della Regione Campania. Il recente declassamento di alcuni di essi a Siti di Interesse Regionale non alleggerisce certo questo quadro allarmante (ISPRA, Qualità dell’ambiente urbano, IX Rapporto, edizione 2013; Legambiente, %RQL±FD GHL VLWL LQTXLQDWL FKLPHUD o realtà?, Dossier 2014). È emblematico che solo nel 2013 sia stata avviata la costituzione di una rete dei Comuni contaminati interessati dai SIN per iniziativa dell’assessore alle politiche ambientali del comune di Mantova. Va peraltro considerato che il quadro conoscitivo disponibile si sofferma solo su alcune categorie di drosscapes e non ne prende in considerazione altre come le acque, i suoli e i tessuti edilizi coinvolti dalla diffusione dei processi di alterazione ambientale e dequalificazione insediativa, a cui si è fatto cenno in precedenza. Anche in Europa, il problema ha assunto una dimensione di grande rilevanza per i paesi maggiormente industrializzati che hanno sacrificato nel secolo scorso ampie parti del territorio, a volte intere regioni, ad un uso intensivo dei suoli e delle acque stravolgendo estesi ecosistemi, come

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dimostra l’ultimo rapporto dell’European Environment Agency (EEA) del 2014 che stima in 342mila i siti contaminati sulla base dei dati forniti dai 39 Paesi considerati, valore che cresce però a 2,5 milioni per quelli potenzialmente contaminati (European Environment Agency – EEA, Progress in management of contaminated sites, maggio 2014, http://www.eea.europa.eu). Progetto di bonifica e metabolismo urbano La densità delle intuizioni più che ventennali di Kevin Lynch sul wasting away lascia intravedere strategie di riciclo multiscalari, dal singolo frammento alle relazioni urbane e territoriali che questi materiali del paesaggio possono scatenare. Alcuni studiosi anglosassoni soprattutto nordamericani, con un punto di vista convergente e per certi versi complementare a quello di Alan Berger, hanno posto al centro dell’attenzione i drosscapes come componente trainante di una strategia di rigenerazione ecologica e di riconfigurazione spaziale della città contemporanea (cfr. Bélanger P., Synthetic surfaces, in Waldheim C., The landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York 2006; «Topos», n. 60, Landscapes of Disassembly, 2007; «Landscape Journal», n. 28, Landscape as Infrastructure, 2009; Landscape infrastructure: urbanism beyond engineering, in Polialis S.N., Shodek D., Georgoulias A., Ramos S.J., Infrastructure sustainability & design, Routledge, New York 2011). Il loro trattamento progettuale può definire efficaci alternative eco-morfologiche e funzionali di qualità paesaggistica, sintonizzate con la complessità dei processi e dei tempi di riappropriazione sociale, nella consapevolezza che la natura di questi nuovi luoghi sarà comunque artificiale e addomesticata. L’interazione che i problemi ambientali, infrastrutturali e urbanistici posti dai drosscapes esprimono con le strategie di trasformazione urbana, la costruzione di paesaggi urbani innovativi, lo sviluppo di modelli economici alternativi e di cicli energetici sostenibili, è un campo di ricerca progettuale ampiamente sottovalutato dall’urbanistica e dall’architettura. Una maggiore consapevolezza delle ricadute territoriali si esprime invece nelle traiettorie di discipline contigue come l’architettura del paesaggio, alcune scienze della terra, l’ecologia del paesaggio e la progettazione idraulica. La dimensione e articolazione del problema progettuale è condizionata da razionalità e dinamiche di complessa intersezione e incerta prevedibilità. Una strategia programmatica e progettuale deve perciò fare affida-

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B :LP :HQGHUV §3LQD¨ &RUHRJUD±D LQ XQ GURVVFDSH GHOOD 5XKU

4_ Davide Di Martino, Terra dei fuochi, 2013.

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mento soprattutto sulla simulazione di scenari non deterministici come parte di una più ampia visione paesaggistica in cui assumono centralità il riciclo dello spessore tridimensionale dei “nuovi suoli” (Branzi A., Boeri S., L'urbanistica dell'indeterminatezza, in «Lotus», n. 107, 2000; Branzi A., Weak & Diffuse Modernity: The World of Projects at the Beginning of the 21st century, Skira, Milano 2006). Entro questi scenari è possibile individuare elementi di certezza e priorità relativi alle scelte strutturanti e alle componenti di maggiore persistenza ed esplorare quindi la contestuale valutazione dei gradi di resilienza, incertezza e flessibilità, attraverso la successione probabile o eventuale di azioni progettuali e pratiche d’uso, anche temporanee e auto-rigenerative, connesse all’avanzamento dei processi di bonifica, alle pause e alle accelerazioni che essi producono. Questo approccio progettuale qualitativo di tipo strategico-adattivo alla rigenerazione degli spazi del drosscape prende le mosse da un ripensamento culturale, tecnico e procedurale del “progetto di bonifica” per superare le pratiche settoriali tradizionalmente utilizzate, identificandolo come un sostrato irrinunciabile di un più complessivo progetto di paesaggio ecologicamente orientato (Commission Of The European Communities, Adaptation Programme for Spatial Planning and Climate, in White Paper. Adapting to climate change: Towards a European framework for action, 2009). È un processo ideativo e costruttivo a geometria variabile che mutua, nel suo movimento dinamico fra le scale, molti strumenti e pratiche proprie delle discipline paesaggistiche. Propone un’idea di progetto che è, contemporaneamente, stratigrafico/relazionale nello spazio e resiliente/adattivo nel tempo. Alle interazioni stratigrafiche in movimento nello spessore tridimensionale suolo/sottosuolo/soprassuolo sono strettamente legate infatti quelle relazionali relative alle dinamiche d’uso e comportamentali della città inversa – con i suoi spazi e i suoi usi reali e formali, con i flussi che alimentano le aree di scarto e rifiuto e la loro bonifica, con le domande di trasformazione espresse attraverso piani e progetti, con le pratiche già esistenti di appropriazione di questi spazi negati da parte di una moltitudine di attori pubblici e privati – suggerendo narrazioni di tipo induttivo ed esperienziale per contribuire a mettere in moto nuovi e credibili cicli di vita (Mostafavi M., Doherty G., Ecological Urbanism, Lars Muller Publishers, Zurich 2010). Il progetto mette a punto una concatenazione non lineare di azioni per

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rendere compatibili, nel tempo e nello spazio appunto, diversi e contestuali cicli di vita dei materiali del paesaggio sia da un punto di vista fisico che sociale ed economico. I drosscapes esprimono infatti una potenzialità di rigenerazione dentro una dimensione paesaggistica multiscalare. Il progetto che essi sollecitano si misura con la necessità di combinare le velocità, le durate e i possibili passaggi di livello dei cicli di vita da programmare per materiali, prodotti, spazi, edifici e parti di città (up, sub e ipercycle), governando contestualmente le ricadute relazionali in termini di qualità complessiva nel tempo. Si tratta di un cambiamento di pelle del progetto che può dar corpo quindi ad una strategia di riciclo dei suoli inquinati, delle acque, dei rifiuti, dei dispositivi e delle infrastrutture idrauliche, capace di attivare anche cicli energetici alternativi, definire combinazioni virtuose degli usi, entrare in sintonia con la costruzione di nuove reti infrastrutturali (mobilità slow, micrologistica, reti digitali, reti energetiche), stimolare lo start up di attività economiche sintonizzate con le domande indotte dalle diverse filiere del riciclo. Ma in grado anche di produrre nuovi valori attraverso l’attivazione di processi sociali inclusivi, di riuso anche temporaneo e di risignificazione dello spazio, stimolando una più estesa capacità gestionale attraverso forme pattizie tra attori pubblici e privati. Tre dimensioni e strategie del riciclo urbano Questa dimensione interpretativa e progettuale è particolarmente pertinente nell’area urbana napoletana nella quale l’assenza di una strategia efficace per le aree dismesse, la pervasività chimica delle attività agricole e il mancato controllo del ciclo dei rifiuti e delle acque ha prodotto estese ricadute sulla rete idrografica superficiale, sui suoli agricoli urbani e periurbani, lungo i margini infrastrutturali o nelle dilatazioni prodotte dalle grandi infrastrutture, sulle aree residuali e marginali degli insediamenti abitativi. In cui quindi occorre coniugare la individuazione di alcune priorità di azione e di spesa nelle aree di maggiore criticità con un’attesa di lunga durata in quelle comunque investite dall’alterazione ambientale, dove diviene necessario sperimentare la coesistenza urbana con usi e forme di trattamento degli spazi adeguati alla persistenza di condizioni di inquinamento dei suoli e delle acque. Pur mancando storicamente una mappatura dettagliata dei drosscapes, la sola perimetrazione dei Siti di Interesse Nazionale (SIN) evidenzia che

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sono coinvolti ampi settori della città, dei suoi spazi aperti, della rete delle acque superficiali e profonde e dei waterfront. I SIN del Litorale Domizio Flegreo-Agro aversano e di quello Vesuviano, del Bacino del Sarno, di Napoli orientale e di Coroglio-Bagnoli non disegnano solo una geografia delle aree industriali dismesse ma un sistema di parti urbane complesse, estese per più di 10mila ettari (Gasparrini C., Unhappy drosscapes in Campania felix, in op. cit.). La storica presenza di grandi e medie industrie dei settori “pesanti” – soprattutto della chimica e della siderurgia – gli spazi della logistica precaria a ridosso delle aree portuali, interportuali e della grande distribuzione, quelli della rottamazione dei veicoli usati e dell’agricoltura serricola a forte impatto chimico, i recinti del progressivo consolidamento dei depositi petroliferi e soprattutto il fenomeno sempre più diffuso delle discariche legali e illegali accresciutesi a dismisura negli anni assieme alla molteplicità di cave diffuse nel territorio metropolitano e nelle “aree protette”, definiscono una costellazione di spazi del riciclo di grande fertilità per il ridisegno dello spazio urbano. Ad essi si aggiunge la domanda espressa da suoli ed edifici abbandonati a causa dell’esaurimento del ciclo edilizio turistico all’interno di tessuti degradati sempre più estesi che reclamano operazioni di razionalizzazione delle reti, ridisegno degli spazi aperti, metamorfosi fisiche e funzionali del patrimonio edilizio. E che conoscono da tempo nuove categorie di abitanti, temporanei o stanziali, generati dai flussi migratori degli “esseri umani di scarto” in fuga da “vite di scarto” (Bauman Z., Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2007; ed. orig. Wasted Lives. Modernity and its Outcasts, Polity Press / Blackwell Publishing Ltd, Cambridge / Oxford 2004). Qui “the ecstatic skin of the earth” – gran parte dei suoli, degli spazi aperti e delle acque apparentemente risparmiati dall’espansione urbana dell’ultimo secolo, oltre alle grandi aree più o meno dismesse ad occidente e oriente della città – è stata di fatto “consumata” da un processo di trasformazione ecologica profonda (Logan W.B., La pelle del pianeta. Storia della terra che calpestiamo, Bollati Boringhieri, Torino 2011; ed. orig. Dirt. The Ecstatic Skin of the Earth, Riverhead Books, New York 1995). Analogamente molte aree agricole forniscono un contributo attivo a questo processo e comunque convivono in modo spesso precario con esso, in bilico tra sfruttamento intensivo dei suoli di tipo serricolo e tentazioni edificatorie (Di Gennaro A., La terra lasciata, Clean, Napoli 2008). I soli SIN

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segnalano che tutti i bacini fluviali (bacino del Sarno, nord-occidentale e del Sebeto) sono coinvolti dal danno ambientale. La sua estensione coinvolge in profondità i tessuti edificati e disegna un repertorio puntiforme ma denso di occasioni della rigenerazione, estendendo le criticità puntuali dei drosscapes ad una rete molto estesa di spazi urbani in cui le risposte progettuali sono ancora chiuse in una logica settoriale e frammentaria. L’area napoletana ha tuttavia una tradizione storica bimillenaria di straordinaria progettualità della bonifica e dei suoi paesaggi idraulici e agrari che è parte di una più ampia e stratificata cultura dell’infrastrutturazione territoriale storica e moderna. Le reti idrografiche sono conformate da una geomorfologia, una composizione dei suoli e un sistema di trame agrarie storiche che sono state plasmate in modo incessante dall’attività vulcanica dei Campi Flegrei e del Somma-Vesuvio. L’addomesticamento e il disegno di ampi settori dei fondovalle e dei margini pedecollinari e montani per assecondare lo scorrimento delle acque, governare la dinamica delle falde superficiali e profonde e mitigare il rischio idraulico e di impaludamento, è stato realizzato attraverso la costruzione di potenti dispositivi idraulici e spazi di dilatazione e raccolta delle acque naturali e artificiali, come i Regi Lagni e gli acquedotti ferdinandei. Questo palinsesto e questa razionalità sono stati profondamente messi in crisi nel corso del Novecento e negli ultimi anni. Nelle esplorazioni interpretative e progettuali della ricerca Re-cycle il progetto delle acque assume un valore strutturante e qualificante nella ridefinizione del sistema di relazioni tra i materiali urbani e gli stessi drosscapes, individuando diverse “macchine ibride” per la bonifica e la rigenerazione urbana e paesaggistica della reverse city. A nord, la Piana Campana lungo la fascia urbana litoranea domiziana è disegnata, oltre che da una trama centuriale tuttora leggibile, dal potente sistema idrografico naturale del Volturno e da quello artificiale borbonico dei Regi Lagni. Qui la crisi ambientale e l’esaurimento del ciclo di vita di estese porzioni di suoli agricoli e dispositivi idraulici è stata prodotta da un processo accelerato in cui si sono combinati negli ultimi anni la diffusione progressiva, estesa e concentrata, di discariche legali e illegali con un degrado di suoli e acque già elevato a causa dell’uso chimico intensivo delle pratiche agricole e del riciclaggio di risorse finanziarie di provenienza criminale verso una produzione edilizia prevalentemente abusiva. La strategia di riciclo delle acque fa affidamento su una riattivazione del-

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la rete storica esistente, naturale e artificiale, coaduviata da sistemi di lagunaggio del Lago Patria per determinare nuove condizioni ambientali e d’uso del sistema retrodunale. Ad essa si associano azioni diffuse per l’utilizzo delle discariche come spazi pubblici anche temporanei e atipici, di riconversione verso pratiche agricole non-food delle aree agricole maggiormente segnate dalle ricadute incontrollate del ciclo dei rifiuti, il riuso del sistema di masserie abbandonate e la costruzione di un’infrastruttura slow di tipo tranviario e ciclo-pedonale trasversale alla linea di costa, in grado di rafforzare l’infrastruttura verde e blu. Il bacino del Sebeto, che penetra nella piana campana separando il sistema orografico dei Campi Flegrei da quello sommano-vesuviano, è sottoposto oggi ad un fenomeno di riemersione delle acque di falda nell’area degli ex “Orti della paludeâ€? a oriente della cittĂ storica, in cui si concentra una particolare mixitĂŠ di attivitĂ inquinanti dismesse e attive (ex raffineria, depositi petroliferi e gasieri, aree di rottamazione, discariche, impianti di trattamento delle acque) con rilevanti effetti sui suoli e le acque (Gasparrini C., Drosscape, spazi aperti e progetto urbano nell’area orientale di Napoli, in L'architettura del Progetto Urbano – Procedure e strumenti per la costruzione del paesaggio urbano, a cura di Ferretti L.V., Franco Angeli, Milano, 2012 e 5LFLFOR ERQLÂąFD H SURJHWWR GL VXROR QHOOÂŞDUHD RULHQWDOH di Napoli, in Napoli verso oriente, a cura di Lucci R. e Russo M., Clean, Napoli, 2012). Qui il sistema idrografico superficiale si presenta con una doppia faccia. A monte del confine comunale di Napoli, è ancora leggibile la rete di acque disegnate dal Consorzio di bonifica delle paludi di Napoli e Volla, lungo il tracciato dello storico Sebeto, che si infiltra nella dispersione insediativa e ne costituisce una potenziale infrastruttura ecologica. A valle, in territorio comunale, il processo di impermeabilizzazione dei suoli e di tombamento delle acque, determinato dallo sviluppo industriale dei primi decenni del Novecento, ha prodotto una radicale scomparsa della rete di acque superficiali nell’ultimo secolo e un profondo processo di contaminazione della falda riconducibile soprattutto alla rilevante presenza di idrocarburi. Qualsiasi processo di riattivazione di un sistema delle acque superficiali e di riemersione controllata della falda deve fare i conti con questa duplice condizione che ammette però interazioni virtuose. La strada individuata – che trova riscontri anche nelle ipotesi progettuali piĂš recenti di ripensamento strategico nell’ambito dell’ex Raffineria – è necessariamente una “macchina ibridaâ€? destinata a durare, attraverso cui

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5_ 5H F\FOH1DSROL/DE *HRJUD±H GHOOR VFDUWR

B 7KRPDDV +LUVFKKRUQ §)ODPPH pWHUQHOOH¨ ,QVWDOOD]LRQH DO 3DODLV GH 7RNLR 3DULJL DSULOH ¥ 23 giugno 2014.

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coniugare una molteplicità di azioni nel tempo e nello spazio sulle diverse acque disponibili nell’area orientale: quelle a monte, immediatamente disponibili a processi di riciclo anche parziali, combinati a quelli delle acque meteoriche drenate dai tessuti esistenti; le acque di falda da bonificare in tempi medi e lunghi attraverso progetti di sistema inseriti nelle procedure pubbliche di accordo interistituzionale del SIN (oggi SIR); le acque prodotte dai dispositivi privati di bonifica parziale attivati dai grandi soggetti inquinatori (Q8, Esso ed Eni soprattutto); le acque meteoriche raccolte dai nuovi insediamenti integrati via via realizzati nell’area; le acque del grande Depuratore di Napoli Est disponibili subito ad un processo di trattamento terziario diffuso miscelato all’uso di altre acque. Un grande progetto di riciclo urbano in quest’area non può quindi fare a meno di immaginare la realizzazione incrementale di un’infrastruttura blu e verde capace di recuperare e attualizzare il disegno originario del sistema di canali di bonifica a monte e integrarlo nel tempo con quello riprogettato ex novo a valle. Questo consente di combinare i cicli di vita e gli usi promiscui di acque diverse con razionalità idraulica e qualità paesaggistica, nella prospettiva di una progressiva entrata a regime di un sistema caratterizzato da un dispositivo osmotico falda/reti superficiali di elevata resilienza. L’integrazione delle acque nel metabolismo urbano di un sistema insediativo rigenerato dal punto di vista ecologico significa rendere quest’ultimo disponibile ad adattarsi al loro “respiro”, da un punto di vista delle modalità di reciproca coesistenza e quindi di disposizione al suolo dei diversi tessuti edilizi. In questa prospettiva, il disegno di suolo prodotto dalle infrastrutture blu e verdi guida non solo il ripensamento delle forme insediative ma anche il ritorno di attività agricole e il riciclo diffuso di spazi e manufatti, attraverso usi temporanei e a lungo termine, compatibili con questa prospettiva strategica e allo stesso tempo sostenuti da una molteplicità di nuovi attori rispetto a quelli tradizionali della fase industriale novecentesca. Infine, ad est del Vesuvio, il confronto si sposta sulla crisi di alcuni grandi dispositivi idraulici in un territorio dominato dalla presenza di rilevanti presenze geomorfologiche, storicamente condizionanti l’esistenza stessa di nuclei urbani, come dimostra il sito archeologico di Longola e la ricerca di forme insediative di adattamento alle dinamiche delle acque superficiali, alle falde del vulcano e a ridosso di un corso fluviale. L’area sarnese è stretta infatti tra le escursioni di un fiume che ha subito nel tempo rilevanti impoverimenti idrici a monte e la stagionalità delle acque di scorrimento

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del Somma-Vesuvio. Queste acque sono state storicamente irregimentate lungo la raggiera degli alvei che incidono la caldera del Somma attraverso una teoria di vasche di raccolta destinate ad un uso locale delle acque e ad una regolazione dei travasi idrici a valle, oggi collassate dallo sversamento di rifiuti e acque reflue urbane. Il canale del Conte di Sarno, realizzato alla fine del XVI secolo da Domenico Fontana lungo una direttrice parallela al Sarno per trasportare le acque dalle sorgenti nei Monti Picentini ai mulini di Torre Annunziata, è di fatto oggi un’infrastruttura dismessa che attraversa un territorio densamente costruito. Anche qui, drosscapes e waterscapes si alimentano a vicenda e sollecitano un ripensamento complessivo del sistema delle acque, sia attraverso la riattivazione delle vasche di raccolta e del canale del Conte di Sarno come infrastrutture discretizzate a servizio del ciclo delle acque per le comunità locali; sia attraverso un ridisegno del corso fluviale del Sarno per accogliere escursioni controllate delle portate e ripensare gli usi agricoli e ripariali, in una prospettiva di adattamento razionale e produttivo alla stagionalità degli eventi atmosferici. Per quanto sin qui detto, nell’area metropolitana napoletana la descrizione interpretativa e la progettazione dei drosscapes, ancor più di altre condizioni urbane, è operazione complessa che presuppone una convergenza di diversi sguardi e scale di lettura e una stretta interazione con gli spazi rurali, con le reti delle acque superficiali e profonde e con quelle infrastrutturali, a ridosso e all’interno dei sistemi insediativi. Una strategia progettuale pertinente ed efficace deve perciò essere capace di delineare le interferenze ecologiche tra le diverse componenti dello spessore tridimensionale dei suoli e le azioni volte alla riduzione delle criticità con riferimento alle ricadute sulle acque superficiali e profonde. Allo stesso tempo, deve essere in grado di combinare le scelte prioritarie e stabili connesse alla nuova infrastrutturazione – il pattern urbanoambientale delle reti dell’acqua, stradali, energetiche – e il mosaico delle tessere che si rendono progressivamente disponibili all’uso. La definizione di componenti e strategie del ridisegno vegetale nei soprassuoli contribuisce attivamente alla progressiva riduzione dell’inquinamento con processi differenziati di fitoriparazione e lagunaggio, alla permanenza degli attori economici e allo sviluppo di filiere agricolo-forestali collegate allo sviluppo di processi innovativi di tipo produttivo ed energetico (agricoltura non-food, impianti di co-trigenerazione da biomasse,

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attività serricole “intelligenti”…). A questo sostrato fanno riferimento strategie e tattiche, piani e programmi, azioni pubbliche e pratiche diffuse di nuovi soggetti, connotate da mix sociali, funzionali e formali, temporanei e duraturi, compatibili con le tessere di quel mosaico ed economicamente sostenibili. Dentro questa dinamica, prende forma contestualmente la grana dei nuovi paesaggi in movimento e delle loro possibili combinazioni d’assieme, in funzione dell’avanzamento della bonifica e della rigenerazione urbana e ambientale. Riurbanizzazione, accessibilità diffusa e riappropriazione possono coniugarsi per dare spessore, qualità e valore – non immobiliare ma ecologico, sociale ed economico – ai “nuovi suoli” della città contemporanea.

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Claudio Parmiggiani, Phisiognomiae Coelestis, 1974.

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DALLA WASTE LAND ALLA SMART LAND: FRA MEMORIA E DESIDERIO Renato Bocchi >IUAV

April is the cruellest month, breeding / Lilacs out of the dead land, mixing / Memory and desire (…) These fragments I have shored against my ruins T.S. Eliot

Gli scarti del processo di sviluppo e trasformazione del territorio – scrivevo pochi anni fa a conclusione di una ricerca sul Landscape of Waste (cfr. Bocchi R., 7KH ZDVWH ODQG VFDSH )UDPPHQWL GL SHQVLHUR SHU XQªLSRWHVL di paesaggio come palinsesto, in OPEN Papers, Scritti sul paesaggio, ETS, Pisa 2012, originariamente pubblicato in lingua inglese in The Landscape of Waste, Skira, Milano 2011; si trattava di una riflessione scritta a conclusione della ricerca nazionale PRIN 3URJHWWL GL SDHVDJJLR SHU L OXRJKL UL±XWDWL, coordinata da A. Maniglio Calcagno e pubblicata con lo stesso titolo da Gangemi, Roma 2010) – possono forse essere, in analogia col metodo e la poetica suggeriti da T.S. Eliot in The Waste Land, i frammenti di un discorso-paesaggio da sovrascrivere-sovradisegnare nello spazio-tempo di luoghi che appaiono oggi rifiutati. Quel che possiamo tentar di fare – dicevo allora – è disegnare un processo (con tutte le variabilità e adattività possibili) che costruisca relazioni (spazio-temporali) fra quei frammenti-scarti: un merz-bau dadaista à la Schwitters, più che un quadro cubista, dove ad

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un metodo scompositivo si preferisca un metodo ri-compositivo, dove il divenire e quindi la dinamica temporale, il mutamento, sia attentamente considerato e incorporato e tuttavia non tanto in funzione “analitica” ma propriamente in funzione “proiettiva”, “progettuale”. Ma per far questo – aggiungevo – come sembra ammonire il metodo “mitico” suggerito da Eliot, non è sufficiente il controllo del processo ri-compositivo e di trasformazione; occorre darsi un’istanza di ordine finale. “La caratteristica del pensiero mitico, come del bricolage sul piano pratico – scriveva infatti Lévi-Strauss (cfr. Lévi-Strauss C., La pensée sauvage, Plon, Paris 1962; ed it. Il pensiero selvaggio, Net, Milano 2003) – è di elaborare insiemi strutturati, ma utilizzando residui e frammenti di eventi … testimoni fossili della storia di un individuo o di una società”. Il waste era già allora al centro delle nostre attenzioni di ricerca, ricordando l’ultima preziosa testimonianza lasciataci da Kevin Lynch, con il suo Wasting Away (Sierra Club Books, San Francisco 1990), in cui i processi biologici che prevedono il deperimento, lo smaltimento, la digestione e il riciclaggio erano guardati come una forza vitale e riproduttiva anche per il progetto urbano e del paesaggio, e guardando con attenzione e curiosità a tutte le numerose elaborazioni dell’arte attorno al tema della “spazzatura”, dai Dadaisti in qua (cfr. fra i molti altri contributi: Vergine L., Trash: TXDQGR L UL±XWL GLYHQWDQR DUWH, Electa, Milano 1997). Ma già allora non mi pareva sufficiente ri-valutare l’importanza del riprogettare materialmente gli scarti e gli elementi obsoleti e abbandonati della “produzione edilizia e urbana”, secondo tecniche di montaggio o ricomposizione, ma mi appariva soprattutto necessario ragionare sulla costruzione di scenari più complessivi, tali da far emergere obiettivi più ambiziosi di ri-generazione delle città o dei paesaggi, insomma delle ipotesi di ri-fondazione, dei possibili “nuovi cicli di vita” fondati anche e soprattutto sul negativo del waste e del junkspace. Quindi, provvisoriamente concludevo: ci aspetta il compito di raccogliere quei frammenti, quegli scarti, quelle rovine, viaggiando nel junkspace della postmodernità, e di cercare di costruire con essi un montaggio (ipertestuale) di cose e di immagini capaci di raccontare, non più in sequenza cronologica ma in un quadro spaziale simultaneo e continuamente in evoluzione: un palinsesto su cui continuamente si cancella e si riscrive ma sul quale le tracce permangono a costruire una continuità: tracce di cultura, strati geo-archeologici (anche di un’archeologia del contemporaneo)

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che rappresentano nel bene o nel male la nostra eredità. Costruire forse, come era nella mente di Kurt Schwitters, un Merz-bau meno accatastato possibile, nei cui interstizi possano continuare a germogliare il primo, il secondo e il terzo paesaggio. Ho ritrovato di recente simili istanze o auspici di ri-fondazione nelle riflessioni di filosofi anche molto diversi fra loro come Nicola Emery o Gianluca Cuozzo. “Il riciclaggio, oggi predicato con solerzia come panacea universale (malgrado i suoi costi ambientali non siano affatto trascurabili) – ha scritto di recente Nicola Emery (cfr. Emery N., Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, cap. 17) – ha fretta di reintegrare lo scarto e il rifiuto troppo, di nuovo, mercantilmente al produttivo… In questa luce assume il suo significato la ‘filosofia’ merz di Kurt Schwitters, non solo in quanto geneticamente originata proprio dalla spaccatura di Kom-merz, ma anche in quanto progettualità poietica tesa in tutti i suoi ambiti al rinvenimento di una forma originaria del fare come raccogliere, rielaborare e così ri-formare e curare, e così certo anche propriamente abitare. Non si tratta più né di ‘fare’ né di ‘costruire’, quanto piuttosto di ‘merzare’, secondo il neologismo coniato dallo stesso Schwitters per indicare questo raccogliere-organizzare-curare detriti e scarti… La Merz-azione, di fatto avvia l’arte al suo divenire ‘plastica sociale’… Questi imperativi sono tali appunto in quanto, al di là dell’estetica, sono di natura etica e sociale”. “La Merz City – sembra concludere Emery – almeno come noi la vogliamo prospetticamente interpretare, come rielaborazione e riparazione del negativo, presuppone un controllo dell’economico ‘prestazionale’ da parte di un riattivato principio di cittadinanza, ovvero presuppone una ri-abitazione dello spazio da parte di un riconquistato diritto comune di cittadinanza”. D’altro lato, Gianluca Cuozzo, nel suo )LORVR±D GHOOH FRVH XOWLPH (cfr. Cuozzo G., )LORVR±D GHOOH FRVH XOWLPH 'D :DOWHU %HQMDPLQ D :DOO (, Moretti & Vitali, Bergamo 2013), ripensando quell’utopia del residuale, che reputa non a torto “la categoria che meglio sembra cogliere il nucleo della filosofia di Walter Benjamin”, e correlandola con molteplici letture di scrittori contemporanei (in primis Paul Auster e Don De Lillo, fino a Philip K. Dick), giunge ad elaborare addirittura una sorta di “teologia della spazzatura”: “solo una WHRORJLD GHO UL±XWR – scrive – potrà salvarci dall’emergenza ambientale; l’oracolo, la fatidica domanda a cui bisogna rispondere per

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giungere ai penetrali del tempio in cui abita il dio salvifico, è il seguente: Dimmi cosa butti via e ti dirò chi sei! (J. Baudrillard). Rifiutare il mondo dei consumi, sottrarsi al ricatto del terrore di ciò che è stato rifiutato e rimosso… sono solo un gesto, il primo passo verso la nostra salvezza di uomini inseriti responsabilmente in un contesto di interdipendenze naturali e sociali. Questa chance salvifica è offerta da ciò che si potrebbe chiamare ‘utopia del residuale’: riconfigurare il mondo sociale a partire dal marginale…”. Emerge così sempre più la necessità di riconsiderare la presenza pervasiva degli “scarti” nella civiltà e nella città contemporanea come un sistema “altro” di lettura, di mappatura e di conseguenza di progetto della realtà dei nostri paesaggi, da indagare con lenti non convenzionali e non preconcette, la necessità di esplorare insomma la natura di quel territorio inverso (Marini) o di quella città inversa (Gasparrini) capace forse di illuminare le possibilità di “nuovi cicli di vita”, al di fuori delle logiche meramente mercantili e produttive dello “sfruttamento delle risorse” (anche della risorsawaste medesima) ma dentro piuttosto quelle logiche del “bene comune” che da più parti vengono invocate. Mi è capitato di tentare di applicare questi obiettivi a un caso molto particolare, ma decisamente attuale, di drosscape, quello dei siti estrattivi del Trentino (e in particolare del distretto del porfido fra Valsugana e Val di Cembra), nell’ambito di una ricerca finanziata dalla Provincia di Trento coordinata da Emanuela Schir (cfr. Bocchi R., Schir E., The Landscape as Palimpsest, in Landscape & Imagination, a cura di Newman C., Nussaume Y., Pedroli B., Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 2013, pp. 231-236). In quell’occasione ho usato un’opera dell’artista Claudio Parmiggiani come icona-metafora dell’operazione progettuale proposta a base del recupero delle cave. L’opera, del 1975, si intitola Phisiognomiae Coelestis (per Adalgisa) e consiste in una fotografia acquerellata in cui il ritratto (nudo di schiena) della donna amata è sinteticamente e astrattamente “identificato” da una costellazione di nei: imperfezioni della pelle che in realtà diventano i segni caratterizzanti e distintivi della donna, il suo vero e proprio, più fedele e intimo ritratto. Allo stesso modo – proponevo nella mia relazione – la rilevazione e l’aggruppamento “sistemico” della costellazione delle ferite inferte ad un territorio dall’attività estrattiva può divenire la base per la definizione dei

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caratteri portanti del territorio stesso e quindi del suo specifico paesaggio – fisico e culturale insieme – nel momento in cui si attribuiscono precisi significati socio-economici oltre che culturali a tale “costellazione” e si istituiscono precise relazioni fisiche e d’uso tra i vari siti, secondo una definita strategia o politica urbanistico-territoriale, la quale può assumere anche significati di vero e proprio marketing territoriale. È evidente che per attribuire alla singola “costellazione” un’identità territoriale precisa non basta la mera rilevazione fisica del sistema dei siti “scavati” né la loro semplice correlazione in termini di accessibilità reciproca, ma deve intervenire un’ipotesi strategica di nuova attribuzione di valore e di uso alla costellazione, in un quadro che non è più solo legato alle attività economico-produttive ma anche al patrimonio culturale, naturalistico e geografico più generale di quel territorio, alle potenzialità in termini turistici o comunque di fruizione per il tempo libero, la cultura e lo spettacolo, lo sport, nonché alla stessa presenza (o memoria) in termini fisici e sociali dell’industria estrattiva. È qui – attraverso queste “politiche di sistema” – che iniziano a configurarsi le strategie di riciclo delle singole costellazioni, ovvero a delinearsi i possibili nuovi cicli di vita attribuibili ai siti oggi dismessi, abbandonati o parzialmente attivi, e perfino a quelli ancora in attività ma per cui si configurerà a medio termine un ciclo di deperimento e dismissione. Si tratta di fatto di delineare scenari “preventivi” di paesaggi presenti e futuri, cui possa attribuirsi quel valore identitario che è rivendicato dalla Convenzione Europea del Paesaggio. È solo un esempio, molto circoscritto ma credo didascalicamente significativo, di un’azione interpretativa e progettuale ispirata all’“inversione dello sguardo” sui fenomeni territoriali, capace di informare l’opera di “riciclo” ad obiettivi di effettiva ri-generazione.

