Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture del paesaggio trentino

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La ricerca dell’Unità Locale di Trento Smart Re-cycle. Strategie di riciclo per le architetture e la città distesa affronta il ripensamento di materiali e di spazi in cui la contemporaneità mostra chiari segni di crisi, riconsiderando la questione del consumo di risorse per una trasformazione ecologicamente orientata. I tre saggi raccolti costituiscono singoli approfondimenti del re-cycle sviluppati a partire dagli interessi delle varie discipline coinvolte. Il primo affronta la tematica del re–cycling partendo dagli esiti sedimentati dei progetti di dispersione insediativa e, insieme, sottolinea l’esigenza di dare un nuovo ruolo e una nuova immagine ai luoghi in crisi, con l’idea che il Piano debba portare all’integrazione fra processi insediativi e processi naturali, riconsiderando in questa chiave il tema del consumo del suolo. Il secondo approfondisce le strategie del progetto di re–cycle architettonico applicato a edifici e a tessuti insediativi del recente passato – in uso, sotto utilizzati o abbandonati – che si presentano come unità morfologiche indipendenti dotate di relazioni interne autonome solo debolmente legate alla città e caratterizzate dalla bassa qualità tecnologica dei manufatti e dalla bassa articolazione o intensità spaziale. Il terzo indaga le potenzialità e l’attualità del re-cycle tecnologico analizzando la normativa esistente, studiando metodi di valutazione degli effetti dei materiali sull’ambiente, individuando e sviluppando casi di studio caratteristici e specifici, e infine procedurando modalità produttive per intervenire nel recupero di costruzioni in quota a impatto quasi zero. isbn

978-88-548-9906-3

Aracne

euro 19,00

Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture del paesaggio trentino

Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture del paesaggio trentino è il trentaquattresimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Recycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione.

34 NUOVI CICLI DI VITA PER ARCHITETTURE E INFRASTRUTTURE DEL PAESAGGIO TRENTINO



NUOVI CICLI DI VITA PER ARCHITETTURE E INFRASTRUTTURE DEL PAESAGGIO TRENTINO

CLAUDIA BATTAINO GIORGIO CACCIAGUERRA MAURIZIO COSTANTINI VINCENZO CRIBARI CORRADO DIAMANTINI ANDREA REVOLTI STEFANIA STANISCIA LUCA ZECCHIN

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Autori: Claudia Battaino, Giorgio Cacciaguerra, Maurizio Costantini, Vincenzo Cribari, Corrado Diamantini, Andrea Revolti, Stefania Staniscia, Luca Zecchin Copyright © MMXVI Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale www.gioacchinoonoratieditore.it info@gioacchinoonoratieditore.it via Sotto le Mura, 54 00020 Canterano (RM) (06) 45551463 ISBN 978–88–548–9906–3 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: Dicembre 2016


PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università degli Studi di Trento Giorgio Cacciaguerra [PO] Coordinatore dell'Unità Locale Maurizio Costantini [PO] Corrado Diamantini [PO] Claudio Lamanna [PAC] Giuseppe Scaglione [PAC] Claudia Battaino [PA] Vincenzo Cribari Cristina Mattiucci Andrea Revolti Chiara Rizzi Stefania Staniscia Luca Zecchin

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INDICE

INTRODUZIONE Era ora. 40 anni di mancato Re-cycle Giorgio Cacciaguerra

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RE-CYCLE TRENTINO Re-cycle. Un'esperienza alla scala di territorio: il tratto della Valle dell’Adige a nord di Trento Corrado Diamantini, Vincenzo Cribari, Stefania Stanisica

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Re-cycle Design. Implicazioni di un concetto per l’architettura e la città Claudia Battaino, Luca Zecchin

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Aspetti tecnologici del Re-cycle Maurizio Costantini, Andrea Revolti

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INTRODUZIONE

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I luoghi della futura rigenerazione urbana come attrezzature universitarie Area ex CTE e barchesse di Palazzo delle Albere a Trento, 2015

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ERA ORA. 40 ANNI DI MANCATO RE-CYCLE Giorgio Cacciaguerra Coordinatore dell'Unità Locale

> UNITN - DICAM

In occasione delle prime riunioni delle Unità Locali del Programma di Ricerca Scientifica di Rilevante Interesse Nazionale “RECYCLE ITALY. Nuovi cicli di vita per architetture ed infrastrutture della città e del paesaggio” ricordo la viva discussione in merito al titolo. L’obiettivo era quello di chiarire se il termine fosse il più idoneo ad indicare le infinite sfaccettature che il tema doveva comprendere. Si parlò molto della differenziazione del termine re-cycle rispetto ad altri sinonimi ed affini e di come esso dovesse essere il meno riduttivo, così da raccogliere e comprendere altri significati affini quali la rigenerazione, il riuso, la rifunzionalizzazione, ecc. Si ricercava un sostantivo unico ed incisivo applicabile variabilmente al territorio, ai siti urbani, all’edificato ed alle singole cose. Ogni ricercatore trentino, nelle riunioni di progressione della ricerca, si è orientato verso quella sfaccettatura del tema maggiormente coerente con gli interessi del settore scientifico disciplinare. La varietà, in conseguenza risultata, è frutto della necessaria interdisciplinarietà didattica e del variegato interesse culturale proprio del Corso di Laurea di Ingegneria Edile-Architettura. Il gruppo di ricerca ha giustamente affrontato la vasta tematica riconducendo i singoli approfondimenti agli interessi della propria

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disciplina. Così architetti, ingegneri, urbanisti, pianificatori, ambientalisti, paesaggisti, compositivi, recuperatori, restauratori, ed altri ancora, si sono applicati rispetto ad una libertà relativa conseguente all’approfondimento di settore. Ne è nata un’interessante e diversificata ricerca, testimoniata da più risultati editati e fra questi alcuni qui riportati. Appare tuttavia corretto trasferire alcune note riguardo ai saggi contenuti in questo volume. Il primo, come ricorda il prof. Corrado Diamantini, ha affrontato la tematica del “re-cycling”, assumendo come materiali progettuali gli esiti sedimentati dei progetti di dispersione insediativa e, insieme, sottolineando l’esigenza di dare un nuovo ruolo ed una nuova immagine ai luoghi in crisi. L’attenzione era rivolta al fatto che questa operazione non si risolvesse soltanto nell’adattamento a qualsivoglia funzione e neppure nella composizione di un collage di singoli interventi progettuali slegati tra loro. Si è cercato poi di evidenziare che il Piano dovrebbe portare all’integrazione fra processi insediativi e processi naturali, riconsiderando in questa chiave il tema del consumo del suolo. Il secondo saggio, come sottolinea la prof. Claudia Battaino, ha inteso approfondire le strategie del progetto di “re-cycle architettonico” applicato ad edifici ed a tessuti insediativi del recente passato - in uso, sotto utilizzati o abbandonati - che si presentano come unità morfologiche indipendenti, dotate di relazioni interne autonome, solo debolmente legate alla città, caratterizzate dalla bassa qualità tecnologica dei manufatti e della bassa articolazione o intensità spaziale. Il terzo saggio, come evidenzia il prof. Maurizio Costantini, ha indagato le potenzialità ed attualità del “re-cycle tecnologico” di materiali analizzando la normativa esistente, studiando metodi, in varia misura oggettivi, di valutazione degli effetti dei materiali sull’ambiente, individuando e sviluppando casi di studio caratteristici e specifici, ed infine procedurando modalità produttive per intervenire nel recupero di costruzioni in quota ad impatto quasi zero.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA RICERCA “RI.U.SO. RIGENERAZIONE URBANA SOSTENIBILE” Senza dilungarmi nella presentazione dei saggi, rimandandone alla lettura, desidero trasferire alcune riflessioni sul tema della Rigenerazione e

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Sostenibilità delle città e del territorio, temi che, dal terremoto in Friuli del 1976, mi hanno visto partecipe e che periodicamente vengono ancor oggi ripresi senza mai giungere ad una ponderata ed efficace risoluzione. Da molti anni si parla di rigenerazione del costruito, ma ancora, in occasione dell’ennesimo terremoto nell’Italia centrale, si argomenta su come si dovrebbe procedere per non essere sottoposti alle calamità e forse ancora una volta le giuste intenzioni cadranno nell’oblio. Il contributo che ha caratterizzato una parte del gruppo di ricerca trentino si identifica con l’acronimo RI.U.SO cioè Rigenerazione Urbana Sostenibile, tema che ha rappresentato anche uno degli obiettivi primari di divulgazione e sensibilizzazione degli architetti del Consiglio Nazionale Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori che col gruppo hanno collaborato e prodotto due pubblicazioni. Nel convegno collegiale di Milano Fiera del 2013, il presidente del CNPAIA Leopoldo Freyrie, in uno con ANCE, LEGAMBIENTE e FEDERLEGNO, al fine

CNAPPC, Dossier RI.U.SO., 2012 e 2015

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di sollecitare il governo verso innovative politiche di rigenerazione delle città e delle periferie, dei centri e dei borghi storici artistici, per contribuire alla risoluzione dei problemi a ciò connessi sono state stabilite delle immediate finalità: - stimolare politiche di rigenerazione del costruito nel tessuto debole delle città e dei centri storici minori; - proporre politiche di rispetto del territorio, considerato naturale risorsa oggetto di progressiva ed irrazionale aggressione e riduzione; - stimolare politiche di adeguamento della sicurezza sismica e di risparmio energetico per tutto il patrimonio edificato, sia pubblico che privato, un progetto che, seppur necessitante di un volano economico iniziale, si trasformeresse in un retrofit generale e produttivo in pochi decenni; - stimolare la qualità urbana nelle periferie delle grandi città, come negli agglomerati urbani minori, nei centri storici e nei borghi rurali, elementi preziosi della rete del caratteristico tessuto insediativo italiano; - proporre criteri di trasformazione delle città e di parte di esse secondo standards prestazionali e servizi moderni che rispettino, anzi esaltino, l’architettura, la funzionalità e la dotazione tecnologica del vivere e dell’abitare. Secondo alcune indagini di una ricerca CNAPPC - CRESME, in Italia oltre 6 milioni di edifici e 24 milioni di persone vivono in zone a rischio sismico, oltre il 70% dei fabbricati sono costruiti secondo norme anteriori alle attuali norme sismiche, 1,2 milioni di costruzioni residenziali e 5,5 milioni di abitanti vivono in zone a grave rischio idrogeologico. Il 75% del patrimonio abitativo è costruito nell’ambito urbano delle grandi città e circa il 55% dei manufatti residenziali ha più di quarant’anni di vita senza alcuna manutenzione. Quasi 3 milioni di costruzioni sono in stato di conservazione pessimo o mediocre. Le città grandi, medie e piccole sono spesso obsolete rispetto a standards e parametri urbanistici, architettonici, funzionali, tecnologici, ecologici ecc., che oggi consideriamo come minimali. Servono strategie per riutilizzare l’ingente patrimonio immobiliare a più dimensioni, sia in termini di scale di intervento (interventi strutturali e di processo), sia in termini di ambito d’azione (economico, ambientale, sociale) con continuità nel tempo e nel rispetto delle specificità dei contesti. Al di là delle calamità, che pur segnano annualmente la nostra vita, una saggia politica di rigenerazione e manutenzione dovrebbe essere la miglio-

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re risposta di qualsiasi classe politica alle caratteristiche naturali del nostro paese e forse - anche se sembra ai più un assunto irrazionale - di una politica meno costosa rispetto al trend attuale. Risparmio dei costi energetici, qualità della vita, costi di ripristino delle emergenze, rigenerazione del patrimonio artistico, naturale e storico culturale, rappresentano fattori e valori esistenziali a valenza economica meramente positiva nel rilancio dell’economia, anche se spesso sono inopinatamente disattesi. Mettere in sicurezza il Paese in modo antisismico costerebbe tanto quanto speso dal dopoguerra in risposta alle devastazioni di terremoti e catastrofi naturali. Basta riferirsi all’ordine di grandezza della voce annua costante nel bilancio dello Stato di 3 miliardi di Euro per le varie catastrofi del territorio. Servono quindi strategie per riutilizzare l’ingente patrimonio costruito pubblico e privato a più livelli e con diverse scale di intervento (di processo di costruzione o ristrutturazione) e con diversi quadri d’azione (economico, ambientale, sociale). Qualsiasi sia la strategia di intervento, dalla revisione urbanistica ai modi della azione ed ai criteri di finanziamento, la definizione politica degli incentivi deve essere indirizzata generalmente al recupero di comparti urbani unitari con particolare riferimento ai valori dei centri storici antichi (proposta ANCSA). È l’occasione per varare una nuova politica urbanistica abbandonando la pianificazione prescrittiva, caratterizzata da progressivi e rigidi strumenti cui ancora siamo ancorati. La scalarità dei piani della 1150 e la complessità degli iter approvativi continuerà a produrre scarsi risultati temporalmente troppo lontani dalle previsioni progettuali. Con la attuale struttura normativa urbanistica non è possibile alcun risultato positivo per una società sempre più veloce ed in costante mutazione; bisogna allora approfondire i criteri della “Pianificazione strategica” come coesione di azioni di programmi e progetti in un modello che quasi ci richiama al modello razionalista del “Masterplan”. Nello studio dei processi realizzativi messi in atto da altri Paesi, anch’essi oggetto dell’analisi del nostro partner CNAPPC, si riscontra sempre una legislazione ad hoc sia per il processo urbanistico che per la gestione dei programmi (ad esempio il ricorso a speciali Agenzie sul territorio in Francia) tale da rendere immediatamente efficaci ed operative le decisioni e le disposizioni progettuali. È dunque indispensabile ed urgente che il Paese si dia un piano strategico nazionale per la Rigenerazione urbana e territoriale che ponga le basi per il raggiungimento dei seguenti obiettivi.

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1. URBANISTICA E TERRITORIO - Provvedere, dopo 75 anni di gestazione, al radicale rinnovamento della materia urbanistica nazionale e del governo del territorio con la necessità di innovazioni e la formulazione di direttive generali idonee all’approfondimento frutto delle giuste autonomie regionali. Testimoniare il fallimento della pianificazione azzonativa, dei regolamenti edilizi comunali e della sovrapposizione delle diverse pianificazioni di settore. - Riconoscere le esigenze specifiche del territorio (paesaggio) nel quadro delle politiche nazionali e europee, armonizzare l'uso del territorio con le esigenze e con gli obiettivi ecologici, gestire le risorse ed il territorio in modo parsimonioso e compatibile con l'ambiente, riconoscere gli interessi specifici della popolazione mediante un impegno rivolto ad assicurare nel tempo le basi dello sviluppo sociale. Infine perseguire ed avvalorare il rispetto ambientale e paesaggistico, in quanto la conservazione non può essere intesa scevra da trasformazioni territoriali e architettoniche, in quanto il paesaggio è il riferimento per il perseguimento di uno sviluppo sostenibile in termini culturali, economici, ecologici, ambientali e sociali. Il paesaggio deve continuare a palesare il passato ma deve prospettare anche il futuro, dobbiamo riprendere i precetti e le regole che da sempre hanno governato la sua costruzione e trasformazione. In quest’ottica si devono prospettare programmi strategici e coordinati, individuati dall’insieme normativo vigente, che portino ad orientare i processi di riconoscimento e caratterizzazione delle diverse identità paesaggistiche, affinché per ogni porzione omogenea di territorio si possa mettere a frutto il reale valore, definendo specifiche azioni di intervento. - Limitare il consumo del suolo e favorire il ripristino della naturalità ai siti dismessi urbanizzati e cementati. Riduzione del consumo del suolo e risparmio del suolo naturale produttivo. Definizione dei criteri di bonifica delle aree in cui richiedere il ripristino alla permeabilità, politiche di incentivi e sgravi fiscali. - Rigenerare le periferie e le zone deboli della città. Le periferie urbane, le aree demaniali, i grossi complessi industriali della prima industrializzazione del secolo scorso, sono oggetto di studi in conseguenza della loro dismissione funzionale. In alcune città, con particolare rilievo nel Nord, Nord-Est, la sdemanializzazione delle strutture militari mette ora a disposizione una risorsa territoriale potenzialmente edificabile con infrastruttu-

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razione e rendita di posizione una volta marginale oggi spesso centrale alla città. Da tempo queste aree, come quelle della dismissione privata delle grandi strutture industriali del XVIII e XIV secolo, sono oggetto di studi e di politiche produttrici, in alcuni casi, fenomeni paragonabili a quelli della gentrification (area ex Michelin a Trento), ma tutto ciò spesso si scontra con la rigidità della politica urbanistica (Variante di PRG, Piano PP, Convenzioni e Autorizzazioni edilizie, con tempi medi dell'iter procedurale, variabili dai cinque ai dieci anni). - Rigenerare i servizi ed attuare una decisa politica di adeguamento infrastrutturale e dei servizi. Risoluzione degli annosi problemi urbani riferibili alla mobilità urbana, allo smaltimento dei rifiuti, al favorire politiche di home working e quindi alla razionalizzazione delle reti informatiche. Riconfigurazione urbana di servizi e di spazi pubblici. In realtà non siamo ancora pronti a governare e programmare la rigenerazione complessiva delle nostre città e più volte si è affrontato il tema in modo frammentario, cercando di definire programmi di riuso per singoli problemi specifici. Ad esempio, nell’insieme sempre più articolato della legislazione italiana, non esiste un provvedimento ad hoc tale da guidare e snellire la procedura di intervento della rigenerazione e neppure una reale organizzazione per giungere alla proposta e all’attuazione di reali interventi. In Francia, sin dai primi anni del duemila, è stata istituita l’Agence National pour la Renovation Urbaine (ANRU), agenzia “finalizzata a collaborare con il Comitato Interministeriale per la selezione a livello nazionale e regionale dei siti su cui intervenire (con incentivi e misure premiali per le associazioni di Comuni), a favorire alle comunità locali il supporto tecnico ed operativo necessario per la progettazione e realizzazione degli interventi, a definire impegni finanziari dei diversi partner pubblici e privati garantendo la disponibilità di finanziamenti in tempi certi.” L’agenzia poi contribuisce alla formazione dei gruppi incaricati di implementare gli aspetti sociali ed economici degli interventi e di attivare i processi partecipativi, nonché di monitorare, verificare e certificare la qualità delle realizzazioni sulla base di appositi indicatori ed il rispetto della tempistica. L’agenzia si pone quindi l’obiettivo di coordinare e organizzare i progetti urbani globali per la trasformazione radicale di quartieri, economica, sociale e fisica. Nuove regole e criteri di trasformazione di grandi aree urbane che fanno ricordare con nostalgia la Legge 457/78 quale unico colpo di coda legislativo per uno snello (per così dire) intervento nelle zone A.