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I CONTRIBUTI DELLE UNITÀ DI RICERCA

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IL DESIGN DEI MATERIALI PER LA VALORIZZAZIONE DELLE MACERIE IL CASO DEL CRATERE AQUILANO Stefania Camplone >UNICH

Il design è stato tra le prime discipline ad affrontare le tematiche ambientali attraverso la messa a punto di approcci, modelli e metodi confluiti nelle sue declinazioni dell’ecodesign, del design per la sostenibilità e del design dei materiali. Quest’ultimo, in particolare, ha da tempo avviato specifiche sperimentazioni relative al riuso ed al riciclo dei materiali, tra cui anche quelli da costruzione e demolizione. D’altro canto, le catastrofi naturali come alluvioni e terremoti, se rappresentano delle tragedie sul piano umanitario, determinano anche una situazione in cui si “producono” quantità enormi di macerie da crolli e demolizioni. La loro presenza rappresenta sicuramente un problema ed un ostacolo oggettivo per la ricostruzione. Possono però trasformarsi da rifiuti a risorse, nel caso in cui se ne renda possibile una loro re-immissione in nuovi cicli produttivi. A partire da una lettura sintetica del quadro normativo e dei dati quantitativi delle “macerie” generate dal sisma aquilano, si individuano alcune prime possibili opportunità di una loro valorizzazione offerte da alcune recenti sperimentazioni condotte dal design dei materiali. La dimensione ambientale del design dei materiali La scelta e l’utilizzo dei materiali e dei processi produttivi più opportuni

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per la realizzazione di prodotti, sistemi ed ambienti rappresentano oggi una azione progettuale strategica fondamentale, soprattutto in una prospettiva orientata alla sostenibilità ambientale. Il “design dei materiali” è un’area specifica della disciplina del disegno industriale. Esso trae origine da un’ampia tradizione della tecnologia, riferita alla possibilità di progettare i materiali con le caratteristiche più adatte rispetto a specifiche applicazioni. A partire dalle competenze ingegneristiche necessarie per poterne ottimizzare le caratteristiche fisicochimico-meccaniche nonché prefigurarne i processi produttivi, la cultura del design, già dalle sue origini, ha contribuito in maniera significativa alla ricerca riferita alla “progettabilità della materia”, impostando però le proprie indagini prevalentemente rispetto alle nuove possibilità espressive e di utilizzo dei nuovi materiali. Negli ultimi anni, poi, il design ha messo a punto approcci, strumenti e metodologie che gli consentono di controllare sia i fattori più strettamente “ambientali” del progetto (eliminazione delle emissioni di sostanze tossiche o nocive, riduzione dei consumi energetici per la produzione e dei materiali, ecc.). In particolare, il “design per l’ambiente” (eco-design) analizza il ciclo di vita dei prodotti (LCD, Life-Cycle-Design) e punta a ridurne l’impatto ambientale e a migliorarne l’eco-efficienza anche attraverso il disassemblaggio, la riduzione del numero dei componenti, il riutilizzo ed il riciclo dei materiali. In tale ottica, il design dei materiali potrebbe fornire un interessante contributo alla valorizzazione della estesa variabilità e della enorme quantità delle macerie derivanti dalle demolizioni e, soprattutto, da eventi catastrofici naturali, come i terremoti. Le macerie dunque non più considerate come “rifiuto”, ma come “risorsa” economica ed ambientale. Le macerie: la "gestione" normativa del "problema" La demolizione volontaria o il crollo di edifici ed infrastrutture a seguito di fenomeni naturali quali frane, smottamenti, inondazioni o terremoti, generano un’enorme quantità di materiale che deve essere opportunamente rimosso o recuperato per poter iniziare la successiva ricostruzione. Un fattore che complica tale processo di rimozione e recupero è sicuramente dato dall’eterogeneità dei materiali. Per limitarci per ora alle macerie prodotte da un evento tellurico, sono legate alle tipologie costruttive, e dunque sia al livello di sviluppo socio-economico dell’area colpita ed alla

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disponibilità di specifici materiali da costruzione (pietra, legno, ecc.), sia a particolari esigenze o tradizioni abitative. D’altro canto, l’esatta composizione merceologica delle macerie è un dato fondamentale per la corretta progettazione delle diverse fasi del loro trattamento. La legislazione europea ha l’obiettivo di promuovere il riciclo dei materiali da costruzione e demolizione pari al 70% del suo peso entro il 2020 (TUA – Testo Unico Ambiente, art. 181, Riciclaggio e recupero dei rifiuti). In Italia, i rifiuti, compresi quelli derivanti da crolli e demolizioni, sono classificati (D.L. 3 aprile 2006, n. 152, art. 184) in base alla loro origine (distinguendo tra rifiuti urbani e rifiuti speciali) e sulla base delle caratteristiche di pericolosità (distinguendo tra rifiuti pericolosi e non pericolosi). In particolare, la legge contiene uno specifico elenco (riferito al “Catalogo Europeo Rifiuti” ovvero CER 2002, decisione 2000/532/CE), nel quale ogni rifiuto trova una sua precisa collocazione, attraverso specifici codici numerici identificativi di sei cifre, articolati in 20 classi, ognuna delle quali raggruppa rifiuti che derivano da uno stesso ciclo produttivo, e che identificano la “classe” (il settore di attività da cui deriva il rifiuto), la “sottoclasse” (il processo produttivo di provenienza), e la “categoria” (il nome del rifiuto). Rispetto a tale classificazione numerica, le macerie derivanti dal crollo degli edifici pubblici e privati, nonché provenienti dalle demolizioni degli edifici danneggiati dal terremoto, sono classificati come rifiuti urbani con codice CER 20 03 99 limitatamente alle fasi di raccolta e trasporto presso le aree di deposito temporaneo individuate. In tal caso, il Comune di origine è considerato il “produttore” dei rifiuti, il quale deve comunicare al Commissario delegato per la ricostruzione i dati relativi alle attività di raccolta, trasporto, selezione, recupero e smaltimento dei rifiuti effettuate e deve rendicontarne i relativi oneri (L. 77/2009 - art. 9, co. 2). Sono sempre gli stessi Comuni a dover provvedere all’individuazione dei siti da adibire a deposito temporaneo e selezione dei materiali (O.P.C.M. 3767, art. 1, comma 2), mentre, sempre in tali evenienze catastrofiche, possono essere autorizzate le attività degli impianti finalizzate alla gestione dei rifiuti CER 20 03 99, nel pieno rispetto della normativa comunitaria (L. 77/2009, art. 9, co. 5). Un chiarimento appare particolarmente utile a proposito della distinzione tra macerie pubbliche e private, così come definite dalla normativa speciale O.P.C.M. n. 4014 del 2012, importante soprattutto per ciò che riguarda

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B &DPSLRQH GL FDOFHVWUX]]R FRPSRVLWR ULQIRU]DWR FRQ ±EUH GL YHWUR

B 9LVWD DHUHD GHOOD &DYD H[ 7HJHV LQ ORFDOLWj 3RQWLJQRQH VLWR GL GHSRVLWR H VWRFFDJJLR GHOOH PDFHULH

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lo smaltimento. Le “macerie pubbliche” sono quelle provenienti dai crolli, dalle demolizioni disposte con ordinanza del sindaco e da interventi edilizi effettuati dalla pubblica amministrazione, e prevede il ricorso preponderante alla demolizione ed alla raccolta selettiva. Le “macerie private” sono, invece, quelle provenienti da interventi edilizi effettuati da soggetti privati beneficiari di finanziamenti pubblici. Anche per queste si prevede la demolizione e la raccolta selettiva, che però richiede un iter amministrativo più complesso. I materiali prodotti dal sisma aquilano Quante e di che tipo siano le macerie che continuano ad accumularsi in Abruzzo a seguito del sisma aquilano del 6 aprile 2009 non è ancora possibile saperlo con certezza. Sicuramente si tratta di alcune centinaia di migliaia di tonnellate nella fase di emergenza, che diventano diversi milioni da rimuovere nei prossimi anni, per tornare alla normalità. La stima dei volumi (e dei pesi, considerando una media di 1,6 tonnellate per metro cubo) non è semplice e solo ora ci si sta avvicinando a un calcolo più puntuale e preciso, almeno per la parte pubblica, cioè quella gestita direttamente dalle Autorità (indipendentemente se si tratta di edifici pubblici o privati). Complessivamente nei siti di deposito, presenti in Abruzzo e nelle regioni limitrofe, sono oggi presenti macerie per oltre un milione di tonnellate, delle quali circa 700 mila solo in Abruzzo (e di questi, circa 425 mila pubbliche e 275 mila private). Per il cratere dell’Aquila si calcola comunque che il totale delle macerie possa arrivare a variare tra i 3,2 e i 4,2 milioni di tonnellate (circa 2-2,6 milioni di metri cubi), di cui 1,2 milioni pubbliche. Le stime sono ovviamente variabili e suscettibili di continui aggiornamenti (fonte: www.commissarioperlaricostruzione.it). Per quanto riguarda lo smaltimento delle macerie del sisma aquilano, come deposito temporaneo la scelta è caduta su un unico sito, la ex cava di inerti Teges di Pontignone, una località a est del capoluogo (a circa quattro chilometri in linea d’aria dal centro storico), che ha una capacità di 1,2 milioni di metri cubi, sufficiente ad accogliere l’intero quantitativo previsto di macerie pubbliche. Operativamente, la normativa d’emergenza identifica un preciso sito di stoccaggio per ogni comune del “cratere” (costituito da 56 comuni), affiancandone uno alternativo per consentire una migliore gestione logistica e distributiva delle macerie. Per quanto riguarda gli impianti e le attrezzature per la selezione e lo

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smaltimento dei materiali, all’Aquila è stata messa a punto una struttura apposita in grado di gestire tutta la filiera e che sia in grado di rispondere alle esigenze degli attuali oltre mille cantieri presenti solo all’Aquila: squadre sui cantieri per effettuare una prima selezione delle macerie; mezzi per la rimozione, dotati dei relativi piani di sicurezza; gestione del trasporto; squadre e macchine dedicate all’ulteriore selezione e trattamento in sito. La preselezione inizialmente è manuale e punta a separare per quanto possibile le macerie vere e proprie da tutto quello che è non inerte – legno, ferro, plastica e altro – avviando al recupero quello riciclabile. Nel sito di deposito le macerie sono sottoposte ad analisi fisico-chimiche, triturazione e ulteriore separazione di eventuali residui, effettuata in parte manualmente prima di trattare il materiale per il riuso. Quello che nelle analisi non viene riconosciuto come inerte è mandato in discarica, ma le percentuali sono molto basse: l’84% risultano essere inerti; il resto viene smaltito negli impianti di recupero secondo le caratteristiche (ferro, legno, plastica, guaine, materiali isolanti); quasi nulla va in discarica, perché il classico sovvallo rappresenta lo 0,1 per cento del totale. Dunque, se sulla ricostruzione aquilana ci sono ancora molti dubbi, sulla destinazione delle macerie vi sono più certezze: la destinazione migliore ad ora appare essere quella del ripristino ambientale delle numerose cave dismesse, che rappresentano comunque una emergenza territoriale in Abruzzo, dove se ne registrano oltre 300. Ma se la possibilità di far diventare nuovi parchi urbani ex cave come quella ex Teges appare come una possibile soluzione al problema della collocazione delle macerie, queste potrebbero essere addirittura considerate come una vera e propria risorsa economica se utilizzate, seppur parzialmente, in altro modo. I nuovi materiali dalle macerie: una opportunità possibile Il primo e prevalente utilizzo che oggi si fa delle materie è quello del “riempimento” delle colmate: l’esempio aquilano insegna come le macerie, da problema “ingombrante” possano diventare una risorsa inerte per un territorio che ha la necessità di rimarginare le ferite inferte da decenni di attività estrattive con pochi controlli e soprattutto in assenza di un Piano Cave regionale. Si tratta però di un utilizzo a cosiddetta “bassa caratterizzazione prestazionale”. Affinché si possa parlare effettivamente di “risorsa”, occorre che le macerie acquisiscano un reale valore economico che superi i costi lega-

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ti al loro “trattamento” (rimozione, trasporto, ecc.). Il design dei materiali da diversi anni ha attivato specifici filoni di ricerca riferiti al riciclo ed al riutilizzo dei materiali riconducibili alle macerie. Per parlare del solo calcestruzzo o dei materiali lapidei in genere, ad esempio, oggi i materiali da demolizione delle strutture in cemento armato sono già utilizzati per la confezione di nuovi calcestruzzi (“Fp-beton” www.fpbeton.com; “cobeton” www.cobeton.com). In altri casi, gli aggregati riciclati sono impiegati anche per la realizzazione di elementi strutturali, come pannelli o blocchi prefabbricati in calcestruzzo (“ecox" www.meldusa.com; “eurobeton” www.eurobeton.it). In particolare questi elementi, già testati secondo le normative austriache, possono essere utilizzati come elementi di pavimentazione, per la realizzazione di muri, elementi di solaio, travetti in calcestruzzo per solai gettati in opera. Gli stessi materiali sono già riutilizzati anche per la produzione di premiscelati di malte di rivestimento e finiture degli involucri edilizi. A questi utilizzi “di base” si aggiungono i cosiddetti “ricomposti lapidei”, materiali compositi ottenuti dalla miscela di polveri di pietre, marmi o quarzi con leganti a matrice polimerica naturale (“Novustone” www.novustone.com; “Milestone" www.inspiredcomposites.com; “Greenbell" www. stoneitaliana.com). Per concludere la breve panoramica riferita ai soli materiali “inerti”, attualmente sono in fase di sperimentazione anche alcune ricerche che prevedono la possibilità di “caricare” con fibre di vetro o canapa i calcestruzzi riciclati, per migliorarne le caratteristiche prestazionali in fase di una loro successiva riutilizzazione (“Fidhemp-unidir” www.fidiaglobalservice.com; “Glasspree" www.sireg.it).

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IL RESTO COME PRINCIPIO Alberto Antonio Clemente >UNICH

Nell’ebraico delle sacre scritture, Erri De Luca ha scoperto una singolare coincidenza: “sherìt è resto, reshìt è principio, due parole lontane in italiano ma unite in quella lingua dal vincolo misterioso dell’anagramma e del valore numerico. Solo Isaia le accosta (46, 3 e 10). Forse si può sopportare di essere un resto, ingiustificato e abusivo al mondo, solo se si crede all’impossibile disegno che fa, del proprio essere residuo, la materia prima di un principio”. Nel campo dei rifiuti, il passaggio da resto “di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi” a principio “per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini” (Legge 152/2006), dovrebbe essere la prassi operativa ordinaria. Soprattutto nel caso dei rifiuti urbani che potrebbero essere quasi completamente riciclati. Per comprendere la natura del problema, le potenzialità e l’importanza di quella che è (o dovrebbe essere) la filiera completa è indispensabile conoscere la composizione merceologica dei Rifiuti Urbani e la percentuale delle differenti componenti presenti sul territorio nazionale (ISPRA, 5DSSRUWR 5L±XWL 8UEDQL, Edizione 2013). La materia organica, rappresen-

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tata in linea di massima dagli scarti alimentari, costituisce circa il 30% dei rifiuti domestici, seguono carta e cartone (24%), plastica (11%), legno (10%), vetro (8%), metalli (4%). C’è poi una quota percentuale (circa l’1%) che concerne medicinali, batterie, solventi, detergenti, vernici, composti per il giardinaggio e altri prodotti chimici di uso casalingo. Tale quota percentuale, benché molto bassa, crea problemi di gestione inerenti alla tossicità poiché, potenzialmente, può essere trasferita in alcune componenti ambientali fondamentali, come l’aria e l’acqua. In questi casi differenziare è indispensabile, non tanto in relazione al riciclaggio quanto a evitare l’insorgenza di problemi sanitari. Un’altra categoria è quella degli ingombranti (materassi, lavatrici, frigoriferi o altri grandi elettrodomestici), la cui produzione, non essendo quotidiana, impone una gestione mediante strumenti diversi da quelli attuati per gli altri Rifiuti Urbani. In ultimo, va sottolineato come esista una frazione di piccole dimensioni denominata sovvallo (o sottovaglio) che, per le sue caratteristiche, non è riconducibile a nessuna delle precedenti categorie. In un’ottica di filiera, i Rifiuti Urbani possono essere classificati in organici, inorganici e sovvallo. La parte organica è costituita dalla frazione umida che, attraverso il compostaggio, può essere quasi interamente riciclata. Per la chiusura della filiera sono indispensabili impianti attrezzati per gestire il processo di maturazione biologica controllata della sostanza organica dei residui animali e vegetali. Attraverso tale processo si ottiene un materiale ricco di composti umidi, utile alla concimazione delle colture agrarie e al ripristino della sostanza organica dei suoli. La parte inorganica è rappresentata dalla frazione secca (carta, plastica, legno, vetro, metalli). Anche in questo caso, mediante la differenziazione, si può arrivare a un’alta percentuale di recupero e riciclaggio. Al fine di poter chiudere la filiera sono necessari impianti in grado di eseguire la separazione delle frazioni merceologiche omogenee, la cernita qualitativa del materiale raccolto e, infine, la selezione all’interno della stessa frazione di qualità diverse da indirizzare a differenti tipologie di impianti produttivi. Naturalmente, ogni categoria di rifiuti ha una diversa filiera merceologica. Il sovvallo è costituito da residui di piccole dimensioni, spesso al di sotto di 200 mm, ed è composto principalmente da materiale organico, carta e plastica che non è stato possibile avviare a recupero e/o riciclaggio. Questa parte dei rifiuti ha due destinazioni finali: l’incenerimento o la discarica.

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Tanto la parte organica quanto quella inorganica hanno bisogno, per essere trattati in modo da chiudere le diverse filiere, di aree e impianti industriali di differente ampiezza e tipologia. L’ampiezza delle aree dipende dal materiale di stoccaggio e dalle quantità da trattare. Le tipologie di impianto variano in relazione alle operazioni da svolgersi all’interno. La parte di sovvallo necessita, invece, di ampi spazi per la realizzazione (o ampliamento) di discariche o di inceneritori. Dal punto di vista normativo il riciclaggio è definito come qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i rifiuti sono trattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini (Legge 152/2006). Il riciclaggio è, quindi, un’operazione perfettamente in linea con le potenzialità dei Rifiuti Urbani. Tuttavia è un’opportunità ancora allo stato latente; talvolta anche in quelle realtà urbane virtuose in cui la raccolta differenziata raggiunge percentuali molto alte. Questo accade perché la differenziazione dei rifiuti (qualsiasi tipologia di raccolta sia utilizzata) è una condizione necessaria ma non sufficiente per il riciclo. Il vero problema oggi non riguarda tanto, o solo, il contenuto di ciò che deve cambiare (importanza della differenziata, del riciclo, riuso, recupero…), quanto piuttosto il rapporto dei rifiuti urbani con il governo del territorio e con il modo di concepire l’ambiente nel suo complesso. Come fare a dare avvio a questo processo di radicale trasformazione? In che modo rompere i circuiti autoreferenziali delle logiche di settore? Da dove ripartire? Molteplici le risposte possibili. Tre quelle di sicuro rilievo. Innanzitutto è necessario superare la frammentarietà e le difficoltà interpretative del quadro normativo. La proliferazione susseguente al D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 (Decreto Ronchi) aveva portato a un quadro giuridico molto articolato e spesso di difficile attuazione. È questo il motivo per cui con la Legge 15 dicembre 2004 n. 308 il Governo fu delegato al riordino, coordinamento e integrazione della legislazione in materia ambientale nei settori relativi alla gestione dei rifiuti. Una delega che ha trovato attuazione nel D.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152 “Norme in materia ambientale”, spesso definito come Testo Unico dell’ambiente che, in realtà, non è tale. Per due motivi fondamentali. Il primo attiene alle 34 modifiche e integrazioni del D.Lgs. 152/2006 (l’ultima in ordine di tempo è il D.Lgs. 4 marzo 2014 n. 46), alle 3 pronunce della Corte Costituzionale su alcuni aspetti dichiarati incostituzionali e al referendum del giugno 2011 che ne ha abrogato alcuni articoli. L’altro motivo riguarda il fatto che il D.Lgs. 152/2006 non ha elimi-

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nato la diffusione normativa sia a livello statale, su aspetti correlati, sia a livello regionale. In secondo luogo, occorre andare oltre le sovrapposizioni conflittuali tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato e quelle di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Con la riforma del Titolo V della Costituzione (Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3), all’art. 117 comma 2 lettera s) è stato stabilito che “lo Stato ha la legislazione esclusiva nelle seguenti materie: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Al successivo comma 3 dello stesso art. 117 è scritto che “sono materie di legislazione concorrente quelle relative alla tutela della salute, del governo del territorio, della protezione civile, della produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, della valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (…). Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservata alla legislazione dello Stato”. Le ovvie interdipendenze tra governo del territorio e ambiente come pure tra tutela e valorizzazione dei beni culturali e ambientali hanno determinato innumerevoli conflitti di attribuzioni innanzi alla Corte Costituzionale sia da parte dello Stato contro le Regioni (568) sia viceversa (422 – cfr. Sole 24 Ore, 7 novembre 2011, p. 23). Con una pluralità di conseguenze negative che, nei casi migliori, hanno visto un allungamento sensibile dei tempi. E invece, nel campo dei rifiuti, la rapidità di decisione è un obbligo. Terza risposta è quella che riguarda il superamento delle attuali carenze della pianificazione urbanistica e territoriale. E per farlo è indispensabile sia una nuova articolazione delle competenze tra Regioni, Province e Comuni sia una diversa attribuzione di ruoli e contenuti dei vari livelli di pianificazione con particolare riferimento al piano urbanistico comunale. L’art. 196 del D.Lgs. 152/2006 attribuisce alla Regione la predisposizione, l'adozione e l'aggiornamento, sentiti le Province, i Comuni e le Autorità d'Ambito, dei piani regionali di gestione dei rifiuti (comma 1 lett. a). È chiaro che un semplice parere endoprocedimentale rende il processo di pianificazione scarsamente condiviso e potenzialmente conflittuale tra chi deve predisporre, adottare e aggiornare il piano (Regioni) e chi deve renderlo operativo ed efficace (Province, Comuni e Autorità d’Ambito). Stesso schema si ripete nel caso di approvazione dei progetti di nuovi impianti per la gestione di rifiuti (comma 1 lett. d) dove la Regione approva (o non approva) impianti che ricadono nell’ambito di specifici Comuni e che spesso rap-

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presentano delle varianti al piano urbanistico. Questo perché, lo stesso piano non è obbligato a occuparsi della programmazione di questi temi. Si badi bene che in questo campo rientrano tutti gli impianti di compostaggio, di trattamento della differenziata, gli inceneritori e le discariche che, tralasciando le ricadute di ordine sociale, occupano estese porzioni di territorio con ripercussioni ambientali di straordinaria importanza. Ancora: alle Regioni è affidata la definizione dei (soli) criteri per l'individuazione, da parte delle Province, delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti (comma 1 lett. n) e al Piano Territoriale di Coordinamento (art. 197), è delegata l'individuazione (…) delle zone idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti, nonché delle zone non idonee alla localizzazione di impianti di recupero e di smaltimento dei rifiuti (comma 1 lett. d). Considerando che i Comuni esprimono un parere meramente consultivo, nonostante le previsioni delle zone idonee siano localizzate in territorio comunale, occorre domandarsi: prima ancora che dai Comuni, come saranno accolte dalle comunità locali? Il superamento della frammentarietà del quadro normativo, delle sovrapposizioni conflittuali tra le competenze di Stato e Regioni e delle carenze della pianificazione, rappresentano tre risposte provvisorie e non esaustive rispetto al problema dei Rifiuti Urbani e della loro corretta gestione, in quanto, solo per fare un esempio, non è stata presa in considerazione la riforma delle Province. Resta aperto l’interrogativo di fondo: l’agenda territoriale e ambientale può consentirsi ancora di procrastinare la risoluzione del problema dei rifiuti?

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RIFIUTI FRAGILI APPUNTI PER IL PROGETTO URBANO Matteo di Venosa >UNICH

Un territorio di rifiuti I rifiuti rappresentano i residui (gli scarti) di un processo di produzione e di consumo. L’incapacità di gestirne la sovrapproduzione genera, com’è ormai noto, danni ambientali ed economici. La questione dei rifiuti è intrinsecamente legata alla struttura capitalistica della società contemporanea (Bauman Z., Vite di scarto, Laterza, BariRoma 2005), ai suoi fabbisogni, gradi di soddisfacimento, ai multiformi processi di scarto (economici, sociali, bio-politici, culturali e semiotici) che la connotano come VRFLHWj GHO FRQVXPR e, ancor più, come FLYLOWj GHL UL±XWL (Latouche S., La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Bologna 2007). Più in generale, il tema dei rifiuti si associa alla FULVL GHOOD FLWWj ed alla insostenibilità degli attuali modelli di crescita. La questione dei rifiuti coincide con la questione ambientale e con l’emergenza della questione sociale. Il tema ha assunto una dimensione pervasiva, planetaria. È un paradigma, si presta a molteplici interpretazioni e slittamenti di senso. Naturalmente, non si esaurisce alla gestione della spazzatura. Anche la città ed il territorio con le loro dinamiche di funzionamento e di

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trasformazione producono scarti, rifiuti, rovine e macerie; i termini spesso interscambiati, si riferiscono, in realtà, a dinamiche ed oggetti tra loro differenti. La nozione di scarto evoca materiali e spazi che hanno concluso il loro ciclo di vita e che attendono un progetto di rigenerazione e di ri-ciclo: drosscape, cave inattive, aree industriali dismesse ed inquinate, infrastrutture realizzate e mai utilizzate, oppure inutili o superflue. Sono, inoltre, da considerare come materiali di scarto quei territori abbandonati e degradati perché insicuri e instabili dal punto di vista idrogeo-morgologico. Sono le terre mobili del nostro Paese: territori ambientalmente fragili ormai ridotti in rovine e macerie. Questi paesaggi rappresentano gli scarti di un modello di crescita sbagliato: energivoro, che consuma suolo senza cura dei propri equilibri geo-ambientali. Un modello di sviluppo che produce marginalità e segregazione spaziale e sociale. In Italia il tema del riciclo dei territori fragili assume una sua rilevanza e specificità. Secondo i dati del 3URJHWWR ,)), (2007) e del Rapporto Ance-Cresme (2012) le aree con elevata criticità idrogeologica coinvolgono nel nostro Paese circa l’89% dei comuni, quelle a rischio sismico il 38% dei comuni. I UL±XWL IUDJLOL richiedono un progetto integrato di rigenerazione ecologica e di sviluppo economico; un’idea innovativa di riciclaggio che trasformi le rovine e le macerie in nuovi valori e risorse. Dinamiche Scarpate e versanti franosi, aree in erosione, zone esondabili e geologicamente attive. Linee di faglia, pieghe e fratture restituiscono la complessità della geografia tettonica del nostro Paese permettendo di valutare, nel contempo, il grado di instabilità e di pericolosità dei fenomeni naturali ad essa associati. La nozione di YXOQHUDELOLWj DPELHQWDOH (Fortune J., Peters G., /HDUQLQJ from failure, John Wiley & Sons, Great Britain 1995) è strutturalmente legata a quella di rischio, quest’ultima considerata nella sua multipla fenomenologia. L’osservazione empirica dimostra la correlazione di alcune dinamiche ambientali e territoriali entro cui si producono paesaggi di scarto e di ri-

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fiuti (Clementi A., di Venosa M., 3LDQL±FDUH OD ULFRVWUX]LRQH 6HWWH HVSHULHQ]H dall’Abruzzo, Marsilio, Venezia 2012). Appare chiaro, in particolare, che maggiore è il grado di vulnerabilità di un’area geografica, più elevata risulta la sua esposizione al rischio, più evidenti appaiono, di conseguenza, i processi di degrado socio-economico e di abbandono dei contesti paesaggistici. Tra livello di esposizione al rischio, pericolosità, vulnerabilità, abbandono e degrado si realizza così una forte interrelazione funzionale i cui effetti territoriali interessano non solo le cosiddette aree interne della nostra penisola (dove i processi di abbandono dei centri urbani si associano allo scarso livello di attrattività dei sistemi economici locali) ma anche, le conurbazioni più forti e strutturate i cui recenti processi espansivi hanno determinato un aggravamento delle tensioni ambientali e delle condizioni di funzionamento dei sistemi ecologici di riferimento (aste fluviali e vallive, zone umide e boschive, fasce costiere, aree rurali). Si abbandonano le strutture insediative, i tessuti produttivi e le pratiche sociali. Tali fenomeni sono diffusi e contagianti. Soprattutto nelle aree interne, i processi di dismissione determinano un’inevitabile riduzione delle ordinarie pratiche manutentive del territorio come la tenuta dei terrazzamenti, la pulizia dei canali e del reticolo idrografico minore, il consolidamento e la piantumazione dei versanti, la messa in sicurezza della viabilità poderale. Accade così che: vengono compromessi i livelli di sicurezza ambientale dei sistemi ecologici, si accelerano i processi di abbandono e di marginalizzazione socio-economica dei contesti paesaggistici; i territori diventano più vulnerabili, meno resilienti, meno capaci di assorbire e di adattarsi ai condizionamenti ambientali (a volte improvvisi e distruttivi) dei contesti in cui sono inscritti. Si producono scarti e rovine il cui stato di residualità reclama giustizia, attende un progetto di rigenerazione e di riciclo che produca una nuova centralità di senso. Ri-ciclare territori fragili Il carattere eco-sistemico che inevitabilmente assume la nozione di vulnerabilità ed il rapporto di complementarietà che lega la YXOQHUDELOLWj alla resilienza (9XOQHUDELOLWj H WUDVIRUPD]LRQH GHOOR VSD]LR XUEDQR, a cura di Fabietti V., Alinea, Firenze 1999) restituiscono la singolarità e, per molti versi, la complessità del progetto di riciclo dei territori fragili. Non si tratta solo di affermare la centralità dei temi della sicurezza am-

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bientale, della geotecnica e dell’ingegneria strutturale in un’ottica di incremento del livello di sicurezza e d’inerzia dei singoli manufatti (unità edilizie e spazi pubblici), quanto piuttosto, cercare di garantire la continuità del funzionamento del sistema urbano rafforzando quelle relazioni e connessioni che saranno in grado di assorbire gli eventuali ed improvvisi effetti perturbativi causati da un evento naturale. Tale prospettiva progettuale permette di cogliere lo scarto concettuale che separa le nozioni di resistenza e di resilienza inquadrando il tema del riciclo dei territori fragili in una prospettiva di particolare interesse per il piano urbanistico e per il progetto urbano. Il significato di resistenza si ricollega, infatti, ad un’idea di sicurezza (quindi di ULJHQHUD]LRQH e di riciclo) di tipo sostanzialmente statico il cui obiettivo è di ridurre il grado di vulnerabilità strutturale dell’organismo urbano operando su una serie di manufatti strategici e sulle loro intrinseche capacità di opporsi (quindi di resistere) ad un evento disastroso. La nozione di resilienza, invece, tende ad evidenziare l’importanza di quelle relazioni contestuali che permettono l’adattamento progressivo dell’organismo urbano ad una modificazione improvvisa delle condizioni ambientali. Non si tratta, quindi, di preservare esclusivamente la continuità d’esercizio degli edifici che ospitano funzioni strategiche (attività e funzioni comprese nelle classi d’uso III e IV delle NTC 2008), quanto piuttosto di rinforzare quelle reti e quei sistemi di reti (spaziali, ambientali, culturali e sociali) che assicurano la sopravvivenza di quelle relazioni (economiche, paesaggistiche ed identitarie) che svolgono un ruolo vitale per la sopravvivenza delle società locali. È dunque nella interdipendenza delle reti che si migliorano le condizioni di resilienza di un territorio fragile innescando un processo di riciclo dei suoi scarti e delle sue rovine. Tale ipotesi di lavoro benché abbia assunto sempre più importanza nel recente dibattito si scontra con le pratiche correnti ancora frammentarie e settoriali. Da un lato, la pianificazione e gestione del rischio (Piani di emergenza della Protezione Civile istituiti con la legge 225/92, Piani di Assetto Idrogeologico ai sensi della L. 183/89) che tendono ad implementare una nozione di rischio ancora settoriale ed emergenziale. Dall’altro la disciplina urbanistica che, nonostante le innovazioni legislative maturate all’interno di alcuni contesti regionali (si vedano, in proposito,

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le leggi regionali: Umbria, n. 11/05, Marche n. 61/08, Emilia Romagna n. 20/2000 e n. 6/2009 e Calabria n. 19/2002), stenta ad affermare una propria dimensione culturale e progettuale che assuma le categorie della sicurezza, di resilienza della incertezza dei fenomeni naturali, come nuovi paradigmi di un progetto di rigenerazione sostenibile del territorio. Lifelines Le nozioni di resilienza e di rigenerazione ecologica chiamano in campo il tema dell’interdipendenza delle reti come condizione primaria per garantire la sopravvivenza di un sistema urbano ed il riciclo delle sue parti costituenti. In tale prospettiva assume rilevanza il tema della lifelines. Il termine indica quei sistemi di rete che assicurano non solo la relazione tra i vari ambiti spaziali di un organismo urbano, ma permettono, soprattutto, la distribuzione e l’approvvigionamento dei beni e delle risorse di prima necessità da cui dipende la vita delle comunità urbane (Paton, Johnston, 'LVDVWHU UHVLOLHQFH $Q LQWHJUDWHG DSSURDFK, C. Thomas Publisher Ltd., Springfield, Illinois 2006). Le lifelines sono, in altri termini, infrastrutture del suolo che regolano il sistema circolatorio dell’organismo urbano, preservandone l’equilibrio dei metabolismi e cicli di funzionamento. Dalla loro efficienza e grado di interconnettività dipende la competitività, la qualità abitativa, il livello di resilienza e di vulnerabilità di un sistema urbano. Si inscrivono nella categoria delle lifelines: le reti di approvvigionamento e di distribuzione dell’acqua (water supply) e di gestione dei reflui (wastewater facilities), le reti dell’energia elettrica (electric power), del gas e combustibili liquidi (JDV DQG OLTXLG IXHOV), le reti della mobilità (transportation) e delle telecomunicazioni (telecomunication). A questi sistemi primari possono aggiungersi le reti di smaltimento e di gestione dei rifiuti (ZDVWH PDQDJHPHQW) entro le quali, soprattutto nelle aree geologicamente instabili del nostro Paese, si inseriscono le reti di gestione dei rifiuti da demolizione e crolli (construction and demolition maQDJHPHQW) che rivestono particolare importanza nei programmi di prevenzione e gestione delle emergenze naturali (soprattutto i terremoti). Nonostante il ruolo determinante e strategico, le lifelines sono reti settoriali, non si integrano con i contesti che attraversano, non hanno un rapporto con la forma urbana. Il loro progetto è spesso relegato a pratiche specialistiche ed autoreferenziali. Sembra che la loro invisibilità giustifichi

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l’assenza di ogni intenzionalità progettuale che cerchi di interpretarne il ruolo territoriale e il potenziale morfogenetico. Le lifelines viaggiano nel sottosuolo (gas, energia elettrica, combustibili, acqua e reflui), coincidono con reti immateriali (telecomunicazione), oppure sono socialmente rimosse perché producono danni per l’ambiente e per la salute umana (rifiuti). Eppure le infrastrutture del suolo hanno sempre avuto una relazione con la struttura della città incidendo sulla qualità delle sue opere pubbliche e dei suoi spazi collettivi. La città di antica fondazione si adattava alle condizioni del contesto naturale attraverso la forma strutturante delle proprie reti di base (in particolare, i sistemi di raccolta e smaltimento delle acqua reflue, i sistemi di ventilazione, le reti della circolazione). La città moderna nella metà del XIX secolo riorganizzava la propria struttura urbana a partire da un nuovo disegno delle infrastrutture del suolo (soprattutto delle reti dei sottoservizi e della mobilità). Nella città contemporanea il tema assume nuovamente centralità in relazione all’emergere della questione ambientale e all’importanza delle politiche per il contenimento energetico e del consumo di suolo. Un nuovo contesto culturale ed operativo impone sfide epocali e richiede un ripensamento della forma del piano e del progetto urbano. In tale prospettiva, il tema lifelines acquisisce rilevanza. La loro multipla natura di reti ambientali, infrastrutturali e tecnologiche può qualificare un SURJHWWR GL VXROR che operi per rigenerare i territori fragili ricomponendone la frammentazione e l’episodicità. Un progetto di suolo che assume la centralità dei temi della sicurezza ambientale in una prospettiva multidimensionale, interscalare ed intersettoriale. Un progetto di suolo: DGDWWLYR, in grado cioè di assorbire le condizioni strutturalmente mutevoli ed instabili del contesto geo-ambientale; seletWLYR, che individua quegli elementi urbani primari, la cui rilevanza per la sicurezza ambientale dipende dal ruolo del centro urbano nel suo territorio di riferimento e dall’importanza che diversi elementi (funzioni, spazi e reti) rivestono nell’organizzazione complessiva della città; WRSRORJLFR, che tende a rafforzare i legami multidimensionali tra le differenti parti dell’organismo urbano, qualificandone le connessioni e le mutevoli proprietà relazionali.