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2. MESSA IN SICUREZZA DEL COSTRUITO RISPETTO AI FENOMENI NATURALI - Avvio di politiche di sicurezza antisismica e di processi di manutenzione obbligatoria del patrimonio di edilizia pubblica e privata. Piano per la sicurezza statica del patrimonio costruito generalizzata a tutto il territorio labile italiano. Disposizioni e regole per la messa in sicurezza rispetto ai fenomeni naturali che sistematicamente e periodicamente mettono in ginocchio la cosa pubblica (terremoti, regimentazione dei versanti e degli alvei fluviali, ecc). Il paese si deve dotare di un piano di rigenerazione urbana di qualità che provveda al risparmio di risorse naturali ed energetiche. Il patrimonio edilizio costruito nel dopoguerra è oggi in uno stato comatoso, in situazione di manutenzione deprecabile ed in ogni caso non risponde a criteri di qualità dell’abitare cui oggi siamo abituati e a cui tendiamo. Messa in sicurezza del patrimonio edilizio privato al rischio sismico (circa 24 milioni di abitanti) ed al rischio idrogeologico (circa 6 milioni di abitanti) oggi con fenomeni imprevedibili come manifestazioni della mutazione climatica. Le città in generale soffrono di particolare fragilità ed ancor di più i centri storici patrimonio irrinunciabile con un'enorme valenza turistico economica. S'impone quindi un piano di messa in sicurezza e di procedure di costante manutenzione. - Fascicolo del fabbricato. Assume un aspetto determinante la necessità di obbligare proprietà pubbliche e private all'assunzione del fascicolo del fabbricato. Per molti il fascicolo del fabbricato ricorda la vivace campagna di circa 10 anni fa del presidente del CUP professioni e del CNAPPC l'architetto Raffaele Sirica che fu fautore di un disegno di legge che ebbe un discreto successo sul tema. Il “fascicolo del fabbricato” è il libretto personale degli edifici pensato per riportare lo stato di salute, storia e trasformazioni di ogni edificio dall’inizio della sua costruzione. La proposta allora proponeva esclusive intenzioni ed obiettivi di conoscenza e la necessità dell’archiviazione unica degli incartamenti progettuali, mentre oggi dovrebbe assumere capacità prescrittive pari a quelle del collaudo delle autovetture per ottenere l’idoneità alla circolazione stradale. L'etica professionale di architetti e professionisti del settore occupati nelle strutture ordinistiche, nelle realtà formative didattiche ed universitarie e nelle strutture atte alla organizzazione e gestione dell'emergenza, non può oggi che voler rendere evidente come sia necessario il censimento degli edifici, pre-terremoto

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e non post, operando con "schede Aedes" sull'intero territorio nazionale. Un’indagine Europea stima che nel prossimo futuro anche in Italia le città cresceranno insediativamente fino a contenere il 70% della intera popolazione nazionale. Dovrebbe essere cura pubblica rilevare in quale condizione sia oggi il patrimonio edificato di grandi parti di tessuto urbano con particolare attenzione alla risposta sismica delle costruzioni, quale risposta vi sia stata relativamente al risparmio energetico degli edifici, quale sia il loro stato di manutenzione e di comfort ambientale e sociale. Oggi un completo censimento di revisione e giudizio di catalogazione delle attuali strutture (non solo per gli elementi portanti) che compongono parti di città fragili e interi centri comunali minori rappresenta, con la bonifica del territorio, il progetto maggiore cui applicarsi. In Friuli, a quarant’anni dal più grande terremoto moderno, è recente la proposta dell’Assessore regionale Magriazia Santoro per l'istituzione della certificazione sismica degli edifici, pubblici o privati che siano, dell'interaregione.

3. SALVAGUARDIA DI CENTRI STORICI URBANI O CENTRI MINORI AD ALTA POTENZIALITÀ TURISTICO RICETTIVA A questi temi il futuro provvedimento legislativo “Progetto Italia” dovrebbe offrire una immediata risposta attraverso: - revisione totale della legislazione relativa al regime di vincolo; - facoltà di esenzione dagli oneri per le volumetrie demolite e ricostruite; - linee guida ai criteri di demolizione e ricostruzione, criteri di accoglimento e verifica rispetto al più o meno mantenimento delle sagome in zone A; - criteri di decadenza dei vincoli agli edifici pubblici ceduti ai privati con pù di 50/70 anni pur con un criterio di verifica del suo mantenimento impositivo; - obbligatorietà degli interventi in zone ad alto rischio legate al possesso degli edifici storici, ecc. La salvaguardia dei centri storici e i vincoli normativi, in assenza di linee guida omogenee, sono sottoposti a regimi differenti in relazione alla cultura e sensibilità di sovrintendenti (Convegno CNAPPC, RI.U.SO e Vincolo, Palmanova 2015). È evidente che vi è una necessità di approfondimento e

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snellimento di norme desuete e/o insufficientemente riviste nel corso degli anni. Di conseguenza, le prospettive di rigenerazione dei centri storici e d’investimento dei privati sono molto limitate, rischiando di provocare il depauperamento dei manufatti e dell’ambiente. Il processo di rigenerazione urbana, basato su dettagliate analisi delle condizioni dell’area storica dell’aggregato, deve adattarsi alle strutture sociali, fisiche, alla base economica e alle condizioni ambientali del comparto, deve promuovere strategie sviluppate in accordo con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, deve fare il miglior uso possibile delle risorse umane, economiche, sociali e deve cercare di raggiungere il consenso attraverso la partecipazione e la cooperazione di tutti gli attori coinvolti nel processo di attualizzazione del centro storico. Le tematiche determinano forti livelli di criticità e conflittualità, poiché la modifica del patrimonio architettonico necessita di una approfondita conoscenza, di un elevatissimo controllo di qualità, verifiche in parte bloccate dall’articolato apparato normativo che si sovrappone. Occorre pertanto trovare nuove formule che consentano di contemperare la conservazione sulla base dei vincoli di tutela (diretta o indiretta) con quelle del recupero, riuso e miglioramento prestazionale, in un’ottica di sostenibilità, ma anche e soprattutto di redditività, secondo il principio bene uguale risorsa, più volte ribadito in importanti consessi internazionali. Bisogna operare con cautela ed elaborare un programma di strategie di sviluppo di ambito territoriale, avendo debite garanzie di fattibilità e possibilità di crescita economica. La difficoltà operativa emerge anche nella mancata approvazione di provvedimenti legislativi, da più anni viene presentato il provvedimento “Disposizioni per il recupero e la valorizzazione dei centri storici e dei borghi antichi”, senza mai sfociare nell’approvazione.

4. ADEGUAMENTI ENERGETICI Il problema del contenimento energetico da qualche anno è assunto alla generale coscienza e sensibilità della collettività e del cittadino. L'attuazione di un piano di trasformazione energetica per la riduzione dei consumi energetici nazionali, il cui 20% (dovuto esclusivamente agli impianti degli edifici obsoleti) s'impone con l'assunzione di un corretto controllo nazionale (eolico-solare) che si confronti con le discrasie che in

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questi anni si sono verificate e diffuse (pannelli solari a distesa in sostituzione di piantagioni preziose in zone agricole) che impongono un rigoroso controllo ambientale. Il programma delle contribuzioni e delle detrazioni fiscali dovrebbe, come sopra accennato, essere esteso ed aumentato nelle detrazioni per incentivare le sistemazioni totali degli edifici. Censimento quindi delle trasformazioni edilizie ed impiantistiche relative non solo agli adeguamenti alle classi energetiche ottimali, incrementando le aliquote di contribuzione e riduzione fiscale.

5. RISORSE La trasversalità e l’interdisciplinarietà del processo di rigenerazione di città e territori deve ovviamente interessare problemi riferibili ad un attento piano di risorse e quindi a categorie di esperti e studiosi di economia e diritto. Qui riporto per rapido ma fedele sunto quanto riportato dall’onorevole Pierluigi Mantini e professore del Politecnico di Milano. “Le risorse disponibili del fare possono provenire da: la messa a sistema delle risorse dei programmi comunitari sui quali l’Italia continua a procedere in modo irrazionale […]; il riequilibrio degli investimenti pubblici tra grandi infrastrutture e città dove gli investimenti sono scesi a meno di sette miliardi a fronte dei cinquanta del programma francese […]; il risparmio derivante dalla messa in sicurezza degli edificati da terremoti ed eventi calamitosi stimabile in tre miliardi all’anno (dal 1944 al 2009 oltre 200 Miliardi) […]; la razionalizzazione dei contributi e incentivazioni pubbliche sull’energia. All’interno di un piano di rigenerazione gli investimenti dovrebbero essere più razionalmente ripartiti tra risparmio e produzione energetica (sul fotovoltaico 70 miliardi 10 a Germania Cina e Giappone) […]; la messa a sistema degli interventi privati e pubblici per le manutenzioni ordinarie e straordinarie pari a 133 miliardi nel 2011, facendone il volano delle trasformazioni urbane sostenibili, la creazione di strumenti finanziari ad hoc che mettano a reddito il risparmio energetico, idrico, sulla manutenzione e bonus volumetrici a fronte di un impatto ambientale vicino allo zero e di innovazioni tecnologiche utili all’efficienza della citta” […].” (Da: Buone pratiche di progettazione urbana in Europa. Riuso Dossier 02, Centro studi Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, dicembre 2015).

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RE-CYCLE TRENTINO

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L'area industriale di Mezzolombardo Foto di Vincenzo Cribari, 2014

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RE-CYCLE. UN'ESPERIENZA ALLA SCALA DI TERRITORIO: IL TRATTO DELLA VALLE DELL’ADIGE A NORD DI TRENTO Corrado Diamantini Vincenzo Cribari Stefania Stanisica > UNITN - DICAM

IL RICICLO COME PRATICA DI RITERRITORIALIZZAZIONE Nel tracciare, in Viaggio in Italia (Diamantini, 2013a), il lavoro di ricerca che viene presentato in queste note, si è ricondotto Re-cycle a una chiave di lettura certamente non nuova, quella della riterritorializzazione, ritenendola però adatta a interpretarne la portata alla scala territoriale. Intendendo che a questa scala il porre mano ai “rifiuti” comportava necessariamente il fatto di produrre un disegno complessivo di assetto dei luoghi all’interno del quale, solo, i singoli interventi potevano assumere un senso. Vale la pena di riprendere quelle riflessioni che alla luce del lavoro svolto appaiono ancora più pertinenti. Re-cycling, nella dimensione ambientale, vuole dire come è noto trasformare materiali di scarto in nuovi prodotti con evidenti vantaggi economici oltre che ambientali. L’EPA - United States Environmental Protection Agency - attribuisce al re-cycling un ruolo chiave nel processo di contenimento della produzione dei rifiuti, facendolo precedere in ordine di importanza da altre due pratiche, ossia il reducing e il re-using (EPA, 2015). Il reducing è ovviamente la pratica più efficace: se il rifiuto non viene

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rilasciato, non c’è bisogno di smaltirlo. Ma per non rilasciare rifiuti non bisogna creare nuovi prodotti oppure, appunto, bisogna riutilizzare - il reusing - quelli che abbiamo già a disposizione. Sempre l’EPA, forse nella prospettiva di una economia tutta in divenire come quella collaborativa (Hamari et al., 2015), sollecita in tal senso anche la pratica, non più relegata alle società primitive, del dono. Con riferimento al processo edilizio si può considerare il re-using una pratica ricorrente ascrivibile all’evoluzione, in certo qual modo statica, della città antica. Ma venendo a interpretazioni più pertinenti, qualche decennio fa Francesco Indovina (1973) forniva alla pratica del re-using delle ragioni interessanti, riconducendo parte della produzione edilizia a uno spreco dettato dai profitti attesi dal settore edilizio. Il re-using, in tal senso, diventava anche un modo per praticare il reducing - come di fatto è avvenuto attraverso alcune esperienze successive di pianificazione - con riferimento al consumo di suolo intervenuto per decenni, nel nostro paese, oltre ogni misura (Pileri, Granata, 2012). Nel processo edilizio il suolo è sempre rientrato come input e quindi come costo di produzione e nient’altro. Per intenderci, alla pari degli alberi che compongono una foresta e che forniscono il legname che viene impiegato in vari cicli produttivi. E, analogamente, anche chi lo possedeva o era tenuto ad amministrarlo era portato a considerarlo alla stessa stregua. Negli ultimi anni, anche in ragione dell’affermarsi del concetto di servizio ecosistemico, si è fatta strada la consapevolezza che il suolo, allo stesso tempo una componente ambientale ed ecosistemica, svolga funzioni da questo punto di vista insostituibili (Alberti, 2005). Il contenimento del soil sealing è così diventato un imperativo che però, nel nostro paese, ricorre solo nelle sollecitazioni di pochi urbanisti e nelle pratiche di poche amministrazioni. Ora, ci sono diverse ragioni per dire che il problema non è dato solo dalla quantità di suolo utilizzato ma anche dalla qualità insita nel suo impiego, ma questo non può costituire un alibi per giustificare una sorta di consumo di qualità. Insomma, siamo arrivati più o meno al capolinea e questo comporta soprattutto una cosa: la produzione edilizia deve provvedere altrimenti alle proprie necessità che non impiegando una risorsa preziosa come il suolo non impermeabilizzato. Preziosa non in quanto scarsa, cosa peraltro vera, ma perché assolve funzioni irrinunciabili, di servizio ecosistemico appunto, che non possono rientrare in una contabilità corrente (Robinson, Lebron,

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2010). Il processo edilizio ha sedimentato un po’ ovunque, nell’ultimo secolo e mezzo, rifiuti ascrivibili soprattutto a funzioni dismesse o a modi di pensare, anche lo spazio, che appaiono del tutto obsoleti. Rifiuti, ancora, dei quali appare problematica la semplice sostituzione d’uso. Pertanto, analogamente a quanto accade con altri tipi di rifiuto, si rende necessario il re-cycling ossia la loro trasformazione in nuovi prodotti, generalmente edifici diversi oppure luoghi diversi, che richiedono talvolta una “risignificazione”. Nuovi prodotti i quali incorporano un materiale di scarto di cui, come si è accennato, non è possibile né è sensato disfarci, ossia il suolo (Pileri, 2015). Con riferimento ai luoghi, la questione appare più complessa se non altro perché, nel passaggio dall’edificio ai luoghi ci si sposta da una dimensione individuale a una collettiva, anche con riferimento alla loro produzione. La città e il territorio, al contrario di un edificio, sono costruzioni sociali. Il territorio in particolare è stato oggetto negli ultimi decenni di una riflessione originale, che lo associa alla “responsabilità dell’essere umano di abitare la natura”. Una responsabilità la quale finisce con il conferire alla natura un valore antropologico che la trasforma, appunto, in territorio. La territorializzazione, ossia la costruzione territoriale, è in tal senso un processo di socializzazione (Raffestin, 1984a e b; Turco, 1988). La costruzione del territorio così intesa, alla quale ha dedicato la propria attenzione, con riferimento agli studi urbanistici, soprattutto Alberto Magnaghi (1998), si manifesta come un continuum in cui si alternano deterritorializzazione, ossia la progressiva perdita di valori territoriali pregressi e riterritorializzazione, ossia l’affermarsi di nuovi valori. La deterritorializzazione, per intenderci, può essere letta nel cambiamento epocale che vede l’esaurirsi, in molteplici contesti, delle pratiche agricole come fondamento non solo dell’economia ma anche della società e il progressivo declino dei luoghi che tali pratiche avevano prodotto; ma anche nel cambiamento, altrettanto epocale, che vede la contrazione, ovunque esso sia sorto, del sistema industriale e l’analogo collasso dei luoghi da esso prodotti. Ma mentre l’agricoltura ha sedimentato ecosistemi, anche se caratterizzati da una pressione antropica più o meno elevata, il collasso prodotto dalla contrazione del sistema industriale ha sedimentato, un po’ ovunque, la gran parte dei rifiuti di cui ci si occupa. La riterritorializzazione è un processo, come si è accennato, di sostituzione di valori. E per questo motivo ha ingenerato in molti casi conflitti, soprattutto