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Un progetto di suolo come infrastruttura ambientale rigenera i paesaggi attraversati, incorpora i metabolismi della città, le sue reti e i suoi cicli di vita (ciclo dell’acqua, dei rifiuti, dell’energia, della mobilità, della sicurezza…). Un progetto che richiede impegno civile e politico ma, soprattutto, un ambizioso progetto culturale.

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*UHHQ±HOGV &DVDO 3DORFFR ¥ &DVWHO )XVDQR

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MAPPE PER PAESAGGI DELLO SCARTO AGRICOLO Lucina Caravaggi Anna Lei >UNIROMA 1

La relazione sullo stato d’avanzamento del gruppo di lavoro sui JUHHQ±HOGV muove da una mappa della copertura del suolo realizzata sulla base della copertura fisica e biofisica, in relazione cioè a differenti tipi e combinazioni di elementi (vegetazione, suolo, acqua ed elementi di origine antropica). La carta dei JUHHQ±HOGV assume le informazioni già accertate ed evidenziate nei precedenti contributi, e le riconduce a un sistema di classificazione dettagliato. L’obiettivo è descrivere con esattezza i caratteri del suolo – insediato, coltivato o abbandonato – caratteri fortemente intrecciati e a volte ibridati tra loro. La formazione di una mappa ad hoc si conferma un momento conoscitivo indispensabile per procedere a interpretazioni tematiche chiare e argomentate, in questo caso finalizzate alla formulazione di strategie di riciclo dei SDHVDJJL GHOOR VFDUWR DJULFROR, assumendo all’interno di questa prospettiva il riciclo sia di spazi marginalizzati e depauperati dall’agricoltura che di componenti riconducibili in vario modo ai cicli della produzione agricola. A questo fine la cartografia in uso, che muove dallo standard di rilievo del CORINE Land Cover (da ora: CORINE), appare del tutto insoddisfacente, sia per la grana del rilievo che per l’articolazione delle voci di legenda.

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Una nuova stagione di studi (e di preoccupazioni) circa l’apparentemente inarrestabile consumo di suolo sembra richiedere uno sguardo più vicino al fenomeno, capace di cogliere oggetti, andamenti e dinamiche. Ma è indispensabile che gli esiti dell’osservazione siano anche “quantificabili” e “comparabili”, per non trasformare le mappe in strumenti del tutto autoreferenziali. Da questa esigenza nascono alcune ricerche cartografiche recenti da cui muove esplicitamente anche il lavoro presentato in questa sezione. Mappe comparabili La messa a punto di una legenda di rilievo specifica e funzionale alla descrizione dell’area di indagine, ma anche condivisa e quindi confrontabile con altre banche dati, ha richiesto una fase di studio ad hoc. Tra le numerose banche dati recentemente elaborate in tema di uso e copertura di suolo, e finalizzate a monitorarne il consumo, il Progetto AGRIT AgroAmbiente, promosso dal MiPAAF (destinato ad avere un’applicazione a scala nazionale) è sembrato un punto di partenza interessante ai fini della nostra ricerca per tre ragioni: - OD PHWRGRORJLD GL ULOLHYR GHL GDWL, che integra pragmaticamente l’interpretazione di immagini satellitari con rilievi diretti campionari. Il dato così ottenuto può prestarsi sia all’analisi di tipo statico (copertura del suolo rispetto al momento specifico del singolo rilievo), che a quella multi-temporale; la comparazione di più immagini satellitari e di queste con il rilievo diretto può evidenziare cioè dinamiche di avvicendamento colturale, di abbandono, ecc.; - LO GHWWDJOLR GHO ULOLHYR H OD VFDOD GL UHVWLWX]LRQH GHO GDWR, che rispetto ai dati già forniti dalle cartografie CORINE 2006 permette un’evidenziazione molto più precisa dei principali ambiti di copertura del suolo: mentre l’unità minima cartografabile del CORINE è di 25 ha, assimilabile ad un quadrato di 500 m di lato, il progetto AGRIT-Agro ambiente fa riferimento ad una griglia regolare di 250 m di lato. - la particolare attenzione al tema delle aree libere, che si esprime in una banca dati agro-ambientale organizzata in 86 classi di rilievo, di cui 59 specificatamente riferite alle superfici agricole (rispetto alle classi di rilevazione, sono attualmente accessibili solo dati parziali connessi alla prima sperimentazione regionale svolta sul territorio della Basilicata).

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B 3DHVDJJL GHOOR VFDUWR DJULFROR LQ QHUR DUHH LQFROWH D YHJHWD]LRQH LJUR±OD QHOOH WUH WRQDOLWj GL JULJLR GDO SL VFXUR DO SL FKLDUR DUHH VHPL QDWXUDOL GL UHFHQWH DEEDQGRQR DUHH LQFROWH D YHJHWD]LRQH HUEDFHD WXWWH OH DOWUH DUHH OLEHUH

B $UHH DJULFROH SURGXWWLYH (YLGHQ]LDWH LQ URVVR OH DUHH YDULDPHQWH FRQQHVVH DOOD SUHVHQ]D GL DWWLYLWj DJULFROH SURGXWWLYH LQ JULJLR WXWWH OH DOWUH

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B 7DEHOOD GL FRQIURQWR WUD OD OHJHQGD Re-cycle/Greenfileds H OD OHJHQGD &25,1( 1HOOD FRORQQD GL VLQLVWUD OH FODVVL GL FRSHUWXUD GHO VXROR XWLOL]]DWH SHU OD PDSSDWXUD GHL JUHHQ±HOGV DOOH YRFL JLj YDOLGDWH QHO 3URJHWWR $*5,7 $JUR $PELHQWH QH VRQR VWDWH LQWHJUDWH DOFXQH VSHFL±FKH per il territorio della Coda della cometa VHJQDODWH FRQ XQ DVWHULVFR 1HOOD FRORQQD GL GHVWUD XQR VWUDOFLR GHOOH FODVVL FRUULVSRQGHQWL GHOOD QRPHQFODWXUD &25,1(

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La finalità di questa lettura è di pervenire a valutazioni di tipo statistico, e di comparare territori diversi in fasi temporali diverse, ma nello stesso tempo è anche quella di connettere saldamente le valutazioni statistiche a classi di oggetti e scale di osservazione più vicini ai fenomeni indagati.

Greenfields della Coda della cometa – rilievo e interpretazione Le prime sperimentazioni AGRIT-Agro Ambiente, con particolare riferimento al caso studio della Regione Basilicata, hanno quindi orientato la costruzione di una legenda specifica per l’area di indagine, attraverso la levigatura e l’integrazione delle classi di rilievo nazionali in rapporto ai caratteri dominanti della Coda della cometa, e pervenendo alla fine ad una mappatura basata su 25 voci di legenda relative alla copertura del suolo (fig. 1). La loro identificazione è l’esito della comparazione di fonti eterogenee, come dalle raccomandazioni delle ricerche nazionali: le foto aggiornate (Google 2013), i sopralluoghi diretti e numerose foto d’archivio scattate dall’elicottero (voli del 2007 e del 2011). La stessa legenda ha supportato anche la redazione di una mappa più tradizionale (mosaico relativo alle diverse coperture) guidando la lettura dettagliata del contesto di indagine, e giustificando, in particolare, l’affrancamento dalla Cartografia CORINE della Regione Lazio (fig. 3). Il dettaglio della mosaicatura proposta permette infatti di sotto-articolare i grandi ambiti territoriali già riconosciuti dal CORINE, e di individuare – evidenziandone forma e quantità – molte categorie di aree utili alla ricerca, per es. le aree libere intercluse, tipiche dei territori caratterizzati da urbanizzazione diffusa (fig. 4). Il rilievo permette di evidenziare tre grandi famiglie di JUHHQ±HOGV. Oltre alle aree connesse all’attività agricola, distinte in DUHH DJULFROH SURGXWWLYH e DUHH GHOOR VFDUWR DJULFROR, il territorio è caratterizzato da molte aree di interesse naturalistico-ambientale e culturale. L’interpretazione di queste tre categorie è funzionale alla definizione di nuovi possibili significati per i paesaggi dello scarto. $UHH DJULFROH SURGXWWLYH. Rientrano in questa famiglia tutte le aree variamente connesse alla presenza di attività agricole: fabbricati isolati ad uso agro-residenziale, stalle o fabbricati isolati ad uso zootecnico, seminativi, colture orticole a campo aperto, colture orticole a campo chiuso (orti), colture in serra o sotto altra copertura, arboricoltura da legno a ciclo breve,

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vivai, vivai specializzati in produzioni estensive (fig. 2). Le principali superfici coltivate a seminativo, con le relative strutture di supporto (strade, canali, filari, siepi) e di servizio (stalle, magazzini, silos), insieme alle colture orticole a campi aperti o in serra (presenti nelle frange più esterne) sono concentrate nelle grandi anse fluviali e a nord dell’aeroporto di Fiumicino, e sono riferibili alla presenza di grandi aziende agricole. Di ampie dimensioni sono anche le aree che ospitano le nuove attività vivaistiche specializzate del prato pronto, isole del tutto “autonome” dal resto del territorio agricolo, come nel caso della Tenuta di Procoio. La carta di rilievo evidenzia infine una moltitudine di aree minori eterogenee per forma e dimensione. Si tratta di aree variamente connesse ad attività agricole produttive minori o di autosostentamento: colture orticole a campo chiuso, piccoli impianti di arboricoltura e vivai, o residui di seminativo. $UHH GHOOR VFDUWR DJULFROR H LQVHGLDWLYR. Sono state inserite in questa famiglia tutte le aree coinvolte da dinamiche di abbandono della produzione agricola, degrado del suolo e avanzamento di processi insediativi: aree semi-naturali di recente abbandono, aree incolte con vegetazione erbacea, aree incolte con vegetazione igrofila (fig. 5). Le aree semi-naturali definite di “recente abbandono” sono aree di dimensioni consistenti, contigue ad aree ancora coltivate, abbandonate per gli alti costi di manutenzione connessi a fenomeni ambientali (esondazioni del fiume, risalita della falda acquifera, stagnazione delle acque piovane e superficiali, ecc.). La mappa evidenzia inoltre tre principali concentrazioni di aree di piccole dimensioni e frastagliate. Questi mosaici a grana sottile, finalmente evidenziati e quantificabili, comprendono l’insieme delle aree incolte a vegetazione erbacea o igrofila che caratterizzano largamente i territori della Coda della cometa. La loro osservazione diretta permette di costruire un vero e proprio FDWDORJR GL VSD]L PDUJLQDOL: ritagli di forma allungata compresi nelle fasce di rispetto delle infrastrutture; porzioni di spazi aperti generati dall’espansione e dal consolidamento dei tessuti edilizi di origine abusiva, che spesso coincidono con lotti in attesa di edificazione; aree libere abbandonate spesso utilizzate come depositi o discariche abusive; aree caratterizzate da una percezione di insicurezza e degrado anche a

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B &RQIURQWR FDUWRJUD±FR WUD OD PDSSDWXUD &25,1( H TXHOOD 5H F\FOH *UHHQ±HOGV /R VWUDOFLR VL ULIHULVFH DOOªDUHD FRPSUHVD WUD 'UDJRQD H $FLOLD

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B $UHH GHOOR VFDUWR DJULFROR H LQVHGLDWLYR (YLGHQ]LDWH LQ URVVR OH DUHH SHUPHDELOL FRLQYROWH GDOOH GLQDPLFKH GL DEEDQGRQR GHOOD SURGX]LRQH DJULFROD GHJUDGR GHO VXROR H DYDQ]DPHQWR GL SURFHVVL LQVHGLDWLYL LQ JULJLR WXWWH OH DOWUH

B $UHH GL LQWHUHVVH QDWXUDOLVWLFR DPELHQWDOH H DUFKHRORJLFR (YLGHQ]LDWH LQ URVVR OH DUHH TXDOL±FDWH GD DOWL YDORUL GL ELRGLYHUVLWj H R QDWXUDOLWj LQ JULJLR WXWWH OH DOWUH

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causa della folta vegetazione a canneto; aree di verde a standard mai realizzato. Infine, l’insieme delle aree con la forma ad “H” nella parte superiore della mappa sono le aree incolte ritagliate dalle tre piste dell’aeroporto di Fiumicino. Aree di interesse naturalistico-ambientale e culturale. Rientrano in questa famiglia tutte le aree qualificate da elevati valori di biodiversità e/o naturalità: boschi di conifere, boschi misti, zone boscate naturali di piccole dimensioni, aree a vegetazione boschiva e arbustiva in evoluzione, aree con vegetazione rada, vegetazione ripariale arborea e arbustiva e parchi archeologici (fig. 6). La mappa evidenzia tre principali sistemi, con dimensioni differenti e diversa articolazione interna, paralleli alla linea di costa. Da nord a sud: l’oasi Macchiagrande di Focene, uno dei principali siti di protezione degli habitat naturali e semi-naturali dell’intero territorio; la pineta di Coccia di Morto, contornata da un ampio lembo di vegetazione sclerofilla; la grande pineta di Castel Fusano, direttamente connessa alle riserve naturali di Decima Malafede e di Castel Porziano. La macchia mediterranea e le zone di vegetazione rada o in evoluzione che circondano e proteggono queste aree ad elevata biodiversità e/o naturalità, sono importantissimi ecosistemi ecotonali di protezione dagli ambienti urbani. Infine, trasversalmente all’ambito di indagine, si sviluppa il principale reticolo fluviale, naturale e artificiale, evidenziato nella mappa dalle fasce di vegetazione ripariale. La frammentazione di questa figura evidenzia da una parte la forte alterazione della rete di bonifica (intubamenti e interruzioni dei canali di raccolta e scolo delle acque); dall’altra la pesante infrastrutturazione delle sponde fluviali nei pressi dello sbocco al mare.

1RWD I contenuti e le immagini presentate nel presente report sono frutto del lavoro di ricerca svolto da Andrea Bruschi, Lucina Caravaggi e Anna Lei. Ha inoltre collaborato Luca Tentori per la mappatura del territorio e la redazione delle carte. La foto di apertura è di Alessandro Cimmino.

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2VWLD LO ±QH YLWD GHOOH DXWR H GHOOH EDUFKH FRPH SURFHVVR LQFRVFLHQWH

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IL CICLO DI VITA DEI VEICOLI Andrea Grimaldi Dina Nencini Francesca R. Castelli Maria Clara Ghia Gianpaola Spirito >UNIROMA 1

L’area urbana di Roma che va verso il mare denominata Coda della cometa è e sarà nei prossimi anni oggetto di grandi trasformazioni. Si tratta soprattutto di trasformazioni che coinvolgono le maggiori infrastrutture, quali l’Aeroporto, per il quale è previsto un ampliamento la cui realizzazione è molto controversa, il nuovo Porto di Fiumicino, a cui dovrebbe affiancarsi un altro intervento per un porto privato, ed anche di trasformazioni che potremmo definire “attese”, che riguardano vere e proprie infrastrutture ambientali e naturali come l’istituzione della riserva naturale del Tevere, la valorizzazione delle opere di bonifica o la creazione di un parco archeologico naturalistico del litorale. All’interno di quest’area così significativa per la compresenza di due dimensioni, di potenziamento infrastrutturale e di ridefinizione ambientale e naturale, apparentemente in contrasto tra loro, i drosscape rappresentano quella FLWWj LQYHUVD che non sembra venire direttamente coinvolta dalle trasformazioni in atto nel territorio. Abbiamo allora cercato di capire la realtà complessa che ne determina l’esistenza, l’economia, le dinamiche di occupazione del territorio e l’impatto ambientale o di degrado complessivo. Gli “spazi del rifiuto”, i

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drosscape appunto, occupati da autodemolitori, raccolta di rottami e abbandono di relitti nautici, sono apparsi insistere quasi sempre su terreni esondabili, vincolati o non rispondenti alla normativa e utilizzati in base a concessioni temporanee e continuamente rinnovate. Si è quindi proceduto alla identificazione di tutti gli spazi occupati dal ciclo di vita dei veicoli (vendita, deposito, parcheggio, smontaggio, smaltimento, abbandono) inserendoli nella mappa in costruzione dei EURZQ±HOG. Quindi si è approntata una legenda delle criticità, stabilendone una gerarchia che permetta di definire le priorità per le future scelte progettuali. Maggiormente critiche sono quelle soggette al rischio dei potenziali inquinanti, al rischio idrogeologico, quindi le aree coperte dal vincolo paesaggistico o archeologico e quelle alle quali si attribuisce un valore ambientale o di posizione, ecc. Parallelamente si è studiata la filiera di dismissione delle automobili, delle imbarcazioni e dei veicoli in genere, e ricercati esempi virtuosi di impianti di disassemblaggio delle componenti e di riciclo dei materiali, nonché di re-impiego o di smaltimento. Il ciclo di vita delle automobili La crescita di una coscienza ecologica condivisa a livello europeo ha prodotto una direttiva “storica” per il suo portato culturale e soprattutto normativo-operativo: la 2000/53/CE del 18 settembre 2000. Con questa legge quadro si sono definiti una serie di obblighi che hanno coinvolto nel processo gestionale dei veicoli a fine vita (ELV) le case automobilistiche, chiamate a dare un loro contributo in termini di riduzione dei rifiuti attraverso una progettazione mirata a semplificare la gestione ed il recupero dei materiali utilizzati in fase di demolizione, evitando per quanto possibile la produzione di rifiuti pericolosi. La legge ha inoltre introdotto l’obbligo, sempre per le case automobilistiche, di centrare degli obiettivi di recupero e riciclo degli ELV, commisurati alle quantità di nuovi veicoli che esse immettono sul mercato attribuendo dunque loro un ruolo fondamentale per il buon funzionamento dell’intera filiera dell’auto. Questa direttiva ha, di fatto, sancito un passaggio epocale perché ha spostato l’attenzione dal piano della semplice produzione di mezzi, sempre più efficienti come prestazioni, riduzione di consumi e velocità, al piano dei loro costi complessivi, considerando dunque in un certo qual modo anche i costi ecologici ed ambientali legati alla loro produzione, uso e successivo smaltimento.

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La direttiva ha chiarito alcuni concetti chiave per i processi di trattamento e gestione degli ELV ed ha definito che si intende: - per UHLPSLHJR, l’operazione in virtù della quale i componenti di un veicolo fuori uso sono utilizzati per lo stesso scopo per cui erano stati originariamente concepiti; - per ULFLFODJJLR il ri-trattamento in un processo di produzione dei materiali di rifiuto, per la loro funzione originaria o per altri fini; - per UHFXSHUR GL HQHUJLD, l’utilizzo di rifiuti combustibili quale mezzo per produrre energia mediante incenerimento diretto con o senza altri rifiuti ma con recupero di calore. Per il termine recupero, la successiva GLUHWWLYD UL±XWL 2006/12/CE (sostituita poi dalla 2008/98/CE), ha chiarito che con esso si deve intendere qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno dell'impianto o in altri processi produttivi. La legge quadro 2000/53, alla luce delle suddette categorie, ha indicato per tutti gli stati europei, gli obiettivi da raggiungere entro il 01/01/2015 in termini di percentuale di reimpiego, recupero e riciclaggio del peso degli ELV, stabilita nella misura del 95%. Attualmente la filiera dell’ELV ha un doppio percorso: un primo che vede il proprietario dismettere autonomamente il proprio veicolo scegliendo sul mercato un autodemolitore qualsiasi; un secondo che lo vede sostituire il vecchio mezzo appoggiandosi alla concessionaria dalla quale acquista il nuovo e che per legge è tenuta a farsene carico senza costi per l’acquirente. Ogni casa automobilistica, in questo ultimo caso, è tenuta a costruire una propria filiera con la quale perseguire gli obiettivi di legge, ed i concessionari assumono qui il ruolo di primo gradino della piramide/filiera perché è da qui che parte, entro 30 giorni, il processo di recupero/riciclo dei mezzi. Il secondo gradino della piramide, prendendo ad esempio il caso di Fiat Group Automobiles (FGA) nel Lazio, si basa attualmente su di una rete di 24 autodemolitori, su 207 autorizzati in tutta la regione, e (gradino superiore) un centro di triturazione. La fotografia della situazione italiana presenta nel suo complesso una scena in chiaroscuro dove, se badiamo solo ai risultati in termini numerici, la filiera dell’auto sembra essere una delle più efficienti d’Europa, con percentuali che hanno pienamente centrato gli obiettivi intermedi fissa-

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ti dalla norma per il 2006 (recupero in peso all'85% e reimpiego/riciclo all'80%). Ma se si guarda alla filiera in termini fisico-spaziali, analizzandola secondo parametri urbanistici ed ecologico-ambientali ci si accorge che le condizioni dei luoghi che la costituiscono, non sembrano aver seguito lo stesso processo di miglioramento e adeguamento che i risultati numerici lascerebbero presagire. L’iterarsi di deroghe e rinvii nell’applicazione delle norme comunitarie ha di fatto consentito il mantenimento in attività di strutture totalmente inadeguate quando non addirittura pericolose. Recenti analisi statistiche hanno comunque segnalato una riduzione delle PMI del settore, passate dalle 5.400 del 2000 alle 1.800 del 2012 (fonte: Centro studi Fiat), fotografando un tipico paradosso italiano dove più che l’applicazione delle leggi possono i processi metabolici del mercato, magari alimentati dal lento ma costante crescere di una sensibilità ecologica collettiva che intacca quelle che appaiono come vere e proprie rendite di posizione basate solo su consuetudini e disattenzioni generalizzate della pubblica amministrazione. Già tredici anni fa, uno studio assai documentato (Levizzari A., ,O ±QH YLWD GHOOªDXWRPRELOH SURVSHWWLYH WHFQRORJLFKH H DPELHQWDOL, Centro Ricerche FIAT, 2001) prefigurava sostanzialmente due possibili modalità per affrontare le trasformazioni che la 2000/53/CE richiede all’intera filiera dell’auto: una che avrebbe adottato soluzioni graduali ed una soluzioni drastiche. La prima mirava a migliorare puntualmente problemi specifici della filiera esistente, con particolare attenzione alle fasi in coda ai processi di demolizione. La seconda prospettava scenari di radicale ripensamento dell’intero ciclo con la creazione di poli di disassemblaggio immaginati a scala regionale, nazionale o addirittura comunitaria. Oggi siamo ancora in una fase assai confusa in cui permangono sacche di arretratezza con esempi di virtuosa innovazione. Non v’è dubbio che un reale processo di trasformazione della filiera dell’auto potrà pienamente attuarsi solo se accompagnato dalla creazione di mercati economicamente interessanti per le componenti e le materie recuperate, tema sul quale lavorano i centri ricerche di tutte le grandi case automobilistiche, FGA compresa. Il ciclo di vita dei veicoli nautici Lo studio dell’area della Coda della cometa ha portato in evidenza la rilevante presenza di luoghi destinati al ciclo di vita delle imbarcazioni, più di

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mille ettari di superficie se si considerano le darsene, i depositi e i piccoli cantieri navali. Nel tratto più vicino alla costa, il letto del Tevere appare invaso dalle banchine con diverse file di barche ormeggiate, nell’area golenale si susseguono capannoni e magazzini, lungo le rive dell’Isola Sacra si incontrano addirittura relitti pericolosamente inquinanti, parzialmente affondati e mal celati fra la vegetazione ripariale. Nel delineare uno scenario per il futuro di questo quadrante della città metropolitana non è dunque possibile tralasciare il progetto dei luoghi destinati al fine vita delle unità da diporto, seguendo una visione strategica parallela e affiancata a quella del ciclo degli autoveicoli, in cui le filiere vengano analizzate non solo dal punto di vista della loro efficacia economica, ma anche nei loro esiti spaziali e architettonici. Questa visione è sostenuta dagli studi in corso nel nostro paese sul tema dell’(QG RI /LIH Boat, in cui è impegnata prima fra tutti Ucina Confindustria Nautica, associazione che raccoglie circa cinquecento aziende operanti nel settore del diporto (prezioso interlocutore nella nostra ricerca). L’Italia vanta un primato per la sostenibilità dei materiali della nautica: se negli altri paesi della comunità europea si continua a parlare di smaltimento, sul nostro territorio si è intrapreso con decisione il percorso verso il riciclo. Sono state individuate sette zone in cui realizzare esempi virtuosi di centri per il disassemblaggio e il trattamento dei materiali per la nautica. Accanto ai porti di Genova, Venezia, Pescara, Bari, Agrigento e Napoli, è stata indicata proprio l’area del nuovo porto di Fiumicino per il progetto di un nuovo impianto di XS F\FOLQJ, in cui i rifiuti potranno essere trattati come materia prima secondaria da cui ottenere attraverso un processo efficiente materiali ad alta purezza e a rinnovato valore economico. In quest’ottica infatti l’Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri dell’ICTPCnr di Pozzuoli (responsabile dott. Mario Malinconico) ha sviluppato un’innovativa tecnologia basata sul Waste Sheet Moulding Compound in grado di riciclare l’FRP e il polistirolo (EPS), provenienti anche da altre filiere, e di riutilizzarli come materia prima-seconda sia nella nautica che in altri comparti produttivi. Il nuovo materiale che si ottiene è un tecnopolimero n-volte riciclabile. Le prime considerazioni sono di natura normativa: a differenza degli autoveicoli, per cui si è ormai sviluppato un quadro operativo condiviso a livello europeo, per le unità navali non esistono norme univocamente approvate sulla gestione dei prodotti a fine vita (esiste esclusivamente un

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B ,O ±QH YLWD GHOOH DXWR LO WHPD GHOOR VWRFFDJJLR (VHPSL GL JHVWLRQH FRQVDSHYROH GHL PDWHULDOL 2+5$ 2+5$ /DJHUV\VWHPH PLW NRQNRQ zept

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Libro Verde – per una migliore demolizione delle Navi del 2007 ed altri documenti frammentari sul tema, si veda ad es. il 5HFRYHU\ RI REVROHWH YHVVHOV QRW XVHG LQ WKH ±QLVK WUDGH )LQDO UHSRUW, 2011). Secondo la sentenza n. 807 del 6 luglio 2007 della Corte di Cassazione, le imbarcazioni da diporto non rientrano tra le categorie di rifiuti di cui all’Allegato A del D.Lgs. 152/2006, non potendo essere definite come sostanza, materia o prodotto. La gestione dei rifiuti si applica soltanto alle parti derivanti dalla demolizione e smantellamento, ossia a quelle materie, sostanze o prodotti che, per essere correttamente smaltiti o recuperati, devono essere identificati da un codice CER (C.S.C., sentenza n. 807 del 6 luglio 2007). Nel 2011 è stato compiuto un primo passo con l’approvazione della norma UNI 11/509 riguardante le linee guida per il trattamento delle unità da diporto a fine vita, ma il tema deve senza indugio essere ampliato e rilevato a livello internazionale, per ovviare agli ingenti costi economici dell’attuale metodo di smaltimento dei materiali e portare agli attesi benefici ambientali. Le maggiori difficoltà riguardano l’intervento sulle unità abbandonate, secondo quanto stimato dal Rapporto 2010 dell’Osservatorio Nautico Nazionale, esse ammonterebbero in Italia a circa 30.000. Del loro smaltimento sarebbe responsabile l’ultimo proprietario, non sempre facilmente reperibile. Inoltre, quasi il 90% delle unità da diporto immatricolate fino al 2008 avrebbe lo scafo in vetroresina FRP (materiale fibrorinforzato a matrice polimerica) per il quale non esistono ancora siti in cui avviare processi di smaltimento. Attualmente le imbarcazioni sul nostro territorio vengono smaltite per triturazione e trasferite poi in Germania, unico paese della Comunità Europea in cui sono stati realizzati inceneritori adeguati. Ciò comporta un considerevole spreco di risorse e un danno ambientale direttamente proporzionale a quello economico. Il primo obiettivo è quindi realizzare, all’interno dei nostri confini, impianti di disassemblaggio in cui sia possibile: attuare processi di messa in sicurezza e bonifica delle unità dai componenti inquinati e pericolosi; semplificare i processi di smontaggio delle parti per la separazione delle materie prime e dei componenti da avviare a riciclo. Occorre poi prevedere un impianto per la riduzione volumetrica tramite taglio e triturazione delle parti in FRP, per il passaggio delle stesse nell’impianto di trattamento del materiale per XS F\FOLQJ, in cui avviare i processi di realizzazione delle lastre di tecnopolimero sostituendo quindi ai materiali termoindurenti (non

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riciclabili) materiali termoplastici (riciclabili n-volte). Da qui la necessità di un progetto di razionalizzazione della filiera che tenga in parallela considerazione i dati quantitativi e le realtà fisiche e spaziali. Nell’ipotesi di individuare nel porto di Fiumicino un’area strategica per la realizzazione di impianti all’avanguardia per l’XS F\FOLQJ dei materiali nautici, ipotesi ancor più valida se si considera che i processi di smaltimento dell’FRP sono necessari anche per il riciclo dei materiali degli aerei in disuso, e che quindi la filiera delle unità da diporto potrebbe intersecarsi con quella degli aeromobili del vicino aeroporto, si potrebbe concretizzare una strategia di riqualificazione dell’intera area golenale del Tevere. Attraverso la delocalizzazione della moltitudine di depositi e piccoli cantieri che si susseguono lungo il corso del fiume e la condensazione delle funzioni di recupero e smaltimento in un luogo virtuoso, si risponderebbe da una parte alle necessità di rinaturalizzazione della zona ripariale, dall’altra si affronterebbe la definizione di un tema architettonico imprescindibile per il futuro sostenibile della città metropolitana, il tema di un possibile esempio di centro integrato per la nautica i cui processi potrebbero istituire un modello da seguire in altre parti d’Italia e oltre confine. Strategie future Occorre dunque affrontare il tema del ciclo dell’auto e dei veicoli nautici a partire da due differenti punti di vista: il primo, più concettuale, che rifletta sull’insieme del processo e dunque sulla sequenza delle azioni che lo costituiscono e sugli spazi in cui queste azioni si attuano; il secondo, più pragmatico, che operi invece una verifica sperimentale dei concetti teorizzati. Lo studio puntuale di un’area campione qual è la Coda della cometa, area in cui la presenza di strutture utilizzate dal ciclo dei veicoli è consistente e critica sotto diversi punti di vista, ci consente di verificare sul campo, tramite il progetto, la validità di una strategia spaziale che partendo dai dati reali dei processi economici legati alle diverse filiere, sia capace di interpretarli e tradurli in scenari possibili per una nuova idea di città dove al concetto di rifiuto e di scarto non sia più associato un valore negativo ma positivo perché interpretabile come risorsa, come materia prima secondaria. L’obiettivo è quello di sperimentare in questo quadrante della città metropolitana di Roma un tema architettonico della città futura, della città

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ecologica, obbligata a fare i conti con i suoi cicli metabolici e dunque con i suoi scarti che non possono piÚ essere celati o nascosti nelle pieghe dei suoi territori ma che devono assumere un ruolo anche figurativo, all’interno dei sistemi urbani. Il progetto dunque intende affrontare il tema del recupero ad altri scopi delle aree occupate attualmente dai centri di demolizione prefigurando per questi ultimi una riallocazione secondo una nuova e strategica visione dell’intero ciclo dei veicoli su strada o natanti, inteso non solo come sistema economico ma anche spaziale ed architettonico. Lavorare in poche parole alla messa a punto di un’idea di architettura del riciclo.

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IL CICLO DELL'EDILIZIA Orazio Carpenzano Alessandra Capanna Paola Veronica Dell’Aira Paola Guarini Lina Malfona >UNIROMA 1

Il territorio tra Roma e il mare come infrastruttura ambientale Nell’area della Coda della cometa il tema generale della ricerca è stato quello della rigenerazione di un territorio complesso che con difficoltà è riuscito a mantenere una sorta di infrastruttura ambientale latente, nonostante il disordinato sovrapporsi di riscritture continue tra le sistemazioni dei rinvenimenti archeologici, le agricolture, i segni della bonifica, la colonizzazione residenziale, le grandi infrastrutture territoriali e i reparti clandestini del riciclo minuto più o meno organizzato. In questo quadro, la sezione della ricerca riguardante il ciclo dell’edilizia si è posta l’obiettivo di riordinare i piccoli sistemi esistenti per riconcepirli come una vera infrastruttura, capace di contribuire alla costruzione di una più grande rete ambientale e diventare una sorta di macchina energetica entro cui la materia del ciclo edilizio può essere riorientata in un flusso organizzato anche formalmente. L’aver introdotto il concetto di rete ambientale-infrastrutturale equivale ad affermare l’esigenza di una riorganizzazione del territorio attraverso una rigenerazione dei luoghi del ciclo edilizio esistente, in cui le azioni del progetto debbono stimolare una maggiore integrazione, se non addirittura

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una coincidenza, tra paesaggio e costruito, divenendo matrici di ulteriori reti infrastrutturali e ambientali, oggi senza ordine, senza connessione, senza continuità. Il ciclo costruzione/demolizione può quindi essere rappresentato e organizzato all’interno di un sistema architettonico-paesaggistico, nel quale dev’essere metabolizzato come figura e sfondo ed essere riconosciuto come una delle attività più importanti per la gestione del processo di antropizzazione e del consumo dei suoli, che necessita di un’estensione finanche in termini industriali. Identikit di impianti e aree. Note relative alle caratteristiche qualitative e dimensionali degli impianti, dei manufatti e delle aree deputate L’Azienda C&D - 7LSR GL DWWLYLWj Generalmente, la gestione dei rifiuti edilizi è un’attività sviluppata in “combinata” con altre lavorazioni: i processi di produzione di aggregati naturali e riciclati sono infatti sostanzialmente simili. Le attività spaziano dal riciclaggio stretto alle attività di estrazione e lavorazione, alla movimentazione del materiale, allo scavo, al reinterro, alla demolizione, costruzione, ricostruzione, ripristino. Dal punto di vista distributivo e funzionale gli impianti devono pertanto prevedere un buon livello di integrazione con le altre attività di produzione. - 'LPHQVLRQL D]LHQGDOL ULFRUUHQWL Le dimensioni delle aziende sono generalmente piccole (10-50 dipendenti) o molto piccole (fino a 10 dipendenti). Spesso si avvalgono di risorse, specialismi e competenze esterne per quanto concerne l’attività in RXWVRXUFLQJ, la consulenza in materia ambientale, tecnica, legale e il ricorso a laboratori esterni qualificati. - 'LPHQVLRQL GL DUHH H PDQXIDWWL H ORUR SUHYDOHQWL FDUDWWHULVWLFKH L’estensione delle aree deve garantire, oltre alle operazioni di recupero e trattamento, il deposito dei rifiuti e dei prodotti ri-lavorati. Le zone debbono essere ben delimitate per evitare contatti tra materiali diversi. Prima del rilascio, i prodotti devono essere sottoposti a controlli tecnico-prestazionali per accertarne la conformità al ri-utilizzo. Generalmente le aziende, oltre alla riduzione volumetrica dei rifiuti (frantumazione primaria con frantoio e/o secondaria con mulino), procedono regolarmente alla selezione dei materiali. Gli impianti possono essere fissi o mobili. Gli impianti fissi sono strutture stazionarie rivolte a un determinato ba-

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cino/alveo territoriale. Gli impianti mobili seguono le cantierizzazioni. Abitualmente, la gestione di un impianto fisso è abbinata a quella di un'attività estrattiva di cava. Nel caso, infatti, di materiali non contenenti parti nocive, pericolose o inquinanti, possono essere utilizzati gli stessi impianti di cava. Esistono, comunque, impianti destinati esclusivamente al recupero dei rifiuti inerti provenienti da demolizioni e costruzioni, da ubicare in posizioni strategiche rispetto ai centri di produzione e ai potenziali bacini di conferimento, essendo la voce “costi di trasporto” determinante nell'economia delle aziende. Lo svantaggio della mancata mobilità, per l’impianto fisso, è compensata da una migliore qualità dei prodotti e a un più efficace controllo su polveri e rumore. Questo tipo di impianti ha maggiori spazi operativi che consentono più accurate operazioni di smistamento, ri-composizione, controllo, qualità. &ULWHUL GL ORFDOL]]D]LRQH GHJOL LPSLDQWL ¥ SRVWD]LRQL È auspicabile concentrare le aree di riciclaggio C&D nelle aree già destinate ad attività produttive e alla lavorazione di materiali inerti naturali, per contenere gli effetti negativi sull'ambiente e tutelare i nuclei abitati. Le aree già attrezzate facilitano l’installazione degli impianti fissi. Favoriscono il perfezionamento della lavorazione del rifiuto a tutto vantaggio dell’economia dell’impresa, del miglioramento delle condizioni lavorative, della qualità e del comfort dell’ambiente di lavoro. $FFHVVLELOLWj Le aree vanno trovate in punti ben serviti da idonee infrastrutture stradali e ferroviarie. Sono da evitare sia le collocazioni in posizioni isolate, sia quella interne ai centri urbani. Il “bacino territoriale” verso il quale orientare un determinato impianto e conseguentemente orientarne l’allocazione, dovrebbe misurare, attorno ad esso, all’incirca un raggio di 20 km. Il terreno deve essere impermeabilizzato. Deve essere garantita la protezione delle acque freatiche e delle acque superficiali. L’area dell’impianto non deve essere interessata dall’attraversamento di impluvi e da acque di ruscellamento superficiale. Deve essere assicurata un’efficiente regimentazione/ smaltimento delle acque meteoriche. Particolare attenzione deve essere posta ai fluidi di scarico industriale da convogliare in idoneo impianto di trattamento al fine di garantire il rispetto dei requisiti previsti dalla normativa vigente in materia.