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quando i valori sostitutivi non erano condivisi e rappresentavano solo gli interessi di una parte. L’esempio citato più di frequente, a proposito, è quello del colonialismo, che è intervenuto sostituendo con la forza assetti locali che peraltro non stavano conoscendo alcuna fase di declino (Licari et al, 1978). Nel caso dell’industrializzazione, se si prescinde dalla consapevolezza delle esternalità da essa prodotte, parliamo di un processo nel quale le società che ne sono state coinvolte si sono riconosciute, in quanto spesso veniva a porre fine a uno stato di arretratezza, oltre che di povertà. La territorializzazione che ne è conseguita appare però profondamente diversa da quella che l’ha preceduta, dettata dalla forza pervasiva dell’agricoltura. La costruzione di territorio legata alle pratiche agricole è stata infatti corale, con riferimento sia ai valori che ha espresso che all’effettivo concorso di una molteplicità di attori; quella legata all’industria è stata invece, tranne che in una fase avanzata e limitata a pochi contesti, una costruzione intervenuta da parte di un numero di attori esiguo, se confrontato con l’insieme di quelli effettivamente coinvolti. L’assetto di territorio che ha prodotto – e qui il riferimento è soprattutto a quei contesti extraurbani, di cui qui ci si occupa, in cui lo sradicamento delle pratiche agricole è intervenuto senza prestare attenzione al loro effettivo declino – è risultato compromissorio di altri possibili esiti oltre che estraneo rispetto a culture radicate. Compromissione ed estraneità che appaiono oggi tanto più evidenti quanto più sono ingombranti i sedimenti prodotti dall’esaurimento del processo. Da qui l’esigenza che il re-cycling, alla scala di territorio, si confronti non solo con la creazione di nuovi prodotti a partire dall’utilizzo di materiali di scarto, quanto con un’operazione di restituzione di senso ai luoghi - la riterritorializzazione appunto - che non può che essere indirizzata e sostenuta, ovviamente, da chi i luoghi li abita. Condizione quest’ultima che rimanda al piano, in quanto esso può garantire, tra l’altro, la partecipazione pubblica. Una riterritorializzazione che, semplificando, può intervenire assecondando vocazioni dei luoghi e promuovendone la qualità, non solo con riferimento ai possibili stili di vita ma anche ai processi ambientali che vi intervengono e agli esiti formali delle trasformazioni nei quali gli abitanti possono tornare a riconoscersi. Il che è l’esatto contrario di quanto è accaduto nel corso del processo di territorializzazione che si sta ora esaurendo e va a costituire un punto fermo - una sorta di posizionamento a livello locale che

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fa leva su risorse sia materiali che immateriali - in una prospettiva ancora densa di incertezze come quella prefigurata dall’insieme dei cambiamenti epocali che vengono ricondotti al global change. Il tratto della Valle dell’Adige che si situa a nord di Trento è l’ambito territoriale al quale ha fatto riferimento il lavoro di ricerca, che è stato stimolato da un duplice processo. Da un lato, la contrazione del tessuto industriale cresciuto a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, affiancata dalla ricomparsa, dopo alterne vicende, dell’agricoltura come componente assolutamente rilevante dell’economia locale; dall’altro la redazione di un piano urbanistico, quello della Comunità Rotaliana Königsberg - un ente territoriale di nuova istituzione che su questo tratto di territorio esercita le proprie competenze amministrative - chiamata a ridisegnare l’assetto del proprio territorio in una fase delicata come quella attuale, che necessita di nuove prospettive per nuovi luoghi (Diamantini, 2011). Il tema della dismissione degli edifici e delle aree industriali è stato pertanto ricondotto a quello del ripensamento del senso e dell’assetto dei luoghi affidato al piano. Questo lavoro è stato senza dubbio facilitato da una combinazione di circostanze, tra cui la presenza di luoghi ancora caratterizzati da una certa dotazione ambientale e paesaggistica, nei cui caratteri gli abitanti continuano a riconoscersi. Allo stesso tempo ha trovato un ostacolo nella farraginosità insita nei tradizionali meccanismi del piano e in particolare nell’insistenza, che appare - oggi come ieri - del tutto obsoleta, sulla attribuzione al suolo di usi univoci. Un ostacolo che va senz’altro superato attraverso il re-cycling di alcuni paradigmi del piano, non del piano tout court.

DALLA CAMPAGNA ALLA CAMPAGNA: IL TERRITORIO A NORD DI TRENTO L’industrializzazione della campagna In diverse situazioni la localizzazione dell’industria è intervenuta nel nostro Paese condizionando irreversibilmente l’assetto dei luoghi e soffocando vocazioni dei territori. E questo indipendentemente dal fatto che a indirizzarla ci siano stati o meno dei piani urbanistici. Si possono citare a riguardo l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, in cui appunto l’iniziativa pubblica ha fatto un ricorso anche convinto a

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pratiche di pianificazione, oppure la formazione del tessuto industriale diffuso nelle regioni nord-orientali, in cui è prevalsa invece, in una sostanziale assenza di regole, l’iniziativa di singoli imprenditori. Ma ci si può riferire anche alla localizzazione della grande industria privata nelle regioni nord-occidentali, in cui le scelte di piano hanno finito con l’assecondare processi già operanti. Basti pensare a questo proposito alla Fiat, quando questo gruppo concentrava pressoché tutta la sua produzione nell’area torinese. In altri termini, con riferimento alla seconda metà del Novecento, la localizzazione dell’industria ha rappresentato nel nostro paese una variabile indipendente delle trasformazioni territoriali e questo sia in ragione di una generale convinzione per cui lo sviluppo non poteva essere che industriale, sia in ragione di un altrettanto generale disinteresse per l’assetto dei luoghi. La fase dell’industrializzazione che si apre in Trentino nel 1967 a seguito dell’approvazione del primo Piano urbanistico provinciale non costituisce, in questo quadro, un’eccezione anche se la localizzazione delle imprese produttive rientra in modo puntuale nelle scelte di un piano che rappresenta tuttora un modello virtuoso di pianificazione del territorio. Si tratta di una industrializzazione alla quale concorrono in prevalenza investimenti esterni, sollecitati e guidati però da decisioni pubbliche che si propongono un preciso obiettivo, quello di porre un freno allo spopolamento delle valli prodotto dalla profonda crisi dell’agricoltura di montagna oltre che da condizioni diffuse di arretratezza. Uno spopolamento, che aveva prodotto - per riprendere un giudizio politico del tempo - un “innaturale” accentramento della popolazione lungo la Valle dell’Adige e in particolare nelle due città, ossia Trento e Rovereto. All’avvio del processo di redazione del Piano la Regione Trentino-Alto Adige, attraverso uno studio commissionato a una società di consulenza, la Tekne (1963) e redatto tra gli altri da Bernardo Secchi, aveva indicato un modello di sviluppo che ricalcava sostanzialmente quello per poli formulato da Perroux (1955). Lo studio, nel proporre una articolazione del territorio appunto per poli di sviluppo, individuava nove “aree di gravitazione industriale” coincidenti con i maggiori centri di vallata e appoggiate a loro volta su alcuni grandi assi, corrispondenti alle valli, che riconducevano queste ultime a un “ordine gerarchico” supportato dalla direttrice principale, ossia la Valle dell’Adige. In altri termini, si trattava

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di diversificare le economie di alcune valli - sostenendo nelle altre lo sviluppo turistico - creando posti di lavoro extra-agricoli, in particolare nel settore industriale, al fine di stabilizzare la manodopera e di migliorare le condizioni di vita della popolazione. In ogni caso lo studio privilegiava la concentrazione dell’industria nei maggiori centri urbani - quindi, per quanto riguarda il Trentino, a Trento e, in minore misura, a Rovereto subordinando all’esito di azioni da condursi nel tempo la creazione dei nuclei periferici. Il Piano, redatto come è noto da Giuseppe Samonà, recepisce solo parzialmente queste indicazioni optando in modo non equivocabile per

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Tekne, 1963

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un effettivo riequilibrio territoriale che si configurava per altro come il vettore di una integrazione tra città e campagna in cui la distribuzione delle funzioni urbane doveva intervenire preservando i tratti naturali e paesaggistici dei luoghi (Provincia Autonoma di Trento, 1968). Si tratta di un disegno assolutamente originale, che da un lato mette in gioco, per la prima volta nel nostro paese, l’urbanistica in processi quali la pianificazione regionale che fino a quel momento erano stati indirizzati dagli economisti - si pensi a proposito alle figure di Pasquale Saraceno e, soprattutto, di Beniamino Andreatta, che figurava per altro tra i consulenti del Piano - e dall’altro esprime una visione di città del tutto in controtendenza rispetto ai processi in atto - tanto che viene definita un “anacronismo” la concentrazione metropolitana - incentrata appunto sull’assunzione di funzioni urbane da parte della campagna. Di questo disegno, sul quale si sono già soffermati in diverse occasioni alcuni autori (Diamantini, 1996 e 2013b; Zanon, 1993) viene ritagliato in queste note il tassello riguardante il territorio che si estende lungo la Valle dell’Adige a nord di Trento, che ne rappresenta per certi versi un elemento di contraddizione.

Il territorio a nord di Trento Il territorio della Rotaliana Königsberg, una delle Comunità di Valle recentemente istituite dalla Provincia autonoma di Trento, si estende lungo il fondovalle dell’Adige a partire dal Torrente Avisio, che ne segna a sud il confine con la città di Trento, fino a toccare, a nord, la Chiusa di Salorno che segna il confine tra il Trentino e l’Alto Adige/Südtirol. Si tratta di un territorio dai tratti ambientali marcati, il quale in destra orografica appare delimitato da ampie pareti rocciose che strapiombano a picco sul fondovalle, mentre in sinistra orografica occupa “una fascia collinare dal paesaggio dolce” (Gorfer, 1993), che dal Castello di Königsberg si spinge fino al Torrente Avisio e alla Conca di Trento. Guardando al fondovalle, il congiungimento della Valle di Non con la Valle dell’Adige va a formare la Piana Rotaliana, ossia la “più vasta pianura del Trentino” (Gorfer, 1975). Il territorio raccoglie circa 30.000 abitanti, distribuiti in otto insediamenti tra i quali Mezzocorona e Mezzolombardo, situati più a nord nella Piana Rotaliana e Lavis, situato a sud sul conoide dell’Avisio. Quello della Rotaliana Königsberg è un territorio che basa oggi la propria

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La Rotaliana-Kรถnigsberg Nostra elaborazione da dati Lidar PAT

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economia prevalentemente sulla produzione: manifatturiera, agricola ed edilizia. Vi giocano un ruolo non secondario anche le attività terziarie, ma il tratto caratteristico di questo territorio rimane il suo ancoraggio alla “produzione materiale”. Questo si riflette in un uso del suolo capillare, che vede alternarsi centri abitati, vaste aree industriali, capannoni commerciali e coltivi. L’agricoltura gioca un ruolo ancora rilevante, considerando sia il numero delle imprese agricole che quello degli addetti. Se si guarda invece alle attività svolte dagli abitanti, appare del tutto preponderante il numero di coloro che svolgono una occupazione nel settore terziario, ma questo trova spiegazione, oltre che nell’apparato amministrativo locale, nella larga quota di pendolari che gravitano su Trento la quale a sua volta è l’esito della suburbanizzazione delle famiglie intervenuta negli ultimi vent’anni.

L’avvento dell’industria All’inizio degli anni sessanta del secolo scorso, quando prende l’avvio la redazione del primo Piano urbanistico provinciale, il territorio della Rotaliana Königsberg presentava ancora l’assetto dettato dal modello insediativo proprio dei fondovalle alpini (Diamantini, Franceschini, 2015). Un assetto condizionato dal quadro ambientale, per cui i piccoli insediamenti che vi compaiono erano ancora raccolti entro i conoidi di deiezione e i fianchi collinari. Il fondovalle, quasi pianeggiante, dopo una successione di interventi idraulici - tra i quali si inserisce il ridisegno del corso dell’Adige - tesi a porlo in sicurezza dalle dinamiche fluviali e a liberarlo dagli acquitrini, appariva interamente coltivato. L’unica grande infrastruttura che lo percorre era la ferrovia del Brennero. A questo assetto di territorio concorrevano pochi elementi spuri, cui va, però, prestata attenzione perché si riveleranno decisivi ai fini della questione che qui viene trattata. Il primo è quello che trae origine da due grandi interventi ottocenteschi, ossia, da un lato, la deviazione del Noce, dettata dall’esigenza di immettere il fiume obliquamente, anziché perpendicolarmente, nell’Adige per cui il suo sbocco viene portato da Grumo a Zambana (Menna, 1992) e, dall’altro, la costruzione della ferrovia del Brennero. L’interramento dell’alveo del Noce produce una fascia di terreno incolto lungo la quale viene costruita una strada, mentre la

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realizzazione di una stazione ferroviaria, praticamente nel nulla, porta alla costruzione di due assi stradali a congiungerla da un lato con Mezzocorona e dall’altro, tagliando trasversalmente la Piana Rotaliana, con Mezzolombardo. Il secondo è dato dalla localizzazione, all’interno della fascia di interramento del Noce, di un impianto industriale altamente inquinante che non aveva trovato posto altrove. Lo studio predisposto dalla Tekne aveva previsto in questo territorio la localizzazione di un insediamento industriale di dimensioni ridotte - a Mezzolombardo - dal momento che spettava al capoluogo il compito di concentrare le attivitĂ industriali.

Le zone industriali previste dal PUP 1967

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Samonà non si ritrova in questo schema, che di fatto prefigurava per la città una crescita su se stessa. Sceglie invece di realizzare uno sviluppo urbano lineare - che da Trento si estendeva fino a Mezzocorona - lungo il quale dispone gli insediamenti industriali. Per cui, in un telaio pianificatorio altrimenti molto attento a distribuire queste funzioni urbane - le fabbriche ma anche i servizi collettivi - al fine di impedire che venissero alterati i caratteri dei luoghi, viene proposta a nord di Trento una sequenza di aree industriali - due sul conoide dell’Avisio, due a sud di Mezzolombardo e un’altra, infine, in prossimità di Mezzocorona, di cui è prevista l’estensione fino all’autostrada - a fungere da ossatura della “città lineare” il cui asse portante doveva essere costituito dalla stessa autostrada del Brennero, allora in costruzione. Non rappresentano un freno a tal proposito né l’ampiezza dei coltivi, che al tempo si estendevano da Bolzano fino a Trento a costituire uno tra i più mirabili paesaggi agricoli delle Alpi, né il radicamento delle pratiche agricole testimoniato dalla presenza storica dell’Istituto Agrario di S. Michele all’Adige. Dal punto di vista strettamente localizzativo l’ubicazione delle zone industriali appare poi del tutto accidentale e, osservata a posteriori, infelice. Immediatamente a nord di Trento viene prescelto il conoide dell’Avisio, nelle vicinanze dello sbocco di questo fiume nell’Adige, a fare da cordone a quello che successivamente diventerà un sito di importanza comunitaria. A sud di Mezzolombardo viene prescelta una superficie in destra del Noce, dove esistevano certamente aree di lavorazione degli inerti scavati sul fianco limitrofo della montagna, ma anche un ampio lembo di vegetazione ripariale la cui parte rimasta incolume è diventata anch’essa, successivamente, sito di importanza comunitaria. Per Mezzocorona viene prescelta una superficie a forma geometrica, ossia il perfetto triangolo isoscele disegnato, oltre che dalla ferrovia che funge da base, dall’asse che congiunge la stazione ferroviaria con Mezzolombardo da un lato e dalla strada ricavata lungo l’alveo interrato del Noce dall’altro, che fungono da cateti. Si tratta di una superficie la quale, anche se era marcata dalla presenza di una fabbrica inquinante, si situa nel cuore della Piana Rotaliana, ossia una delle aree vitivinicole più vocate del Trentino, in ragione della composizione del suolo e dell’irradiamento solare. Come dimostra del resto la sua posizione centrale nell’areale che delimita la produzione del Teroldego, il brand vinicolo più noto del Trentino.

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Del disegno della “città lineare”, che forse avrebbe meritato una qualche indicazione progettuale, nelle tavole del Piano non rimane traccia, a testimonianza del fatto che si trattava di un’idea appena abbozzata. Per giunta, la puntuale attuazione delle singole destinazioni d’uso del piano porta a enfatizzare l’inadeguatezza dei siti prescelti per la localizzazione delle industrie attraverso una edificazione piuttosto confusa. Giovanni Astengo, chiamato all’inizio degli anni ottanta del secolo scorso a elaborare lo Schema del Piano comprensoriale della Valle dell’Adige, mette, infatti, in evidenza come la realizzazione delle aree produttive del PUP del 1967 fosse stata sì rispettata, ma comunque male attuata: “… la loro aggregazione spaziale, in assenza di piani attuativi operanti, è stata nefasta, con casualità di collocazione ed enorme spreco di spazio e di infrastrutture: tutto ciò avrebbe potuto essere evitato con un solido prefissato impianto urbanistico di base. Tanto che, se si vorrà ricuperare in parte questa situazione di disordine,, si dovrà necessariamente passare attraverso piani di riordino, al fine di eliminare i più gravi errori di distribuzione spaziale, infrastrutturazione e dei servizi” (Comprensorio della Valle dell’Adige, 1983). Il successivo Piano urbanistico provinciale, redatto da Franco Mancuso e approvato nel 1987 (Mancuso, 1991), riduce gli ambiti industriali previsti dal Piano precedente, prevedendo in essi anche la presenza di strutture artigianali e di deposito, ma, allo stesso tempo, introduce la possibilità, per i Comuni, di creare proprie aree produttive che finiscono con il peggiorare lo stato delle cose.