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3URWH]LRQH GHOOªDULD È importante minimizzare la diffusione delle polveri e adottare mezzi per la movimentazione del materiale dotati di motori a basse emissioni. $EEDWWLPHQWR GHOOªLQTXLQDPHQWR DFXVWLFR Deve essere valutato comparando la situazione ante e post operam utilizzando gli strumenti di zonizzazione acustica, rispettando le disposizioni di pianificazione e normativa specifica comunale. È necessario prevedere dispositivi di mitigazione, in particolare barriere fonoassorbenti. &RVWL I costi della tecnologia impiantistica sono simili sia per l’impianto mobile, sia per il fisso. I costi immobiliari e di infrastrutturazione sono invece fortemente variabili a seconda dei casi specifici (caratteristiche ubicazionali, natura dei terreni, dati geo-morfologici). L'impianto di trattamento mobile si compone di due parti, una di triturazione, con un costo variabile dai 300.000 agli 800.000 €, e l'altra di vagliatura con un costo variabile dai 250.000 ai 500.000 €. Re-cycle zones. Reti di siti e di servizi “Lo sapete che solo negli Stati Uniti 140 milioni di tonnellate di calcestruzzo sono riciclati ogni anno?” Nella sequenza demolizione-ricostruzione di edifici o di intere parti di città, questa suggestione, relativa alla dimensione del fenomeno, comporta un’analisi ravvicinata di casi-studio virtuosi che suggeriscano buone pratiche da applicare nell’area della Coda della cometa. Questa sezione si occupa dei grandi sistemi che operano già da anni in altre realtà internazionali e che hanno portato a risultati di rilievo nella strutturazione dei siti di riciclaggio, ma anche nell’uso sostenibile dei materiali rigenerati. Sono stati individuati alcuni casi studio esemplari nel Nord-America: in particolare, due negli USA che presentano il ciclo completo di demolizione e rigenerazione di vaste aree, con particolare attenzione alla JUHHQ economy che unisce gli aspetti strettamente economici, legati al risparmio di tempo e denaro, a quelli di sostenibilità di nuove costruzioni realizzate in aree interessate dalle demolizioni. Il terzo esempio riguarda la città di Edmonton, in Canada, che vanta uno tra i primi siti di riciclaggio, in ordine di tempo, che risale al 1978. Negli USA la CONSTRUCTION MATERIALS RECYCLING ASS. è una rete di imprese che coordina le varie attività connesse con il riciclo. Ad essa collegata, la RECYCLED MATERIALS CO., che fornisce informazioni di base

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ai vari segmenti operativi, dalla post-produzione alla comunicazione e al marketing. Il messaggio: /R VDSHWH FKH VROR QHJOL 6WDWL 8QLWL PLOLRQL GL WRQQHOODWH GL FDOFHVWUX]]R VRQR ULFLFODWL RJQL DQQR" che è lo slogan divulgato per attrarre interesse e investimenti, restituisce la dimensione del fenomeno, che è ancora piĂš importante se si pensa che le tonnellate, compresi i materiali diversi dal calcestruzzo come il ferro e l’alluminio, l’asfalto, il vetro ecc., sono addirittura 325. Tre casi-studio ,O SL JUDQGH SURJUDPPD GL ULFLFOR D VFDOD PRQGLDOH Nel 1999, la Recycled Materials Company di Arvada nel Colorado, ha iniziato un’operazione di riciclaggio di 6,5 milioni di tonnellate di aggregati provenienti dalla dismissione dell’aeroporto internazionale Stapleton di Denver su un’area di 19 kmq. Inaugurato nel 1929 e ampliato nel 1944, negli anni ’80 giĂ si parlava di una sua sostituzione con una nuova struttura aeroportuale. Una delle cause era l’eccessiva rumorositĂ ; la cittĂ , inoltre, era classificata al terzo posto per la peggior qualitĂ dell’aria e del traffico (in parte proprio a causa dalla vicinanza dell’aeroporto all’area urbana che dista appena 15 minuti da Denver) che causava la continua violazione dei livelli massimi di ozono. Alla chiusura dell’aeroporto nel 1995 seguĂŹ l’istituzione della Forest City Stapleton Inc. che riuniva comitati di cittadini e urbanisti per attuare in 6 anni un programma visionario di riciclo integrale dell’area, da convertire in “quartiere verdeâ€?, il cui masterplan è stato curato da Peter Calthorpe. Tutte le strutture dell’aeroporto sono state rimosse nei tempi dati e nel 2001 ha avuto inizio la ricostruzione utilizzando gli aggregati derivati dalle demolizioni con il sistema dell’on-site re-cycle, che consente di abbattere i costi dei trasporti in discarica e di rigenerare direttamente in loco i materiali. Il quartiere, completato nel 2008, include 93.000 mq di uffici, 30.000 mq di spazi a destinazione commerciale, 10 scuole, piĂš di 1650 abitazioni di varie tipologie e 450 ettari di verde pubblico. +DPLOWRQ 6XQGVWUDQG $UYDGD &RORUDGR In questo sito che ospitava uno stabilimento di produzione di componenti per aerei in un’area di circa 4,5 ettari, dopo l’abbattimento degli edifici e lo smantellamento dei macchinari, sono stati attivati processi di riciclo on-site, in particolare per il riutilizzo di asfalto pulito e di calcestruzzo per il riempimento

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B ,O TXDUWLHUH YHUGH GL )RUHVW &LW\ 6WDSOHWRQ ,QF &RORUDGR

B 0LFKDHO *DLQHU %XIIDOR 5HXVH LPPDJLQL WUDWWH GDOOH HVSRVL]LRQL GL PDWHULDOL GHO PDJD]]LQR 5H6RXUFH

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degli scavi e la realizzazione di parti non strutturali delle costruzioni. L’area è stata quindi sottoposta a ri-vegetazione e destinata a diventare un “Urban T. Green” di 73 ettari con 1200 case ecologiche. La ReCrete Materials, che si è occupata di questo intervento, adotta il principio dell’on-site re-cycle perché questo processo riduce da 7 a 28 giorni i tempi di allestimento del cantiere eliminando quelli necessari per la preparazione di sacchetti da portare in discarica e il materiale è già disponibile a fronte di una facile lavorazione on-site. Incentivi economici e di punteggio sulla certificazione LEED (Leadership in Energy and Environmental Design), il sistema statunitense di classificazione dell'efficienza energetica degli edifici, adottato anche in Italia nel 2009, sono la strategia attivata dalla pubblica amministrazione per favorire l’on-site re-cycle. - (GPRQWRQ ¥ &DQDGD Edmonton Waste Management Center è un sito di 233 ettari dedicato alla lavorazione dei materiali di scarto, secondo il criterio della differenziazione delle lavorazioni e della loro sinergica integrazione. In questo centro si trovano dai punti di raccolta della spazzatura alle vasche di decantazione dei fanghi contenuti nelle acque reflue, dalla lavorazione del compost alla raccolta e pre-lavorazione di materiali elettronici, carta, materiali edili da demolizioni e anche un centro di ricerca sulla trasformazione degli scarti in carburanti biologici. Per quanto riguarda il trattamento degli inerti da demolizioni ad Edmonton più del 99% degli aggregati proviene da riciclaggio. L’on-site re-cycle. Una strategia per la Coda della cometa Dall’analisi dei siti, relativamente al raggio di influenza, alla distanza dai centri abitati, alla tipologia (cava, area libera, area dismessa), alle attività impiantate per tipo di lavorazioni, si sono individuate tre categorie: 5( &<&/( =21( sperimentale – ex novo 5( &<&/( =21( traumatica – da disastro 5( &<&/( =21( da bonifica – recupero urbanistico e ambientale La ricaduta di questi studi sull’area della Coda della cometa sono molteplici, in particolare, direttamente legata agli esiti della mappatura si intende individuare un’area da sottoporre a recupero urbanistico-ambientale, una 5( &<&/( =21( da bonifica alla quale applicare il criterio dell’on-site recycle e prefigurare un masterplan per il riciclo integrale del sito da convertire in “quartiere verde”.

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Mappa delle trasformazioni. Indagine sulle aree e previsioni future Se la prima operazione effettuata sull’ambito territoriale della Coda della cometa è stata l’indagine e la mappatura delle aree relative a smorzi, cave e discariche, l’azione successiva è stata quella di riunire tali aree all’interno di sovrainsiemi di scala maggiore, al fine di identificarne i caratteri prevalenti e di indagarne la trasformabilità, dunque predisporle al progetto. La morfologia e la posizione occupata dalle aree sul territorio hanno permesso di comprendere le ragioni, le istanze funzionali e le dinamiche del fenomeno di formazione dei drosscapes. Tali caratteristiche formali, organizzative e ubicazionali costituiscono, attualmente, il maggior indicatore trasformativo e di indirizzo progettuale. Le aree mappate sono state successivamente suddivise in due tipologie: quelle a sviluppo lineare e quelle a sviluppo puntuale. Le prime si collocano lungo la traiettoria infrastrutturale Via Ostiense-Via del Mare e costituiscono, grazie alla rete di distribuzione, una sequenza piuttosto compatta e continua, che sfrutta i collegamenti urbani esistenti. Riguardo a queste aree, prevale l’orientamento di rimuovere la maggior parte delle attività presenti. Una delle ipotesi, infatti, è quella di ri-allocarle, concentrandole all’interno di padiglioni ad assetto lineare destinati allo stoccaggio dei materiali, all’esposizione e alla vendita, anche all’aperto. A tal proposito si pensi all’esempio offerto da Buffalo Reuse, azienda creata da Michael Gainer che si propone di sostituire le operazioni di demolizione con processi minuziosi di GLVDVVHPEODJJLR e riciclo. I materiali ottenuti che non vanno in discarica vengono rivenduti nel grande magazzino ReSource dove, come in un centro commerciale, essi vengono anche esposti. La funzione espositiva, dunque, potrebbe divenire centrale in tali impianti, dove all’interno di grandi padiglioni potrebbero trovar posto, oltre ai macchinari utilizzati per il riciclo, anche locali aggiuntivi, destinati a scopi commerciali, espositivi e didattici. Le aree ad assetto puntuale, invece, si sviluppano in modo concentrato, a ridosso di grandi arterie di traffico e in posizione periferica rispetto ai tessuti urbani. L’isolamento e la grande disponibilità di terreno fa di queste aree degli ambiti idonei a ospitare le 5H F\FOH =RQHV di scala ampia: luoghi di raccolta e stoccaggio, di trattamento e postproduzione, di esposizione e vendita dei materiali riciclati. Esse potrebbero anche divenire luoghi di sperimentazione e di ricerca sui materiali innovativi, laboratori e parchi tecnologici.

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L’impianto di riciclo. Il concept di una “fabbrica verde” L’impianto è il luogo in cui si attua la trasformazione del materiale di scarto proveniente dai processi costruttivi: edilizia, infrastrutture, ingegnerie territoriali. Esso viene recuperato, selezionato e suddiviso per specie, sottoposto a diversi trattamenti e successivamente re-immesso sul mercato. Se il riciclo è un’operazione di UHLQYHQ]LRQH dei materiali da costruzione, allora anche l’impianto di riciclo può essere inteso come una tipologia architettonica sperimentale. Esso è infatti un OXRJR PROWHSOLFH, un sistema integrato che racchiude diverse funzioni, oltre a quella prettamente “produttiva”. L’impianto di riciclo, come luogo della postproduzione, può divenire centro di ricerca, laboratorio sperimentale e parco tecnologico. Esso sarà dotato di una teoria di spazi, tra cui i luoghi di deposito dei materiali di scarto da riciclare; il parcheggio dei veicoli usati per trasportare i materiali; i luoghi di lavorazione, caratterizzati dalla presenza di grandi macchine; le grandi aree per lo stoccaggio, per la vendita, per l’esposizione, all’interno di grandi padiglioni e torri-vetrina; il polo della ricerca, costituito da laboratori, spazi espositivi e didattici, parchi e giardini. Esso può dunque configurarsi come spazio privato e pubblico, opificio industriale, fabbrica, terziario specialistico e, al tempo stesso, museo, centro di innovazione tecnologica, divulgazione, formazione e informazione.

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6SDFH V\QWD[ JOREDO FKRLFH /ªLPPDJLQH PRVWUD JOL DVVL FKH IDYRULVFRQR JOL VSRVWDPHQWL YHORFL e diffusi all’intera area della Coda della cometa 3L OH OLQHH VRQR VSHVVH SL OD FLUFROD]LRQH q YHORFH $VVL GL DWWUDYHUVDPHQWR XUEDQR FKH FROOHJDQR YHORFHPHQWH SXQWL ORQWDQL 6WDWLVWLFDPHQWH VRQR JOL DVVL FRQ OD PDJJLRUH SUREDELOLWj GL HVVHUH XWLOL]]DWL

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LE AREE DELLO SCARTO: STUDIO DELLE RELAZIONI SPAZIALI Giambattista Reale Damiano Cerrone* Maurizio Alecci >UNIROMA 1 * Estonian Academy of Arts

Relazioni spaziali Questo studio ha lo scopo di comprendere e restituire le caratteristiche spaziali e relazionali delle aree dove il metabolismo urbano tende ad addensare scarti e rifiuti. Definiamo &LWWj LQYHUVD l’insieme di queste aree, essenziali all’attuale vita urbana ma spesso ignorate dalla pianificazione. Alla base dell’attività di ricerca c’è l’analisi delle ricadute sull’uso dei suoli e sull’organizzazione urbana generate da cicli produttivi e vitali. Di rado gli scarti trovano una collocazione seguendo le indicazioni di piani o regolamenti, i cicli che li producono tendono ad auto-organizzarsi e a posizionare le aree dello scarto seguendo criteri di connessione alle infrastrutture del territorio e di prossimità con usi simili o necessari al processo che soddisfino al meglio le esigenze dei singoli. Questi sono infatti alcuni dei criteri che sembrano guidare il modo in cui attività come autodemolitori, discariche di materiali edili e magazzini temporanei si distribuiscono sul territorio. Un simile fenomeno di auto-organizzazione si regolamenta e gestisce autonomamente, creando in molti casi problemi di coesistenza tra le attività di scarto/riciclo ed il tessuto urbano, agendo con effetti negativi sull’am-

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biente, sulle possibilità d’uso dell’intorno e sulla qualità della vita urbana. Conoscere le dinamiche con le quali questo fenomeno si sviluppa è indispensabile per prefigurare nuovi assetti urbani mirati al passaggio da un modello di produzione e consumo lineare (estrazione/produzione – uso – rifiuto) ad uno circolare (estrazione/produzione – uso – riciclo). Il mercato globale dei rifiuti, dalla raccolta al riciclaggio, è stimato intorno ai 400 miliardi di euro l'anno e detiene un significativo potenziale di creazione di posti di lavoro (Climate action, environment, resource efficiency and raw materials – HORIZON 2020 WORK PROGRAMME 2014-2015) e riguarda l'intero ciclo di produzione e consumo, dalla prevenzione dei rifiuti alla progettazione di processi e prodotti per la riciclabilità, il riutilizzo e la gestione dei rifiuti. Analizzare l’entità, la distribuzione e le regole aggregative delle aree dello scarto restituisce una diversa visione della città esistente. Questa conoscenza genera una nuova consapevolezza dei rischi di futura espansione di queste aree e delle concrete possibilità di intervenire sulle dinamiche in atto attraverso l’innesco di processi di sostituzione, rilocalizzazione e riciclo. Lo studio utilizza modelli quantitativi per l’analisi dell’accessibilità e della prossimità tra funzioni ed usi e mira a comprendere quali sono questi criteri che regolano la distribuzione geografica delle attività della &LWWj LQYHUVD tramite sistemi geostatistici per la produzione di cartografie, diagrammi e nuovi dati. Mappatura: criteri di classificazione delle aree di indagine Al fine di comprendere i processi di organizzazione territoriale delle aree di scarto e consentire interventi appropriati nella fase progettuale, si è proceduto all’individuazione di circa 2300 aree funzionali strutturate in un sistema informativo territoriale (GIS) elaborato attraverso il software QGIS rilasciato in licenza open. Le aree in stato di degrado, di abbandono o destinate ad usi impropri sono state classificate in categorie denominate EURZQ±HOGV, JUH\±HOGV e JUHHQ±HOGV. I EURZQ±HOGV comprendono aree appartenenti ai cicli dell’edilizia, dell’automobile e della nautica, le aree produttive dismesse e gli elementi rilevanti del ciclo dei rifiuti urbani, i JUH\±HOGV includono i luoghi dell’abbandono che spesso diventano rifugio per le “vite di scarto” (dai campi nomadi agli accampamenti non autorizzati) e i JUHHQ±HOGV aree agricole in abbandono e margini infrastrutturali ed urbani che non hanno mai con-

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quistato un uso. Le perimetrazioni non sono state limitate alle aree dello scarto (realtà spaziali dove i diversi cicli accumulano rifiuti) ma in molti casi estese ad attività che fanno parte dello stesso ciclo e che tendono ad aggregarsi occupando vere e proprie porzioni territoriali che spesso si trasformano in HQFODYHV inaccessibili che ostacolano la permeabilità urbana (es. nel ciclo degli autoveicoli sono stati mappati oltre agli autodemolitori, officine, carrozzerie ed in alcuni casi autolavaggi). Per realizzare questa cartografia sono stati definiti un elenco di temi fondamentali ed una serie di attività ed usi che ne fanno parte. La mappatura non è frutto di un processo automatico, bensì il risultato di scelte continue effettuate caso per caso analizzando il più possibile le relazioni urbane che si instaurano tra le aree limitrofe e la rete dell’accessibilità. Ci sono innumerevoli ragioni per le quali un determinato uso si colloca in un luogo specifico. Certamente la destinazione d’uso del suolo e la proprietà sono elementi determinanti, ma dalle prime osservazioni nell’area della Coda della cometa è chiaro che le aree dello scarto si insediano in HQFODYHV funzionali molto accessibili al livello globale (vicino a grande vie di comunicazione), ma allo stesso tempo isolate dall’intorno. Grazie a questi criteri localizzativi, e ad altri che verranno definiti, è possibile elaborare una mappa dei rischi che evidenzi le aree che soddisfano le caratteristiche relazionali che attraggono queste attività auto-organizzate. In altre parole, si cercherà di leggere le regole in base alle quali queste attività si distribuiscono sul territorio in maniera autonoma. Da questa analisi ne deriva una cartografia che in fase analitica mostra le aree del rischio, mentre in fase progettuale può essere interpretata come studio di fattibilità, in quanto verranno evidenziate tutte le aree che rispecchiano le caratteristiche geografico-relazionali che appaiono necessarie a queste attività. Di grande importanza in questo studio è la diffusione dei prodotti ed in tal senso il geodatabase della mappatura è stato reso disponibile creando una cartografia attraverso il servizio ArcGis Online, che permette di rendere i dati fruibili e di facilitare sia lo scambio che lo studio dei dati tra i diversi gruppi di ricerca. Questo prodotto, con il supporto dei ricercatori, può essere utilizzato da subito dai decision makers come piattaforma di approfondimento del processo decisionale.

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Studio della configurazione morfologica e funzionale (Meta-morfologia) Lo studio della meta-morfologia urbana mette in relazione le informazioni disponibili su di una determinata topologia (come i caratteri funzionali o tipologici) e la sua distribuzione sul territorio in relazione alle altre topologie (morfologia). Un’analisi meta-morfologica può essere utilizzata per comprendere se alcune informazioni relative ad una topologia puntuale o areale si relazionano alle informazioni di altri oggetti o aree presenti sul territorio. Si indaga, quindi, come alcune specifiche attività si relazionano ad altre simili ed al territorio circostante. Per fare questo avremmo bisogno di un modello matematico per lo studio della morfologia urbana ed un altro geo-statistico per lo studio delle relazioni tra usi dello stesso tipo. Per il primo è stata scelta la 6SDFH 6\QWD[ $QDO\VLV mentre per il secondo useremo la Cluster Analysis. Space Syntax Analysis La 6SDFH 6\QWD[ $QDO\VLV (o SSA) racchiude sia un modello teorico che matematico per l’analisi quantitativa della complessità geometrica della morfologia urbana. In molti casi viene chiamata DQDOLVL GL DFFHVVLELOLWj ed è usata da architetti e pianificatori per testare i progetti urbani nelle fasi iniziali di elaborazione, così da valutare a priori che tipo di interazioni si potranno verificare negli spazi disegnati. Nel campo della sociologia, storia e geografia urbana ed umana, la SSA viene utilizzata per studiare la forma delle interazioni sociali e la struttura della società stessa tramite la lettura delle gerarchie e interazioni degli spazi urbani. Per il nostro studio ci concentreremo sull’applicazione più vicina all’architettura che alla sociologia, così da rivelare la complessità morfologica dello spazio e quindi la sua accessibilità a diverse scale. L’approccio della SSA si basa sull’analisi della configurazione degli spazi urbani rappresentati linearmente, mettendo in relazione l’espressione delle strutture sociali con la costruzione delle strutture urbane. In altre parole, gli spazi in cui viviamo sono frutto della nostra cultura e del nostro modo di vivere, ma allo stesso tempo possono influire sui nostri comportamenti fino a modificarli o a cambiare la percezione della città, soprattutto il modo in cui ci muoviamo. La configurazione e la struttura gerarchica degli spazi possono essere più o meno favorevoli alle interazioni tra persone e più o meno adatte a determinate attività, come quelle commerciali, di svago o nel nostro caso di accumulo di rifiuti e scarti. Per questo la SSA è

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stata spesso utilizzata per mostrare la relazione tra accessibilità e attività commerciali, che naturalmente sono più floride lì dove meglio interagiscono con le persone. La SSA può essere utilizzata in due modi: da sociologi e geografi per studiare come ad una determinata forma sociale viene associata una forma urbana, mentre da urbanisti e architetti può essere utilizzata per studiare come il rapporto e la gerarchia degli spazi urbani possono favorire o meno determinate attività e rendere concrete le prefigurazioni progettuali. Per analizzare come gli spazi urbani che si delineano tra edifici e barriere interagiscono tra di loro, questi vengono rappresentati da una topologia lineare secondo il disegno delle D[LDO OLQHV, che possono anche essere chiamati assi di interazione perché è lungo queste topologie che le attività prendono forma. Quindi lo spazio vuoto definito dall’edificato, che solitamente può essere rappresentato come un’area tra un edificio e l’altro, nella SSA viene rappresentato con una retta. In prima battuta la nostra analisi interpreta e riassume la complessità del reale rappresentando i vuoti attraverso la loro componente lineare, cioè la vista libera più lunga che si può individuare, disegnare e percorrere negli spazi urbani: le D[LDO OLQHV. Nel caso di autostrade o ambienti rurali di bassa densità, strade e camminamenti vengono considerati come dei corridoi all’interno dei quali disegnare le D[LDO OLQHV. Questa operazione di disegno manuale darà vita ad un network di assi che potrà essere analizzata nel suo insieme attraverso il software Depthmap X. L’analisi che viene realizzata sul network di D[LDO OLQHV non è però di tipo metrico, bensì topologico, così pensato da Hillier and Hanson (Hillier B., Hanson J., 7KH 6RFLDO /RJLF RI 6SDFH, Cambridge University Press, Cambridge 1989) per misurare la SURIRQGLWj degli spazi (depth). Questo significa che la distanza tra le D[LDO OLQHV chiamata depth non viene espressa in metri ma in step. Per capire quanti step intercorrono tra una D[LDO OLQH ed un’altra, basta contare quanti cambi di direzione si attuano dalla D[LDO line di partenza fino a quella di arrivo passando per il percorso più breve. Ad esempio se abbiamo una configurazione rappresentata da due D[LDO lines disposte a forma di T, la distanza tra l’una è l’altra è di uno step, perché per andare dalla prima alla seconda si è percorso un solo cambio di direzione. Se si prova invece a disegnare su un foglio tre D[LDO OLQHV a formare una

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B &OXVWHU DQDO\VLV /H DUHH GHOOR VFDUWR KDQQR XQD WHQGHQ]D D GLVSRUVL LQ FOXVWHUV VX WXWWR LO WHUULWRULR LQGLSHQGHQWHPHQWH GDO FRPXQH GL DSSDUWHQHQ]D IRUPDQGR GHL JUDSSROL

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Z, la linea di centro che congiunge le due orizzontali, sarà a uno step di distanza da entrambe le orizzontali, mentre la linea orizzontale alla base della Z, è ad una distanza di 2 step dalla linea orizzontale alla testa della Z, perché per raggiungerla si è passati per due cambi di direzione. Questa metrica ci aiuterà a misurare la profondità degli spazi urbani precedentemente rappresentati come D[LDO OLQHV e la complessità della configurazione spaziale di un determinato brano di città. Nel nostro caso la SSA viene utilizzata come strumento di rappresentazione e comprensione delle relazioni tra gli assi di interazione e la localizzazione delle aree dello scarto. Il nostro scopo è di capire se i gruppi d’uso indagati hanno una tendenza a relazionarsi in determinate configurazioni spaziali. Per iniziare questo studio utilizzeremo due indici che esprimono la complessità della configurazione spaziale, chiamati Choice e ,QWHJUDWLRQ. Misurando Choice (scelta) possiamo evidenziare le D[LDO OLQHV che hanno una maggiore probabilità di essere attraversate, mentre ,QWHJUDWLRQ (integrazione) evidenzia le D[LDO OLQHV che si possono raggiungere nella maniera meno complessa possibile. In altre parole queste D[LDO OLQHV che sono più integrate, sono quelle che si trovano ad una profondità minore da tutti gli altri in rapporto alla profondità media dell’intero network. Spazi che misurano un elevato indice Choice vengono associati a spazi di scorrimento, che favoriscono un passaggio veloce con poche interazioni spaziali, mentre ad un elevato indice di ,QWHJUDWLRQ vengono associati spazi facili da raggiungere con molte interazioni spaziali che favoriscono interazioni sociali. Aree con un elevato indice di ,QWHJUDWLRQ sono state associate in numerosi studi a spazi urbani floridi di attività commerciali e di movimento pedonale, perché questi spazi sono quelli cognitivamente più semplici da raggiungere da ogni altro punto della città o del quartiere. Dal punto di vista della mobilità urbana, il primo (Choice) favorisce un traffico fluido e veloce di attraversamento degli spazi urbani, mentre il secondo (,QWHJUDWLRQ) favorisce un movimento di tipo caotico proprio per via delle innumerevoli interazioni che possono verificarsi. Entrambi possono essere studiati al livello locale – per studiare le relazioni limitate alla scala di quartiere – o globale – per un’area estesa all’intero settore di studio. Utilizzeremo questa metodologia per misurare l’accessibilità percepita degli spazi svincolata dal semplice dato metrico reale, in quanto ci si aspetta che attività di tipo auto-organizzate si distribuiscano sul territo-

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rio secondo la profondità degli spazi, piuttosto che secondo l’accessibilità della rete stradale. Questo perché il processo decisionale per la localizzazione di attività che si auto-organizzano, avrà sicuramente una dinamica di tipo percettivo piuttosto che basato su studi e ricerche. Cluster analysis La mappatura delle aree dello scarto e la SSA possono essere messe a sistema in un GIS così da poter comprenderne le relazioni meta-morfologiche attraverso analisi geo-statistiche sviluppate con il software ArcGis di ESRI. Questo studio dovrà essere realizzato su di un’area molto ampia, pertanto un’analisi di tipo quantitativo che misuri la relazione spaziale tra funzioni e tra esse e la configurazione spaziale, ci aiuterà ad identificare eventuali fenomeni di auto-organizzazione e FOXVWHULQJ. Con questi modelli potremmo comprendere in maniera più approfondita se determinate attività hanno una tendenza a prediligere una serie di luoghi caratterizzati da configurazioni simili. Per comprendere se le aree in analisi seguono delle dinamiche spaziali analoghe tra di loro, abbiamo realizzato una cluster analysis che misura la distanza tra tutte le aree dei cicli per vedere se tendono a collocarsi una in prossimità delle altre formando appunto dei grappoli. Questo studio verrà approfondito nei passi successivi della nostra ricerca ma i primi risultati mostrano che le aree dello scarto hanno una tendenza a disporsi in clusters su tutto il territorio, indipendentemente dal comune di appartenenza. Questo ci suggerisce che il fenomeno dell’auto-organizzazione va al di là dei piani regolatori e della regolamentazione formale del territorio, mostrando come il clustering di queste attività sia fisiologico alla loro crescita. In un secondo tempo abbiamo misurato la prossimità tra questi cluster e l’accessibilità, misurata con la SSA. I risultati di questa semplice analisi mostrano che non solo le aree dello scarto hanno la tendenza a disporsi in cluster, ma che questi cluster, a loro volta, hanno la tendenza a disporsi lungo gli assi di maggiore scorrimento (Choice). Questo ci suggerisce che la disposizione sul territorio di queste aree potrebbe seguire un modello di sviluppo involontariamente coordinato, cioè che segue una logica di distribuzione geografica auto-organizzata, senza regole che la controllano se non quelle autodefinite di raggruppamento e vicinanza ad aree di

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scorrimento. Pertanto sarà necessario capire quali sono i motivi dell’uso di questo modello di sviluppo per definire le successive strategie di riciclo di queste aree. Il drossmapping della Città inversa La mappatura effettuata copre diffusamente il territorio di riferimento e attraverso colori e perimetri offre una narrazione dei numerosi usi indagati ma non è in grado di comunicare a pieno la complessità né di valutare il diverso peso delle aree individuate al di là della superficie e della localizzazione. Attraverso l’uso della SSA, della Cluster Analysis e di indici, dedotti da valori caratterizzanti il territorio e moltiplicatori che ne esaltano le proprietà, l’analisi conquisterà quella “tridimensionalità” cercata che consentirà di rappresentare quella parte del territorio abbandonata o sacrificata all’accumulo di rifiuti. Per valori si intendono tutte quelle caratteristiche di un oggetto o di un’area che possono essere definiti quantitativamente, mentre per moltiplicatori si intendono dei caratteri qualitativi espressi numericamente ed assegnati in maniera arbitraria – ma ragionata – per amplificare le peculiarità di un uso o di una funzione. Ad esempio per esprimere la criticità di un uso si potrà utilizzare come valore la superficie occupata e come moltiplicatore un’espressione numerica dell’impatto e del degrado di tale uso. 3URVVLPLWj LPSURSULH Le aree dello scarto trovano la loro collocazione territoriale attraverso logiche proprie malgrado i tentativi pianificatori. Una delle conseguenze più gravi di questo fenomeno è la prossimità di queste aree con altri usi e funzioni e, in molti casi, l’occupazione di suoli vincolati o protetti. Pertanto viene definito un indice che esprime le prossimità improprie, ovvero evidenzia quando un’area dello scarto è inopportunamente vicina ad una specifica funzione (principalmente abitativa), ad un’area protetta (riserve, siti di importanza comunitaria o zone a protezione speciale), ad un’area ad elevato rischio idrogeologico o soggetta ad esondazioni. 6SDFH 6\QWD[ OªLQGLFH GL GHVWLQD]LRQH LPSURSULD Nella complessità delle strutture urbane è sempre possibile individuare zone che allo stesso tempo risultano essere maggiormente centrali e più integrate nel tessuto urbano. Solitamente funzionano come spazi di distribuzione della mobilità

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B ,O drossmapping della Città inversa /ªHODERUD]LRQH HYLGHQ]LD §WULGLPHQVLRQDOPHQWH¨ TXHOOD SDUWH GHO WHUULWRULR DEEDQGRQDWD R VDFUL±FDWD DOOªDFFXPXOR GL UL±XWL

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locale o come luoghi di interazione e incontro. Questi assi di interazione centrali sono i più importanti per il sostentamento delle attività sociali ed economiche ed offrono le migliori opportunità per l’imprenditoria locale. Con l’indice di destinazione impropria si evidenziano le aree dello scarto che vanno ad insediarsi lungo gli assi di interazione locale. Per far emergere il carattere di inappropriatezza di tali funzioni con la vita del quartiere si definisce l’indice utilizzando la superficie dell’area dello scarto come valore e la distanza inversa che lo separa dagli assi maggiormente integrati al livello locale come moltiplicatore. &OXVWHU La mappa del fenomeno del FOXVWHULQJ da sola esprime solo la tendenza delle aree di scarto a raggrupparsi attraverso la misura della distanza tra un’area e l’altra, ma per creare una cartografia che possa essere meglio compresa da un pubblico non specializzato, la distanza tra un’area dello scarto e l’altra viene moltiplicata per la sua superficie. In questo modo il fenomeno del cluster viene enfatizzato e la percezione dell’impatto spaziale aumentato grazie ad una visualizzazione tridimensionale dell’indice che ne deriva. &ULWLFLWj IDWWRUL GL LPSDWWR H GHJUDGR Per ognuna delle trenta categorie d’uso indagate è stato attribuito un moltiplicatore di criticità. L’eterogeneità delle tipologie indagate, dall’abbandono agricolo alle discariche di rifiuti, ha portato a definire un moltiplicatore che attribuisse diverso peso ai singoli usi indipendentemente dalle specifiche caratteristiche e localizzazioni, aspetti che verranno indagati in seguito. Nell’area di studio è stato attribuito al moltiplicatore di impatto e degrado il valore 1 alla categoria dei campi incolti (aree dell’abbandono) e valore 100 alle discariche di rifiuti (nel nostro caso la discarica di Malagrotta che con più di 200 ettari occupati è tra le più grandi d’Europa). La cura della Città inversa 8UEDQ :HE &\FOH L’analisi dei fenomeni di cluVWHULQJ, relazionata all’accessibilità urbana, suggerisce che la distribuzione spaziale delle attività di riciclo non è casuale. I risultati di questo studio evidenziano che ci si trova di fronte ad un fenomeno urbano a se, e che pertanto va studiato a fondo per comprenderne le cause e le eventuali soluzioni di governo delle dinamiche da affiancare a processi di mitigazione e compensazioni degli impatti.