La metamorfosi e la rapida affermazione dell’agricoltura La vocazione agricola del territorio a nord di Trento non è connaturata ai luoghi ma rappresenta una conquista, che ha inizio nell’Ottocento, lunga un secolo. Tale conquista è riconducibile a tre processi. Il primo processo è rappresentato dalle opere idrauliche volte a sottrarre il fondovalle alle dinamiche fluviali e a regolare il deflusso della massa idrica eccedente, rendendo così possibile la coltivazione di vaste superfici di terreno. Le frequenti esondazioni dell’Adige provocavano, infatti, complici l’ampiezza e i bassi valori di pendenza del terreno, l’allagamento

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e l’impaludamento di ampi tratti dello stesso fondovalle con danni alle colture, alle attività di trasporto e anche alla salute degli abitanti in ragione della diffusione della malaria (Mittempergher, 1926). I lavori di regimazione del fiume prendono l’avvio alla metà dell’Ottocento, preceduti dal prolungamento della Fossa di Caldaro a valle di Grumo oltre che dalla deviazione del corso inferiore del Noce che, sottratto al suo vasto conoide - la Piana Rotaliana - viene immesso nelle paludi di Zambana e continuano, interessando anche l’altro grande affluente - il Fersina - oltre che i versanti, fino ai primi decenni del Novecento. Si tratta di lavori poderosi, tanto che con il raddrizzamento, il corso dell’Adige viene accorciato, tra Merano e Villa Lagarina, di oltre 10 chilometri. Prima della fine del secolo questi lavori di regimazione sono, a loro volta, accompagnati da prosciugamenti del fondovalle e da opere irrigue volte a estendere le coltivazioni e a garantire migliori condizioni igieniche agli abitanti. Si tratta di chilometri di fossi e canali, con decine di impianti idrovori, alla cui costante manutenzione vengono preposti, a partire dal 1896, i Consorzi di bonifica. Il secondo processo è rappresentato dalla lotta alle malattie delle piante oltre che da una radicale riorganizzazione delle pratiche agricole e, in particolare, della produzione vitivinicola. Questo processo trova un primo supporto, a partire dal 1838, dalla presenza della Landwirtschaftsgesellschaft, la Società agraria tirolese, che contribuisce a limitare i danni inferti dalla comparsa di malattie quali l’oidio, la filossera e la peronospora che avevano provocato in pochi anni la distruzione dei vigneti. La stessa società rilancia poi l’intera attività agricola determinando un vero e proprio “salto qualitativo nell’assetto organizzativo dell’agricoltura locale” (Leonardi, 1996). Decisiva diventa, però, la creazione, che avviene nel 1874 su decisione della Dieta regionale tirolese, della scuola agraria di S. Michele all’Adige, con annessa stazione sperimentale, che viene da subito concepita come “scuola di viticoltura, frutticoltura e agricoltura” di tutto il Tirolo meridionale. A impostarne il lavoro viene chiamato Edmund Mach, un ricercatore nel campo della chimica agraria e dell’enologia con un’esperienza maturata nella Stazione sperimentale di Klosterneuburg, presso Vienna. La scuola riesce infatti a imprimere, in pochi decenni, una vera e propria riorganizzazione delle tecniche colturali e d’impianto delle produzioni agricole e di quelle vitivinicole in particolare.

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Il terzo processo, infine, è rappresentato dalla comparsa e dalla celere diffusione, alla fine dell’Ottocento, del movimento cooperativo - mutuato dall’esperienza tedesca - al cui interno appaiono da subito anche alcune cooperative tra viticoltori (Leonardi, 2012). La cooperazione riesce infatti a fornire una risposta ad un altro problema, oltre a quelli delle frequenti alluvioni, delle malattie delle piante e dell’arretratezza delle colture, posto dalle pratiche agricole, ossia quello della frammentazione della proprietà agricola e delle conseguenti difficoltà di mercato. E questo garantendo un reddito certo a una miriade di piccole aziende che vengono poste nelle condizioni di operare un salto di qualità nella commercializzazione dei prodotti la cui organizzazione e i cui costi vengono centralizzati. Del movimento cooperativo è importante sottolineare qui anche un altro aspetto, ossia quello relativo al peso politico da esso esercitato nel territorio in esame - ma anche in tutto il Trentino - nel corso di un secolo. È anche in questa chiave che vanno lette, infatti, le trasformazioni territoriali che si succedono a partire, appunto, dall’attuazione del primo Piano urbanistico provinciale. Come si è sottolineato, questo piano fa propria una concezione che affida un ruolo di traino dello sviluppo soprattutto all’industria, destinando alla localizzazione di impianti produttivi ampi tratti dei maggiori fondovalle. Questa concezione appare all’epoca pienamente condivisa, anche perché la presenza delle fabbriche accanto alle superfici agricole comportava per molte famiglie contadine la possibilità di diversificare e quindi di incrementare la produzione del reddito. A partire dagli anni settanta del secolo scorso intervengono però, concomitantemente all’attuazione del Piano urbanistico provinciale, degli importanti cambiamenti in agricoltura, riconducibili da un lato - con riferimento al territorio in esame - all’affermarsi, per imitazione rispetto a quanto andava accadendo nella limitrofa Valle di Non, della coltura della mela e, dall’altro, al successivo affermarsi della viticoltura. Entrambi questi esiti sono in larga parte attribuibili al movimento cooperativo che finisce sostanzialmente con il porsi di traverso, in ragione della rilevanza non trascurabile del reddito agricolo, agli intensi processi di urbanizzazione avviati dal piano. E infatti il secondo Piano urbanistico provinciale, pure non potendo retrocedere rispetto alle scelte contenute nel primo, provvede, come si è accennato, a ridimensionarne la portata.

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La piana rotaliana, 1801-1805 Historische Kartenwerke Tirol (Erste Landesaufnahme)

Si tratta di vicende, quelle che abbiamo qui tracciato, che possono essere lette con estrema chiarezza nelle trasformazioni d’uso del suolo soprattutto agricolo - che si sono succedute nel territorio a nord di Trento dalla metà dell’Ottocento a oggi (Diamantini, Cribari, 2014). In particolare, l’affermazione della viticoltura, che interviene negli ultimi tre decenni soppiantando in parte la frutticoltura, porta a un rapido adeguamento delle superfici agricole - a partire da quelle che insistono sull’ampio conoide del Noce - oltre che a strategie di mercato volte a intercettare, nel settore vitivinicolo, una domanda di qualità che assume sempre di più una dimensione internazionale.

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La piana rotaliana, 1859-1861 Catasto asburgico

Letto dalla parte della produzione agricola, oggi il territorio della Rotaliana KÜnigsberg si presenta quasi interamente composto di areali che rimandano a produzioni certificate. In particolare, con riferimento alla produzione vitivinicola, oltre a quello del Teroldego - che ricopre il conoide del fiume Noce - compaiono tra gli altri l’areale del Sorni, che si estende sulla fascia collinare e quello del Caldano, che occupa alcuni tratti del fondovalle.

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Rotaliana-Kรถnigsberg. Uso del suolo agricolo, 1980

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Rotaliana-Kรถnigsberg. Uso del suolo agricolo, 2014

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Un nuovo soggetto territoriale e un’immagine univoca di futuro La crescita industriale, nel territorio a nord di Trento, è stata accompagnata negli ultimi decenni da un’espansione dei centri urbani che si è avvalsa della domanda di abitazioni, ascrivibile anche a nuclei familiari provenienti dalla città e della proliferazione di strutture commerciali e di servizio che hanno tratto vantaggio dalla presenza di grandi assi viari. Lo sviluppo edilizio ha finito con l’ingenerare conflitti d’uso del suolo, soprattutto con riferimento alla trasformazione d’uso del suolo agricolo, che solo negli ultimi anni, anche a seguito dell’approvazione del terzo Piano urbanistico provinciale, sembrano essersi sopiti. Si tratta, in realtà, di un

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equilibrio assai instabile, che appare minacciato non tanto dai processi edilizi cui si è fatto riferimento quanto da interventi legati alla realizzazione di grandi infrastrutture come il Corridoio I, ossia la linea ferroviaria ad alta capacità, e il prolungamento della A 31, la Valdastico. Nel primo caso la superficie interessata dalla cosiddetta Circonvallazione di Trento è quella viticola di Pian dei Sorni, uno dei luoghi più suggestivi del fondovalle; nel secondo caso - anche se appare più probabile la soluzione a sud di Trento - la superficie interessata dal collegamento con l’A22 è una parte di quella frutticola compresa nel comune di Nave S. Rocco. Non si vuole qui entrare nel merito dei due progetti legati a tali infrastrutture,

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quanto sottolineare come si sia riproposta, con riferimento alla loro realizzazione, una concezione per cui le variabili economiche, si tratti della localizzazione industriale, del processo edilizio o della realizzazione di infrastrutture, sono considerate, qui come altrove nel nostro Paese, alla stregua di variabili indipendenti che vanno a determinare a tutti gli effetti l’assetto dei luoghi, indipendentemente dai caratteri e dalle vocazioni di questi ultimi. Nella convinzione, nella migliore delle ipotesi, che tutto finirà con il tenersi insieme. Il territorio a nord di Trento presenta oggi tratti spiccatamente periurbani. Questi si manifestano attraverso le attività prevalenti, che consistono in

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una combinazione di terziario - tra cui spiccano le attività commerciali, - di industria e di artigianato; attraverso i modi di vita della popolazione, che fruisce a tutti gli effetti dei servizi urbani anche in ragione della vicinanza della città; attraverso infine l’assetto dei luoghi, che della città, soprattutto se ci si riferisce ai centri ad essa più limitrofi, hanno mutuato i tratti periferici. Ciò che connota questo territorio e lo rende distinguibile dalla città, sono però le ampie superfici agricole che, nonostante gli intensi processi di trasformazione da cui è stato investito, si distendono ancora lungo i tratti del fondovalle e i fianchi collinari che si sono sottratti all’urbanizzazione.

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Queste superfici agricole si rispecchiano in un paesaggio a tratti unico, capace di trasmettere ancora oggi la profonda vocazione agricola dei luoghi, testimoniata, oltre che dalla loro forma, dal fondamentale apporto dell’agricoltura alla produzione del reddito, cui concorrono circa 1500 piccole aziende contadine - gran parte delle quali sono associate a grandi cooperative - le quali fanno dell’esportazione di una larga quota della produzione il proprio punto di forza. Questa vocazione, associata alla salvaguardia del territorio agricolo, viene oramai richiamata apertamente da molti stakeholder territoriali e appare molto presente anche nelle riflessioni che intervengono a livello amministrativo in un quadro affatto mutato, oggi - con riferimento in particolare alla governance territoriale - rispetto ai decenni passati. L’istituzione, da parte della Provincia autonoma di Trento, delle Comunità di valle - enti ai quali è demandata la redazione del piano territoriale di Comunità - ha comportato, infatti, la nascita della Comunità Rotaliana Königsberg, la quale esercita il proprio mandato sull’intero territorio racchiuso nella Valle dell’Adige a nord di Trento. Un territorio che in precedenza si trovava all’interno di un vasto Comprensorio - quello della Valle dell’Adige - che, contenendo anche la città di Trento, tendeva sostanzialmente ad assecondarne i processi insediativi. L’assunzione di competenze dirette con riferimento al governo del territorio ha portato la Comunità ad attivare da subito un processo partecipativo teso a creare le premesse per la redazione del Piano territoriale. L’esito di questo processo, il Documento preliminare, contiene un’immagine inequivocabile del futuro della società locale e del territorio della Rotaliana Königsberg: “Una comunità – e un territorio – che intende continuare a basare la propria crescita su un’economia diversificata, da un lato promuovendo l’innovazione, il sostegno alle produzioni di eccellenza e la qualità territoriale e dall’altro evitando l’insorgere di conflitti d’uso del suolo, lo snaturamento dei luoghi e un ulteriore consumo di suolo” (Comunità Rotaliana Königsberg, 2013). Un’immagine alla quale si accompagna la volontà di adeguare l’intero assetto territoriale - con grande attenzione alla forma dei luoghi se non alle loro funzioni - a quella che appare esserne il tratto peculiare, ossia

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la vocazione agricola. Il che non significa in alcun modo rinunciare al cambiamento, sollecitato peraltro dall’acquisizione di funzioni sempre più avanzate - se non metropolitane - da parte della città di Trento (Diamantini, 2014), ma indirizzarlo, rendendolo sinergico con la qualità dei luoghi. Ne conseguono scelte puntuali, sancite nel preliminare dell’Accordo quadro tra le amministrazioni coinvolte, riassumibili nelle seguenti: a. il consolidamento delle funzioni e del ruolo dei centri urbani, con particolare riferimento a funzioni centrali svolte storicamente; b. la tutela e la valorizzazione del patrimonio ambientale, storico e culturale, con particolare riferimento ai centri storici; c. il contenimento delle trasformazioni d’uso del suolo, con particolare riferimento al mantenimento dell’integrità del suolo agricolo; d. l’arresto e l’inversione, dove possibile, della dispersione insediativa anche attraverso la restituzione di aree urbanizzate a verde agricolo; e. la promozione dei processi edilizi in funzione della densificazione e della riqualificazione dei tessuti urbani esistenti; f. il superamento graduale dello zoning e la promozione dell’integrazione delle funzioni con riferimento da un lato alle zone industriali e dall’altro ai grandi comparti edilizi monofunzionali; g. l’adeguamento degli spazi costruiti, con riferimento ai bordi e alle frange urbane, alla campagna circostante in modo da trasmettere un senso di sinergia territoriale anziché un senso di casualità e di disordine insediativi; h. la promozione di un sistema integrato di mobilità, incentivando le connessioni locali e le infrastrutture verdi; i. l’identificazione e l’implementazione della connettività ecologica, con particolare riguardo da un lato agli ambiti interessati dalla mobilità dei mammiferi e dall’altro al ruolo del reticolo idrografico minore; l. l’incentivazione del carattere multifunzionale degli spazi aperti e in particolare di quelle parti di territorio in cui maggiormente le diverse funzioni interagiscono; m. l’ottimizzazione dei consumi energetici e il ricorso a fonti di energia rinnovabile, attraverso la costruzione di appositi quadri conoscitivi a supporto di decisioni; n. la promozione della riconoscibilità e dell’attrattività dei luoghi ponendo il paesaggio al centro delle scelte e delle azioni conseguenti. In questo quadro, uno dei temi sui quali si è accentrata l’attenzione, ai

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fini della redazione del Piano, è quello della presenza delle grandi aree industriali sedimentate dai processi di trasformazione del territorio intervenuti negli scorsi decenni.

TEMI E MODALITÀ DI RICICLO DELLE AREE PRODUTTIVE L’esito formale del processo di localizzazione dell’industria nella Rotaliana Königsberg è da ritenersi problematico, dal momento che le aree produttive risultano composte:

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- da grandi recinti industriali del tutto separati dagli insediamenti; - da aree la cui demarcazione interviene per il tramite di elementi deboli, che definiscono una condizione di limite ambigua; - da grandi contenitori isolati nella campagna. Dal punto di vista dell’uso del suolo, la contiguità delle aree produttive con le aree agricole di pregio e, soprattutto, con le aree ad alto valore naturalistico non è esente da conflitti, la cui soluzione non può che passare attraverso il ripensamento delle forme insediative e degli spazi che ospitano le attività produttive. L’occasione per questo ripensamento è data, oltre che dalle scelte di piano, dalla presenza di processi di dismissione e quindi dalla possibilità di lavorare su ambiti che richiedono un profondo rinnovamento.

Il grado di utilizzo delle aree produttive Le aree produttive della Rotaliana Königsberg presentano oggi, in alcune loro parti, un elevato livello di obsolescenza - dei volumi, degli elementi accessori, delle aree pertinenziali, dei recinti - oltre che un elevato grado di sottoutilizzo e di dismissione. Già in fase di elaborazione del Documento preliminare del Piano territoriale di Comunità era emersa la necessità di comprendere lo stato di salute delle attività produttive e, di conseguenza, il grado di occupazione e/o di dismissione delle aree industriali. A distanza di vari mesi dall’approvazione del Documento preliminare si è reso necessario un aggiornamento del censimento che era stato condotto in quella prima fase, considerata la rapidità con la quale la situazione si era evoluta. L’Ufficio pianificazione urbanistica della Comunità ha redatto sia il primo censimento che l’aggiornamento dello stesso. Attraverso il censimento aggiornato delle aree produttive è stato possibile classificarle in quattro categorie: - aree occupate da edifici e/o da elementi accessori attivi; - aree e/o edifici dismessi; - aree in transizione, per esempio edifici in corso di ristrutturazione e in attesa di essere locati; - aree non utilizzate, ossia perimetrate dal Piano urbanistico provinciale

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Ufficio pianificazione urbanistica della ComunitĂ Rotaliana-KĂśnigsberg Mappatura del grado di utilizzo delle aree produttive: Mezzolombardo

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(PUP) e dai PRG ma non ancora insediate. Negli otto comuni della Comunità si registrano situazioni piuttosto diverse: si va da Mezzocorona in cui l’insediamento produttivo regge bene a Mezzolombardo in cui il 12% circa della superficie totale è costituito da attività dismesse e quasi il 7% non è stato ancora attuato.

Mezzolombardo L’area produttiva si sviluppa in un’area interclusa tra il torrente Noce e la Rupe. Nella parte a sud il confine di quest’area coincide con la Trento-

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Rocchetta, un’arteria stradale di recente realizzazione che costituisce anche il confine verso nord del biotopo “La rupe” (SIC IT3120054). A sua volta, la SP90, che attraversa l’insediamento produttivo dividendolo in due parti, viene a rappresentare oggi l’accesso principale ai centri urbani di Mezzolombardo e di Mezzocorona per chi proviene da sud, ossia da Trento. A nord, l’area confina con aree agricole considerate di pregio dal PUP. È qui che lo stesso PUP individua un’area produttiva di progetto - di interesse provinciale - di oltre 5 ettari di superficie in parte già occupata (circa 2 ettari) e in parte ancora coltivata. Le due zone in cui la SP90 divide l’area produttiva presentano caratteristiche piuttosto diverse. Quella a est, la prima ad essere stata occupata, è quella con il numero maggiore di aree in dismissione e/o in transizione. Presenta edifici obsoleti e aree di pertinenza poco curate e cui è rivolta una scarsa manutenzione. Anche le recinzioni e tutti gli elementi accessori sono di scarsa qualità e, spesso, questi ultimi sono distribuiti con poca razionalità rispetto all’edificio principale. La parte a ovest, invece, presenta edifici di maggiore qualità e un rapporto meglio risolto tra lotto e spazi pubblici essendo gli spazi pertinenziali più curati. Dal punto di vista del grado di occupazione/utilizzo dell’area produttiva, nella parte a est della strada provinciale sono presenti 30 attività e 5 edifici dismessi, in quella a ovest, invece, sono presenti 33 attività e 1 solo edificio dismesso. Complessivamente ci troviamo di fronte a un’area produttiva esistente di 40,27 ettari e a un’area di progetto di 5,04 ettari per un totale di 45,31 ettari. Di questa superficie 5,87 ettari - pari al 12,95% - sono occupati da attività dismesse; 4,18 ettari - pari al 9,22% - si trovano in una fase di transizione (edifici in ristrutturazione, in attesa di trovare locatari, ecc.) e 2,64 ettari - pari al 5,82% - non hanno ancora trovato attuazione. Le aree non attuate coincidono con l’area produttiva di progetto, di interesse provinciale.

Mezzocorona Le aree produttive di interesse provinciale presenti nel comune di Mezzocorona sono costituite da due nuclei. Il maggiore è situato nell’area pianeggiante a ridosso della linea ferroviaria Verona-Brennero e del confine comunale con Mezzolombardo. L’area si sviluppa interamente all’interno di un triangolo formato dalla SS43, dalla SP90 e dalla ferrovia.

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Il nucleo più piccolo, invece, rimane isolato e si sviluppa a forma di L rovescia tra la SP29 e la Fossa di Caldano, in una posizione che gode di ottima visibilità dalla A22, l’autostrada del Brennero. Questo nucleo costituisce una presenza molto critica dato che è totalmente circondato da aree agricole di pregio (classificazione dal PUP) che, se non fosse per questa interruzione, si susseguirebbero senza soluzione di continuità da Roveré della Luna fino a Grumo. Anche il nucleo principale è in gran parte circondato da aree agricole di pregio a esclusione della parte che presenta una diretta connessione con il centro urbano. Si tratta di insediamenti che hanno subito recenti processi di riqualificazione e che, quindi, vedono una presenza elevata di nuovi edifici e di aree di pertinenza di una certa qualità. Gli insediamenti meno recenti e che non hanno subito interventi di riqualificazione si trovano nella parte centrale del triangolo. Si tratta di edifici di notevoli dimensioni che occupano lotti di superficie consistente; in particolare la Sepr Italia, una costola del gruppo francese Saint Gobain, insiste su un lotto di circa nove ettari e mezzo in gran parte non impermeabilizzato, sul quale si trovano alberi ad alto fusto che mitigano l’impatto del costruito. Il nucleo principale è classificato come produttivo esistente e copre una superficie di 26,14 ettari; non presenta aree dismesse né in transizione né in attesa di realizzazione. Il nucleo più piccolo è composto da un’area produttiva di 5,64 ettari e di un’area di progetto di 1,72 ettari. Quest’ultima area appare tuttora coltivata. L’area sulla quale insiste l’edificio della Valman, di 3,51 ettari, è in una fase di transizione; l’attività tessile infatti non è completamente cessata ma si è ridotta di molto e l’edificio è già stato messo in vendita. A completamento di questo quadro va ricordata la presenza, accanto al nucleo produttivo principale, di un nucleo produttivo di interesse comunale che viene a coincidere con la presenza della Nosio S.p.a., a sua volta una struttura del Gruppo Mezzacorona, ossia una delle maggiori cooperative vitivinicole non solo del Trentino, ma anche del Paese. La qualità architettonica della Nosio, unita alla cura meticolosa delle pertinenze esterne, finisce con l’accentuare il carattere obsoleto di molte strutture produttive del nucleo adiacente.

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Lavis - Località Zarga Quest’area presenta una forma di triangolo isoscele, con vertice rivolto a sud, i cui cateti sono rappresentati dalla ferrovia Verona-Brennero a est e dalla A22 a ovest. A nord l’area confina con una superficie agricola di rilevanza locale, per cui risulta difficilmente accessibile dal momento che l’unico lato relativamente permeabile è proprio quello verso nord. L’area è piuttosto omogenea rispetto agli usi e presenta due siti potenzialmente inquinati dei quali è prevista la bonifica e un’area di cui è previsto il ripristino ambientale, concomitantemente alla sua bonifica. L’area si sviluppa su una superficie di 15,47 ettari. Il 5,3% della superficie - pari a 8.210 mq situati al vertice del triangolo - appare situato tra l’area di servizio della Paganella e la ferrovia e non risulta ancora occupato. Questa superficie costituisce, per una porzione, lo spazio residuale di uno svincolo stradale; un’altra parte, invece, è ancora coltivata.

Lavis - Località Giaroni Quella di Giaroni costituisce l’area produttiva di interesse provinciale più grande del Comune di Lavis. Si sviluppa su una superficie di 81,49 ettari di cui 75,71 ettari di aree produttive esistenti, 1,34 ettari di aree produttive di progetto e 4,42 ettari di aree di riserva. È composta da due nuclei, quello principale ha una forma molto compatta, e confina, a sud con il torrente Avisio - che in quel tratto è anche un SIC (IT3120053 Foci dell’Avisio) - a nord con aree agricole di pregio (art. 48bis NTA), a est con aree agricole di rilevanza locale (art. 50 NTA) e, a ovest, con il fascio infrastrutturale costituito dalla ferrovia del Brennero, dalla A22 e dall’arteria TrentoRocchetta. Al di là di questo fascio infrastrutturale si estendono l’area produttiva di progetto e quella di riserva. Soprattutto nella parte più centrale l’insediamento principale è molto denso e le strade di penetrazione sono spesso piuttosto strette e prive di marciapiedi. Il tessuto presenta una certa regolarità sia per effetto degli allineamenti degli edifici che per la struttura delle strade. L’area è del tutto priva di servizi, quali bar, attività di ristorazione, sportelli bancari, ecc. È prevista da tempo un’area per attrezzature multiservizio (art. 45 NTA), lungo via Galilei che però non è stata ancora attuata. Il PRG di Lavis declassa l’area di riserva ad “area agricola pregiata di rilevanza locale” (art. 49 NTA) e riperimetra, a est,

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l’area produttiva esistente sottraendole un triangolo della superficie di circa due ettari e mezzo che in parte destina ad area produttiva di interesse locale (1,2 ettari) e in parte ad “area agricola di rilevanza locale” (art. 50 NTA). L’area produttiva di progetto non è stata ancora attuata ma ospiterà l’attività di cava che attualmente è esterna al perimetro dell’area industriale di livello provinciale e occupa una porzione piuttosto ampia dell’alveo dell’Avisio, ricadendo in un’area di protezione fluviale dell’Avisio, (art. 59 NTA). Solo 1,84 ettari di area produttiva esistente, pari al 2,26% della superficie totale, presentano edifici dismessi. Si tratta di piccoli lotti distribuiti più o meno uniformemente su tutta l’area. Solo un lotto, al margine sud dell’insediamento, di 4.500 mq, non è stato ancora attuato.

Le indicazioni delle amministrazioni comunali La necessità di una riflessione sulle aree produttive è emersa anche durante la fase di confronto con i sindaci della Comunità. Uno dei temi di discussione, infatti, è stato proprio lo stato di alcuni comparti produttivi, soprattutto alla luce degli effetti della crisi economica in atto. Dalle conversazioni con i sindaci era nata l’esigenza, oltre che di avere un quadro preciso della situazione, di mettere a punto scelte di piano in grado di affrontarla. Le problematiche e le indicazioni più rilevanti, anche se diverse da comune a comune, hanno riguardato: a. la dimensione non trascurabile del fenomeno della cessazione di attività produttive e della relativa dismissione degli immobili; b. la necessità di individuare nuove funzioni per i comparti produttivi dismessi; c. la conseguente necessità di rimuovere o adattare gli immobili dismessi a queste nuove funzioni; d. l’impossibilità da parte delle amministrazioni di accollarsi i costi di tali operazioni; e. la presenza sul territorio di attori interessati all’utilizzo, con differenti funzioni, di manufatti industriali dismessi; f. l’opportunità di ridurre le aree produttive esistenti tenuto conto della contrazione della domanda di nuove aree e di consentire in quelle esistenti una maggiore flessibilità d’uso.

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L’approccio utilizzato Tenendo conto anche dell’esigenza di rivedere alcune scelte pianificatorie per adeguarle alla nuova congiuntura economica e alle istanze sia delle amministrazioni che dei soggetti che operano sul territorio, l’approccio del Piano territoriale al tema delle aree produttive rimanda, da un lato, alla visione del futuro del territorio della Comunità, richiamata nelle note iniziali, che sottende l’intera redazione del piano, e, dall’altro, ad alcune questioni specifiche, di seguito riportate. Le aree industriali dismesse o in via di dismissione rappresentano non tanto un problema, quanto delle opportunità. Una prima opportunità è rappresentata dal fatto di costituire una sorta di riserva di aree urbanizzate, disponibili per l’esercizio di diverse funzioni, in una situazione in cui la disponibilità di suolo edificabile in spazi aperti è di fatto cessata in virtù di scelte accorte rinvenibili anche nel quadro normativo. In altri termini, se la scelta di contenere il consumo di suolo non vuole tradursi nell’arresto dell’attività edilizia, questa deve avere la possibilità di svolgersi altrimenti e, in tal senso, il riciclo dell’esistente è la sola opportunità che si offre. Una seconda è rappresentata dal fatto di costituire dei veri e propri laboratori per la riqualificazione dei tessuti urbani esistenti, in funzione sia della vivibilità dei luoghi che della loro percezione. In altri termini, è opportuno che l’intervento sulle aree dismesse non si risolva esclusivamente nella conferma o nella assegnazione di nuove funzioni, in chiave, quindi, economica, ma diventi l’occasione da un lato di una ricucitura tra queste aree e il tessuto urbano e dall’altro, coerentemente, dell’assunzione di una effettiva qualità urbana. Una terza è rappresentata dal fatto di costituire un’occasione per restituire ai luoghi la loro vocazione originaria. In altri termini, si tratta di privilegiare nella conferma o nell’assegnazione di funzioni quelle attività che possono sinergere all’interno di filiere - come la produzione agro-alimentare storicamente radicate oltre che di sostegno dell’economia locale. Una quarta, infine, è rappresentata dal fatto di costituire un’occasione, con riferimento a manufatti che emergono impropriamente dalle superfici agricole, per il ripristino del verde agricolo stesso. La possibilità di cogliere interamente queste opportunità risiede, però, in una rivisitazione di paradigmi del piano, a partire dalla rigida applicazione dello zoning.

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Obiettivo del piano diventa pertanto la trasformazione, dove possibile, delle aree produttive in aree multifunzionali, ossia aree in cui convivono funzioni anche molto diverse. Questo obiettivo viene perseguito anche garantendo e incentivando dove possibile - la presenza di attività produttive, soprattutto quelle condotte a piccola scala e legate a specifiche filiere. È prevista la possibilità di introdurre spazi commerciali, spazi per la ricerca, servizi pubblici e non - e, in una prospettiva non lontana, anche residenze qualora la riqualificazione dei luoghi e la loro connotazione urbana lo consenta. E questo, con l’accortezza di garantire una certa proporzione tra le attività presenti anche in funzione della continuità di quelle attività che, con riferimento ai valori della rendita fondiaria, sono meno competitive. Tale tipo di trasformazione, è opportuno ripetere, non può che passare attraverso un ripensamento delle aree produttive dal punto di vista spaziale, considerando attentamente non solo i volumi e gli spazi di pertinenza dei lotti, ma soprattutto gli spazi pubblici e/o di interfaccia con il pubblico orientandosi verso una maggiore integrazione tra ambiti diversi, quello agricolo/produttivo, quello infrastrutturale/produttivo e quello urbano/ produttivo. Si tratta, nella sostanza, del superamento dell’idea di un territorio costituito da parti ben distinte e specializzate che posseggono caratteristiche funzionali e morfologiche univoche e omogenee e dell’introduzione di un concetto più ampio di urbanità, più inclusiva, che ammette integrazioni e commistioni e che induce a lavorare sui margini, sulla condizione di “limite” e sulla possibilità di creare elementi di connettività e di continuità che annullino il senso - fisico e percettivo - di separatezza. Le ipotesi che il Piano territoriale di Comunità ha sviluppato sulle aree produttive sono sostanzialmente due: - la riperimetrazione e la riclassificazione delle aree produttive; - l’accentuazione e/o l’introduzione di tratti urbani negli ambiti produttivi.

La riperimetrazione e riclassificazione delle aree produttive La Legge Provinciale 15/2015, all’art. 2, tra le finalità della legge e i principi generali cui si ispira indica il perseguimento di uno sviluppo sostenibile e durevole mediante “il risparmio del territorio e l’incentivazione delle tecniche di riqualificazione, limitando l’impiego di nuove risorse

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territoriali alle ipotesi di mancanza di alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del contesto urbanistico ed edilizio esistente”. La stessa legge, all’art. 18, promuove la limitazione del consumo del suolo, favorendo “il riuso e la rigenerazione urbana delle aree insediate, attraverso interventi di ristrutturazione urbanistica e di densificazione”, mantenendo e incrementando “l’attrattività dei contesti urbani in ragione della pluralità delle funzioni presenti”, promuovendo “il miglioramento del livello di qualità del contesto urbano, anche favorendo la manutenzione ordinaria e straordinaria e l’innovazione delle opere di urbanizzazione e delle dotazioni collettive” e privilegiando “la riclassificazione delle aree

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produttive di livello provinciale esistenti in aree produttive di livello locale, al fine di rispondere alle nuove esigenze insediative”. Ancora, all’art. 23, tra i contenuti del Piano territoriale, la legge indica l’individuazione delle aree sovracomunali con riferimento, tra l’altro, “alla delimitazione e alla disciplina delle aree produttive del settore secondario di livello provinciale” e “alla riclassificazione delle aree produttive da livello provinciale a locale”. Infine, all’art. 118, la legge indica tra le attività ammesse nelle aree produttive del settore secondario di livello locale “le attività terziarie che per dimensione insediativa, infrastrutture di pertinenza e per carico

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urbanistico richiedono rilevanti spazi e volumi, quali attività di servizio, uffici, palestre, attività ludico-ricreative, strutture per manifestazioni musicali, sportive ed espositive”, oltre che il commercio all’ingrosso. Forte di questi riferimenti, per quanto riguarda la riperimetrazione, il Piano territoriale di Comunità prevede, in alcuni casi, lo scorporo tout court di superficie produttiva e, in altri casi, il contenimento di una parte di essa in ambiti più compatibili con il ridisegno di interi comparti urbani. Per quanto riguarda, invece, la riclassificazione, esso prevede il raggiungimento di un mix funzionale che assecondi le esigenze di riorganizzazione produttiva e spaziale. Il piano riperimetra le aree produttive di livello provinciale basandosi sui seguenti criteri: - il declassamento delle aree di livello provinciale in cui si assiste a processi di forte dismissione e/o sottoutilizzo e a un utilizzo molto promiscuo; è il caso dell’area produttiva di Mezzolombardo e dell’area in cui è insediata la Valman a Mezzocorona; - il declassamento delle aree produttive di livello provinciale non ancora attuate, come nel caso dell’area confinante con quella della Valman a Mezzocorona; - il declassamento delle aree produttive di riserva non ancora attuate; è il caso dell’unica area produttiva di interesse provinciale di riserva di Lavis; questa operazione è stata già prevista nel piano regolatore generale con la variante del 2010; - il declassamento delle aree produttive di livello provinciale esistenti già sancito dai PRG, come nel caso di un’appendice dell’area produttiva di Giaroni a Lavis destinata ad area agricola di rilevanza locale; - il declassamento delle aree produttive di livello provinciale in cui è presente una forte vocazione alternativa, come nel caso del Triangolo di Mezzocorona; - nel caso in cui le aree provinciali di progetto o di riserva non attuate siano confinanti con aree agricole di pregio o con aree agricole il loro declassamento avviene a favore delle aree agricole di pregio. Nel caso del Triangolo di Mezzocorona non è stato rilevato uno stato di dismissione o di abbandono ma piuttosto è stata individuata una vocazione che è plurima e non solo industriale, vocazione che è incentrata sulla

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filiera vitivinicola, di cui la cittadella del vino rappresentata dalla Nosio è una testimonianza tangibile. Il Piano non intende in alcun modo - e non rientrerebbe neanche tra i suoi compiti - creare ostacoli alla presenza di un sistema industriale (quello manifatturiero) ancora attivo e in buona salute e tanto meno precluderne l’espansione, bensì, in una prospettiva urbanistica di realizzazione di “luoghi migliori” (Healey, 2010), sollecitare: - la rigenerazione dello spazio dell’industria attraverso la riqualificazione degli spazi pubblici a partire dalla viabilità, al fine di trasformarlo in uno spazio permeabile, non precluso ad altri usi civici; - la conversione delle attività industriali dismesse in attività terziarie e/o legate alla filiera agro-alimentare, al fine di farne altrettante occasioni di riqualificazione urbana. In questo quadro si è tenuto conto della preoccupazione manifestata dalla Provincia a fronte di un declassamento che andava a interessare anche le superfici e i contenitori edilizi di maggiori dimensioni. Questi ultimi avrebbero potuto invece fungere, nel disegno provinciale, da ambiti da riservare a soggetti intenzionati a localizzare attività, soprattutto industriali, in Trentino. A questo fine per tali superfici, presenti sia a Mezzolombardo che a Mezzocorona, è stata mantenuta la destinazione di aree produttive di interesse provinciale.