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Conoscere i criteri con i quali determinate attività si distribuiscono sul territorio e si relazionano tra di esse, potrà aiutare progettisti e pianificatori ad individuare le aree che hanno caratteristiche simili a quelle che in maniera spontanea queste attività di solito vanno ad occupare. La profonda dipendenza delle aree dell’abbandono e dello scarto dal network urbano rende verosimile intervenire sul metabolismo urbano, che le ha generate e che le alimenta, modificando l’accessibilità delle aree da sottoporre alle procedure di riciclo. Una possibilità di cura della &LWWj LQYHUVD, quindi, potrà concretizzarsi nel dare nuova vita alle aree da riciclare irrorando il territorio con nuovi percorsi di mobilità sostenibile che assicurano una vitalità in grado di allontanare possibili usi indesiderati. D’altro canto inibendo accessi inopportuni si potranno sottrarre ad usi impropri porzioni territoriali sensibili. Gli interventi progettuali favoriranno nuovi cicli di vita da innescare grazie a mutate opportunità di relazione che verranno stimolate o inibite da possibilità di accesso potenziate o negate dai nuovi assetti urbani previsti. Alla scala della mappatura si tenta di gestire gli usi, la crescita e la decrescita urbana intervenendo sulle reti della mobilità. Le strategie di riciclo potranno essere attuate attraverso procedure: - di delocalizzazione delle attività che attualmente generano degrado (es. autodemolitori) in nuovi nodi del network urbano (shift cycle), nuove localizzazioni in grado di innescare miglioramenti del ciclo d’uso e di produzione. Vengono, quindi, scelti luoghi maggiormente idonei e liberate aree a rischio. - di FRQVHUYD]LRQH WHPSRUDQHD. Le aree dello scarto vengono utilizzate ancora per attività a rischio in attesa che i cicli (produttivi o vitali) vengano resi maggiormente sicuri, ma inseriti in un circolo chiuso che riduca al minimo le interazioni negative con l’intorno (shut-cycle). Le connessioni vengono ridotte, filtrate in un processo di selezione che limita al minimo le interazioni negative con l’intorno. - di DEEDQGRQR VWUDWHJLFR per le architetture in abbandono. I manufatti vengono inseriti in un ciclo che li porterà a fine vita. Una procedura programmata di abbandono strategico dell’esistente e di definizione di un’obsolescenza architettonica programmata in fase progettuale che consenta una riciclabilità migliorata (semplificata) al termine del ciclo di vita progettato (end-cycle). - di DWWLYD]LRQH GL &LFOL GL VRVSHQVLRQH per le aree in abbandono che non

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compromettano gli usi possibili o previsti. Aree da preservare in attesa che le condizioni al contorno rendano attuabili la realizzazione delle funzioni previste (pause-cycle). - di ULJHQHUD]LRQH VHQ]D GLVWUX]LRQH in cui connessioni di livello superiore innescano nuovi cicli di vita (up-cycle) o che mirano a ridurre il livello d’uso (sub-cycle) riducendo nel contempo il rango delle connessioni e assicurando una vitalità controllata (es. limitare la carrabilità che renderebbe appetibili aree oggi preservate). La progettazione infrastrutturale potrebbe essere oggi l’unico mezzo per indirizzare lo sviluppo urbano, in un disarmante scenario romano in cui la gestione urbanistica e la progettazione architettonica non riescono a governare tempi, modi e risorse dei singoli interventi. Nella città di Roma qualsiasi scenario futuro è reso inverosimile dall’impossibilità di coordinare e concretizzare anche i piccoli passi necessari a raggiungerlo.

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8Q FDQDOH GL ERQL±FD QHO TXDUWLHUH GL 6DOLQH 5RPD

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RICICLARE I PAESAGGI DELLA BONIFICA Roberto Filippetti >UNIROMA 1

Osservare le trasformazioni dei paesaggi della bonifica a fronte dell'avanzare dell'edificato, nelle aree del litorale romano, permette di evidenziare alcune criticità nello sviluppo urbano recente di Roma. Queste zone presentano oggi numerose problematiche, originate dalla difficoltà, comuni a molte metropoli contemporanee, di svilupparsi in equilibrio con quegli elementi naturali che pure sono indispensabili alla loro sopravvivenza. Il sistema della bonifica è uno degli elementi maggiormente pervasivi e caratterizzanti di tale territorio. È questo un fitto tessuto di manufatti – canali, argini, idrovore, chiuse e vasche – realizzati, a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, per arginare due grossi stagni che, naturalmente, tendevano a formarsi su entrambi i lati del Tevere, a circa due km dalla costa. Tali opere hanno risanato un ambiente da secoli ritenuto malsano ed hanno così permesso lo sviluppo della Capitale verso il mare. Negli ultimi decenni questo sistema ha tuttavia subito numerose trasformazioni, al punto da risultare oggi, in alcuni tratti, gravemente compromesso. A partire dagli anni Cinquanta, in effetti, l'espansione dei centri abitati in questa zona, insieme al conseguente, vertiginoso, aumento della popolazione – oggi la Coda della cometa è una vera e propria “città nella città”,

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B ,O VLVWHPD LGURJUD±FR QHOOD Coda della cometa 0DSSD GHL FDQDOL WRPEDWL LQ DOWR H GHOOH LGURYRUH LQ EDVVR

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popolata da quasi 400.000 abitanti – ha avuto l'effetto di rompere quella condizione di equilibrio tra paesaggi naturali ed elementi antropici realizzata nei primi anni del Novecento. Gli effetti di queste modificazioni sono emersi di recente, spesso in maniera catastrofica, in caso di eventi alluvionali di particolare intensità; numerosi e drammatici fatti di cronaca hanno così evidenziato come il recupero dei paesaggi della bonifica, in questa zona, appaia sempre più come una priorità. Intervenire in un simile contesto non è certo un'operazione semplice. Lo sviluppo urbano disordinato e caotico che, nel corso degli ultimi cinquant'anni, ha coinvolto buona parte del litorale romano ha portato ad un progressivo abbandono delle opere di bonifica. La ricerca portata avanti si è pertanto sviluppata, nei primi mesi del suo svolgimento, in una duplice direzione. Da un lato si è cercato di descrivere e comprendere l'attuale stato di consistenza ed il funzionamento della rete dei canali e delle idrovore; dall'altro si è provato ad avanzare alcune ipotesi progettuali per il loro recupero, affinchè questi elementi possano tornare a giocare un ruolo determinante nella percezione del paesaggio di questo pezzo di città. Per comprendere le caratteristiche di un territorio tanto denso e stratificato è stato necessario, anzitutto, ricostruire l'evoluzione storica delle sue componenti, osservando in particolare quei punti dove l'espansione dell'edificato si è sovrapposta alla rete dei canali, tombandoli in molti punti. Si sono così individuati una serie di elementi-tipo, di diversa natura, oggetto di possibili interventi: - elementi puntuali (idrovore dismesse, chiuse) di cui si ipotizza la riconversione come museo diffuso; - elementi lineari (canali, argini) da potenziare, affiancando ad essi piste ciclabili e filari alberati, come elementi generatori di nuovi paesaggi; - elementi superficiali (aree vuote “agganciate” alla rete dei canali) utilizzabili come vasche di espansione, bacini di laminazione e di fitodepurazione. Un simile approccio ambisce a definire un QXRYR YRFDERODULR di soluzioni formali (costituito da sezioni-tipo, piccoli edifici, manufatti...) applicabile in diversi punti del territorio. Attraverso questi interventi ci si propongono molteplici obiettivi. Da un lato si vuole attuare un'opera di ripristino dei segni della bonifica, riportando alla luce, dove possibile, i canali tombati. Dall'altro, si ambisce a recuperare la funzionalità dei canali, aumentando

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B /R VWUDULSDPHQWR GL DOFXQL FDQDOL GXUDQWH XQ DOOXYLRQH

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la resilienza dei territori ed innescando, al tempo stesso, meccanismi di riqualificazione ambientale ed urbana. Alcune sperimentazioni progettuali sono state avanzate, in una prima fase della ricerca, all'interno di un workshop che ha visto coinvolti allievi di tre diversi dottorati di ricerca della "Sapienza". Coerentemente con gli obiettivi sopra esposti, la strategia avanzata ha ipotizzato la realizzazione di una serie di interventi diffusi, realizzabili in varie fasi (un approccio condiviso, d'altronde, anche dal Consorzio di Bonifica del Tevere e dell'Agro Romano). In quest'ottica gli elementi della bonifica, tanto quelli esistenti quanto quelli di progetto, venivano riconnessi attraverso una serie di itinerari turistici che trasformavano il sistema in una sorta di museo a cielo aperto. Per quanto preliminari, simili sondaggi hanno da subito evidenziato un obiettivo progettuale preciso: ricomporre i disparati frammenti che caratterizzano l'attuale paesaggio urbano dell'area in una nuova visione. Proprio in questa direzione, d'altra parte, vanno le sperimentazioni urbane più evolute in Europa, come ha ricordato Franco Purini in un recente intervento. È proprio nel problematico contesto della città diffusa, infatti, che la quasi totalità dei paesi europei ha individuato nuovi orizzonti progettuali, miranti alla creazione di nuovi paesaggi al cui interno “porzioni anche modeste di ambienti naturali rimasti intatti si contaminano con il paesaggio artificiale” (Purini F., ,O SDHVDJJLR SRVWPRGHUQR XQ SUREOHPD LWDliano in «ItalianiEuropei», n. 8, 2012). In maniera simile riciclare i paesaggi della bonifica, riportarne gli elementi al centro della forma urbana, ripristinare un equilibrio tra ambiente naturale ed antropico, sono alcuni degli scopi della ricerca – obiettivi sempre più connotati con il carattere dell'urgenza e della necessità.

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&LWWj LQYHUVD *HRJUD±H GHO UL FLFOR QHOOD 3LDQD &DPSDQD

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GEOGRAFIE DELLO SCARTO VS. GEOGRAFIE DEL RICICLO DISEGNI DI UNA TRAIETTORIA POSSIBILE Anna Terracciano >UNINA

Come sempre accade, ogni qualvolta le strutture dell’economia e della società evolvono verso nuovi modelli, il cambiamento della città e la questione urbana che nuovamente propone, divengono centrali nel dibattito collettivo. Per cui, in un’epoca dominata da reti, flussi, movimenti globalizzati di persone e di merci, quella che si va dissolvendo è proprio la città dell’abitare, lo spazio pubblico e di relazione, l’espace de contacte e la città contemporanea, nelle sue forme del decentramento, della diffusione e del cambio di scala dalla forma tradizionale alla condizione post-urbana (Choay F., L’orizzonte del posturbano, Officina, Roma 1992) presenta notevoli difficoltà interpretative sul piano concettuale e operativo. Se da un lato si rileva un palese logoramento dei linguaggi e degli strumenti della rappresentazione tradizionale, dall'altro si osserva che una strumentazione rivoluzionaria e una diffusione senza precedenti delle reti digitali, oggi consentono una estrema nitidezza della visione zenitale e una produzione sconfinata di mappature sempre più raffinate che restituiscono l'immagine della città come un immenso archivio di dati JHRORFDOL]]DWL. Ma proprio l'eccesso di informazioni ha finito per inibire letture che andassero oltre tale oggettività. La riflessione e le esplorazioni che questo contributo

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B 5HWL GL SDHVDJJL H VWUXWWXUD GHOOD ULFHUFD QHO 5H F\FOH1DSROL/DE

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vuole proporre, in un passaggio concettuale come questo in cui il nostro immaginario è sollecitato giĂ da una molteplicitĂ di immagini e parole, si inseriscono in quel filone di ricerca che, attraverso la lente di una convergenza multidisciplinare, tenta di comprendere ciò che è oggi la cittĂ e soprattutto ciò che sta giĂ diventando (Viganò P., /D FLWWj HOHPHQWDUH, Skira, Milano 2000). E lo fa guardando al territorio della Piana Campana, in cui, quello che si è provato a costruire, è un racconto della sua dimensione LQYHUVD. I drosscape (Berger A., 'URVVFDSH :DVWLQJ ODQG LQ XUEDQ $PHULFD, Princeton Architectural Press, New York 2006) in questo territorio, non hanno le caratteristiche di una struttura puntiforme o diffusa, ma assumono la conformazione di vere e proprie strutture urbane. Non sono semplicemente i vuoti della dismissione o i luoghi dello scarto, ma anche macchine urbane funzionali al metabolismo della cittĂ e che la cittĂ stessa tende ad espellere, assieme al sistema di reti e flussi a cui sono agganciate. Luoghi, manufatti e sistemi relazionali che intercettano la continuitĂ delle reti infrastrutturali, la dimensione reticolare delle connessioni ecologiche, la struttura porosa del territorio (Gasparrini C., &LWWj GD ULFRQRVFHUH H UHWL HFR SDHVDJJLVWLFKH, in ÂŤPPCÂť, n. 25, 2011) e le questioni legate ad una emergenza ambientale senza precedenti, in cui, una accresciuta consapevolezza per la scarsitĂ e non riproducibilitĂ delle risorse, si associa alla pervasivitĂ dell'inquinamento e di una molteplicitĂ di fattori di contaminazione, affermando cosĂŹ l'attualitĂ e l'urgenza di fare ricerca a partire da e dentro condizioni come queste. Il tema da cui questo lavoro prende le mosse è quello di restituire un quadro interpretativo del fenomeno drosscape nella Piana Campana – ed in particolare nelle aree del Litorale Domizio-Flegreo, Napoli Est, e la Piana del fiume Sarno – che, senza pretese di esaustivitĂ , provi a denunciarne la dimensione e a fare del Laboratorio Re-cycle di Napoli, il luogo per la costruzione di una visione critica di questo territorio, in cui una ricerca che si costruisce all'interno di una dialettica serrata tra teorie e progetti – non dentro ma lungo tre fasi, non sequenziali ma cicliche – piĂš che produrre decisioni ed immagini definitive, ha l'obiettivo di provare a tracciare alcune traiettorie possibili. 'URVVFDSH JHRJUDÂąH è quello spazio della descrizione dentro cui abbiamo provato a ricostruire una JHRJUDÂąD (Farinelli F., / LQYHQ]LRQH GHOOD WHUra, Sellerio Editore, Palermo 2007) di questi luoghi riportando dentro la

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B 'URVVFDSH QHOOD 3LDQD &DPSDQD H WHPL GL ULFLFOR

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mappa una fenomenologia che può essere rappresentata solo attraverso un disegno capace di spostare l’attenzione dalla loro incerta riconoscibilitĂ attuale alla molteplicitĂ delle loro potenzialitĂ future. Geografie dello scarto come disegni escludenti, capaci di riconoscere le diverse declinazioni che i drosscape assumono nella Piana Campana (7 BVXROL LQTXLQDWL 7 BDFTXH LQTXLQDWH H GLVSRVLWLYL LGUDXOLFL 7 BHFRVLVWHPL FRPSURPHVVL 7 BWHVVXWL FULWLFL 7 BHGLÂąFL VSHFLDOL H LQGXVWULDOL GLVPHVVL 7 BFDYH H GLVFDULFKH 7 BLQIUDVWUXWWXUH GLVPHVVH H DUHH LQWHUVWL]LDOL) selezionandoli come temi prioritari di progetto. Ma al contempo sono anche disegni inclusivi, perchĂŠ capaci di contenere in nuce una possibilitĂ da ri-attivare. Si delinea cosĂŹ una nuova struttura fatta di nodi, aree di influenza e reti di relazioni, che è la cifra inversa di questo territorio e non semplicemente il suo negativo. Figure di territori bruciati, come fossero buchi neri, ne rivelano un'altra dimensione spazio-temporale raccontando quell'universo di drosscape assieme al loro sistema di regole e relazioni. La posizione che questo contributo vuole sostenere è che un racconto della FLWWj LQYHUVD si possa costruire solo attraverso quelle immagini vaghe che prendono forma come tramite fra territori fisici e concettuali (Viganò P., , WHUULWRUL dell’urbanistica, Officina Edizioni, 2010). L'intento è rintracciare quel disegno latente, apparentemente frammentato, confuso e privo di qualsiasi potenzialitĂ , e di provare a incrociare e restituire descrizioni di materiali, attori, ruoli, relazioni, esplorando come le convergenze e le divergenze del loro potenziale possano suggerire spazi fertili per il progetto (Brown R., 0DSSLQJ WKH 8QPDSSDEOH .QRZLQJ WKH 8QNQRZDEOH, University of Plymouth, 2011). Descrivere diviene pratica che, a partire dall'acquisizione delle basi informative, sia attraverso i portali di opendata e gli strumenti *,6, ma anche in collaborazione con le numerose partnership attivate con gli enti competenti sul territorio e attraverso i sopralluoghi sul campo, seleziona e rielabora tali informazioni dentro mappe che abbiamo la capacitĂ di far YHGHUH per costruire prioritĂ . Un primo livello di mappatura restituisce la dualitĂ tra morfologia dei luoghi e drosscape attraverso la combinazione di molteplici set di dati dentro una struttura multilayer del geo-database e attraverso mappe tecniche capaci di istruirne un sistema informativo. Un secondo livello di mappatura elabora e restituisce la dualitĂ tra la forma fisica dello spazio dei drosscape, il loro uso e il sistema relazionale. La mappa diventa allora un potente strumento non solo di rappresentazione spaziale ma anche di racconto. Si supera il tema della neutralitĂ scienti-

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B 5L FLFOR ,O SURJHWWR FRPH SURFHVVR

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fica e il linguaggio propone una mediazione tecnica tra realtà e allusione, raccontano il contesto in chiave costruttiva e propositiva. Disegni tendenziosi e dunque JHRJUD±H GHO ULFLFOR. 3URJHWWR UH F\FOH è così il luogo in cui questi materiali divengono disponibili dentro un processo di riciclo alla costruzione di nuovi cicli di vita. La riflessione si misura con una nuova generazione di progetti, VWUDWLJUD±FR relazionali nello spazio e UHVLOLHQWL DGDWWLYL nel tempo, dentro disegni di un paesaggio sospeso come radiografia di un territorio che necessita di una nuova interpretazione relazionale delle sue strutture obsolete, fisiche e mentali attraverso cui strutturare nuove visioni e schemi, e pertanto, nuove connessioni tra vecchie e nuove strutture (Gausa M., Multi-Barcelona Hyper-Catalunya, ListLab, Barcelona 2009). Il tema è quello di ri-attivare relazioni come ri-appropriazione di questi luoghi e manufatti che, a partire dalla specificità dei contesti e dentro differenti forme e azioni del riciclo, ambiscano a ricostruire quell'espace de contacte dentro il progetto di una QXRYD FLWWj SXEEOLFD. Il riciclo come progetto ecologicamente orientato si propone, attraverso operazioni di infrastrutturazione paesaggistica, di riagganciare i frammenti della città contemporanea a partire dal suo inYHUVR. Inoltre, non interviene solo nelle relazioni spaziali, ma anche nello spessore dei suoli facendo della terra la nuova infrastruttura al servizio del progetto, e del tempo il nuovo materiale per affrontare un metabolismo urbano sempre meno afferrabile. 1XRYL FLFOL GL YLWD VFHQDUL è infine lo spazio di messa a punto per una timeOLQH VWUDWHJ\ in cui, una molteplicità di tempi brevi fatti da progetti puntuali, pratiche temporanee ed usi compatibili, si dispiegano in maniera incrementale dentro i tempi lunghi di progetti trasformativi di più ampio respiro. Riciclo è dunque attitudine alla conoscenza dei luoghi con una intenzionalità chiara, capace di esprimersi solo attraverso disegni necessariamente allusivi, in cui sia esplicita la trama, l'ordito, la struttura robusta intorno la quale e dentro la quale diviene possibile, attraverso un processo dinamico di azioni nel tempo (Corner J., 5HFRYHULQJ /DQGVFDSH (VVD\V LQ Contemporary Landscape Theory, Princeton Architectural Press, New York 1999), costruire risposte pertinenti e puntuali dentro scenari immaginati come infiniti racconti possibili.

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/LWRUDOH GRPL]LR ²HJUHR 3DHVDJJL GHO GURVVFDSH H UHWL GHOOH DFTXH

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LITORALE DOMITIO: NUOVI RACCONTI NELLE TRAME DELL'ACQUA Enrico Formato Massimo Lanzi >UNINA

1. Sprawl-fields Il litorale domitio è il luogo in cui la Piana Campana si apre al mare, dove la sua rete di canali sfocia, tra le dune e le pinete di Castel Volturno. Una discesa lenta, canalizzata a partire dal XVII secolo nell'imponente sistema idrografico artificiale dei Regi Lagni; prima di allora palude, quasi laguna, con il salmastro Lago Patria a mediare tra una sorta di delta del Clanio e la costa sabbiosa, ostacolo addirittura insuperabile per le lente acque planiziali. Il Clanio, deviato da Domenico Fontana scavando nel sistema retrodunale, finisce nel cono orografico dove converge da Nord il Volturno, trovando uno sbocco a mare che consente di aumentare la velocità di deflusso, evitando pantani. La bonifica, proseguita fino ai primi decenni del ‘900, recupera e manutiene con costanza le terre sottratte alla palude che, drenate da una fitta rete di canali, concretizzano la mitica Campania Felix, WHUUD GL ODYRUR che dà anche sei raccolti l’anno. La figura dello sprawl, la diffusione insediativa “orizzontale” che pure caratterizza a tratti questi luoghi, diventa VSUDZO ±HOG: una terra distesa, lenta, orizzontale che si apre in una baia lunga cinquanta chilometri. Un paesaggio che raggiunge un punto di equilibrio con la bonifica d’inizio

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B *HRJUD±H GHOOR VFDUWR GHO OLWRUDOH GRPLWLR ²HJUHR H DJUR DYHUVDQR

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‘900, fatto di coltivazioni estensive e canali alberati, masserie ed eucalipti frangivento, con le dune e le pinete sulla linea di costa. Seguono, negli anni del boom economico, i tentativi di modernizzazione: gli insediamenti costieri di bassa qualità per la YLOOHJJLDWXUD (talvolta anche derivanti da eclatanti abusi edilizi), le piattaforme produttive e la pesante infrastrutturazione dell'entroterra forzata dalla Cassa per il Mezzogiorno. Con l'espansione estensiva della conurbazione della Piana, che diventa città diffusa, l'equilibrio si rompe definitivamente e il sistema idrografico diventa una fogna a cielo aperto per più di un milione di persone. Infine Gomorra, con gli sversatoi abusivi, i ODJKHWWL che risalgono dalla falda, l’agricoltura, pur ancora produttiva, in crisi anche a causa della scarsezza di domanda. Il mare non è più balneabile, sempre più seconde case restano inutilizzate e l’edilizia rapidamente deperisce, il VRJQR WXULVWLFR affoga nel limaccioso residuo che i canali scaricano a mare. Le piattaforme industriali ed il loro indotto, con la conclusione degli aiuti statali, arrivano rapidamente alla fine del proprio ciclo di vita. 6SUDZO ±HOG diventa terra di drosscape. 2. Un territorio scartato La forma di un territorio è l'esito della stratificazione di numerosi tentativi di introdurre forme di razionalità nel tempo e nello spazio. La bonifica della Piana Campana è stata, in questo senso, un atto consapevole di trasformazione del paesaggio, finalizzato ad un preciso disegno di sviluppo economico e al quale ben si addice la definizione di Goethe di una seconda QDWXUD XWLOL]]DWD D ±QL FLYLOL. D'altro canto la crescita e la diffusione urbana della seconda metà del Novecento, troppo veloci e pesanti per essere assorbiti dalle sedimentazioni storiche, hanno messo in crisi questa infrastruttura territoriale. L'accelerazione dei processi di trasformazione fisica e sociale, pur rappresentando una potenziale risorsa economica, ha investito i segni e le tracce di una stratificata cultura della bonifica e del progetto di territorio, ma non è stata capace di farsi progetto e di produrre nuove immagini strutturanti mentre generava, al contempo, un mosaico di spazi del rifiuto, della dismissione e dell'abbandono accomunati dalle cifre della contaminazione, dell'inquinamento e del degrado ambientale. Il corso artificiale dei Regi Lagni si presenta oggi come una delle principali emergenze ambientali della Campania. La sua inopportuna cementificazione che, a partire dagli anni Settanta, ha distrutto gli ecosistemi ripa-

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B 7UDPH GHOO DFTXD DUHH GL HVRQGD]LRQH H WHUULWRUL GHOOR VFDUWR

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riali, attenuandone la funzione depurativa e interrompendo il ricambio tra acque di falda e acque superficiali, ha anche sancito la definitiva trasformazione dei canali in collettori fognari a cielo aperto, sversatoi di acque reflue e discariche abusive di materiali altamente inquinanti. Il danno ambientale diretto sulla rete idrografica superficiale e sui suoli agricoli si intreccia, nelle aree di margine, interstiziali e imbrigliate nella rete infrastrutturale e logistica, con quello prodotto dal proliferare di attività illecite o semi-lecite e dalle falle nel ciclo dei rifiuti urbani e industriali, all'interno del quale il settore dei rifiuti tossici ha ormai assunto una rilevanza enorme. Il susseguirsi, a partire dal 1994, delle emergenze rifiuti e la difficoltà a rintracciare un fuori in una regione urbana ormai satura, hanno fatto della Piana Campana la sede di discariche e siti di stoccaggio tra i più estesi, al confine con territori già compromessi dall'inquinamento chimico dovuto alle attività agricole e zootecniche, mentre veniva alla luce una realtà pluridecennale di sversamenti illegali e di roghi di rifiuti (industriali, tossici e nucleari) nelle campagne di quella che sarebbe stata consegnata alle cronache come la terra dei fuochi. La figura che emerge è quella di un territorio che, in assenza di efficaci strategie progettuali, è stato votato allo scarto – accomunando in questa condizione suoli, acque, paesaggi costruiti e popolazioni e determinando un radicale cambiamento di vocazione da produttore di risorse e valore a dispositivo di smaltimento. 3. Il riciclo come nuovo racconto L'intreccio di territorio storico, forme insediative e dinamiche ecologiche offerto dai territori dello scarto nella Piana Campana propone “racconti e domande progettuali molto diversi dal passato, riguardo sia al carattere dei luoghi in cui maturano, sia a quello delle scale e dei materiali coinvolti nelle trasformazioni urbane” (Gasparrini C., 1XRYL UDFFRQWL GHOOD FLWWj FRQtemporanea, in «Urbanistica», n. 140, 2009); la sola architettura non è in grado di dare risposte agli interrogativi posti dalle questioni ambientali e ci spinge a volgere lo sguardo verso le discipline del paesaggio, in grado di tenere conto del cambiamento di scala e di confrontarsi con processi incrementali e adattativi. I network paesaggistici (come i grandi dispositivi ambientali e infrastrutturali della bonifica) hanno, infatti, la forza di proporre figure e racconti, di condensare spazi e pratiche e di tenere insieme paesaggi che apparten-

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B /D FRVWUX]LRQH GHL QXRYL VXROL OXQJR OH UHWL

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gono a diverse dimensioni spazio-temporali. Una nuova macchina per la bonifica è quindi possibile in un approccio di re-invenzione, recuperando i segni e i materiali della bonifica storica verso la definizione di un VXROR VSXJQD che, nel lungo periodo, aiuti la formazione di un inedito punto di equilibrio tra sistemi urbani e ambiente. Il riciclo dei drosscape non sarà un gesto isolato, ma un percorso tra natura e artificio – basato su processi naturali a lungo termine, dalla forte connotazione spaziale e di alta qualità paesaggistica (phytoremediation, bonifica biologica, barriere idrauliche vegetali, zone umide per purificare l’acqua dai composti organici…) – che si inserisce nei percorsi esistenti di bonifica territoriale e approfondisce la relazione tra territori dello scarto, siti inquinati, reti infrastrutturali (strade, acqua ed energia) e obsolete gerarchie territoriali. Questa forma di intervento, che richiede uno sguardo più sensibile allo scarto, ai valori che racchiude e ai tempi lunghi di implementazione, gestione e manutenzione, ci costringe ad operare in maniera interstiziale in una condizione di DWWHVD DWWLYD. In cambio essa promuove un LQQRYDWLYR SURJHWWR GL WHUULWRULR – complesso, resiliente e più efficace nel gestire le risorse – all’interno del quale la geografia dei QXRYL VXROL è un mosaico in costante movimento: sui suoli progressivamente disponibili saranno accolti i paesaggi, le pratiche e gli usi nati dall’espressione delle diverse forme di convivenza tra decontaminazione, trasformazione ambientale e riappropriazione sociale. Prende così forma una nuova generazione di spazi del welfare e della vita in pubblico, di nuovi spazi di naturalità (dall’urban farming al no-food) e di attrezzature e servizi (dalle infrastrutture energetiche basate su fonti rinnovabili ad una sistema di fruizione turistica diffusa costruito sulla rete delle antiche masserie) in grado di adattare la struttura della città diffusa alle nuove esigenze dettate dal paradigma ambientale.

1RWD Il presente contributo è frutto di un lavoro collettivo: ogni paragrafo è stato di comune ideato e sviluppato. Tuttavia la redazione materiale del paragrafo 1 è di Enrico Formato, del paragrafo 2 è di Massimo Lanzi e il paragrafo 3 è stato scritto a quattro mani.

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1DSROL (VW 3DHVDJJL GHO GURVVFDSH H UHWL GHOOH DFTXH

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NAPOLI EST NATURARTIFICIALE, VERSO NUOVI METABOLISMI IBRIDI Enrico Formato Libera Amenta Susanna Castiello Cecilia Di Marco >UNINA

1. Dross-Est-Napoli La “Piana Campana” è geograficamente identificata con i suoli pianeggianti compresi tra le colline di Napoli ed i rilievi pre-appenninici dell’Irpinia e del Sannio. Si tratta di aree molto produttive dal punto di vista agricolo, infrastrutturate sin dall’antichità mediante una fitta rete di canali. La Piana Campana è oggi luogo di una conurbazione porosa, senza apparente soluzione di continuità tra Napoli, Caserta e Salerno. La crescita urbana caotica, talvolta illegale e spontanea, talvolta dovuta all’attuazione di piani e programmi pubblici (in particolare promossi dalla Cassa per il Mezzogiorno), si è diffusa invadendo l’intera Piana, pur con caratteristiche e densità diverse. Ne deriva un mosaico di aree urbane, industriali e rurali: un sistema ibrido e multipolare fatto iterazioni, strappi, addensamenti di funzioni e flussi. Un sub-ambito di particolare interesse è quello della Valle del Sebeto, una depressione orografica che si incunea verso il Golfo, tra le pendici occidentali del Somma Vesuvio ed il toppo di Poggioreale, avamposto orientale dell’arco collinare di Napoli. Il Sebeto è un ±XPH ridotto a canale nel corso delle bonifiche vicereali che irreggimentano il Clanio nel sistema dei Regi

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B *HRJUD±H GHOOR VFDUWR QHOOªDUHD RULHQWDOH GL 1DSROL

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Lagni (XVI-XVII sec.). Nel corso dell’Ottocento la paludosa Valle del Sebeto, trasformata dalle bonifiche vicereali negli 2UWL GL 1DSROL, diventa oggetto di un processo d’industrializzazione rapido e massivo, su “disegnoâ€? del 3LDQR GL ULVDQDPHQWR HG DPSOLDPHQWR conseguente all’UnitĂ d’Italia. Nel '900 l’area diventa sede di un importante polo energetico-chimico (depositi, raffinerie, manifatture di trasformazione), direttamente connesso, mediante diverse fattispecie di infrastrutture a rete (strade, ferrovie, oleodotti), al porto mercantile. L’urbanizzazione industriale sovrappone alle preesistenti infrastrutture della bonifica moderna un sistema alieno: dapprima stende sugli impluvi ruotati per ragione idrauliche una maglia stradale astratta, con giacitura nord-sud; poi, nel corso dei decenni, provvede ad una completa artificializzazione del suolo (1DSROL YHUVR RULHQWH, a cura di Lucci R., Russo M., Clean, Napoli 2012). Come in una sorta di bonifica delirante – nel senso che Rem Koolhaas attribuisce al grattacielo di New York (Koolhaas R., 'HOLULRXV 1HZ <RUN $ UHWURDFWLYH 0DQLIHVWR IRU 0DQKDWWDQ, Monacelli Press, New York 1978) – gli insediamenti produttivi sembrano portare alle estreme conseguenze la bonifica vicereale, dando cosĂŹ luogo, simultaneamente, alla sua espressione perfetta (normalizzando, mediante condutture, il sistema idraulico) e all’inizio della propria crisi. La Valle del Sebeto lascia il posto a Napoli-Est: il canale diventa tubo, elemento di una rete di relazioni invisibile, macchina che agisce negli spessori delle piattaforme mineralizzate, parte integrante dei cicli produttivi: sotto le arcate del Ponte della Maddalena corre ora verso il mare un fascio tubiero che affianca, in condotti di diverso colore, oli minerali ed acqua. Il ‘900 si chiude con la dismissione industriale di Napoli-Est ed il tentativo della cittĂ di riappropriarsi di questi aree (il PRG del 2001 propone, nelle aree dismesse, nuovi insediamenti integrati e parchi). Vent’anni dopo, in attesa dell’attuazione di alcuni Piani urbanistici attuativi di notevole estensione, la Valle del Sebeto si presenta come un ambito di straordinario interesse, ricco di territori in transizione e spazi in attesa di un progetto, drosscape (Berger A., 'URVVFDSH :DVWLQJ ODQG LQ XUEDQ $PHULFD, Princeton Architectural Press, New York 2006) o dead-spaces che hanno concluso il loro ciclo di vita ma che hanno un fortissimo potenziale rigenerativo. La compresenza di suoli ed acque inquinati, di ecosistemi compromessi, di edifici speciali o industriali dismessi o in via di dismissione, di infrastrutture (alcune delle quali abbandonate), di aree interstiziali alle quali

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B ,O FXQHR YHUGH GHL UXUDOVFDSHV

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si aggiungono recinti produttivi di varia natura, di impianti tecnologici e della diffusione insediativa, non controllata né pianificata, hanno peraltro portato ad una erosione quasi totale dei suoli agricoli, circoscritti in alcuni ambiti dell’area studio e fortemente ibridati con depositi, aree di stoccaggio, parcheggi, aree per la logistica. 2. Napoli-Est, macchina ibrida A Napoli-Est il processo di dismissione sembra ad un punto più avanzato rispetto alle aree dell’entroterra: i cicli di vita dei sistemi insediativi e ambientali – l’apparato delle paludi, la rete idrografica, il più recente impianto della produzione industriale – sono da tempo esauriti o in stato di crisi molto avanzata, così come l’agricoltura e l’uso residenziale spontaneo. L’area è quasi totalmente artificializzata; solo localmente emergono, dai recinti dismessi, frammenti di natura naturans; un residuo degli Orti GL 1DSROL (ruralscape) s’incunea, lungo il nastro autostradale, dalla Piana dei Regi Lagni ad est delle grandi placche mineralizzate. Anche laddove la natura sembra ritornare, colonizzando aree urbanizzate non in uso, bisogna fare i conti con la pesante eredità del recente passato energetico-industriale: tale da connotare Napoli-Est come un Sito inquinato d’interesse nazionale. Col fine di concettualizzare una condizione analoga a quella delle altre aree studio s’indaga dunque il momento di crisi di ognuno dei principali cicli di vita – la palude (1400); la campagna integralmente bonificata (1890); la città industriale (1966); la città in attesa (2014) – provando a portare indietro l’RURORJLR ELRORJLFR dei diversi sistemi cui ogni scarto fa riferimento. Il procedimento si pone l’obiettivo di analizzare il tempo della crisi di ogni determinato sistema, un attimo prima della fine di un ciclo di vita. Una FRQFHWWXDOL]]D]LRQH UHWURDWWLYD basata sulla decostruzione del palinsesto rilevato in un insieme discreto di lastre. Una condizione iperrealista, dove lo sguardo coglie permanenze e rintraccia sovrapposizioni latenti, potenziali per l’immagine di nuovi progetti. Così il tempo diventa elemento fondamentale: aiuta a ragionare simultaneamente su più riferimenti concettuali; ad evitare le semplificazioni e le antinomie che genererebbe la semplice mappatura dei dati e la loro interpretazione statica. La quarta dimensione assume il carattere ibrido, QDWXUDUWL±FLDOH, come propria essenza, dispiegando i cicli di vita in una prospettiva processuale. Così Napoli-Est ricicla nel presente, verso il futuro, parti delle proprie vite passate: l’industria

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B 5LFLFOR FRPH UHDOL]]D]LRQH GL XQ SDOLQVHVWR LQYHUVR H WLPHOLQH VWUDWHJ\

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torna a convivere con la palude, simbolo di un ecosistema vivo e identitario; il futuro terziario-residenziale si concilia con l’agricoltura urbana. Si ragiona su piani sfalsati, topologicamente continui, concettualmente opposti, temporalmente concatenati. Se da un lato si opera sul vuoto rurale residuo – il cuneo del ruralscape – dall’altro non si trascura la necessitĂ di fare i conti con i residui del passato industriale e gli scarti della cittĂ . Occorre concorrere all’obiettivo di lungo periodo generando nuovi metabolismi ibridi, con attanti diversi (socio-tecno-spaziali) inseriti in catene metaboliche strutturate ma flessibili. Guardando il tema FRQ L SLHGL QHJOL RUWL c’è la possibilitĂ , in quanto area marginale, di utilizzare da subito i residui, gli scarti, le micro-aree dimenticate che costituiscono un potenziale, straordinario, tessuto ri-connettivo; impiantare usi pubblici temporanei, rinaturalizzare canali e piantumare strade, assecondare la riconquista del WHU]R SDHVDJJLR (Clement G., 0DQLIHVWR GHO WHU]R SDHVDJJLR, Quodlibet, Macerata 2003), infine realizzare una macchina idraulica naturale, un’operazione di contro-bonifica come la wetland machine dell’Agro Pontino di Berger. Tuttavia, con i piedi sull’asfalto incatramato ed il puzzo acre che viene dai serbatoi, non si può sottovalutare l’apporto che può fornire, soprattutto nelle fasi d’innesco della bonifica, una macchina di depurazione fortemente artificiale (depuratori, idrovore, canalizzazioni, suoli ed impluvi artificiali, impianti) capace di concorrere alla formazione dei nuovi metabolismi di Re-cycle. La combinazione cibernetica di natura ed artificio diventa cosĂŹ il tema del progetto, rispetto al quale approfondire tecnicamente le soluzioni e descriverne, come su di un pentagramma (una timeline), le combinazioni possibili, i tempi ed i ritmi. 1HO ERVFR ID FDSROLQR XQD FLPLQLHUD EUXFLD ELRPDVVD SURGXFH OÂŞHQHUJLD FKH ID JLUDUH XQÂŞLGURYRUD HG XQ GHSXUDWRUH OÂŞDFTXD ritorna alla terra ed alimenta il bosco. Non è, del resto, anche Central Park un’arcadia sintetica?