L’introduzione di caratteri urbani negli ambiti produttivi Benché il Piano territoriale di Comunità non abbia tra i suoi compiti la riconfigurazione formale di parti di territorio, la necessità di dover ridefinire e aggiornare i perimetri delle aree produttive, la loro complessa struttura in parte profondamente degradata, e, infine, l’intrinseca relazione tra verde agricolo - la precisazione dei perimetri delle aree agricole e delle aree agricole di pregio è di competenza del Piano territoriale - e insediamenti, non poteva che indurre anche a un ripensamento delle forme dell’insediamento. Il piano diventa, quindi, l’occasione per proporre, alla Comunità di valle e ai Comuni che ne fanno parte, alcuni suggerimenti progettuali che fanno della necessità di riqualificare porzioni di territorio un pretesto per avviare processi di riciclo urbano-territoriale.

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Le ipotesi progettuali costituiscono dei tentativi di riconfigurazione delle trame insediative più deboli - le aree produttive e la periferia dispersa - soprattutto attraverso gli spazi aperti - piazzali, campi coltivati, aree boscate, ecc. Un ruolo importante nel ridefinire o, spesso, definire una possibile struttura urbana è rivestito dagli elementi lineari - infrastrutture della mobilità lenta, assi di collegamento, corsi d’acqua - che diventano maglie solide. L’esistente viene assunto “nelle sue potenzialità di risorsa materiale da ri-ciclare e re-inventare radicalmente, a favore di nuovi disegni, per nuovi cicli di vita” (Bocchi, 2014). Le aree sulle quali è stata condotta la sperimentazione progettuale sono tre: “La Rupe” a Mezzolombardo, il Triangolo produttivo di Mezzocorona e Località Zarga a Lavis. Gli interventi ipotizzati possono essere raggruppati secondo tre categorie che corrispondono ad altrettanti gradi di attuabilità: interventi sugli spazi pubblici e/o accessibili al pubblico e/o di interferenza con gli spazi pubblici, che possono essere implementati dagli enti pubblici; interventi di riciclo dell’esistente che devono essere attuati da privati attraverso forme di premialità anche di tipo volumetrico; interventi di riqualificazione dell’esistente che devono essere attuati da privati attraverso l’utilizzo di incentivi per la manutenzione e/o la ristrutturazione edilizia. Infine, agli spazi aperti è assegnato il compito di risolvere la cesura con il paesaggio circostante. Gli spazi aperti costituiscono l’elemento di transizione: da un’urbanità a maglie larghe - quella dei capannoni industriali e/o multifunzionali - a una urbanità a grana piccola - quella dell’insediamento disperso - a spazi naturali controllati - per esempio quelli del margine fluviale - e, infine, ad aree agricole produttive. Nel caso di Mezzolombardo il progetto punta, innanzitutto, a integrare l’area produttiva al contesto urbano cercando di “smaterializzarne” i bordi e rafforzando gli assi urbani che la collegano al centro cittadino. L’ipotesi viene sostenuta anche attraverso la messa in discussione dello zoning e la promozione di aree multifunzionali che ospitano funzioni che possono agevolare un sostanziale cambio di immagine, oltre che di funzioni, delle aree stesse. Il progetto prevede un ambito di riqualificazione urbana lungo l’asse principale di accesso al paese. La riqualificazione interviene attraverso l’estensione della rete della mobilità lenta e quindi delle piste ciclabili, oltre che l’introduzione di una struttura vegetale lineare. Da questo asse principale si irradia un sistema secondario fatto di percorsi e di elementi

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La riqualificazione degli spazi pubblici dell'area produttiva di Mezzolombardo

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La riqualificazione degli spazi pubblici dell'area produttiva di Mezzocorona

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La riqualificazione degli spazi pubblici dell'area produttiva di Lavis

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lineari naturali che ha lo scopo di connettere il sistema infrastrutturale con il sistema naturale costituito dal torrente Noce e dalla sua sponda vegetata. L’ipotesi progettuale individua, inoltre, una serie di fronti di edifici e di piazzali - visibili dalle strade coinvolte nel progetto e/o contigui alle aree naturali di interesse progettuale - che dovrebbero essere riqualificati. Gli interventi di riqualificazione dei piazzali si caratterizzano diversamente a seconda degli ambiti a cui sono prossimi: alcuni assumono caratteri di maggiore urbanità e altri di maggiore naturalità. Il progetto, infine, indica, come nodo da risolvere paesaggisticamente, l’accesso a un biotopo contiguo all’area produttiva. Anche nel caso di Mezzocorona il progetto ha come principale obiettivo l’integrazione dell’area produttiva con il nucleo urbano. La connessione tra le due realtà si realizza, innanzitutto, attraverso il rafforzamento dei collegamenti pedonali e ciclabili. Il sistema delle piste ciclabili che circonda la maggiore delle due aree produttive e in parte l’attraversa, costituisce, in questo modo, un collegamento diretto con la stazione ferroviaria e il centro cittadino. Il rafforzamento dei collegamenti avviene attraverso la riqualificazione degli stessi dal punto di vista urbano e paesaggistico, ad esempio, con il ridisegno della sezione stradale introducendo, ove possibile, una struttura vegetale lineare, i marciapiedi e la pista ciclabile in sede propria. A questo stesso fine sono destinati alcuni interventi di riqualificazione di fronti di edifici e di piazzali che sono visibili e/o accessibili dalle strade che sono coinvolte nel progetto, e il rafforzamento di alcune aree verdi, interne all’area produttiva, che, grazie alla massa di alberi ad alto fusto, riescono a rompere la compattezza dell’insediamento costruito. Per un possibile intervento sul lotto occupato da un’azienda di fatto dismessa il Piano territoriale propone di indire un concorso internazionale di progettazione che consenta di attuare su quest’area - considerata la grande visibilità del lotto dall’autostrada - un complesso di alta qualità architettonica che funga da “vetrina del territorio” e, in particolare, della produzione agricola, vinicola e gastronomica locale. Infine, nel comune di Lavis, il progetto ipotizzato dal piano prevede un intervento di riqualificazione urbana lungo l’asse che mette in collegamento le propaggini del centro cittadino con l’area produttiva in Località Zarga e che costituisce un elemento di connessione tra le tre stazioni ferroviarie

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presenti nel comune. L’intervento proposto si pone come una possibile soluzione paesaggistica all’attacco irrisolto tra l’area pianeggiante che ospita l’insediamento industriale e la collina vitata che stacca quasi a partire dal ciglio stradale. Lungo quest’asse, inoltre, la presenza di un edificio dismesso e il progetto per la realizzazione, sullo stesso lotto, di una grande superficie di vendita, diventano occasione per la definizione di un piano attuativo che mette in discussione l’edificio monofunzionale introducendo l’integrazione tra attività commerciali, ludico-ricreative, ricettive, esercizi pubblici, e dà indicazioni rispetto alla configurazione stessa dell’edificio al fine di ottenere una migliore integrazione in un contesto in cui convivono infatti caratteri di periurbanità e di ordinata ruralità che, sebbene non conflittuali, sono certamente eterogenei. In conclusione, il criterio che ha guidato la progettazione è ancora quello, derivato dalle scelte di piano, di realizzazione di “luoghi migliori”, intesi come esiti coerenti del ripensamento degli stessi luoghi in funzione di uno sviluppo più attento insieme alle loro vocazioni e ai loro caratteri.

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I recinti vuoti e dismessi della cittĂ Ex Sloi ed ex Carbochimica a Trento Nord, 2015

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RE-CYCLE DESIGN IMPLICAZIONI DI UN CONCETTO PER L’ARCHITETTURA E LA CITTÀ Claudia Battaino Luca Zecchin > UNITN - DICAM

CONCEPTS Re-cycle è una chiave di lettura e uno strumento operativo con cui interpretare fenomeni e pratiche che da sempre accompagnano la costruzione dello spazio abitato, l’architettura, la città, il territorio. Recycle, infatti, indica una serie di azioni volte a mettere al passo con i tempi qualche cosa, una trasformazione volta a innescare nuovi cicli di vita in un processo dinamico (Mcdonough W., Braungart M., 2002) che non comporta il recupero di una forma originaria. Il concetto di re-cycle può essere utile per ripensare le forme di urbanizzazione più recenti - le periferie interne ed esterne che si conformano come chiuse, impermeabili, monofunzionali, definite da materiali a bassa tecnologia e caratterizzate da bassa articolazione spaziale - che presentano marginalità diffuse di tipo ambientale, sociale, economico. Sono questi i contesti urbani ordinari in cui la ricerca architettonica è chiamata a interrogarsi per definire nuove strategie di trasformazione, per individuare progetti relazionali e programmi complessi che si sviluppino

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nel tempo, che siano capaci di affrontare i problemi legati all’obsolescenza o alle questioni ecologiche ed energetico-ambientali e di generare spazi urbani inclusivi e sostenibili. Nuove interpretazioni della città e progetti che coinvolgano manufatti e spazi della nostra epoca, sono oggi più che mai necessari. Perché i materiali della città contemporanea non sono gli stessi della città antica, il paesaggio urbano spesso attuale è costituito da materiali che non sono o non sono ancora architettura (Viganò P. 2011). Le nostre città dominate dallo junk spaces - residuo della modernizzazione che non è l’architettura moderna, ma è ciò che resta quando un processo di modernizzazione si è concluso (Koolhaas R. 2008) - possono offrire molte possibilità, una riserva potente, frammenti di oggetti e spazi che potranno subire continue trasformazioni, esiti di una società dinamica in rapida evoluzione. Negli ultimi venti anni l’edilizia ha invaso territori prima non toccati, generando periferie sempre più vaste e lontane dal nucleo originario. A questo fenomeno fa da contrappunto la vasta dismissione di molte aree. La città contemporanea è dunque l’esito della sovrapposizione e della vicinanza spaziale e temporale di più città differenti, da un lato una città costruitasi nel Novecento per pezzi e parti formalmente compiute, quartieri urbani oggi inglobati e fagocitati dall’espansione urbana successiva, esito di piani e progetti unitari di ampio respiro, dall’altro lato una città fatta di placche interamente artificiali, occupate da grandi contenitori di attività altamente specializzate che sono stati lasciati a se stessi nel momento in cui quelle funzioni cessavano di essere utili alla società che le aveva prodotte. Questo continuo mutamento della città, soprattutto per quanto riguarda i luoghi dell’abitare e quelli della produzione, ha lasciato in eredità diverse tipologie di aree sensibili e fragili. Aree che sono state descritte in base alle caratteristiche e alle problematiche che presentano (Berger A., 2006; Doron G.M., 2007). Brownfields si riferisce ad aree abbandonate che possono essere riprogettate ma richiedono un ingente lavoro di bonifica per ripulirle da agenti contaminanti che possono renderle pericolosa per le attività future. Greyfields indica grandi aree che soffrono di sottoutilizzo o scarsa manutenzione, che le hanno rese poco attrattive. Una volta abbandonate, queste aree possono rappresentare un ottimo investimento

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per la collettività considerato che dispongono di molte infrastrutture. Redfields comprende proprietà in crisi e che sono attualmente inoperose o abbandonate. La peculiarità di queste aree, nelle varie situazioni, è che possono trovarsi ovunque all’interno del tessuto urbano e rappresentano quindi un’opportunità unica per modificare parti della città consolidata. Le diverse tipologie descritte conducono a soluzioni e programmi diversificati, imperniati sul re-cycle di ciò che ha esaurito, o che sta esaurendo il suo ciclo di vita. Se la storia dell’architettura e della città è utile a cogliere il senso del presente, il futuro delle città consisterà nella loro modificazione adattiva

Le riserve urbane intercluse Capannoni tra le infrastrutture a Trento Nord, 2015

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e resiliente (Mostafavi M., Doherty G., 2010). La resilienza, infatti, è quella proprietà di un sistema di mantenere la sua stabilità rispetto a uno stato di equilibrio iniziale, le strategie di adattamento mettono costantemente in discussione una struttura data, inducendo modificazioni capaci di renderla continuamente resiliente secondo un ciclo di rinnovamento adattivo (Gunderson L.H., Holling C.S., 2002). Esigenze funzionali, economiche, politiche o amministrative hanno indotto profonde mutazioni nella struttura urbana, molti dei monumenti antichi sono stati piÚ volte trasformati. Questa manomissione creativa,

Le riserve urbane intercluse I quartieri di social housing. Le Fucine a Rovereto, 2014

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sopra strutture architettoniche preesistenti, è ancora leggibile nella stratificazione profonda delle nostre città, che riusandone varie parti ne ha permesso la conservazione. L’invenzione di un piano in più, può cambiare il volto e il paesaggio della città, una città che cresce o decresce su se stessa, per strati e tempi, riusando gli stessi materiali, richiede però una cultura architettonica capace di innescare processi di mutazione, progressivi, spontanei o programmati. Il futuro dell’architettura e della città consiste dunque nella modificazione dell’esistente (Gregotti V., 1982), il principio base della trasformazione consiste nell’inserimento del nuovo nelle strutture preesistenti, senza nasconderle, allo scopo di valorizzare entrambe. Definiamo dunque con re-cycle le azioni d’intervento, tra loro differenti, che trasformano e provocano un inevitabile mutamento del rapporto con le preesistenze, nuovi edifici che estendono la vita di quelli originari e ne accrescono e trasformano il significato. Innesti, addizioni, svuotamenti, aggiunte, nuovi volumi e strutture sopra la città generano nuova vita. Ai temi del re-cycle si sommano quelli legati al hyper re-cyle, l’attivazione di più cicli di vita rispondenti alla necessità emergente d’integrazione delle istanze ecologiche e ambientali sistemiche (McDonough W., Braungart M., 2013). Si tratta di una idea di città costituita da reti di spazi progettati come infrastrutture eco-efficienti, plurifunzionali e integrate. Definiamo dunque con hyper re-cycle le azioni d’intervento, tra loro differenti, che trasformano l’esistente per renderlo più efficiente e rispondente alle esigenze dell’oggi, meno in conflitto con l’ambiente, più inclusivo dal punto di vista sociale, più efficace dal punto di vista energetico, sistemico ed ecologicamente performante. Oggetto del presente lavoro di research by design, sono le unità morfologiche indipendenti dotate di relazioni interne autonome, solo debolmente legate alla città, che si trovano di fatto isolate rispetto al funzionamento urbano e territoriale. Si tratta di oggetti urbani - in uso, sottoutilizzati o abbandonati - particolarmente sensibili e a rischio perché legati a fenomeni di degrado ambientale o sociale o semplicemente obsoleti. Il sistema insediativo della Valle dell’Adige è un caso studio rappresentativo di tratti comuni di altre realtà e specificità proprie della regione alpina. Nella città arcipelago (Bocchi R., 1989) trentina le unità morfologiche indagate sono le isole, costituite dai quartieri residenziali della città

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pubblica e i tessuti della città produttiva, di tipo commerciale, artigianale, industriale, che nonostante la diversa origine edilizia, presentano notevoli elementi in comune. I quartieri residenziali presi in esame, quartieri modello per la qualità della progettazione, così come grandi aree artigianali di carattere più ordinario, sono in crisi per la necessità di aggiornamenti edilizi e relazionali con il resto della città, l’articolazione di spazi e funzioni della socialità, la coesione del tessuto edilizio, il disegno del sistema degli spazi aperti e dei collegamenti. Sono brani della città che hanno bisogno di una nuova narrazione, di

Il social housing come patrimonio Comparto Condomini Maioliche a Rovereto, 2014

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essere ripensati come parti di città più inclusive, plurifunzionali. Riciclare queste unità morfologiche significa soprattutto riflettere sui principi che caratterizzano la grande dimensione della città contemporanea, ridurre le distanze fisiche e concettuali con il resto della città e rafforzarne l’identità riallacciando le relazioni con i luoghi della natura. Lo studio è orientato ai temi fondativi della densificazione urbana intesa come necessaria articolazione tra pieni e vuoti significativi, con l’obiettivo di non consumare nuovo suolo il che implica scegliere cosa e come riciclare l’esistente. Operazioni di assemblaggio, smontaggio e rimontaggio, asportazione e rimozione, ecc., hanno senso solo in un quadro generale, quello del ritorno al progetto urbano rivisitato in rapporto al tempo e ai nuovi paradigmi ambientali. L’idea di re-cycle diventa rivelatrice se fondata sulla cultura del progetto come processo di trasformazione dei materiali e dei luoghi della città mediante l’architettura (Battaino C., 2014). La ricerca sui casi studio si è dunque articolata in fasi conoscitive e sperimentali tra loro interconnesse. Alla ricognizione e costruzione di un abaco di strategie per il progetto di recycle è associata la ricognizione dell’evoluzione delle unità morfologiche a Trento e Rovereto, la costruzione di schede e mappe di sintesi che concettualizza il tema progettuale, la lettura delle sequenze edificio, spazio aperto, tipologia, paesaggio. La sperimentazione applicata costituisce una prima verifica, attraverso il progetto urbano, su casi studio speciali.

STRATEGIES Le strategie del re-cycle sono rintracciabili nel passato più remoto dell’architettura e della città. Già in tempi antichi ci si ingegnava per servirsi di ciò che si aveva a disposizione, di quello che era già stato costruito dai nostri predecessori, basti pensare ai diversi templi pagani trasformatisi in chiese cristiane, o al recupero degli archi voltati del Colosseo in seguito utilizzati come case a schiera. E ancora l’esempio di Spalato, il teatro di Marcello a Roma, il Duomo di Siracusa, sono tutti manifesti di azioni del re-cycle. Alla scala dell’edificio il re-cycle opera con l’esistente, per trasformarlo o aggiornarlo alle nuove esigenze.

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Ogni spazio può essere riqualificato mediante operazioni d’innesto upper, outside, inside, under. Una tipica modalità d’intervento è l’aggiunta di un volume in copertura, che può essere dipendente o meno dall’esistente. Da un lato, installazioni temporanee come The Cube di Park Associati (2010-2011), A Room for London di David Kohn Architects e Fiora Banner (2012), Loft Cube Mobile Home Unit di Werner Aisslinger (2003), sono esempi significativi di aggiunte indipendenti, in questo caso prefabbricate e trasportabili, che si spostano all’interno della città. La sopraelevazione di edifici per supplire alla carenza di spazio o di alloggi è una tecnica ormai sempre più utilizzata, specialmente nell’edilizia residenziale. Il Didden Village dello studio MVRDV (Rotterdam, 2002-2006) e il Rooftop Dwelling dello Studio Albori (Milano, 2004-2007) sono due esempi caratteristici di come il nuovo s’innesti sull’esistente utilizzando diversi layers in rapporto di dipendenza. Questo modo di intervenire non riguarda comunque solo l’ambito residenziale. Nel Caixa Forum di Herzog & de Meuron (Madrid, 2003-2008), l’antica centrale elettrica diventa centro culturale multifunzionale, nel Fischer & Appelt di Carsten Roth Architekt (Amburgo, 2000), l’ex fabbrica è riciclata come sede istituzionale di un’agenzia pubblicitaria, nella Kastner & Öhler Extension di Nieto Sobejano Arquitectos (Graz, 2007), un centro commerciale è ampliato tramite sopraelevazioni all’ultimo piano. L’operazione d’innesto in copertura è dunque molto utilizzata e spazia in diversi campi, tuttavia non è l’unica possibile. L’accostamento di nuovi volumi è una modalità messa in atto di frequente per ampliare o collegare edifici esistenti. Nel Knocktopher Friary di ODOS architects (Dublino, 2002-2006) e nella Facoltà di Architettura del Pratt Insitute di Steven Holl (Brooklin, New York, 1997-2005), seppur con modalità differenti, le preesistenze sono integrate in una nuova rete di percorsi e funzioni, tramite l’aggiunta di un nuovo volume che le collega. Nel progetto per il Bulding 51 di Cepezed (Den Helder, 2001-2004) invece, è realizzato un semplice ampliamento grazie all’addossamento di un nuovo blocco traslucido. In entrambi i casi, i progetti condividono il carattere di addizione esterna. In questo senso, tale aspetto è caratteristico di altre due operazioni compositive che si situano su posizioni ben diverse: la nuova pelle, il parassita. Nel primo caso, l’aggiunta riguarda la creazione di un vero e proprio nuovo involucro che trasforma e, in alcuni casi, maschera completamente la preesistenza. La sua realizzazione può essere subordinata a molteplici esigenze, di spazio, di carattere estetico

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e anche di riqualificazione energetica. Il Post Street di Brand e Allen Architects (San Francisco, 2007), utilizza una nuova pelle in vetro per riciclare un edificio storico, è un esempio di come il rapporto con la città cambi in relazione all’interfaccia del costruito. Dall’altro lato il tema del parassita, pur avendo illustri predecessori tra cui Archigram (Capsule Homes, 1964; Cuishicle, 1966; Living Pod, 1966), Archizoom (No-Stop-City, 1970), Haus-Rucker-Co (Ballon für Zwei, 1967-83), si sviluppa in modo esplicito a partire dalla fine degli anni Novanta, con due diverse iniziative: il progetto ParaSITE, abitazione trasportabile per senzatetto di Michael Rakowitz (New York, 1997), l’esposizione Parasites / The city of small things (Rotterdam, 2001). I progetti Rucksack House di Stefan Eberstadt (Lipsia, 2004), Keret House di Jakub Szczesny (Varsavia, 2009), il Parasite Prefab di Lara Calder Architects (2008), sono tutti progetti che sfruttano il costruito e i luoghi inutilizzati della città in un rapporto di utile complementarietà, dando origine a nuove relazioni con il contesto. È fondamentale ricordare che qualunque sia l’operazione compositiva messa in atto, non si tratta della sostituzione di un edificio, bensì di una trasformazione di significato. In alcuni casi, questa strategia può essere attuata soltanto negli spazi interni: è il caso del New York Deparment of Philosophy di Steven Holl (New York, 2004-2007), o delle operazioni messe in atto da Tadao Ando a Punta della Dogana (Venezia, 2008). Tutti questi progetti prevedono l’innesto di volumi all’interno della preesistenza, in un’ottica di profonda attenzione verso i fruitori dello spazio stesso e verso l’elemento materiale. Questi ultimi due aspetti sono di fondamentale importanza in qualsiasi progetto d’innesto. L’intersezione tra vecchio e nuovo può diventare occasione per un processo virtuoso d’integrazione e implicitamente anche di maggiore efficienza, un’ibridazione dello spazio basata sulla coesistenza di oggetti, funzioni, materiali, che articola e disarticola la preesistenza rendendo l’abitare più efficiente. A questo proposito, Casa Porter di SHoP Architects (New York, 2003) e i Walden Studios di Jensen Architects (Geyserville, 2006) costituiscono due riferimenti importanti per il tema della contaminazione e della ridefinizione degli spazi. Entrambi i progetti tentano di dare una risposta alle esigenze dell’abitare e del vivere contemporaneo mediante l’inserimento di nuovi volumi che mettono in discussione il rapporto tra interno ed esterno e definiscono nuovi legami di complementarietà. Un ruolo centrale nella rigenerazione architettonica è rivestito dalla

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On the city. L'innesto urbano diffuso per rigenerare l’architettura della città Design Workshop UNITN, 2014

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riconfigurazione dello spazio interno. Già nei primi progetti del Novecento, il tema della flessibilità dell’edilizia residenziale è riconosciuto quale elemento fondamentale della progettazione, anche se connotato da forti vincoli strutturali e da una standardizzazione diffusa. Una questione che torna a essere emergente. La necessità di progettare spazi mutevoli in funzione delle esigenze dettate dall’evoluzione dei nuclei familiari, dei modi dell’abitare. Il progetto della flessibilità richiede dunque all’architettura capacità mutanti, sia nell’ambito di una stessa destinazione d’uso - variazioni dimensionali e distributive negli alloggi autonomi o trasformazioni di alloggi autonomi in residenze collettive - sia nel caso di un cambio di destinazione d’uso, residenze, postazioni lavorative, ecc. Queste mutazioni necessitano di un’adattabilità resiliente, da perseguire attraverso strategie minime in termini di quantità e di costi. L’adattabilità dei sistemi alle esigenze d’uso può attuarsi con elementi di chiusura e di partizione intelligenti, mobili, leggeri e stratificati e attraverso reti impiantistiche a pavimento, a soffitto o parete. Chiusure verticali riposizionabili per trasformare spazi aperti e coperti in spazi totalmente chiusi e viceversa, partizioni verticali riposizionabili per trasformare più unità spaziali in un’unica unità spaziale e viceversa o per modificare le forme e le dimensioni delle unità spaziali, partizioni orizzontali in grado di trasformarsi da solai a scale, arredi fissi, ecc., e viceversa, impianti a soffitto e a pavimento per una maggiore libertà di organizzazione spaziale possibile. Alla scala della città, il re-cycle si contrappone alla costruzione ex novo e alla totale demolizione, implica scegliere cosa conservare, è attuato al fine di produrre nuova cultura, bellezza e qualità urbana. Le strategie del recycle e di adattamento non valgono per ogni contesto, non possono essere stereotipate, a prescindere dal luogo in cui si attua il ragionamento. Nel 2002 la rivista PERSPECTA (Yale architectural Journal) pubblica quattro piccoli diagrammi di MVRDV dal titolo In six under a tennis court, il tema affrontato è il consumo di suolo zero. Non si può più fare nulla, è possibile solo raddoppiare la volumetria della propria casa, a patto di costruire un campo da tennis sopra, che è dato alla comunità come spazio comune. Si tratta di un nuovo punto di vista, il raddoppio della città come un progetto radicale. Nel progetto di concorso Exodus or the Voluntary Prisoners of Architecture di Rem Koolhaas e Zenghelis (La città

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come ambiente significante, 1972) per una struttua urbana ideale posta nel core di Londra, l’estradosso della città è portato più in alto, un grande terreno artificiale che diventa spazio pubblico. Sempre di MVRDV, il Piano per la Grande Parigi 2030 e il Piano per Oslo propongono il raddoppio della città attraverso super architetture, ma non si tratta di aggiunte intese come innesti frantumati, bensi di costruire nuovi strati sopra l’esistente, rispettandone le qualità. Si tratta di utopie efficaci, come quella suggerita nell’ultimo libro di Wini Maas, Who want worl wonders (2014), dove la meraviglia è una necessità: quella di un fare più grande e potente la città, ragionando su una dimensione e una scala capaci di dare un significato alla nuova città. Un miglioramento qualitativo e prestazionale della città attraverso il recycle di rete di alcuni spazi che per motivi differenti non assolvono più le funzioni per cui sono nati e che hanno bisogno di essere aggiornati e/o convertiti richiedono un nuovo progetto fondato sulla progettazione dei vuoti urbani. Il processo di re-cycle, per quanto bene possa essere affrontato, è destinato a fallire se non comporta un processo di rigenerazione degli spazi vuoti come parti e reti ecologiche della città. Un esempio di questo tipo di processo è la Highline di Diller Scofidio e Renfro, James Corner e Field Operations (New York, 2008), in cui il riuso di un intero asse ferroviario sopraelevato genera nuove opportunità non solo sull’asse stesso, ma anche nelle aree limitrofe, economie e occasioni inedite in aree prima del tutto marginali, che hanno prodotto anche processi di gentifricazione. Il Viaducts Refurbishment di Em2n/Schweingruber Zulauf (Zurigo, 2010) prevede il re-cycle di uno spazio residuale tra due viadotti ferroviari e la trasformazione in un piccolo centro commerciale. Il progetto non si è limitato a riempire lo spazio interstiziale ma ha capito le potenzialità che presentava il tratto in disuso della rete ferroviaria: l’intervento trasforma un viadotto che originariamente era una barriera, in un percorso pedonale che s’inserisce nel tessuto urbano. Nella Superkilen di Topotek, Big e Superflex (Copenhagen, 2012) l’intento è quello di creare un luogo d’incontro. Il parco è diviso in tre zone caratterizzate da colori diversi che si rapportano con il tessuto urbano in maniera differente: la Piazza Rossa è un grande luogo che cerca di invadere tutto lo spazio disponibile, arrivando a ricoprire addirittura la facciata di un edificio; il Mercato Nero è una sorta di piazza asfaltata ricavata nello spazio tra due strade carrabili che mantengono intatta la loro funzione; il Parco Verde è una zona alberata

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strappata all’asfalto e chiusa al traffico. La combinazione di queste tre aree dona alla collettività un parco urbano ricavato dal re-cycle di vuoti urbani che non assolvevano più alcuna funzione. Esistono casi in cui è proprio la dismissione di edifici obsoleti a creare lo spazio per le relazioni. È il caso del Parco Dora sull’Ex Area Spina 3 realizzato dal gruppo diretto da Peter Latz (Torino, 2011) sulle rive dell’omonimo fiume, dove un tempo sorgeva una grande industria siderurgica. Il nuovo paesaggio comprende cinque aree interconnesse tra loro, contraddistinte da un forte carattere intrinseco, il tratto identitario che unisce queste diverse aree è la presenza costante della rovina della grande industria che forma una specie di

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percorso obbligato nello sviluppo del parco. La copertura mantenuta dello stabilimento occupa la zona centrale del parco trasformandola, di fatto, in una grande piazza coperta per diversi tipi di attività, in altre zone i pilastri delle vecchie strutture, formano una sorta di viale alberato di acciaio che ospita il percorso in quota che attraversa tutto il parco. Questi esempi dimostrano l’importanza di intervenire sulle reti che mettono in relazione le parti della città. Re-cycle significa conferire un nuovo senso a spazi residuali che hanno esaurito il precedente, iniziare un nuovo ciclo culturale, fisico, economico e sociale all’interno della città, accettare che un manufatto abbia raggiunto

Gli scheletri delle fabbriche dismesse come infrastrutture urbane potenziali Ex Sloi e ex Carbochimica a Trento Nord, 2015

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la fine di un certo ciclo di vita e ne debba iniziare un altro, a partire da una condizione preesistente. Questo concetto è destinato a confrontarsi attivamente con la dimensione spaziale e temporale dell’architettura, cioè intendere il re-cycle come processo in transizione, un elemento vivo capace di adattarsi alle esigenze della contemporaneità. Alla metà degli anni Sessanta si rispondeva alle problematiche portate in Inghilterra dalla crisi economica con un progetto di re-cycle dalle dimensioni ragguardevoli. Cedric Price ha studiato il modo di sistemare ventiduemila studenti in un’area 174 chilometri quadrati, recuperando una vasta zona produttiva dismessa: il complesso delle Potteries Thinkelbelt

I vuoti potenziali della città verde e porosa Ex Italcementi di Piedicastello a Trento, 2015

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(Nord Staffordshire, 1966). Il progetto mirava da una parte a rigenerare l’intera area devastata dall’uso del carbone per diversi anni e dall’altra, puntava al re-cycle vero e proprio delle strutture esistenti in un ordine di risparmio economico e di risorse. In quest’opera, rimasta sulla carta, Price sperimenta per la seconda volta - lo aveva già fatto per il progetto del Fun Palace nel 1961 - il concetto di un’architettura mobile, anche fisicamente, che non si fossilizza in una forma definitiva, che si ricicla, muta e adatta alle esigenze di uso e gestione del progetto. Il nuovo centro universitario non era visto, infatti, come un edificio, bensì come un percorso, un insieme di relazioni con classi e laboratori mobili che si spostavano sulla rete ferroviaria esistente. Il Palais de Tokyo di Lacaton & Vassal (Parigi, 2001) insiste sull’edificio costruito nel 1937 per l’esposizione internazionale di arte e tecnologia di Parigi e in seguito utilizzato tra l’altro come Museo Nazionale di Arte Moderna, Centro Nazionale di Fotografia e Palazzo del Cinema, abbandonato fino alla metà degli anni Novanta quando il ministero della cultura decide di adibirlo a spazio espositivo e creativo per artisti contemporanei. Nello scenario di una rovina, uno spazio sorprendentemente nudo e contemporaneo, la scelta è ridurre al minimo l’intervento architettonico sull’esistente, limitandosi a metterlo in sicurezza e a migliorarne l’accessibilità: l’atto di re-cycle è visto come una trasformazione continua che permetterà all’oggetto riciclato di attivare un vero e proprio processo che, se sapientemente studiato, porterà lo stesso a non esaurirsi in pochi anni. Questa logica stringente è più che mai utile per gli spazi marginali e per i vuoti urbani che sono in attesa di essere riprogettati. È il caso di Le 56 Eco Interstice di Atelier d’Architecture Autogeree (Parigi, 2006), un progetto che esplora le possibilità di un interstizio urbano di essere trasformato in uno spazio collettivo autogestito, un progetto sociale che parte proprio dal re-cycle dell’area come esperienza della collettività. Un concetto, quello dei luoghi sociali, che ritorna anche nel lavoro di Collectif ETC (Saint Etienne, 2011). Il Place au changement, consiste nel ripensare un vuoto urbano che è in attesa di essere occupato dalla costruzione di un nuovo condominio. Il lotto, che si trova all’incrocio di due strade convergenti nei pressi della stazione, è temporaneamente riconvertito in piazza attrezzata a biblioteca all’aria aperta che invita la comunità a viverla e popolarla. Uno degli aspetti che accomuna tutte queste esperienze è il coinvolgimento della comunità nel processo progettuale. Il processo può continuare nel

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tempo solo se saprà adattarsi alle necessità intrinseche delle città e di chi le abita. È il caso anche delle proposte urbane low cost per l’occupazione e il re-cycle temporaneo dei micro vuoti dismessi e degradati all’interno della città come nell’Estonuesunsolar di Di Monte e Gravalos (Saragozza, 2009). Il progetto ha avuto origine dall’esperienza chiamata Vuoti Quotidiani (Saragozza, 2006) il cui obiettivo era quello di occupare temporaneamente micro spazi urbani inutilizzati o abbandonati, da cui poi è partito, in accordo con la Società Municipale Vivienda, il programma di piccoli interventi di re-cycle di una serie di lotti urbani in disuso coinvolgendo attivamente le persone del quartiere e impiegando una squadra di lavoratori disoccupati, facendo accordi con i proprietari per i lotti privati, facendo nascere piccole piazze, giardini e aree gioco attrezzate con un budget molto ridotto (costo medio di 20-30 euro a metro quadrato) e il riutilizzo di materiali scartari. In questo senso s’inquadra il bisogno di azioni di re-cycle che restituiscano un’architettura che non sia statica ma in continua mutazione e trasformazione.