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3LDQD GHO ±XPH 6DUQR 3DHVDJJL GHO GURVVFDSH H UHWL GHOOH DFTXH

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RE-CYCLING WATERSCAPES NELLA PIANA DEL FIUME SARNO Emanuela De Marco >UNINA

Il waterscape della piana del fiume Sarno ed i segni ancora presenti delle antiche opere idrauliche, testimoniano pratiche sapienti di addomesticamento del territorio che rispondevano a progetti ambiziosi di industrializzazione oltre che ad una visione unitaria ed organica del sistema delle acque nel rispetto di una continuità ecologica e di paesaggio. La crescita disordinata e pervasiva dell’urbanizzazione della metà del secolo scorso, a cui è legato un consumo di suolo sfrenato e senza criterio, ha quasi definitivamente intaccato il rispettoso rapporto tra l’uomo e l’acqua, restituendo un territorio fragile nei suoi equilibri ecologici. L’acqua è diventata il principale fattore di rischio nonché veicolo dell’inquinamento derivante sia dalle industrie altamente impattanti che dai reflui urbani sversati nei corpi idrici tal quali per una mancata gestione unitaria a livello comprensoriale. In più lo sfruttamento intensivo del suolo tramite le coltivazioni in serra, che disegna e struttura il basso paesaggio fluviale del Fiume Sarno, oltre a causare una perdita di biodiversità, utilizza enormi quantità di fertilizzanti e prodotti chimici che nel tempo hanno depositato i loro scarti sul terreno compromettendolo nel suo spessore. Tramite le acque gli inquinanti sono stati veicolati nei corsi d’acqua superficiali,

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1_ *HRJUD±H GHOOR VFDUWR QHOOD 3LDQD GHO ±XPH 6DUQR

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nei terreni coltivati e, per assorbimento, fino alla falda. I temi dell’inquinamento, della compromissione e della cattiva gestione del territorio si uniscono alla questione delle aree, degli edifici e delle infrastrutture di scarto del metabolismo urbano, creando una nuova geografia che si contrappone a quell’immagine florida e ormai appartenente ad un lontano passato di un territorio curato e rispettato. L’insieme dei drosscape in quest’area si arricchisce delle parti dell’antico sistema intelligente di gestione delle acque di cui oggi si leggono frammenti, in alcuni casi consistenti, che appaiono come tessere di un mosaico ormai disarticolato ma di cui si riesce ancora a comprendere il sapiente disegno nella sua totalità. Le vasche borboniche per la regolazione del flusso delle acque provenienti dal Somma verso valle, ancora oggi in esercizio, rappresentano punti critici del sistema in quanto la loro funzionalità ed efficienza risulta profondamente alterata sia dalla carenza di manutenzione ma soprattutto dall’inadeguatezza nell’assolvere la funzione per cui sono state originariamente progettate, ovvero l’accumulo durante gli eventi piovosi e l’assorbimento graduale delle acque piovane nel terreno. Oggi l’edificazione nei tratti pedemontani e collinari convoglia i reflui prodotti al loro interno, e, non essendo periodicamente svuotate dai sedimenti e dai fanghi, presentano una capacità ridotta con conseguente tracimazione durante gli eventi piovosi intensi. Tale condizione costituisce un rischio elevato per gli insediamenti a valle, che si ritrovano a dover accogliere liquami che non sono in grado di smaltire nel sistema fognario incompleto. Il riconoscimento del valore strategico e sistemico di tali manufatti in passato si è mosso all’interno di logiche puramente ingegneristiche il cui successo è stato scongiurato da una disordinata e fallimentare politica di gestione e coordinamento dei grandi progetti, ma soprattutto dalla mancanza di una visione strategica e sostenibile dal punto di vista ambientale. Il Canale del Conte di Sarno, antico manufatto che testimonia la floridità del passato industriale dell’area e l’importanza che assumeva la risorsa acqua in questo territorio come motore dello sviluppo, nonostante le grandi opere di ripristino e la grande potenzialità, oggi è rimasto un rifiuto del metabolismo urbano, la testimonianza ancora tangibile di una cultura di consumo lineare del territorio senza prospettive di riciclo. La nuova geografia dei drosscape nella Piana del Sarno è disegnata da materiali e territori di scarto che si agganciano saldamente ai sistemi na-

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2_ 7LPHOLQH 6WUDWHJ\ LO WHPSR FRPH PDWHULDOH GHO SURJHWWR

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turali, mostrando la necessità di riattivare nuovi cicli di vita in grado di intercettare e ristabilire equilibri ecologici ormai compromessi nell’ottica di lavorare alla costruzione di un sistema che abbia la capacità di autorigenerarsi ed adattarsi. La strategia di riciclo parte dunque dal ripensamento delle reti ecologiche come nuova struttura del territorio ed in particolare la rete delle acque come connettore di un sistema vivente legato all’agricoltura, alla produzione, al turismo, alla qualità della vita, che intercetta un sistema già presente ma che necessita di essere rianimato da impulsi rigenerativi rispondendo alle rinnovate necessità. Il progetto Re-cycle per la piana del Sarno si basa su una visione del territorio scandita da obiettivi a breve e a lungo termine strettamente interconnessi in una visione sistemica in cui convergono la necessità di mettere in sicurezza, curare e riparare il territorio ma anche ridare impulso a flussi economici virtuosi, creare economie innovative connesse alla produzione sostenibile ed alle energie rinnovabili, restituire fruibilità alle risorse paesaggistiche e ristabilire le basi per le dinamiche naturali ed ecologiche. In questa prospettiva si inseriscono le azioni connesse a tre obiettivi prevalenti. Il primo è legato al ripensamento del sistema di regimentazione delle acque provenienti dal Vesuvio che implica non solo una rifunzionalizzazione dei canali e delle vasche di raccolta, ma li assume come elementi catalizzatori delle reti verdi della fruibilità, delle nuove funzioni ecologiche legate all’assorbimento ed il filtraggio delle acque meteoriche. Il secondo obiettivo riguarda il riciclo del manufatto del canale del Conte di Sarno ripensato come “condotta intelligente” ed infrastruttura di supporto della sostenibilità alla scala urbana per l’accumulo o il rilascio controllato delle acque, supportato da dispositivi alla scala minuta, per la raccolta ed il riutilizzo delle acque urbane. Il terzo obiettivo riguarda la riappropriazione del rapporto con il fiume attraverso il ridisegno del paesaggio, delle funzioni e dell’uso del suolo. Rimettere in gioco le aree a contatto con il fiume significa non solo prevedere nuove modalità d’uso inedite, legate alla fruizione, alla qualità degli spazi ed alla messa in rete delle risorse archeologiche di enorme valore presenti nell’area, ma anche ridare spazio al fiume, alle aree naturali ed alla vegetazione autoctona. Nuovi modi di coltivare sostenibili ed innovativi ma soprattutto compatibili con le aree di esondazione e con le dinamiche

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3_ ,VWDQWDQHH GDOOH IDVL GL SURJHWWR DOFXQL XVL H FRQ±JXUD]LRQL SRVVLELOL ODYRUDQGR FRQ OH UHWL H L PDQXIDWWL LGUDXOLFL

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fluviali, contribuiscono a delineare un nuovo paesaggio ed un rinnovato e rispettoso rapporto tra uomo ed acqua. Le strategie di riciclo pongono le basi per lavorare su obiettivi strategici a lungo termine che definiscono un progetto come un processo flessibile che contempla tempi lunghi relativi alla realizzazione di tali obiettivi sinergici in cui si innestano tempi ed interventi da attuare nel breve periodo e che corrispondono ad azioni progettuali ben precise, scandite secondo la logica della 7LPHOLQH VWUDWHJ\ che individua tempi ed interazioni tra le azioni progettuali in atto. Questo approccio permette la pianificazione degli usi compatibili a seconda della fase progettuale, fornendo indicazioni fondamentali su come utilizzare il territorio “nel frattempo”. Riciclare territori vuol dire dunque raccogliere una domanda molto spesso latente di riattivazione in cui gli scarti che si producono non sono il problema ma l’occasione da cui ripartire per rigenerare un territorio e trarre benefici qualitativi per gli spazi e per la società.

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$WWRUL FRLQYROWL H WHPSL GHOOH WUDVIRUPD]LRQL QHO SURJHWWR GL re-cycle

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PROMEMORIA PER UN PROGETTO DI RE-CYCLE Paola Galante >UNINA

I drosscape delle aree campane, individuati e rappresentati nelle mappe bianconere disegnano lo spazio entro cui una nuova città pubblica può esistere. Caratterizzati dall’interruzione del ciclo di vita originario, essi si configurano come peculiari tipi di URYLQH (Settis S., )XWXUR GHO FODVVLFR, Giulio Einaudi Editore, Torino 2004) assimilabili, come talenti piuttosto che come genesi, alle JUD\ DUHDV (Olmo C., /D FLWWj H OH VXH VWRULH, in AA.VV., La FLWWj HXURSHD GHO ;;, VHFROR, Skira, Milano, 2002): il loro valore nei confronti della città e del territorio è quello di essere disponibili. La disponibilità si esplicita nella possibilità di supplire usi mancanti (abitazioni o servizi) – riempire; di servirsi dell’assenza di uso per valorizzare e potenziare pause necessarie – zittire; nell’opportunità di ri-vedere il rapporto tra forme ed usi consolidati – relazionare, come accade nei processi messi in moto dalle celeberrime operazioni di taglio compiute da G. Matta-Clark negli anni Settanta. Riempire, zittire, relazionare: re-cycle è mettere insieme le operazioni che consentano a cicli di vita nuovi o rinnovati di insediarsi. Organizzare processi che riescano a tenere conto dei diversi materiali in gioco: forme eterogenee, delle plurime scale d’intervento possibili, dei molteplici

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attori coinvolti, del tempo lungo di un obiettivo progettuale che investe l’intera nuova città pubblica e dei tempi brevi delle urgenze locali, delle intermittenze degli usi temporanei, delle necessità manifestate dagli usi spontanei. Per fare in modo che le cose possano accadere (Rossi A., $XWRELRJUD±D VFLHQWL±FD, Pratiche, Parma 1990) e che re-cycle sia operazione efficace, il progetto deve reinventarsi come strumento e trarre vigore dalla coesistenza di elementi eterogenei (che si manifestano in eterogenee declinazioni) i quali diventano a tutti gli effetti i materiali del progetto: forma, scala, attori, tempo. FORMA. Individuate le famiglie dei drosscape, secondo una classificazione che individua la causa principale generatrice dell’interruzione di un ciclo di vita, sono state messe a punto per le tre aree oggetto di indagine le mappe che mostrano la loro diffusione sul territorio. In ogni famiglia ci sono delle ricorrenze di forme (dimensioni, geometrie, proporzioni), si pensi alle cave e alle discariche, piuttosto che alle dune o alle fabbriche dismesse, leggibili alla scala territoriale. In ottica progettuale l’investigazione della forma (e delle forme ricorrenti) non può essere elusa poiché questa rappresenta di fatto una resistenza alle trasformazioni (Boeri S., Secchi R., Piperno L., , WHUULWRUL DEEDQGRQDWL, Rassegna n. 42, Editrice Compositori, Bologna 1990) che inevitabilmente detta condizioni al progetto: gli spazi individuati nella mappa e reperiti quindi come luoghi possibili di rinnovamento non sono equivalenti ma si distinguono per un differente grado di malleabilità. Accade che le forme abbiano registrato il processo di evoluzione attraversato dai drosscape e che di questo processo contengano tracce: segni visibili come recinti più o meno duri (muri di fabbriche, filari di alberi), erosioni (dune, cave), luoghi dalle proporzioni inconsuete (si pensi alle spazialità di scarto generate dalle infrastrutture). La particolare natura dei drosscape fa sì che tracce non trascurabili siano quelle lasciate dalle attività interrotte sotto forma di inquinamento. Tracce queste che rendono quanto mai esplicito il concetto di resistenza alla trasformazione; che restringono la gamma di usi compatibili e che mettono questi usi in relazione con i tempi delle bonifiche. Un dialogo serrato con i tecnici di settore diviene indispensabile per la costruzione condivisa di una griglia di orientamento le cui ascisse ed ordinate rispondano alle domande: quale uso? quale bonifica? (in) quanto tempo?

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SCALA. Le mappe messe a punto mostrano le potenzialità del progetto di re-cycle ad una scala territoriale. Per ognuna delle tre aree oggetto di indagine è possibile immaginare il riutilizzo di tutte le aree nere reperite. Si tratta di definire obiettivi a lungo termine da esplicitare attraverso scenari che lavorino sul datascape a disposizione. La registrazione dei dati raccolti integrata alle previsioni dei diversi strumenti regolatori che insistono sul territorio, esiti di punti di vista parziali ma non trascurabili, fornisce una chiave di lettura D YROR GL XFFHOOR da confrontare con le spie, gli indizi, le tendenze che possono essere colti da uno sguardo ravvicinato. L’interruzione dei cicli di vita ha spesso consentito alla GRPDQGD GL FLWWj di formularsi liberamente. Gli usi informali siano essi più o meno diffusi innescano inedite letture degli spazi a disposizione e forniscono imprevisti impulsi per la revisione delle strategie generali. Il persistere dell’attività di canottaggio nelle acque inquinate di lago Patria; l’utilizzo dei litorali e delle aree libere non utilizzate per la corsa dei cavalli; la presenza di neonati orti nelle aree urbane periferiche e la ripresa o il mantenersi dell’attività agricola in lotti edificabili; il crescere del numero di abitanti stanziali (immigrati e non) nelle cosiddette seconde case dell’area domitio-flegrea, la nascita anche abusiva di centri dedicati all’incontro e alle relazioni sociali sono fenomeni noti ma non sufficientemente documentati. Il dialogo continuo e doveroso tra la grande e la piccola scala implica la costruzione di nuovi strumenti che si avvalgano di tecnologie informatiche innovative ma anche di azioni concrete: l’iniezione programmata di usi temporanei in aree chiave può essere uno strumento d’indagine e di verifica per testare la validità di scenari più ampi. Il progetto alla scala architettonica/urbana inteso come stimolo alla definizione del progetto alla scala territoriale si rivela dunque passaggio ineludibile. Meccanismo che, agendo su porzioni di spazio definite e subito disponibili, innesca inedite modalità di fruizione/uso che si riverberano alla scala ampia, o messa a punto di tattiche da ripetere in luoghi diversi. ATTORI. Sul territorio agli enti istituzionali, attori canonici, si sommano operatori di settore, associazioni, comitati, attori informali che rappresentano interessi parziali e portano avanti iniziative spesso monodirezionate. Queste presenze non sono distribuite sul territorio in maniera isotropa: la loro diversa natura e concentrazione racconta la specificità delle tre aree oggetto d’indagine e delle tematiche sentite come urgenti.

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L’area domitio-flegrea è caratterizzata da un fiorire di associazioni ed operatori di settore legati alle problematiche ambientali che riguardano lo sversamento illegale rifiuti. Operatori di rilievo nazionale (WWFF, Legambiente) hanno nell’area sezioni specifiche e si contano più di sessanta associazioni locali i cui interessi riguardano la difesa del suolo. A Napoli Est la presenza di associazioni di imprenditori (NaplEst, Polohightech-NapoliEst) che si fanno carico anche della promozione dell’attività progettuale a scala urbana, ed al contempo di associazioni di quartiere eredi della vecchia classe operaia, rendono conto dei forti interessi insistenti sull’area, strategica per l’intero ambito metropolitano. Nell’area sarnese ampia e frazionata in diversi comuni, le voci non si riconoscono con altrettanta evidenza. L’area soffre a causa del decrescere delle attività produttive (agricole o manifatturiere o cantieristiche), le stesse che hanno provocato impoverimento e inquinamento delle falde acquifere. TEMPO. Ogni attore agisce secondo un tempo proprio. Si potrebbe dire lungo, spesso lento, e monodirezionato quello degli enti istituzionali. Ciclico quello degli operatori di settore che propongono iniziative dalle cadenze spesso periodiche. Intermittente, discontinuo, irregolare quello delle associazioni che non riescono a dare carattere di regolarità alle loro azioni. Quotidiani, mensili, stagionali i tempi degli attori informali, le cui azioni sono mosse spesso da urgenze e contingenze. Tempo è quello necessario alle trasformazioni: tempo tecnico rispetto alle bonifiche ad esempio, tempo burocratico quello per l’acquisizione dei pareri, tempo politico quello indispensabile perché le comunità condividano le trasformazioni. Tempo è anche strategia di progetto. Stabilire priorità rispetto alla spesa economica ad esempio: quale area riciclo prima? Oppure: cosa faccio di quest’area nel frattempo? Il progetto deve utilizzare il tempo come materiale di costruzione. Promuovendo obiettivi a lungo termine esso deve nutrirsi dei tempi brevi come di mattoni che costruiscono il tempo lungo. Tracciati dettati da scenari possibili possono orientare la direzione degli interventi a breve termine ma devono anche mostrare la disponibilità a rettifiche o variazioni di direzione. PROMEMORIA. Progettare il re-cycle non è certamente formulare un disegno chiuso composto da figure più o meno condivisibili. Non può essere tuttavia la somma di tecniche mutuate dalle competenze ambientali che

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diano risposta univocamente ad esigenze ecologiche. La mappa bianconera mostra una geografia di possibili nuove relazioni in cui i drosscape funzionano come meccanismi di selezione di flussi che consentono al territorio di organizzarsi secondo figure inedite o di recuperarne antichissime. Questa natura peculiare dei drosscape, sollecita una riflessione sulla corteccia degli elementi e sul suo spessore ovvero sugli elementi che gestiscono le transizioni: i recinti, le VRJOLH (o interfaccia): elementi archetipici che ritrovano nuove ragioni se riletti alla luce di temi ineludibili: SICUREZZA/PERMEABILITA’: i filari di alberi intorno alle discariche, i muri delle fabbriche dismesse; PRIVATO/COLLETTIVO: sale per spettacoli all’interno di strutture industriali, spazi espositivi all’interno di strutture dismesse… Il progetto auspicabile oggi appare quello indicato (più o meno consapevolmente?) da Jordi Bellmunt nel confronto a Napoli (gennaio 2014): il progetto sfocato. Non nitido nelle forme ma individuato con precisione nella sostanza delle relazioni che esprime. Questo progetto non può che essere costruito in un FDQWLHUH QXRYR dove i materiali – Forma, Scala, Attori e Tempo – si interfacciano e si studiano.

1RWD I contributi e le immagini presentate dall'Unità di Ricerca PRIN di Napoli sono l'esito del lavoro collettivo del Laboratorio Re-cycle di Napoli. Afferiscono all'Unità di Napoli: Carlo Gasparrini (responsabile scientifico), Vito Cappiello, Antonio Cavaliere, Roberto Serino, Michelangelo Russo, Massimo Fagnano, Rocco Lafratta, Lodovico Maria Fusco, Fabrizia Ippolito (UNINA2), Antonio Passaro, Marina Rigillo. Mentre afferiscono al Laboratorio Recycle di Napoli: Fabrizia Ippolito (responsabile di sede), Anna Terracciano (coordinamento operativo), Libera Amenta, Susanna Castiello , Daniele Cannatella, Danilo Capasso, Gennaro Cozzolino, Emanuela De Marco, Cecilia Di Marco, Davide Di Martino, Nunzio Fiorentino, Enrico Formato, Paola Galante, Adriana Impagliazzo, Massimo Lanzi, Francesco Stefano Sammarco, Antonella Senatore, Ciro Sepe, Giancarlo Sorrentino, Sabrina Sposito, Danilo Vinaccia.

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IL VALORE AMBIENTALE DEL RECUPERO DELLE RISORSE ESTRATTE E ACCUMULATE NEI TERRITORI DELLE CAVE IL CASO DEL BACINO DI APRICENA (FG) Alessandro Reina Maristella Loi Vincenzo P. Bagnato >POLIBA

1. Luoghi e motivi della ricerca I Rifiuti sono ormai entrati in un ciclo produttivo di risorse e di recupero in materiali ed energie. Le più recenti Direttive Europee, la Gestione, la Ricerca scientifica, l’Imprenditoria e la disponibilità dei Cittadini devono sempre più remare verso traguardi imprevedibili. Viene richiesta, inoltre, una maggiore attenzione nel valutare la sostenibilità dei processi industriali e dei sistemi di distribuzione in funzione di una compatibilità ambientale, volta a incrementi qualitativi e quantitativi delle produzioni, dell’occupazione e delle economie nazionali. Pertanto i Rifiuti e il loro ciclo di vita, attraverso la riduzione, il riuso, il recupero, il riciclo, la corretta gestione e l’efficace controllo ambientale, oggi più che mai, devono tracciare una linea trasversale che incroci le nostre piccole e grandi azioni quotidiane. Quindi, trattare i Rifiuti come materiali oggi sarebbe fare economia in un settore che stenta ancora a decollare in alcune parti d’Italia, ma che ha grandi potenzialità di sviluppo in un Paese come il nostro che è tra i maggiori importatori di materie prime a fronte di larghi consumi, con un alto tasso di disoccupazione.

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1_ $OHVVDQGUR 5HLQD 3RWHQ]LDOL ULXVL LQ FDYD GHO PDWHULDOH GL VFDUWR UHDOL]]D]LRQH UDPSH

B 6KORPR $URQVRQ $UFKLWHFWV 7KH 1HJHY 3KRVSKDWH :RUNV 'HVHUWR GHO 1HJHY ,VUDHOH FRUWHVLD GHOOR VWXGLR 6KORPR $URQVRQ

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Ambiente ed Energia, così come Sviluppo compatibile, Industria e Imprenditorialità, oggi più che mai devono stare insieme in un Sistema Integrato di Sviluppo gestito da Operatori Pubblici e Privati consapevoli e responsabili. Il caso del Distretto Lapideo di Apricena diventa emblematico se si considera lo stato, l’uso, le condizioni e le modificazioni del paesaggio estrattivo. Se si pensa agli scarti di lavorazione, che per di più non sono rifiuti, oramai accumulati a formare colline con elevazione anche di 50 m dal piano originario di campagna, costituite da blocchi, pietrame di varia pezzatura e terra: una risorsa accumulata in 100 anni e che oggi acquista un forte valore economico. Ma come ripensarla, rimuoverla e riusarla in termini di sostenibilità ambientale? In questi ultimi anni la nostra ricerca si è occupata di verificare le modalità, le tecniche e le possibilità di riuso dei ravaneti (Greco V., Reina A., Selicato F., 3ULQFLSL PHWRGRORJLFL SHU D]LRQL GL UHFXSHUR GHOOH FDYH DEEDQGRnate, in «Giornale di geologia applicata», vol. 4, 2006). Una prima analisi è stata condotta sulla valutazione quantitativa e qualitativa dei materiali. 2. Aspetti ambientali: cause ed effetti dell’attività estrattiva La presenza dei ravaneti pone due problematiche: la prima riguarda i danni connessi al forte impatto ambientale e visivo da essi creato nell’intera zona, conseguenza di un’evidente modificazione in elevazione della morfologia originaria; il secondo concerne le limitazioni e/o impedimenti alla coltivazione dei giacimenti che creano in aree potenzialmente sfruttabili con la loro presenza. Su circa 100.000 mc estratti mediamente per cava, abbiamo 30-40.000 mc di materiale di scarto non inquinato che si configurano come ravaneti. È possibile riconoscerne tre diverse tipologie, caratterizzate da profili geometrici diversi in base alla composizione granulometrica dei materiali depositati. I ravaneti dal profilo più dolce sono quelli formati da terre sciolte; quelli formati dai blocchi di calcare determinano un profilo più regolare e lineare per la sovrapposizione di blocchi anche di grandi dimensioni; i ravaneti formati da terre sciolte e brecce e dove i blocchi vengono utilizzati anche per migliorare la stabilità e collocati alla base del cumulo, hanno profili misti. Oggi, molti degli operatori scelgono di recuperare gran parte di questo materiale di scarto per liberare le aree potenzialmente sfruttabili ma an-

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che perchĂŠ esiste una buona domanda per svariati usi. Il rapporto sullo Stato delle AttivitĂ Estrattive in Puglia 2011-2012, redatto dal Servizio P.R.A.E. della Regione Puglia (5DSSRUWR VXOOR VWDWR GHOOH DWWLYLWj HVWUDWWLYH LQ 3XJOLD, a cura di Regione Puglia, Area Politiche per l’Ambiente, le Reti e la QualitĂ Urbana, Servizio AttivitĂ Estrattive, Bari 2012), stima che la destinazione futura di questo materiale di scarto riguardi per il 52% la vendita, il 42% sarĂ utilizzato per colmare e per recuperare le cave profonde, mentre la restante percentuale, circa 6%, è impiegato per usi interni in cava (fig. 1). Da non sottovalutare come la tecnologia dei mezzi adoperati in cava e i nuovi macchinari utilizzati per ciascuna fase del processo produttivo (estrazione, lavorazione, taglio) tendono a ridurre al minimo gli scarti e a sfruttare al massimo il blocco di primo taglio. 3. Strategie dialogiche di riciclo Nonostante gli scarti, intesi come residui di estrazione e lavorazione, siano giĂ largamente impiegati anche se solo per usi secondari, non esiste attualmente una “prassiâ€? che garantisca un loro (ri)utilizzo “sistematicoâ€? nĂŠ un reale e generalizzato interesse a sfruttarli come materiali da costruzione o per l’architettura, il design, l’arredamento (Bagnato V., Paris S., 7KH TXDUULHVÂŞ ODQGVFDSH HQYLURQPHQWDO DQG SURGXFWLRQDO YDORUL]DWLRQ EHWZHHQ H[WUDFWLRQ DQG EXLOGLQJ, in ÂŤTechneÂť, n. 5, 2013). Da un lato vi è quindi la necessitĂ di ridurre la quantitĂ di scarti di lavorazione che diventano definitivamente rifiuti, dall’altra l’esigenza di nobilitare il materiale di scarto attraverso l’individuazione di strategie “colteâ€? di riuso/riciclo (architetture d’eccellenza, opere pubbliche, sistemi costruttivi innovativi, opere d’arte, ecc.). Dal punto di vista epistemologico l’individuazione di nuove strategie di riuso necessita di una preliminare distinzione tra i concetti di “scartoâ€? e di “rifiutoâ€?: se il rifiuto è effettivamente da intendere quale materiale “ultimoâ€? da conferire a discarica, lo scarto, al contrario, costituisce elemento avente proprietĂ sufficienti per poter essere reimpiegato sia all’interno che all’esterno dello stesso processo produttivo. I paesaggi estrattivi in generale rappresentano una ricchezza per il territorio a cui appartengono non solo per i materiali estratti, ma anche e soprattutto per l’inespresso potenziale dello “scartoâ€?. In accordo con le esperienze piĂš innovative di riciclo, riduzione o riuso

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individuabili nel contesto internazionale (5H F\FOH 6WUDWHJLHV IRU DUFKLWHFWXUH FLW\ DQG SODQHW, a cura di Ciorra P., Marini S., Electa, Milano 2012), la ricerca sta attualmente codificando i caratteri di un approccio nuovo legato alla definizione di strategie “dialogicheâ€? atte a revisionare l’intero processo produttivo in senso “sostenibileâ€? a partire da una profonda analisi delle caratteristiche e delle potenzialitĂ costruttive e formali dei luoghi dell’estrazione e dei materiali estratti (fig. 2).

1RWD L’UnitĂ di Ricerca Prin Re-Cycle del Politecnico di Bari, aggregata all’UnitĂ 7 dell’UniversitĂ Federico II di Napoli è composta da Nicola Martinelli (coord.), Alessandro Reina, Spartaco Paris, Vincenzo Bagnato, Francesco Marocco, Federica Greco, Michele Mundo, Sabrina Scaletta, Giovanna Mangialardi, Maristella Loi. Questo contributo è frutto di una riflessione comune, ma sono da attribuirsi ad Alessandro Reina, Maristella Loi e Vincenzo P. Bagnato rispettivamente i paragrafi 1, 2 e 3.

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NUOVI PROCESSI DI RICICLO PER I PAESAGGI ESTRATTIVI COME BROWNFIELDS Nicola Martinelli Francesco Marocco Giovanna Mangialardi >POLIBA

1. Scarti senza tempo L’incipit di questo contributo può partire dall’ideale attraversamento di un paesaggio italiano di grande forza evocativa: le cave di Cusa, latomie che segnano per due chilometri una campagna siciliana, il luogo che da oltre ventiquattro secoli custodisce i rocchi di calcarenite da trasportare e utilizzare a tredici chilometri di distanza nei cantieri dei grandi templi dorici di Selinunte. Un sito disseminato di rocchi scartati per presenza di difetti, abbandonati nella campagna o ancora ”imprigionati” nel blocco calcarenitico per un’improvvisa interruzione dell’attività, “a Cusa è molto difficile distinguere tra passato e presente: la situazione è talmente istantanea che il lavoro nelle cave potrebbe essere stato interrotto ieri, e ciò rende irrilevante qualunque preoccupazione cronologica” (Venezia F., &DYH GL &XVD WUH YLDJJL, in Fondazione Benetton Studi e Ricerche, 3UHPLR &DUOR 6FDUSD SHU LO *LDUGLQR GHFLPD HGL]LRQH ¥ /H FDYH GL &XVD, 1999). Nessuna volontà archeologica, quindi, ma un luogo un tempo abbandonato, ricco di scarti d’estrazione che – come spesso accade nelle cave – si fanno essi stessi paesaggio (fig. 1). Un luogo che aggiudicandosi nel 1999 il premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino della Fondazione Benetton dopo

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B $QQHOLHVH 3HVFKORZ %LQGRNDW YHGXWD GHOOD ]RQD GL HVWUD]LRQH GHOOH FDYH GL &XVD WUDWWR GD )RQGD]LRQH %HQHWWRQ 6WXGL H 5LFHUFKH Premio Carlo Scarpa per il Giardino decima edizione – Le cave di Cusa

B /RUHQ]R 6FDUDJJL 9HGXWD GHL UDYDQHWL GL $SULFHQD

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che, dal 1963 al 1985, la Soprintendenza lo aveva difeso dall’oblio e dalla distruzione, si presenta come una vicenda significativa per avviare la riflessione sulla nobiltĂ dello scarto, la sua potenzialitĂ per nuovi cicli di vita, nuovi significati e nuove utilitĂ . L’unitĂ di ricerca PRIN 5H F\FOH ,WDO\ del Politecnico di Bari, indaga sui possibili scenari di recupero e riuso dei siti estrattivi pugliesi intesi come Drosscapes (Martinelli N., ,O ULFLFOR GHL 3DHVDJJL HVWUDWWLYL GHOOD 3XJOLD in 9LDJJLR LQ ,WDOLD, a cura di Marini S., Santangelo V., Aracne, Roma 2013) nell’ottica proposta da Alan Berger (Berger A., 'URVVFDSH :DVWLQJ /DQG LQ Urban America, Princeton Architectural Press, New York 2007) “aree che si stratificano nei territori contemporanei sotto gli effetti socio-economici di processi di deindustrializzazione post fordista e al contempo dell’innovazione tecnologicaâ€?. A seguito della chiusura del loro ciclo di vita coltivazione/abbandono, le cave entrano a far parte dei EURZQÂąHOGV, esiti perversi della crisi del modello economico legato ai consumi e alla crescita illimitata, che solo un netto cambio di atteggiamento può trasformare in opportunitĂ per un nuovo paradigma economico e culturale. In tali nuovi condizioni sarĂ possibile rimettere in circolo i “paesaggi dello scartoâ€?, identificati nel paesaggio regionale dai vuoti dei fronti di cava e dai pieni dei rilevati degli scarti di lavorazione i “ravanetiâ€? (fig. 2). 2. Puglia: scarti e paesaggi di scarto dell’estrazione Il lavoro dell’UnitĂ Re-cycle di Bari parte dall’aggiornamento dei quadri conoscitivi sul fenomeno dell’attivitĂ estrattiva, in termini di censimento delle cave e in termini di raccolta e messa a sistema delle indicazioni provenienti dai nuovi strumenti legislativi, generali e di settore, messi a punto all’interno di una rinnovata stagione urbanistica in Puglia (Magnaghi A., /D YLD SXJOLHVH DOOD SLDQLÂąFD]LRQH GHO SDHVDJJLR, in ÂŤUrbanisticaÂť, n. 147, 2011). Tutti i dati (litologia, tipo di materiale estratto, stato autorizzativo dei bacini) vengono incrociati in ambiente GIS per determinare una fenomenologia dell’estrazione che problematizzi i diversi paesaggi di cava in chiave di Re-cycle: si va oltre il processo coltivazione/abbandono per rinnovare la vocazione produttiva dei singoli paesaggi estrattivi, guardando ai bacini esausti e alla rimessa in circolo dei rifiuti e degli scarti provenienti dall’attivitĂ di cava. Il distinguo principale riguarda gli oltre 400 bacini attualmente autorizzati, per i quali il nuovo Piano Paesaggistico Territoriale Regionale e il Piano Regionale delle AttivitĂ Estrattive determinano nuove

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B ,O SDHVDJJLR GHL YXRWL H GHL SLHQL GHL GXH FDVL VWXGLR GDOOªDOWR LO EDFLQR GL $SULFHQD H LO EDFLQR GL &XWUR±DQR HODERUD]LRQH GL *LRYDQQD 0DQJLDODUGL

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misure (coltivazione per lotti, fideiussioni che obbligano i cavatori ad accantonare previamente alla coltivazione le economie da destinare al recupero dei siti, gli stessi Piani Particolareggiati come strumenti di dettaglio che disciplinino l’estrazione nelle aree particolarmente compromesse dall’attività estrattiva), rispetto alle 345 cave su cui la disciplina di settore non è efficace (perché a decreto scaduto, sospeso o perché chiuse definitivamente senza obbligo di recupero). Sono soprattutto questi ultimi i paesaggi estrattivi per i quali la ricerca è chiamata a determinare nuovi processi di riciclo che passano inevitabilmente per una strategica riattivazione della vocazione produttiva dei bacini. 3. Casi di studio I siti estrattivi individuati come case study per tecniche, materiali e scenari di recupero, tra i cui estremi è possibile collocare ogni altro paesaggio estrattivo della Puglia, sono il bacino marmifero di Apricena (FG, fig.3) e il giacimento della calcarenite e argilla di Cutrofiano (LE, fig. 4). Nel primo caso, la produzione di pietra da taglio ornamentale conta del 30-35% di materiali di sfrido. Si generano così i UDYDQHWL, cumuli di materiale di scarto derivante dalla coltivazione della cava, che caratterizzano fortemente il paesaggio locale: il recupero del territorio coincide con il riuso degli scarti e con la valorizzazione ambientale del paesaggio delle cave anche in chiave energetica e sostenibile mediante l’integrazione di fonti rinnovabili. Il bacino di Cutrofiano è un territorio scavato in profondità da gallerie e pozzi sotterranei, con una produzione di scarti di lavorazione molto bassa (circa il 5%), il cui recupero coincide con la messa in sicurezza del territorio a causa del rischio di stabilità delle cave. I rifiuti, prodotti e accumulati sul territorio di Apricena, modellati a ziggurat, sono ormai parte integrante dell’immaginario dei luoghi. Sono la traccia di un processo produttivo e possono rientrare in un ciclo di vita per una filiera che intenda riciclare i paesaggi e i luoghi dello scarto in maniera virtuosa. In particolare è sui ravaneti, paesaggi dinamici da scarto a risorsa, che si concentrerà l’attività futura di ricerca al fine di evidenziare come il rifiuto possa essere un bene comune e per fornire nuovi strumenti e metodi per il progetto del territorio. 1RWD Questo contributo è frutto di una riflessione comune, ma sono da attribuirsi a Nicola Martinelli, Francesco Marocco e Giovanna Mangialardi rispettivamente i paragrafi 1, 2 e 3.

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CATALOGHI DI REALTĂ€ L'ARCHITETTURA DEL TERRITORIO INVERSO Sara Marini >IUAV

0DLV FHOXL FL >OH UHVWH@ QªD MDPDLV GH UpDOLWp DXWRQRPH QL GH OLHX SURSUH LO HVW FH GRQW OD SDUWLWLRQ OD FLUFRQVFULSWLRQ OªH[FOXVLRQ GpVLJQHž &ªHVW SDU OD VRXVWUDFWLRQ GX UHVWH TXH VH IRQGH HW SUHQG IRUFH GH UpDOLWp Jean Baudrillard

Scarto solitamente è ciò che è poco in vista, nascosto, abbandonato, di cui non si ha piÚ memoria, spesso frantumato, ridotto a polvere, minuto e pervasivo. La sua presenza, ma soprattutto la sua centralità nel dibattito contemporaneo sembrano testimoniare una richiesta di attenzione a ciò che ha perso di significato perchÊ parte di un tutto ma che nel suo moltiplicarsi, nel suo essere posizionato e letto in successione, acquisisce dignità d'opera, nuovo senso grazie alla messa in serie: per comparazione emergono differenze, inviti a guardare con attenzione. Lo stato di abbandono in cui versa il *XOOLYHUªV .LQJGRP 7KHPH 3DUN, costruito piÚ di dieci anni fa sul Monte Fuji in Giappone, sembra testimoniare, metaforicamente e non solo, la rivincita dei lillipuziani intenti a modificare la scena erodendola lentamente. L'attenzione verso una doverosa revisione degli strumenti e delle parole chiave dell'architettura e dell'urbanistica testimonia, solo parzialmente,

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la ricerca di un'inversione di rotta del disegno e del destino di buona parte dei territori europei. Si torna quindi a riciclare quello che c'è o almeno a ragionare sulle possibilità che questa strategia, non sempre più vantaggiosa rispetto alla costruzione ex novo e spesso poco avvantaggiata e suggerita dalle regole, possa tornare ad essere applicata. Qualcosa però nel frattempo è cambiato, e non si tratta semplicemente di questioni materiali ma di tracciati culturali, rispetto al mero recupero, riutilizzo e riuso, che comunque hanno continuato ad essere vie del progetto. L'aspettativa verso questa strategia si è spostata, ha subito uno slittamento, uno scarto di senso. Non si ragiona più e soltanto sul mero recupero di un'architettura o di un pezzo di città, perché questi esistono e quindi devono persistere, o sulla necessità di modificare la funzione a cui sono preposti; ora si chiede alla materia, ai prodotti, alle storie, di entrare in un nuovo ciclo di vita, di accogliere, spesso loro malgrado, la nuova direzione, una nuova idea di città. Il compito del progetto è allora, prima di agire, capire la natura del WHUULWRULR LQYHUVR ereditato dal vecchio mondo, è codificare le tracce dello stesso ragionando sulle condizioni al fine di individuare il grado di trasformabilità, di opportunità, è trovare il barlume di un nuovo ciclo in ciò che ha smesso di essere usato ma anche in ciò che è in condizione di utilizzo perché se il tutto disegnerà una nuova via lo farà di concerto. Inversioni Il ciclo della spazzatura, che agisce su un materiale che ha concluso il proprio ciclo di attività, è chiaramente iperattivo e al contempo è uno dei macro campi del WHUULWRULR LQYHUVR: fondamentale per il funzionamento del sistema, da occultare perché rappresenta l'ombra nera, il residuo ineliminabile del processo di produzione, il rimosso come direbbe Sigmund Freud. Gli edifici abbandonati, che punteggiano la città disegnando macchie sempre più estese; le attività commerciali vuote in attese di nuovi esercizi; la città nuova, pronta per essere utilizzata e mai abitata, rappresentano solo alcuni componenti della FLWWj LQYHUVD. Questi stessi elementi mettono in secondo piano il problema della proprietà, la condizione di disuso e di ridisegno della città interessano orizzontalmente sia pubblico che privato, chiedono una riflessione estesa a tutto il ciclo della produzione: non si tratta di agire solo sul corpo morto dell'architettura. La mappa del territorio inverso intreccia quella del suo doppio ed entrambe sono necessariamente dinamiche, adottano il parametro temporale

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quale metro di rivolgimenti sempre più veloci. In pratica si assiste ad una ulteriore concertazione sotto l'ombra del re-cycle contemporaneo: il ciclo produttivo oggetto di progetto e studio delle aziende, il ripensamento delle dinamiche di trasformazione dei territori, la produzione culturale in generale, dalla musica alle arti visive, usano gli stessi strumenti di postproduzione o di revisione del processo. Questo non significa ridurre l'architettura ad un mero componente del mercato ma insiste sulla necessità di rivedere tutta la filiera del progetto (dalla scelta del materiale, all'edificio in uso, all'infrastruttura abbandonata) considerando ogni passaggio come possibile fuoco del progetto, come luogo dove agire al fine di non accettare meramente un procedere in atto ma ricercando le ragioni dell'architettura più profonde per costruire deviazioni (la rivoluzione del Rinascimento ha agito così). Non è un caso che le città si stiano oggi ritirando, affermando così l'impossibilità di continuare a vivere i territori come "nomadi in prigione". Non si tratta di una svolta etica, forse, ma ancora solo economica, che però conferma il rilievo dello stare al centro e il valore dei manufatti di qualità, di quei luoghi in cui insiste il problema della scelta che attende il progetto per operare nuove sovrascritture. Esercizi di postproduzione conducono alla rinuncia dell'autore unico e del principio di originalità: re-cycle sottende veri e propri palinsesti dove la grafia di un autore si sovraimpone sull'opera trovata. Forse tutti gli ipotetici ed effettivi autori vanno in secondo piano rispetto a chi guarda, a chi partecipa a questo moltiplicato processo di appropriazione illecita, forse ne esce revisionato soprattutto lo statuto dell'architettura, così come è accaduto nella arti visive, nella musica, nella letteratura. L'autore comunque c'è, attrezza la scena, sceglie i materiali e le nuove configurazioni, decide dove e in quale modo coinvolgere lo spettatore che completa la scena: nulla può sfuggire così all'etica della partecipazione e dell'autocritica. Non sempre però in architettura il riciclaggio insiste su opere d'autore, non sempre è possibile operare ready-made reciproci, come ad esempio si assiste con molti brani di periferie "firmate" da intenti modernisti, spesso l'oggetto è "anonimo" e "vuoto": non è mai stato abitato. Se esercizi di sovrascrittura sono anche atti di conferma del trovato, dell'esistente, questi sono accompagnati da operazioni di cancellazione, da incisioni, nuove sottrazioni. Un'ombra accompagna questo incedere verso il futuro: è la scoperta di una terra malata. Sovrascritture, sottrazioni e conferme dovranno confrontarsi con la natura di queste "nuove terre".

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Cataloghi Le ricerche nei campi dell’osservazione e del progetto che raccontano la natura degli spazi di risulta e la loro presenza seriale nel territorio permettono di approdare, come evoca Perec, ad una modalità di lettura di queste presenze vicina a quella in uso nelle ricerche biologiche: classificazioni, elenchi, collezioni danno senso al “resto” nella sua disomogenea ripetitività. Georges Perec, uno dei fautori della "riscoperta del reale", costruisce il proprio testo /D YLH PRGH G HPSORL sull’immagine di un palazzo sezionato, in cui si mette a nudo la vita che vi scorre all’interno. Tale immagine rimanda alla raffigurazione della città ottocentesca che palesa le proprie nuove strutture, anche quelle sotterranee, perché al centro del ragionamento di quella cultura sono il sistema e la costruzione delle sue parti utili senza che la prospettiva, lo sguardo selettivo impongano gerarchie di sorta. La sezione nel romanzo-saggio dello scrittore francese diventa modalità di denudamento dell'ordinario, palesamento delle contraddizioni e delle relazioni tra interno e giustapposizione di interni, strumento per guardare, per ragionare e decomporre strutture, fondamentalmente per raccontare "l'edificio" come collezione di vite, antiquariato di umanità. Edward Ruscha negli anni sessanta del secolo passato presenta, nel testo 7KLUW\ IRXU SDUNLQJ ORWV in Los Angeles, un’indagine fotografica sui parcheggi all’aperto trovati nella città. L’esito di quest’opera di catalogazione è un atlante di luoghi vuoti, spazi distesi, immessi nel disegno urbano in continua attesa di occupazione. Ruscha documenta queste presenze, le restituisce oggettivamente e questo distacco, sommato al vuoto degli spazi, si fa commento critico, espresso attraverso la semplice esplorazione dei meccanismi di costruzione del sistema urbano. Non più o semplicemente il negativo di un’affermazione, lo scarto assume in questo lavoro il “valore” di elemento da leggere nella sua ripetitività: la campionatura dei parcheggi esula da un approccio manualistico e ripropone una visione “tipologica” del tema. La lettura fotografica, isolando l’oggetto nell’inquadratura, ne esalta l’anonimato e contemporaneamente attraverso la serialità degli scatti ne propone le diverse, fittizie, varianti. Questi spazi senza storia, con poco pensiero e progetto, presentati obiettivamente, quasi in maniera astratta, nella loro condizione di disoccupazione, si offrono come evidenza dell’ordinario: intervalli ripetuti assurti a vocaboli nel racconto della città.

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Nel 1966 Dan Graham riporta in due pagine di «Arts Magazine» intitolate Homes for America la realtà di quella città seriale che aveva iniziato a colonizzare i territori. L’opera ottiene gli onori della cronaca proprio in virtù del fatto che riporta luoghi assolutamente non degni della rappresentazione artistica con una precisione tale da metterli sul tavolo per operarvi un'indagine anatomica. Il racconto di Graham, inizialmente relegato nelle riviste di fotografia, costruito sul silenzio, sull’osservazione neutra ha palesato quella realtà che poi, nelle sue molteplici declinazioni, è diventata il principale materiale di costruzione delle città. Bern e Hilla Becher fotografano da più di cinquanta anni archeologie industriali del bacino della Ruhr e della zona di Sigen, organizzando ed esponendo le immagini per tipologie: silos, gasometri, altoforni, miniere, serbatoi per l’acqua. L’opera è costruita anche in questo caso sull’attenzione nell’ordinare, sulla catalogazione, sull’adozione di uno sguardo su queste realtà abbandonate paritetico a quello che scienziati e biologi adottano nel proprio metodo di studio. Queste scene propongono una posizione inattesa degli scarti. Letti come opere improprie, appunto resti dell'opera, elevati a linguaggio da una catalogazione tipologica che solitamente non gli compete: in elenco, come se il loro ripetersi, il loro ricorrere anonimo nei territori possa essere, ed evidentemente lo è, testimonianza delle forme del progetto, del suo concretizzarsi, del suo farsi realtà. E ancora l'analisi anatomica a cui è sottoposta in queste esperienze la città mette in essere la possibilità, spesso dimenticata o poco contemplata, che essa stessa sia un corpo vivo nel quale il dato biologico non è un corollario ma un fondamento che interessa anche le parti inerti di questa costruzione nel loro trapassare da spazi in uso a reperti di un passato sempre più recente.

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PER UN ARCHIVIO DELLO SCARTO Sissi Cesira Roselli >IUAV

L’architettura di un archivio non è costruita su una logica dell’accumulo, bensì su un principio di selezione che ne stabilisce l’identità e l’utilità, nella misura in cui la scelta operata sui materiali da scartare è coerente con il disegno generale che l’archivio si propone di tracciare. Un archivio inizia a non essere più una semplice collezione di documenti, oggetti, opere, quando quella che viene chiamata YRORQWj GL VFDUWR comincia a scremare gli elementi superflui e a riordinare i restanti secondo principi di pertinenza. La definizione di questi principi di pertinenza è un momento fondamentale per la composizione di un archivio sviluppato nel senso di una struttura multiforme dove le coordinate di ordinamento dei materiali lo rendano, come affermava Aby Warburg a proposito di un sistema analogo – l’atlante – “un luogo elettricamente carico” (Forster W.K., Mazzucco K., ,QWURGX]LRQH DG $E\ :DUEXUJ H DOOª$WODQWH GHOOD 0HPRULD, Bruno Mondadori, Milano 2002). Quindi da una raccolta, attraverso un processo di sottrazione, si arriva all’archivio che precisa le sue finalità adottando una precisa volontà di scarto. Questa volontà, dai YLQFROL GL WLSR YRORQWDULR che legano gli elementi di una raccolta, seleziona i singoli materiali fino a tenere solo quelli cor-

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relati da YLQFROL GL WLSR QDWXUDOH e quindi necessari a un’offerta organica dell’archivio. Nella progettazione di un archivio il rapporto con lo scarto viene risolto in primo luogo in fase di programmazione, dal momento che tanto più le intenzioni e i temi dell’archivio saranno di taglio rigoroso, tanto più si riusciranno a limitare gli scarti futuri. In una fase successiva gli scarti, all’interno di una chiara metodologia di conservazione, vanno motivati, eventualmente ricollocati e certamente analizzati in maniera attenta prima di un’eliminazione definitiva. Nelle pratiche artistiche, tra l’archivio e l’inventario sembra godere di una migliore connotazione il secondo. Il verbo DUFKLYLDUH richiama infatti nei suoi sinonimi una serie di azioni volte alla polvere, alla dimenticanza, a un rapporto imbalsamato con la realtà, dando l’idea di un’istituzione creata più per assopire la memoria che per consultarla. Invece l’inventario, dal verbo LQYHQLR, è percepito come un dispositivo costruito appunto più che sulla ricerca, sulla scoperta, più per ri-trovare che per seppellire. Tuttavia nell’etimologia di archivio (dal greco archeion che, in senso traslato, indica i contenitori per la conservazione – in Romiti A., $UFKLYLVWLFD JHQHUDOH, Civita Editoriale, Lucca 2003) si ritrovano anche dimensioni sicuramente apprezzabili da un punto di vista dell’indagine spaziale (come testimoniano esperienze quali /ªDUFKLYLR GHOOR VSD]LR a cura di Roberta Valtorta o le missioni fotografiche della Datar portate avanti dal governo francese come strumento di indagine territoriale), quali quella giuridica, quella sacra – per le memorie delle quali è a tutela – nonché una vocazione ad essere uno strumento nato per un pubblico e da esso tenuto in vita. La costruzione di un archivio–armadio (ultima accezione etimologica del termine) dello scarto, riporta alla questione di come progettarne le mensole e gli scaffali sui quali ordinare o semplicemente porre in relazione luoghi abbandonati in attesa di destinazione ed esperienze di recupero virtuose già attuate. La definizione di questi nessi secondo i quali gli elementi potrebbero essere organizzati, che siano pertinenze impossibili o pertinenze pazze (Eco U., ,QWHUSUHWD]LRQH H VRYUDLQWHUSUHWD]LRQH, Bompiani, Milano 1995) verrebbe a determinare una sorta di “matrice” attraverso la quale poter codificare realtà in abbandono e nuove modalità di riutilizzo. L’obiettivo di un archivio dello scarto potrebbe essere quindi quello di immaginare uno strumento attraverso il quale poter interrogare il territorio.

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La fruizione delle informazioni sarebbe resa possibile e rapida, concentrando una profonditĂ critica nella selezione degli ingredienti senza dare indicazioni restrittive sulla ricetta. L’augurio è che un tale sistema di codifica possa far scaturire interpretazioni altre del dato reale e aumentare di senso esperienze attualmente isolate all’interno di un ragionamento che sappia porle in relazione.

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MANUALE DELLO SCARTO (D)ISTRUZIONI PER L'USO Vincenza Santangelo >IUAV

La condizione di crisi e l’affiorare della terza rivoluzione industriale hanno innescato una serie di processi che inevitabilmente hanno prodotto e continuano a produrre scarti materiali e immateriali, che nell’insieme costruiscono un patrimonio con cui il progetto deve fare i conti. Il dibattito sul re-cycle è sempre più denso, ma le coordinate per confrontarsi con questo patrimonio di scarti sono ancora incerte. Proliferano i manuali che, con diversi approcci e declinazioni, cercano di dare “istruzioni” su come intervenire. Uno sguardo esplorativo sui manuali sul re-cycle può offrire l’occasione per costruire un ripensamento del manuale dello scarto. La parola “manuale” deriva dal latino PDQXjOHP, da PjQXV (mano), indicando ciò che era stato fatto a mano, ma anche qualcosa di maneggevole, da portare facilmente con sé (Enciclopedia Italiana Treccani), sottolineando l’esigenza di averlo sempre a portata di mano dettata anche dalla frequenza d’uso. Nonostante una versione acerba dell’attuale significato sia possibile riscontrarla nell’(QFKHLULGLRQ o 0DQXDOH GL (SLWWHWR, compendio di massime e insegnamenti morali, o ne L’Oráculo manual di Baltasar Gracián del 1659, che dava precetti per gente di corte, è solo tra l’800 e il ‘900 che si afferma il significato moderno e corrente del termine, con il

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moltiplicarsi dei volumi monografici, propedeutici, di volgarizzazione, che in piccoli formati racchiudevano la trattazione sistematica di una determinata disciplina. L’introduzione della parola “manualeâ€? nella lingua italiana, nel suo significato contemporaneo, si deve all’editore Ulrico Hoepli che conia appunto il termine, traducendo cosĂŹ la parola inglese KDQGERRN, dando avvio alla fortunata collana dei Manuali Hoepli, iniziata nel 1875 con il Manuale del tintore di Roberto Lepetit e il suo titolo piĂš famoso resta il Manuale dell’inJHJQHUH di Giuseppe Colombo, uno dei protagonisti dell’industrializzazione lombarda. Nella collana, che fra il 1875 e il 1971 pubblica piĂš di duemila titoli, i contenuti tecnici erano centrali ma non esclusivi: attorno ad essi era organizzato ogni campo del sapere, dalla storia della letteratura bizantina allo studio delle malattie mentali (Assirelli A., Un secolo di Manuali +RHSOL , Hoepli, Milano 1992), mettendo in gioco inattese ibridazioni disciplinari. Nonostante l’estromissione dei Manuali Hoepli dalla cultura dell’editoria e il velato disprezzo degli storici e intellettuali, Hoepli è riuscito con un coraggioso sforzo editoriale a tessere un’articolata rete dei saperi piĂš disparati, creando una sapiente attivitĂ di collegamento con i centri organizzativi della cultura tecnica, ingegneristica e specialistica, avvalendosi soprattutto con degli apporti delle culture transalpine (in particolare quella tedesca e anglosassone). Vengono coniati e introdotti nuovi termini: abrasivo, automobilista, fotocopia, radiocomunicazione, telepatia, ecc. Si amplia sempre piĂš il numero dei lettori; il macchinista, l’agronomo o il letterato attingono a manuali nello stesso luogo editoriale. Prodotto e insieme simbolo di questo sforzo di integrazione tra settori diversi del sapere e del fare sapiente, attraverso i manuali appare in filigrana l’Italia che si trasforma: lo sviluppo della dimensione industriale, il processo di urbanesimo e abbandono delle campagne, la tecnicizzazione dell’agricoltura, la razionalizzazione dell’abitare, l’infrastrutturazione del territorio. Come le indicazioni dei manuali sui mestieri risentivano dell’epoca che li aveva prodotti, anche gli odierni manuali risentono del momento. Infatti a partire dagli anni ’80 lo strumento del manuale inizia a subire un progressivo processo di scarto dai circuiti teorici e culturali, affermando sempre piĂš una natura specialistica, a tratti asettica, e riducendo in tal senso anche il ventaglio dei possibili lettori. Una prima ricognizione dei manuali sul

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re-cycle conferma come anche intorno a questo tema si siano consolidati approcci tecnicistici. I dibattiti ambientali-ecologici sempre piĂš accesi e gli orientamenti verso tecnologie sempre piĂš futuristiche hanno determinato la creazione di un vasto numero di manuali di riciclaggio architettonico, dove la questione è interpretata come riutilizzo degli scarti di svariati processi produttivi all’interno di progettazioni ex-novo, attraverso collezioni di sperimentazioni progettuali e brevetti (6XSHUXVH &RQVWUXFWLQJ 1HZ $UFKLWHFWXUH E\ 6KRUWFXWWLQJ 0DWHULDO )ORZV, a cura di van Hinte E., Peeren C., Jongert J., nai010 publishers, 2013). Gli esiti dei grandi progetti di recupero estesi nel tempo e nello spazio (aree industriali dismesse, tracciati ferroviari in disuso, piccoli paesi abbandonati, ecc.) che si sono realizzati nel corso degli ultimi decenni, sono diventati manuali intorno al tema del recupero, seguendo la logica del “fareâ€? guardando ed imparando dal “come si è fattoâ€?. L’onda del DIY (do it by yourself, cfr. Siegle L., 5HF\FOH 7KH (VVHQWLDO Guide, Black Dog Publishing, 2010 e Roberts J., 5HGX[ 'HVLJQV 7KDW 5HXVH 5HF\FOH DQG 5HYHDO, Gibbs M. Smith Inc, 2005) ha portato alla proliferazione di manuali che cercano un ponte fra strumenti formali e azioni informali, nell’intento di far applicare alcune delle strategie direttamente ai soggetti privati e farle arrivare ad una fetta piĂš ampia di popolazione, come nel caso del manuale A2 Green Guide che ha stabilito un accordo con la cittĂ di Ann Harbor per stampare e distribuire 10.000 volumi ai cittadini (http:// www.a2greenguide.com/index.html). La condizione di crisi contemporanea e l’affermarsi del segno “menoâ€? piuttosto che del segno “piĂšâ€? in architettura, sta ormai conducendo a dei manuali che lavorano sul tema della demolizione – in larga parte di matrice statunitense (Winkler G., 5HF\FOLQJ &RQVWUXFWLRQ 'HPROLWLRQ :DVWH $ /((' %DVHG 7RRONLW, McGraw Hill Professional, 2010) – dove molto spesso i promotori sono le stesse municipalitĂ come ad esempio il &RQVWUXFWLRQ 'HPROLWLRQ :DVWH 0DQXDO promosso dalla cittĂ di New York (Department of Design and Construction, City of New York, &RQVWUXFWLRQ 'HPROLWLRQ :DVWH 0DQXDO, 2003). Nonostante la varietĂ e la quantitĂ , gli attuali manuali intorno al tema del re-cycle segnano la persistenza di uno strumento che ragiona e funziona con logiche monodiscisplinari; le scale del progetto lavorano sulla grande dimensione e il dettaglio tecnologico, evidenziando un vuoto su ciò che sta nel mezzo; si lavora sugli oggetti scartati, piuttosto che sui processi entro cui si collocano gli scarti e sugli interi cicli di vita; i soggetti continua-

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no ad avere contorni molto sfumati, tralasciando le opportunità di azioni sinergiche. Allora forse per costruire un manuale sul tema del re-cycle diventa necessario in prima istanza ragionare sulla “distruzione” della logica granitica che caratterizza oggi questo strumento, con approcci troppo tecnicistici e asettici; provare a smontare la rigida monodisciplinarietà per recuperarlo come strumento in grado di essere territorio di confronto e ibridazione disciplinare, dove il progetto si intreccia con l’economia e il diritto, facendo emergere opportunità ma anche paletti; verificare l’opportunità di riciclare gli attuali manuali sul tema per reinventarne uno in grado di individuare orizzonti più ampi per intervenire su architetture, città, paesaggi.

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IL PUNTO DI VISTA DEGLI ASSESSORI

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IL TERRITORIO DEI RIFIUTI COME RISORSA PER LA RIGENERAZIONE URBANA Giovanni Caudo >Assessore alla Trasformazione Urbana di Roma Capitale

Rincorrere l'emergenza È l’emergenza a dettare la nostra agenda quotidiana. Rincorriamo l’emergenza perché alcune questioni non sono state affrontate e governate prima. Un esempio: stiamo coordinando un tavolo sulla delocalizzazione della Basf, una fabbrica che, secondo gli abitanti della zona, crea un forte impatto ambientale sul territorio. Ovviamente i dirigenti della fabbrica adducono altri dati. L’Amministrazione Comunale, dal canto suo, non ha mai regolato, dal punto di vista urbanistico, l’aspetto del rischio determinato o determinabile dalla fabbrica. Questione a suo tempo non governata ed oggi affrontata dall’attuale Giunta con l’approvazione di una variante al Piano Regolatore sul rischio di incidente rilevante necessaria perché il Piano Regolatore, fino ad oggi, non aveva una tavola che mostrasse la localizzazione sul territorio delle industrie nocive. Anche per il rischio idrogeologico, abbiamo una tavola dell’Autorità di Bacino sul rischio esondazione del Tevere e dell’Aniene che però dimentica altri tredici fossi importanti che attraversano il territorio romano nonché tutto il resto del sistema secondario dei canali superficiali e naturali che imbastiscono il territorio.

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1_ L'area delle caserme in via Guido Reni a Roma (Š 2014 Google).

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Nel passato sono stati dati condoni in zone a rischio idrogeologico perché non c’era una carta che indicava le aree di rischio e ci troviamo oggi a fare i conti con scelte urbanistiche e localizzazioni che, dallo studio e dalla mappatura che si stanno completando, vanno ad impattare in situazioni di sicura criticità. Inseguiamo l’emergenza e siamo spinti dall’esigenza di recuperare il terreno perduto quando vorremmo piuttosto imbastire un discorso di maggiore prospettiva. Mappe Altra mappatura a cui si sta lavorando, è la carta delle proprietà pubbliche della città di Roma che restituirà, tra le altre cose, le aree dismesse della Capitale. Da tale mappa si evincerà che nessuna caserma è dismessa e nessuna caserma è del Comune: quella di via Guido Reni siamo riusciti a prenderla mentre stava per sfuggirci. Un inciso, quest’ultimo, per sfatare una leggenda metropolitana. C’è anche un’altra carta dove abbiamo evidenziato le aree e gli immobili del centro storico che nei prossimi mesi cambieranno destinazione d’uso. Per esempio BNP Paribas – Bnl dismetterà diciotto immobili nel centro storico trasferendo la sua nuova sede alla stazione Tiburtina. Il cambio di destinazione d’uso di questi diciotto immobili, come quelli di altri soggetti che stanno contraendo la loro presenza nel centro storico, cambiano il volto della città. Il Piano Regolatore consente infatti di trasformare l’edificio in questione da ufficio ad albergo, ma in questo passaggio la Città non riesce ad intercettare alcun contributo straordinario sulla valorizzazione. Trasformazione che invece dovrebbe produrre qualcosa dal punto di vista pubblico. A guardare bene, la città è attraversata da un fenomeno esteso che oltre ai 18 immobili succitati investe i 116 siti militari e le aree pubbliche nei quartieri di edilizia economica e popolare. Si tratta del processo di trasformazione della città già costruita, fenomeno che oltre che esteso è prevalente rispetto alla dimensione del nuovo. Dovremmo, pertanto, abbandonare l’idea del nuovo come qualcosa che non esiste ed entrare nella logica del nuovo come esito della trasformazione di ciò che c’è. Approccio, quest’ultimo, con cui costruiamo, oggi, lo spazio che abitiamo. La mappatura dei siti in trasformazione non ha un carattere analitico come in passato. Oggi la mappatura è parte del progetto: nel momento

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in cui il nuovo è consustanziale al dato reale, la mappatura è già un progetto. È evidente l’elemento comunicativo delle mappe e la loro intrinseca rilevanza. C’è già un progetto in quella comunicazione, c’è già un vettore trasformativo. È essa stessa un’operazione di profonda modifica culturale. Dobbiamo cogliere il senso e il valore di questo passaggio: nel momento in cui noi comunichiamo con le mappe ciò che sta avvenendo, stiamo già indirizzando il progetto, il contenuto progettuale. Il riuso, la rigenerazione, la ristrutturazione, la riqualificazione, sono tutte categorie concettuali che dovremmo forse dismettere dal momento in cui quello che facciamo è nuovo a partire da quello che c’è. Mentre l’urbanistica del prefisso “ri-” spesso viene letta come una transizione tra l’urbanistica del nuovo e l’urbanistica della conservazione. Forse quello che dobbiamo pensare è il paradigma di una città in continua trasformazione, un nuovo paradigma di metabolismo urbano. La città e la sua natura La città ha una sua natura. La città del ‘900 aveva una natura prevalentemente razionale; era figlia dell’industria della fabbrica e della logica del suo efficientamento. Se si guarda la pianta di un fabbricato industriale dei primi del ‘900 e poi si guarda la pianta della città di Le Corbusier si scopre che il plan libre, il Piano tipo di una fabbrica era l’evocazione del Piano tipo della città che era una città completamente libera, attraversabile, su cui si inserivano gli edifici. Allo stesso modo, la pianta di una fabbrica mostra uno spazio quasi generico da poterci mettere dentro le macchine per la produzione. Oggi quello che abbiamo di fronte è diverso: ci spiazza perché non lo conosciamo e per conoscerlo abbiamo bisogno di nuove modalità di racconto. Qual è la rappresentazione della situazione odierna? Come nel film “Il tetto” di De Sica, nel quale dei manovali per costruire una casa abusiva vanno a raccogliere il materiale necessario in giro per la città – alcuni mattoni in un vicino cantiere, della pozzolana scavando in una cava abusiva – così oggi tutto ciò che serve è già a disposizione. Oggi, è come se avessimo superato il paradigma della fabbrica separata dalla città: rimettendo in circolo ciò che la città ha, la città è diventata fabbrica di se stessa.

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Una nuova sfida L’esperienza di questi pochi mesi all’Assessorato alla Trasformazione Urbana nel Comune di Roma mi ha mostrato un elemento di debolezza della cultura urbanistica e anche della cultura progettuale. Ciò che si è chiarito è il ruolo della amministrazione: oggi il presidio della trasformazione è la dimensione contrattuale, è il gestire i processi amministrativi. Eppure, per questa sfida, non siamo sufficientemente attrezzati. È nel modo di amministrare, di curare gli aspetti contrattuali con cui si gestisce il processo di questa trasformazione, la garanzia del risultato progettuale e non è nel progetto. Non esiste progetto se non c’è dietro una logica contrattuale precisa, misurata, specifica, presidiata fino alla virgola. In questo senso cambia anche il concetto di progetto. La vera questione che dobbiamo oggi affrontare è come il progetto si possa far carico di garanzie procedurali e attuative in grado di far sì che la trasformazione possa essere governata. Fondamentale è pertanto una struttura amministrativa in grado di lavorare in modo coordinato tra i diversi settori. La macchina amministrativa del Comune di Roma nel 2013 era ancora strutturata per settori rigidamente separati tra loro che ne determinavano una pesantezza con cui è stato ed è ancora difficile lavorare. La contrazione urbana Quello che stiamo descrivendo, dal punto di vista delle dinamiche, è una sorta di contrazione urbana: i processi di trasformazione della città hanno a che fare con un movimento di contrazione che non è una mera riduzione; è piuttosto uno stimolo muscolare che assimila e produce, genera un di più a partire da quello che c’è. Resta da capire in che modo governiamo questa dinamica, i diversi stimoli che la città può avere all’interno di questa trasformazione. Se si continua a pensare alla città o ai processi che avvengono in essa in modo settoriale e non sistemico, si rischia di sottrarsi ad una narrazione complessiva ed organica di quello che avviene all’interno della città così da rispondere esclusivamente agli stimoli immediati ed alle emergenze. La sfida è come, all’interno di una logica della trasformazione della città, questi processi possano essere condotti e come presidiarli da un punto di vista giuridico-amministrativo e definire quale utilità pubblica si costruisce nel processo di trasformazione della città.

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L’IMPRONTA INDUSTRIALE E SOCIOTECNICA DEL RIFIUTO: PER UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA Estella Marino >Assessore all’Ambiente, Agroalimentare e Rifiuti di Roma Capitale

Il riuso e la ri-funzionalizzazione degli edifici così come degli oggetti d’uso comune sono oggi tematiche centrali della ricerca e delle politiche sull’ambiente e sulla città. Anni di consumi veloci e cicli alternati di crescita hanno profondamente segnato il tessuto di quei sistemi complessi che sempre più frequentemente si trovano a fare i conti con gli scarti eccessivi dei cicli produttivi e di consumo. In questo contesto, mentre l’Europa volge verso una maggiore capacità di autogoverno delle città, è fondamentale chiedersi quali effetti questi scarti producano e quali azioni di riqualificazione sia possibile avviare per almeno due ordini di argomenti: per descrivere e rappresentare il nostro tempo, il nostro spazio e l’impatto delle nostre produzioni su essi e per sviluppare la capacità di pianificare guardando alle esperienze che attraverso il riciclo possono portare a nuova bellezza e qualità urbana. Riciclare, infatti, per quanto si configuri come un processo altamente tecnico, significa fondamentalmente rimettere in circolazione, reinserire nel ciclo produttivo oggetti e strutture che hanno perso un valore originario, squalificandosi agli occhi della collettività. Riciclare significa, dunque, rigenerare un valore agendo sui due poli del processo che in questo caso

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1_ Maurizio Alecci, Raccoglitore abbandonato nella campagna romana.

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sono ovviamente: i) il bene in questione e ii) la collettività che deve rivalutare quel bene. Oggi assistiamo ancora a uno scollamento nel rapporto con la collettività, manca spesso infatti proprio il rapporto con i territori perché paghiamo il prezzo di anni in cui le questioni della tecnica e dell’ingegneria non hanno trovato una sintesi e un colloquio con la pianificazione urbanistica. Anche per questi motivi sono apprezzabili percorsi di ricerca che sappiano approcciare al territorio tenendo insieme le due prospettive e facendo dialogare, inserendole in un concreto circuito, le ragioni socio-economiche e quelle tecniche. In questo senso i processi di trattamento dei rifiuti solidi urbani all’interno dei più ampi discorsi sulla riqualificazione ambientale e il recupero urbanistico sono più che un semplice accostamento. Il rifiuto, scarto dei cicli produttivi e di consumo, è un oggetto di cui tutti abbiamo concreta e quotidiana esperienza, ma si commetterebbe un grosso errore a banalizzarne i contesti di creazione, gestione e smaltimento. La gestione dei rifiuti e il grande tema dell’inquinamento ambientale sono infatti settori che potremmo definire “socio-tecnici”: dall’alto spessore tecnico e dall’impatto sociale e simbolico enorme. La gestione dei rifiuti, in particolare, è un tema altamente tecnico che si sviluppa in un contesto che deve essere considerato una dimensione complessa dell’industria a tutti gli effetti e, tra l’altro, con i rischi eventuali di infiltrazione, corruzione, illegalità che potrebbero ammorbare qualsiasi settore industriale. Numerose inchieste durante gli ultimi anni hanno portato allo scoperto l’enorme interesse che le associazioni criminali riservano per l’intero ciclo di gestione dei rifiuti e, statisticamente, sono gli impianti di smaltimento finale e i sistemi basati sulle discariche a essere più permeabili a questo genere di infiltrazioni mafiose e criminali. Occorre ribadirlo: è un settore industriale e come tale va trattato. Pianificare in questo settore non significa solo definire i criteri per regolare un modo semplice per liberarsi del sacchetto di spazzatura, né soltanto mettere a regime un servizio puntuale di raccolta e/o conferimento dei rifiuti, ma essere in grado di contestualizzare tutto ciò che avviene dopo la raccolta: il settore industriale che ne deriva e che può essere di recupero, di riciclo o di valorizzazione di materia o di energia. In questo specifico settore, dire no a ogni tipo di impiantistica industriale equivale a difendere tacitamente un sistema vecchio e non più pensabile,

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il sistema basato sulle sole discariche. Si tratta, come risulta evidente, ancora una volta di processi tecnici che però incidono sui territori, che coinvolgono diverse figure professionali, che per il loro successo hanno bisogno di una certa sedimentazione culturale e che, a loro volta, possono generare materiali di scarto e/o incidere sull’inquinamento ambientale. La gestione dei rifiuti, intesa come dimensione complessa dell’industria, consente di non banalizzare le questioni relative all’impiantistica che, come tutti gli assetti industriali, passa per la mappatura e la giusta rappresentazione dei territori. Solo questo genere di considerazioni possono consentirci di pianificare evitando di commettere gli errori di un passato in cui non ci si è interrogati abbastanza sull’impatto che l’addensare grandi concentrazioni di impianti in un unico territorio potesse avere sul territorio stesso dai tanti punti di vista ambientali, socio-economici e sanitari. Il giusto approccio passa anche per la riflessione sui beni comuni, attivando un processo di responsabilizzazione rispetto non solo all’ambiente naturale, ma al nostro contributo alla vitalità o al degrado di quell’ambiente poiché i costi esorbitanti di bonifiche, recupero ecc. sono spesso costi che ricadono sulle amministrazioni, e quindi sulla collettività, almeno fino a quando continuerà a essere difficile dimostrare chi ha inquinato e fargli pagare il dovuto. Rilevare e mettere nuovamente a valore, nell’ottica del riuso e del riciclo, comporta l’adozione di nuovi modelli di cultura passando, soprattutto in sede di studio e pianificazione, da una visione specialistica a una visione sistemica delle città e dei suoi cicli di vita. L’affermazione di una logica sostenibile di gestione del rifiuto può e deve essere ispirata alla triade riduzione-riuso-riciclo, cui ci richiama l’Europa, per definire e applicare gli strumenti che consentano di avviare nuovi cicli di vita per gli spazi cittadini e dare nuovo senso e nuova circolazione a quanto già esiste nei nostri territori, nelle nostre case, dare cioè nuova vita a ciò che è scartato o abbandonato, riducendo quanto più possibile i processi di produzione di rifiuti di qualunque genere. L’aspetto innovativo della condizione contemporanea risiede forse proprio nella consapevolezza e nella necessità di considerare strategica questa visione al tempo stesso ambientale e sistemica della politica per l’architettura, per la città e per i paesaggi. Gli amministratori, da parte loro, possono avvalersi oggi di preziosi strumenti di ricerca (come quelli presentati in questo volume) indispensabili per la crescita della consapevolezza che

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passa necessariamente per la ricerca, lo studio, la mappatura e la condivisione dei dati che servono all’azione amministrativa. A conclusione di questo breve intervento un solo accenno a un aspetto fondamentale anch’esso a lungo trascurato: dato l’intreccio di questo settore con le dinamiche culturali, le politiche socio-economiche e il forte impatto sul territorio, non è possibile immaginare di prescindere da un confronto intenso e fondante con la pubblica opinione e dunque, per quanto tecnico, tutto il settore necessita di comunicazione anche quando si sarebbe portati a pensare, erroneamente, che il lavoro e i suoi frutti siano in grado di parlare da soli e, da soli, raccontarsi alla collettività.

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IMBATTERSI NEI RIFIUTI Patrizia Gabellini >Assessore all'Urbanistica, alla Città Storica e all'Ambiente di Bologna

Premesse L’era dei rifiuti (per un aumento esponenziale della popolazione mondiale che si è associato alla cosiddetta civiltà dei consumi) e la utopia insita nel claim “rifiuti zero” sono, rispettivamente, un dato e una tensione che pervadono la condizione urbana contemporanea. Le tante, diverse manifestazioni cui danno luogo investono progressivamente le discipline, uscendo dai recinti settoriali e ponendo domande inedite alla ricerca e alla progettazione. Alberto Clementi ha opportunamente osservato che “sempre più spesso le disfunzioni del sistema dei rifiuti dilagano oltre i confini delle filiere specialistiche e degli spazi riservati” (Clementi A., Urbanistica sosteQLELOH H JHVWLRQH GHL UL±XWL, in «PPC», n. 25-26, 2014, p. 57). Un’altra premessa, ai miei fini necessaria, è il richiamo all’affermazione di Alan Berger, secondo il quale il rifiuto è inevitabile e va progettato (Arici F., Conversazione con Alan Berger, Ibidem, pp. 110 e segg.). Ovviamente il progetto assume tante forme quante sono le dimensioni del tema cui si applica. Come spesso accade, l’arte ha avuto un ruolo anticipatorio e, nelle sue diverse espressioni, si è andata progressivamente trasformando in un’arte

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di riciclo (per materiali, tecniche, processi, concetti…) attraverso uno straordinario e innovativo percorso di recupero, rilavorazione e ibridazione. L’architettura e l’urbanistica sono arrivate all’appuntamento trovando studi e proposte specialistici maturi a più livelli, indispensabili gli uni agli altri e nel contempo separati. Poiché architettura e urbanistica hanno il loro cuore nella “composizione”, ad ogni fondamentale cambiamento di rotta devono precisare lo spazio di connessione che spetta loro e individuare le relazioni con altri campi scientifici ed operativi. Queste premesse, benché sincopate, mi aiutano a dare un ordine, spero anche un senso, all’esplorazione del tema che mi è toccata nella mia esperienza di assessore all’Urbanistica, alla Città Storica e all’Ambiente: la prima relativa al ciclo dei rifiuti (dalla raccolta, al recupero/riutilizzo, al riciclo/smaltimento); la seconda relativa alla contaminazione temporanea o permanente dei suoli, quindi al loro risanamento e riuso. In entrambi i casi mi sembra di poter dire che il salto di scala (quella pervasività del problema che ci può far parlare di un’era dei rifiuti) ha annullato la “giusta distanza”. La possibilità di allontanare e allontanarsi dai luoghi dei rifiuti non è più una risposta facilmente praticabile per l‘estensione del territorio interessato e la sua contiguità con quello abitato. “Oggi ritrovare queste condizioni di separazione e distanza è diventato sempre più difficile. È solo una questione di tempo, ma progressivamente ogni territorio tocca il suo momento di crisi nella possibilità di individuare nuove aree per discariche di rifiuti sostanzialmente indifferenziati, come avviene ancora oggi in molte parti d’Italia” (Zanchini E., Il territorio dei ri±XWL, Ibidem, p. 39). Se per discariche, inceneritori e termovalorizzatori il conflitto riguarda la scelta localizzativa, per suoli e immobili inquinati il motivo di conflitto è dato dalla frammistione forzata. Raccolta e qualità urbana La presenza dei cassonetti su strada, dedicati alla raccolta (indifferenziata) dei rifiuti nel centro storico di Bologna, si è imposta immediatamente all’attenzione a causa della sua relazione evidente con pulizia insoddisfacente e alcune forme di degrado. Quindi non solo per un ritardo imperdonabile nella raccolta differenziata (ferma nel 2011 al 17%), ma anche perché i cassonetti, ingombranti e incongrui, ostruivano uno spazio pubblico pregiato, diventando spesso pretesto per l’abbandono di rifiuti, perfino di grandi dimensioni, nelle loro vicinanze, e talvolta anche oggetto di perlu-

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strazione da parte dei nuovi scavengers alla ricerca di quanto recuperabile. Se questi ultimi sono ancora episodi isolati ed estremi, indubbiamente emergono “diffusa sciatteria e degrado degli spazi pubblici, strade, piazze e altri spazi aperti” (Clementi A., op. cit., p. 59), esito combinato di un iper-utilizzo della città da parte di popolazioni con esperienze, sensibilità e culture molto diverse, della presenza importante di popolazioni temporanee che ignorano le regole locali, del diffondersi tra i giovani di stili di vita assai invasivi (a fronte dei 53.000 residenti, nel centro di Bologna ci sono 20.000 abitanti presenti, 45.000 visitatori occasionali e 65.000 persone che entrano ogni giorno per motivi di studio e lavoro). Che il fenomeno sia tipicamente metropolitano viene avvalorato dai dati sulla raccolta differenziata nelle città metropolitane (mediamente attorno al 37%) e dalla maggiore facilità con la quale si raggiungono risultati eccellenti nelle città più piccole e nei centri minori (fino al 90%) dove la componente stabile della popolazione è dominante, quindi è presente e diffuso un sentimento di affezione e cura per il territorio, e dove persiste una consuetudine di parsimonia. Benché siano in molti a sostenere che si tratta di un problema di cultura prima ancora che di corretto funzionamento dei servizi deputati alla gestione dei rifiuti, per cui è necessaria un’attività impegnativa di informazione e sensibilizzazione, a Bologna si è ritenuto necessario partire dalla progettazione e realizzazione di un sistema di raccolta che si conciliasse con le caratteristiche fisiche dei luoghi, accompagnata da un attento monitoraggio dei modi d’uso e delle criticità. Peraltro si è ormai affermata l’idea che vada costruito un servizio di raccolta “a misura di”, che sia cioè necessario combinare le soluzioni che possono avere maggiore successo in un determinato contesto fisico e sociale (configurazione, densità di popolazione, tipi di abitanti). A Bologna la progettazione della raccolta differenziata in centro si è incardinata in un programma per la pedonalità, diventando fattore importante del processo di riqualificazione dello spazio pubblico (Di Nuovo in centro. Programma per la pedonalità a Bologna, Quaderno di Urban Center Bologna, 2014). Obiettivo fondamentale: recuperare spazio e ripulirlo per poterne effettivamente godere. L’operazione è consistita nell’avvio, nella primavera del 2012, di una tradizionale raccolta domiciliare a sacchi di carta e plastica, con la messa a punto di un servizio specifico per il cartone presso le centinaia di esercizi

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commerciali presenti in centro, e nella concomitante progettazione di un sistema di mini-isole ecologiche interrate per i rifiuti sporchi e pericolosi: organico e vetro. La presenza diffusa di reperti archeologici e l’estensione delle tutele architettoniche e storiche hanno comportato un lavoro importante di progettazione, a partire dall’individuazione di una profondità dei cassoni di soli 2 metri, tale da escludere (almeno presuntivamente) la presenza di resti romani ed etruschi, con la seguente puntuale selezione dei luoghi ove collocarli (verificata attraverso altrettanti rendering con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici), la programmazione temporale degli interventi prevedendo una compresenza massima di cinque cantieri attivi, una progettazione delle torrette di conferimento dei rifiuti attenta alle diverse forme di vandalizzazione riscontrate nel tempo. Un lavoro che ha investito diversi settori dell’amministrazione comunale in collaborazione con Hera, la società che gestisce il servizio, e che comporta un monitoraggio e continui aggiustamenti data l’estensione degli interventi e il loro impatto su una parte di città tanto delicata e affollata. Un’opera di infrastrutturazione che comporta investimenti per diversi milioni di euro e che dovrà concludersi entro la prima metà del 2016. In accompagnamento ai cantieri che stanno realizzando le 140 mini-isole interrate nei 400 ettari della città, è partita una campagna di sensibilizzazione per la raccolta differenziata che utilizza diversi canali di massa, tra i quali manifesti stradali e radio, anche questi pensati per una popolazione urbana assai composita. Raccolta e ciclo dei rifiuti Se il palese e specifico intreccio con la qualità urbana è stato il motore delle azioni intraprese nel centro di Bologna, attivando parte delle mie competenze di urbanista e architetto, l’impegno per incrementare in maniera sensibile la raccolta differenziata, con l’obiettivo di raggiungere il 50% nel 2017, ha comportato la conoscenza dei principali nodi che caratterizzano il ciclo dei rifiuti e che mettono in gioco competenze differenti dalle mie. In particolare, la partecipazione del Comune di Bologna al confronto sul Piano regionale di gestione dei rifiuti che la Giunta della Regione Emilia Romagna, ai sensi del Decreto Legislativo 152 del 2006, ha deliberato il 3 febbraio 2014, ne costituisce un’importante occasione di approfondimento. Mi limiterò a richiamarli sinteticamente.

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a. La raccolta differenziata presuppone il recupero per ottenere la materia seconda, quindi diventa rilevante il funzionamento delle filiere del riciclo. Il rinnovo del contratto dell’ANCI con il Consorzio nazionale costituito dalle imprese utilizzatrici e produttrici di imballaggi (CONAI), appena concluso, è stato faticoso e ha dato risultati ancora insoddisfacenti per i Comuni (la media degli incrementi pattuita è del 15,65%), considerando che il riconoscimento ai Comuni della quota derivante dalla valorizzazione dei rifiuti è una delle voci che contribuiscono a ridurre la tassa sui rifiuti (TARI), tassa che deve garantire il pareggio con i costi della raccolta. Trattandosi di un accordo, esso riflette evidentemente i rapporti di forza tra le parti, tanto più sfavorevoli per i Comuni quanto più concentrata è la filiera. In altri termini, il rinnovo del contratto CONAI ha portato in evidenza sia il valore della risorsa rifiuto sia il conflitto sull’appropriazione del valore (Consorzi vs. Comuni e comunità insediate, produttrici di quei medesimi rifiuti). b. Lo smaltimento della quota residua di rifiuto dopo il trattamento differenziato pone almeno due questioni: una relativa alla soglia di recuperabilità raggiungibile (tensione verso rifiuti-zero) e l’altra relativa ai modi dello smaltimento e agli impatti connessi. Il confronto sulla prima riguarda la tecnologia utilizzata per la cernita e, quindi, il rapporto costi/benefici dei sistemi che puntano al recupero spinto come quelli di Trattamento Meccanico Biologico. Il confronto sulla seconda questione dà già per scontata la necessaria eliminazione delle discariche, ma resta ancora ampiamente irrisolto sulla prospettiva di inceneritori e termovalorizzatori. In particolare, data la ineguale distribuzione degli impianti esistenti sul territorio nazionale (una cinquantina, tutta concentrata nelle regioni settentrionali), la diversa età e i livelli di prestazione, definire il bacino di conferimento e condividere criteri e tempi di smantellamento degli impianti obsoleti e inquinanti sono nodi cruciali. Le Regioni e lo Stato non si trovano ancora allineati sulle scelte da fare. La maturazione di una strategia sul futuro dei termovalorizzatori è certamente trattenuta dal convincimento che bruciare rifiuti costituisca una fonte importante di produzione energetica alternativa. Di nuovo siamo di fronte ad una alternativa che, da un lato, richiede conoscenze approfondite, dall’altro, la capacità di decidere pur sapendo quanto siano radicati i sistemi di valori che si oppongono.

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c. Gli impatti ambientali connessi alle lavorazioni di trattamento e smaltimento dei rifiuti accendono il conflitto. Nessuno vorrebbe vicino a sé gli impianti dedicati e questo richiama il tema della governance: chi decide e come. I Comuni, direttamente sollecitati dai cittadini, hanno uno spazio decisionale limitato, prevalentemente circoscritto alla possibilità di opporre e gestire un veto, e cercano attraverso l’ANCI (ora più che mai, a seguito della eliminazione delle Province) di vedersi riconosciuto un effettivo diritto interlocutorio. Si propone in altri termini la questione del bacino, ovvero dell’ambito (o degli ambiti) entro cui possa essere effettivamente esercitata la responsabilità. Una chiara individuazione dei livelli decisionali in relazione alle diverse geografie del ciclo dei rifiuti richiede piani e programmi che nel nostro paese stanno tardando. d. La riduzione dei rifiuti a monte (risparmiando negli imballaggi e progettando prodotti riciclabili e biodegradabili, incentivando l’uso dei materiali da demolizione edilizia anziché dei materiali cavati per molte azioni di ripristino ambientale, ad esempio) e la riduzione dello spreco a valle (con attività come quelle promosse dall’Associazione denominata “Sprecozero.net”, Rete Nazionale degli Enti Territoriali contro lo spreco), sono percorsi faticosi per i tanti livelli di impegno che comportano, ma sono indispensabili per la sostenibilità del ciclo. Riuso vs. nuovi suoli La questione dei suoli scartati, drosscapes (Gasparrini C., Unhappy Drosscapes in Campania Felix, in «PPC», n. 25-26, 2014), impatta immediatamente col fare urbanistica, ne costituisce la condizione di profondo e ampio rinnovamento. “Negli Stati Uniti tutto ciò ha comportato la fine dei piani di riqualificazione urbana. Nel 2011 il Governatore della California ha chiuso le Agenzie di Riqualificazione in tutto lo Stato. Anche i programmi federali di finanziamento dell’Urban Housing sono stati tagliati drasticamente. Costruire per un futuro fiorente è stato per troppo tempo il pensiero fisso dei burocrati e in buona parte lo è ancora oggi. Eppure, in molte città sono in azione i bulldozer su vaste aree di abitazioni vuote. In Germania le città come Lipsia, piuttosto che accrescere la densità urbana, stanno riducendo l’edificato per aumentare invece gli spazi aperti. (…) È fondamentale per i progettisti considerare il declino dei luoghi e farli morire con dignità quando ciò può coincidere con strategie di sviluppo e crescita. Sempre più spesso i progettisti saranno chiamati a gestire processi di deperimento

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e le conseguenze dei disastri ad essi legati. L’argomento è, o dovrebbe essere, di centrale importanza nella pianificazione” (Southworth M. e S., 3LDQL±FD]LRQH GHOOD FLWWj H VSUHFR XUEDQR, Ibidem, pp. 84, 97). Il riferimento alla situazione statunitense, dove i fenomeni di dismissione hanno assunto dimensioni macroscopiche già molti anni fa, sollecita un investimento strategico sulla eccedenza dell’offerta di suoli urbanizzati per una eventuale rigenerazione e sulla loro qualità, aspetti da considerare assieme. A Bologna il PSC approvato definitivamente nel 2008 ha fatto già una scelta decisa a favore del recupero di aree dismesse, potendo anche contare su un Piano unitario di valorizzazione (PUV), sottoscritto nel 2007 con il Demanio dello Stato, basato su un piano di fattibilità. Concepito quando era in atto il ciclo edilizio più espansivo del dopoguerra, il PSC prendeva tempestivamente atto dello spreco di suolo e dei problemi di degrado indotti dalla dismissione, ma includeva anche aree di nuova urbanizzazione, pur ridimensionando in maniera consistente precedenti previsioni. Oggi, dunque, si dispone di strumenti urbanistici che riconoscono la necessità di rigenerare i drosscapes, ma si rileva la competizione con previsioni di urbanizzazione “alla vecchia maniera”, sulle quali si sono susseguite operazioni di compravendita e di accreditamento bancario. L’imposizione su queste aree della tassazione, prima IMU poi ICI (nonostante l’abbattimento riconosciuto dall’Amministrazione in virtù della particolare natura del PSC che, a differenza del PRG, non conferisce diritti edificatori), ha consolidato nel tempo le aspettative dei proprietari rendendo estremamente complessa quella “cancellazione” che sembra la conseguenza più ovvia dell’eccedenza di offerta (si veda il Bando esplorativo “Eliminazione di aree edificabili di nuova urbanizzazione dagli strumenti urbanistici vigenti” deliberato dalla Giunta del Comune di Faenza l’11/2/2014). Peraltro, il ridimensionamento non congiunturale dell’attività immobiliare, che ha prodotto la gravissima crisi del settore edilizio, prospetta la necessità della riconversione verso altre attività delle costruzioni, in quanto anche la rigenerazione di tutte le aree dismesse produrrebbe una offerta eccessiva. In termini aggregati, la disponibilità di suoli urbanizzati inclusi nel PSC ha da sola una capacità che supera le possibilità di assorbimento da parte del mercato, senza considerare il nuovo che ancora non ha trovato collocazione e giace invenduto. Sempre in termini aggregati, qualsiasi ulteriore urbanizzazione di suoli agricoli

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appare irragionevole, pura operazione finanziaria. La condizione di Bologna non è certamente unica. Se questo è il responso difficilmente controvertibile di un bilancio quantitativo, resta il fatto che i suoli hanno una collocazione nella città con accessibilità, servizi all’intorno, condizioni proprie differenti le une dalle altre che rendono necessarie valutazioni comparate, selezioni basate su una significativa serie di indicatori. La ritrazione del suolo urbanizzabile è un programma che va accompagnato con strumenti da adeguare e nuove regole da individuare. Non può trattarsi di tagli lineari, basati deduttivamente su poche regole elementari, va interpretato il concetto di consumo “netto” di suolo. Occorre un lavoro di riprogettazione che tenga anche conto del fatto che non tutti i suoli già urbanizzati si prestano ad essere riusati, che alcuni possono essere rinaturalizzati e altri perfino abbandonati, che anche per quelli candidati alla rigenerazione vanno considerati tempi più o meno lunghi e individuati usi temporanei adatti alle caratteristiche dei suoli e degli eventuali immobili. Tra le variabili va incluso lo stato di compromissione. I suoli da recuperare sono spesso inquinati e il recupero pone problemi particolari (con quali tecniche e costi) a seconda delle sostanze inquinanti, della loro estensione e profondità, dei rischi per la salute, ecc. Diventa, allora, estremamente importante il censimento e la conseguente costruzione di mappe volte a identificare, possibilmente perimetrare, i siti e la loro distribuzione sul territorio: mappe dei luoghi per tipo e diffusione degli inquinanti; mappe degli intorni e degli impatti; mappe delle filiere; mappe degli attori coinvolti e coinvolgibili. E con la localizzazione servono schede descrittive delle correlazioni significanti, tali da indirizzare la eventuale, costosa, caratterizzazione. La costruzione a Bologna di un piano di bonifica dall’amianto, a valle di una prima mappatura limitata alle parti visibili, mostra la gamma di questioni da affrontare. Pur disponendo di una legislazione europea e nazionale, di linee guida già predisposte dalla Regione, si prospettano anni di lavoro, processi complessi e procedure in parte da istruire. Verifica e valutazione dello stato di inquinamento, progettazione della bonifica, sua esecuzione, manutenzione e controllo scandiscono un impegno che occuperà qualche decennio. Si tratta solo di un esempio, ma credo utile per far crescere la consapevolezza del compito che abbiamo di fronte e per sollecitare attività competenti e specificamente applicate. “Etico (…) non è l’atteggiamento

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che guida la nostra prassi, ma quello che ci impone di non chiudere gli occhi e di riconoscere ambiti di necessità a cui dare una risposta. (…) Gli strumenti urbanistici si sono molto affinati e sono diventati più flessibili, negli ultimi vent’anni, per rispondere al senso di trasformazioni che sembrano incontrollabili. Di fatto, però, la loro ingovernabilità non è un’invenzione di architetti e sociologi molto disinvolti, ma dipende dall’alto grado di tecnicizzazione di tutti i nostri dispositivi sociali. (…) Ogni regola, ogni provvedimento preso per tamponare gli avvitamenti di questi processi circolari ha l’aspetto di una forzatura: è un provvedimento d’eccezione che ha bisogno di essere sempre riconfermato, pena la sua rapida decadenza. Proprio come avviene nel lavoro di Sisifo della regolamentazione urbanistica” (Gregory P., Conversazione con Stefano Catucci, Ibidem, pp. 169, 177). Mi sembra una buona conclusione.

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DROSSCAPES E BENI COMUNI Carmine Piscopo >Assessore alle Politiche Urbane, Urbanistica e Beni Comuni di Napoli

Ibridazioni vegetali, deserti che avanzano, nuove nature. Se l’uomo è in movimento, per effetto del suo stesso viaggio, lo è anche la natura, secondo una relazione che include il cambiamento. Se da questo incontro si sono generati nuovi paesaggi, e con essi un’euforia di progetti tesi a interpretarne il campo semantico, dentro questo stesso viaggio abbiamo visto l’emergere di dinamiche diasporiche, di flussi globali, di nature profondamente mutate per effetto della mano dell’uomo. Geocittà, aggregazioni antropiche, nuove geografie come nuove immagini del pianeta: dagli Stati Uniti d’America agli iperterritori della Catalogna, alla road-map per l’Europa del 2050, una stagione di Atlanti, che ha attraversato i primi dieci anni del Duemila, prova a descrivere relazioni sinora considerate non misurabili, con l’obiettivo di mostrare in filigrana dinamiche che hanno altre origini. Un racconto fatto di mappe, di indici, di diagrammi, di figure, di immagini inedite portatrici di una razionalità profonda e trasformatrice. Un’esposizione, che se da un lato estende il proprio campo applicativo verso immagini di un mondo diagrammatico sempre più proiettato verso scenari da “disegno globale”, dall’altro sempre più guarda alle discussioni che investono le discipline antropologiche.

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1_ Giambattista Reale, Territori dell'abbandono.

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Così, gli stessi autori di un lessico per il paesaggio scoprono oggi l’urgenza di decrittare il linguaggio di un pianeta in movimento, la cui istantanea non porta la firma dei grandi della terra. Da luogo della relazione e del movimento (Lassus B., Berque A., Donadieu P., Conan M., Roger A. e altri, La Mouvance, cinquante mots pour le paysage, La Villette, Paris 1999), il paesaggio diviene così emblematica connotazione di nuove immagini che si nutrono del cambiamento (Koolhaas R., Boeri S., Kwinter S. e altri, Mutations, Actar, Barcelona 2001). È dall’interno di queste dinamiche, fatte di flussi migratori, di masse che attraversano il pianeta, che i drosscapes, come territori urbani prestati a pratiche cumulative di produzione, disegnano nuovi confini, spazi di prossimità e nuove distanze sociali. Come pratiche che misurano distanze, tra le politiche collettive di produzione e le politiche collettive di consumo, cibo e rifiuti, qui, nei drosscapes, si toccano. Come estremi di un logoramento collettivo di uguaglianze, di diseguaglianze, di modi di fare e di sentirsi comunità. Così, visti da qui, gli scarti rappresentano un’occasione importantissima. Per parlare non solo di contaminazione di paesaggi, quanto, anche, di politiche di inclusione, di esclusione, di confini e di prossimità, di politiche produttive di nuova socialità. E, ancora, di democrazia e di nuovi “oggetti antropologici”. Analogamente, in tema di diritto, il territorio dei rifiuti, e con esso la produzione di terra, consente oggi di provare a formulare un uso diverso delle nostre conoscenze, misurando la rottura del legame tra la logora definizione di “bene pubblico” (retrospettivamente ancorato al concetto di reddito economico) e la categoria del “bene comune”, nella cui sfera si sonda l’idea del reddito sociale. Un discrimen che è già frattura, distanza, che colmeremo solo il giorno in cui sanciremo per davvero che il nostro paesaggio, e con esso la terra e tutto ciò che ne consegue, è un bene davvero di tutti, la cui sfera va sottratta all'uso esclusivo e legata al pieno diritto di cittadinanza. Se l’ambiente è un “bene giuridico in senso proprio”, come afferma Paolo Maddalena, anche i processi, le reti e i luoghi dello scarto, come afferma Roberto Secchi, appartengono allora a un’estensione e a una complessità che dovrà essere oggetto di una progettazione integrata, che tenga conto di figure amministrative e di realtà istituzionali di cui è fatto il territorio. Non, dunque, solo figure di paesaggio, quanto, piuttosto, un progetto in-

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tegrato, calato dentro figure amministrative, istituzionali e giurisdizionali, come realtà procedurali in movimento che costituiscono il presidio della trasformazione. Superati i temi più noti dello spreco, del consumo di suolo, delle biodiversità e delle sostenibilità, degli orti sociali (più che civici) e dell’agricivismo, della democrazia partecipativa e del quartiere “intelligente”, come dell’ingegneria “intelligente” e del condominio “intelligente” (come un brand di produzione di qualsiasi cosa, purché sia “intelligente”), e, ancora, dell’orto di Michelle Obama, come dei tetti verdi del Piano di New York come del Piano di Chicago, tutto intriso di spazio pubblico collettivo a emissioni zero, i drosscapes si muovono come territori dinamici che uniscono cibo e pratiche collettive di produzione, di consumo, di mappe di confini che variano e, con essi, per dirla con Salvatore Veca, è la mappa del “noi” che varia. Se davvero viviamo in una società liquida, e se i drosscapes si comportano allo stesso modo, avremo allora bisogno di “pietre” alle quali ancorare i nostri ragionamenti. È, qui, che la categoria dei “beni comuni”, intesi quali beni funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali delle persone, diviene centrale. Non solo come bene accessibile, fruibile, condivisibile, disponibile alla realizzazione di usi civici per le collettività insediate e in cammino, essa si dispone come un oggetto giuridico che rientra al centro di un’azione amministrativa, qualificandosi come bene sottratto alla parzialità dell’uso esclusivo e, per il nostro discorso, del mancato uso sociale. Con questo spirito, il Comune di Napoli, nel 2011, ha modificato il proprio Statuto, introducendo, tra le finalità, gli obiettivi e i valori fondamentali della Città di Napoli, la categoria giuridica del “bene comune”. Ancora, nel 2012, ha approvato il Regolamento delle Consulte per la Disciplina dei beni comuni, quali beni di appartenenza collettiva, fissando nei punti della delibera del 18 gennaio 2013 i Principi per il governo e la gestione dei beni comuni della Città di Napoli. Ha così poi istituito, nel 2013, l’Osservatorio dei Beni Comuni, il cui lavoro ha portato a varare due nuove delibere aventi in oggetto le procedure per l’individuazione e la gestione collettiva dei beni pubblici, come dei beni privati che possano rientrare nel pieno processo di realizzazione degli usi civici e del benessere collettivo. Un percorso, questo, le cui radici affondano nel recepimento e nell’approvazione da parte del Comune della Convenzione di Aarhus, divenuta in seguito par-

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te essenziale del Regolamento del Consiglio comunale. Dove, ancora, si sancisce la condanna della pianificazione autoreferenziale, come di ogni forma astratta di previsione urbanistica che non fondi sulla partecipazione diretta e sul diritto democratico all’uso dello spazio pubblico, luogo di espressione dei bisogni autentici delle collettività, di produzione di stili di vita e di nuove economie. È lungo questi assi, che tengono insieme pianificazione non autoreferenziale, rottura del concetto di bene pubblico per nuovi usi civici, necessità di legare confini e distanze sociali con le nuove figure della contaminazione e con le realtà istituzionali e amministrative, che si dispone il territorio dei rifiuti. Non come un assioma che lega esclusivamente il territorio al suo progetto, quanto, piuttosto, come una sfida che ci sollecita al superamento di ruoli precostituiti.

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Finito di stampare nel mese di luglio del 2014 dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.» 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma

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AAAAAA Il territorio degli scarti e dei rifiuti è l’ottavo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell'omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell'Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l'esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. La ricerca è fondata sulla volontà di far cortocircuitare il dibattito scientifico e le richieste concrete di nuove direzioni del costruire, di palesare i nessi tra le strategie di ridefinizione dell'esistente e gli indirizzi della teoria, di guardare al progetto quale volano culturale dei territori.

Il territorio degli scarti e dei rifiuti affronta una realtà misconosciuta, del tutto trascurata dal piano e dal progetto, eppure sempre più dominante rispetto al territorio e al paesaggio ufficiali. I contributi raccolti nel volume esplorano questo tema secondo punti di vista differenti, mettendo a confronto il mondo della ricerca con quello delle amministrazioni locali. Obiettivo comune delle riflessioni è immaginare nuovi metabolismi urbani nei quali una gestione responsabile di scarti e rifiuti, come dei cicli di produzione e consumo, possa divenire elemento imprescindibile per un’auspicata rigenerazione dei territori nella città contemporanea.

ISBN

euro 20,00

978-88-548-7406-0


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