ECO-DISTRICTS In Italia è presente il secondo parco edifici abitativi pubblici più vecchio al mondo, il 55,4% delle abitazioni ha più di 40 anni e nel 2020 diventeranno il 68,6%. Nella Provincia Autonoma di Trento, l’ITEA Istituto Trentino Edilizia Abitativa, gestisce un patrimonio di circa 16.688 unità immobiliari di cui 10.748 sono alloggi di edilizia abitativa pubblica. Tale patrimonio consiste in 870 edifici dei quali il circa il 74% risulta essere stato costruito tra il 1945 e il 1990, 3% ante 1945, 11% tra il 1945 e il 1970, 31% tra il 1971 e il 1980, 19% tra il 1981 e il 1986, 13% tra il 1987 e il 1991, 11% tra il 1992 e il 2000, 12% post 2000 (elaborazione su dati ITEA, 2015), a oggi ne sono stati ristrutturati circa 225. Dunque circa il 74% del patrimonio ha mediamente più di 40 anni e necessita di un'intervento sistemico, non solo a scala di componente o edificio ma alla dimensione di quartiere e in relazione con la città. Si tratta di una diffusa rete materiale del welfare, un vasto arcipelago di quartieri riconoscibili, che occupano considerevoli porzioni di città e il cui ruolo è comparabile a dei beni comuni e degli usi civici, nel paesaggio montano. Luogo d’identità culturale e di forti relazioni sociali, grazie alla

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diffusione di associazioni e gruppi di quartiere, questa rete di quartieri può rappresentare una risorsa economica estesa di sviluppo nell’ambito del paradigma della smart city-smart land. In altre parole, la riqualificazione energetica degli edifici e dello spazio urbano, il retrofitting, la riduzione del rischio sismico e idrogeologico, la valorizzazione dello stock edilizio obsoleto e in specie oppure particolarmente del social housing - in termini di high quality-low cost, facility design and management - possono costituire nuove opportunità in una generale strategia che miri a obiettivi ambiziosi di smart specialisation territoriale. I quartieri di edilizia sociale collocati lungo la Valle dell’Adige fra Trento e Rovereto, presentano un campionario di situazioni complesse, plurali, eterogenee, mutevoli e stratificate. Per comprendere il ruolo che la città pubblica svolge oggi all’interno della città di Trento, è necessario innanzitutto accennare alla sua evoluzione nel corso del Novecento, a partire dai primi interventi realizzati. Nella zona Muredei a sud di Trento, si costruiscono 605 appartamenti nel decennio dopo la prima guerra: nei quartieri Casoni e Vaticano. Lo IACP opera sul territorio Trentino fin dal 1922. Tre elementi tra loro concatenati caratterizzano questo fenomeno a partire dal primo dopoguerra: evoluzione sociale ed economica nella regione, emergenza del fabbisogno casa e risposta dell’ente pubblico. Le conseguenze di due guerre, il processo d’inurbamento dalla campagna alla città per lavorare nell’industria e il mutare del reddito familiare e dei costumi civili sono gli elementi che connotano il primo periodo d’intervento, dal 1922 al 1945. Spesso questi interventi sono inizio e occasione di sfondamento dei perimetri dei centri storici per il successivo costituirsi di nuovi aggregati cittadini. Fino al 1945, gli interventi sono localizzati quasi esclusivamente a Trento e almeno fino al 1937 l’offerta supera la richiesta. Il secondo periodo, dal 1945 al 1972, vede un’intensa opera di ricostruzione, con 121 alloggi completamente distrutti durante la guerra, 520 danneggiati, 121 alloggi sconvolti dai bombardamenti di cui, entro il 1947, viene realizzato un completo ripristino. Dalla città di Trento gli interventi si estendono successivamente a Rovereto, Riva del Garda e via via a tutto il territorio provinciale. Il piano Fanfani (1949-1963), la collaborazione dell’Ina Casa, l’attuazione della Legge Tupini (1949) e della legge Romita (1954), realizzano entro il

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1960, 2796 alloggi, contemporaneamente inizia l’intervento della Provincia Autonoma di Trento, che realizza 272 alloggi di edilizia pubblica. Nel frattempo in seguito al progressivo abbandono delle campagne per le città, il fabbisogno abitativo aumenta enormemente. Nel 1961 l’elaborazione del PUP (Piano Urbanistico Provinciale, 1964) fra gli obiettivi primari sostiene la realizzazione di nuove unità abitative, generata dalle nuove esigenze. La priorità è data agli interventi urbani senza tuttavia dimenticare le valli con le loro attività agricole e di turismo. Nel 1963 la GESCAL, con la collaborazione con la Provincia e grazie una serie di leggi specifiche (dal 1962 al 1971 ben 15), porta alla realizzazione di nuovi quartieri: Cristo Re, Lungadige Marco Apuleio, San Donà, San Bartolomeo, Clarina, San Vito, Madonna Bianca, Villazzano a Trento; Busa dei Cavai, via Benacense, a Riva rione De Gasperi e quartiere Europa a Rovereto. Altri quartieri ad Ala, Arco, Lavis, Mezzocorona, Mori. Per quanto riguarda l’edilizia pubblica, la Provincia acquisisce piena competenza e possibilità di governo organica. Con la legge provinciale 31, del 30 dicembre 1972 (lo Stato garantisce l’autonomia con la legge 865 del 1971), è costituito l’ITEA, Istituto Trentino per l’Edilizia Abitativa che eredita dallo IACP un patrimonio di 5900 alloggi. Fra il 1973 e il 1977, sono realizzate 3000 unità di edilizia pubblica, 2300 di edilizia agevolata e 4800 unità di risanamento, la Provincia in quegli anni investe nell’edilizia pubblica cifre prossime al 25% del totale della produzione residenziale che i piani economici statali avevano assegnato all’intervento pubblico, con una media nazionale, nello stesso periodo, che si situa intorno all’8.9% (elaborazione su dati ITEA, 2015). La missione di ITEA è realizzare alloggi per cittadini lavoratori subordinati, anche se pensionati, per cittadini bisognosi, per coloro che occupano abitazioni improprie, malsane o fatiscenti da demolire, case-albergo per studenti lavoratori e persone anziane, ristrutturare, risanare e restaurare complessi edilizi, acquisire e urbanizzare aree con relative opere; eseguire opere di sistemazione esterna di complessi edilizi realizzati dallo Stato o da altri enti con finanziamenti pubblici; intervenire per soddisfare bisogni abitativi in zone colpite da calamità naturali, una programmazione che si completa più di recente con l’intervento dei comuni, che diventano responsabili del proprio sviluppo urbano. I quartieri di edilizia sociale, pubblica e agevolata, si trovano oggi in posizioni sia centrali sia periferiche strategiche a causa dell’ampia espansione

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Re-cycle della cittĂ arcipelago La rete del social housing tra Trento e Rovereto, UNITN 2015

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urbana nel fondovalle. La sequenza temporale relativa alla formazione dei quartieri all’interno del contesto urbano, anche nelle singole fasi di costruzione, evidenzia la natura dei rapporti tra edilizia sociale e città. Dalla mappa estesa su tutto il territorio, si può osservare come alcuni di questi quartieri siano stati inglobati nel sistema centrale della città mentre altri occupano posizioni più periferiche. Alcuni di essi hanno subìto importanti modificazioni, basti pensare alla demolizione delle cosiddette palafitte, nel quartiere di San Bartolomeo; altri invece hanno pressoché mantenuto l’impianto originario. La differenza dei singoli spazi, non solo nelle loro caratteristiche fisico-materiche ma anche nel loro rapporto con

I quartieri e i servizi della città pubblica come cerniere urbane Le Torri di Madonna Bianca e Villazzano Tre a Trento, 2014

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il contesto, influenza notevolmente l’approccio al progetto di re-cycle. Le barriere fisico-visive, la disponibilità o meno di spazi verdi, il rapporto tra la superficie pavimentata e quella porosa, la presenza o meno di luoghi di aggregazione interni al quartiere, sono alcuni degli innumerevoli fattori che è necessario prendere in considerazione. La ricerca s’incentra su alcuni aspetti fondamentali della progettazione originaria, in particolare la presenza di spazi diversi che vanno di là della semplice disponibilità di alloggio. In ognuno di questi quartieri emerge la concezione dell’abitare come presenza simultanea di tre parti distinte: spazi alloggio, spazi aperti verdi, spazi pubblici di aggregazione. Queste parti sono progettate in modo differente e secondo diverse proporzioni, in alcuni casi in maniera più efficace, in altri meno, sicuramente si può dire che sono presenti carenze interne al singolo quartiere, ma anche potenzialità intrinseche non ancora sviluppate. La conformazione tipologica, la posizione in rapporto al contesto, le condizioni di degrado, più o meno presenti, rendono evidente la predisposizione dei singoli quartieri rispetto ad alcune strategie di riqualificazione piuttosto che altre. In alcuni casi, in presenza di quartieri dove sono assenti elementi di qualità, suggeriscono la sperimentazione di strategie quali per esempio trasformazione o sostituzione selettiva, in altri casi, dove sono riconoscibili elementi di qualità e valore storico, culturale e architettonico, suggeriscono interventi di re-cycle fragili e relazionali, capaci di conservare innovando. In tutti i casi, le problematiche legate alla vetustà, se non curate adeguatamente, produrranno nel tempo la perdita di valore non solo di questo patrimonio pubblico, ma la marginalizzazione delle aree insediative. Non si tratta dunque, solo di rispondere a un nuovo bisogno di case a basso costo o di risolvere problematiche legate all’inefficienza energetica, c’è la necessità di riqualificare un bene comune, la città pubblica, attraverso progetti innovativi che tengano conto della complessità delle comunità contemporanee, delle attuali esigenze di città ecologiche e sostenibili, e che tengano conto anche della memoria e dell’identità del paesaggio urbano Trentino. Le nuove dinamiche sociali, il costante aumento di famiglie composte di una sola persona, l’aumento degli immigrati, coppie di anziani e giovani, unite alla questione degli alloggi sotto-soglia, con standard dimensionali inferiori alla norma, insieme alle mutate dinamiche del rapporto casalavoro, sono tra i principali elementi di criticità e opportunità utili per

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ripensare gli spazi dell’abitare, aumentando i margini di vivibilità e flessibilità, progettando un ritrovato rapporto tra spazi privati, pubblici, città e natura. Principale campo di applicazione della ricerca è la periferia verde e verticale di Madonna Bianca e Villazzano Tre, un esempio paradigmatico, un tassello significativo della città di Trento, profondamente sedimentato nell’immaginario collettivo. Il complesso d’autore, costruito tra il 1973 e il 1982 su progetto degli architetti M. Armani ed E. Ferrari e dell’ingegnere L. Perini è un quartiere di grandi dimensioni costituito da due parti, ciascuna ideata come unità morfologica indipendente e dotata di relazioni interne e autonome. Quattordici torri si sviluppano su un territorio di circa trenta ettari, caratterizzato dal contrappunto, in un paesaggio a orografia complessa, tra edifici alti e edifici bassi, le case a schiera e i servizi centrali. Il quartiere residenziale risulta a tutt’oggi tra i più riusciti in Italia, soprattutto per l’ampia dotazione di aree verdi, di attrezzature sportive, scolastiche e religiose e per l’assenza di rilevanti problemi sociali. Tuttavia anche questa parte di città oggi è fragile perché non è sufficientemente integrata nell’edificazione urbana successiva, per la presenza di vaste aree di monofunzionalità e una scarsa diversificazione dello spazio pubblico, un tappeto verde alberato di lecorbuseriana memoria. I 648 alloggi sono abitati da 2.000 persone, l’equivalente della popolazione media di uno dei centri urbani di piccole dimensioni del Trentino. La debole articolazione di spazi e funzioni, la mancanza di coesione del tessuto edilizio e di collegamenti fisici con l’intorno e il resto della città, la poca permeabilità, il tipo di accessibilità in generale, rendono il quartiere di Madonna Bianca e Villazzano Tre un’isola indipendente rispetto alle dinamiche urbane legate alla vita sociale che sono estromesse e assorbite dai territori circostanti. Il quartiere è oggetto di un programma decennale di rigenerazione urbana dell’ITEA che in collaborazione con l’Università degli Studi di Trento Laboratorio Architettura, DICAM - e con il Comune e la Provincia di Trento ha prodotto il Progetto Torri con l’obiettivo didefinire le linee guida per una rigenerazione nel tempo, attraverso un ventaglio di soluzioni articolate alla scala dell’oggetto architettonico e della città (Università di Trento: G. Cacciaguerra, C. Battaino, L. Zecchin e altri; ITEA Spa: M. Chiogna e

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altri, Tavolo di lavoro ProgettoTorri, 2012-2014). Metodologicamente, lo studio è stato condotto in fasi tra loro interconnesse con il fine di operare un processo conoscitivo e propositivo interdisciplinare e partecipativo, innovando la procedurale prassi di rigenerazione urbana secondo le piÚ attuali procedure internazionali. La definizione di un progetto partecipato di masterplan è fondata sulla salvaguardia, mantenimento e valorizzazione degli elementi qualificanti il quartiere e le architetture. Attraverso il confronto costante con gli abitanti del quartiere (indagine sociale a cura di D. De Cia, 2013), sono stati

La cittĂ verde e i quartieri Torri di Madonna Bianca e Villazzano Tre a Trento, 2015

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individuati gli elementi necessari d’innovazione che risultano essere legati alla riqualificazione architettonico-energetica degli edifici, all’aumento dei servizi e delle attrezzature urbane, al miglioramento della configurazione e dell’utilizzo degli spazi aperti. Le modalità di rigenerazione architettonica dei gruppi di torri riguardano principalmente: addizioni alla base, legate alla trasformazione dell’attacco a terra e del suo immediato intorno; addizioni in elevazione, pensate a sbalzo, appese alla torre, oppure dotate di struttura indipendente, fino a prevedere in alcuni casi un collegamento aereo abitato tra due torri vicine; addizioni in copertura, per riabitare uno spazio eccezionale in rapporto al paesaggio alpino circostante, attualmente non considerato e difficilmente accessibile. Il principio dell’addizione volumetrica, strumento che permette di modificare la superficie e la distribuzione di alcuni degli alloggi, di ripensare alla loro adeguatezza dimensionale in funzione della flessibilità delle esigenze dell’utenza e di migliorare la dotazione di spazi complementari e di servizio, è lo strumento di recente previsto dalla legge urbanistica provinciale (Legge Urbanistica PAT, n. 14 del 4 agosto 2015). L’idea guida del progetto urbano è inoltre una riqualificazione del verde e del disegno dello spazio aperto in generale come guida della composizione della città verde e verticale, che possono concorre alla rivitalizzazione del quartiere in forme e funzioni per il benessere, la socialità, la fruibilità, la sicurezza. Lo studio individua tre elementi di riqualificazione che fondano il nuovo progetto urbano: i “filamenti” di attraversamento del quartiere e di relazione con l’intorno urbano; i “bordi” per servizi comuni, alla base delle torri e lungo i margini a contatto con la viabilità esterna al quartiere; le “zolle” per attrezzature pubbliche e di servizio, che definiscono nuove centralità urbane. Nel rinnovato quartiere-parco della città, l’architettura dei “filamenti” è costituita da una trama organica e unificante di percorsi pedonali e ciclabili, e dalle parti carrabili esistenti che inanellano, come i fili di una collana, la serie di spazi pubblici, giardini e edifici, interni ed esterni del quartiere. L’obiettivo principale del progetto è intensificare le relazioni fisiche e gli attraversamenti lenti, stimolando diverse tipologie d’interazione sociale. Il verde e la topografia del luogo sono i materiali alla base del progetto urbano, lavorare con questi materiali consente di risolvere i temi dell’interfaccia con la città e la dotazione di piccoli servizi per le torri e i gruppi di torri. Verde e topografia sono impiegati per la previsione di nuovi

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FILAMENTI

ZOLLE

BORDI

PROGETTI STRATEGICI

Progetto Torri per la rigenerazione urbana a Trento Masterplan, UNITN-ITEA, 2013

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Progetto Torri di rigenerazione urbana a Trento Filamenti, zolle, bordi, UNITN- ITEA 2013

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luoghi centrali di quartiere, lasciando inalterata la struttura esistente e aumentando altresì la dotazione di verde e il suo utilizzo. Il progetto urbano opera una sorta di ri-naturalizzazione, lavora con la linea terra reinterpretata nella sua destinazione d’uso e nel suo spessore, incidendola e tagliandola, per inserire, al di sotto di nuove coperture verdi continue, accessibili e praticabili, nuovi spazi e volumi che si renedessero necessari alla completa rigenerazione. L’architettura dei "bordi" del quartiere consiste nella riconfigurazione topografica dell’attacco a terra di tutti i gruppi di torri e allo spazio tra torre e limiti dell’area. Sfruttando i dislivelli del terreno esistente, può essere prevista la realizzazione di spazi per parcheggi pertinenziali coperti, spazi non solo per parcheggi, che facilitino la socializzazione tra condomini, come stenditoi e lavanderie comuni, locali condominiali per incontri, spazi per anziani e bambini autogestiti. Architetture topografiche permettono di definire spazi protetti alla base di ciascuna torre, cortili dell’infanzia, giardini terapeutici, a misura di adulti e anziani, luoghi da coltivare. Al posto dei piazzali di cemento e asfalto, le superfici verdi sono i giardini continui praticabili, utilizzabili per orti urbani condominiali autogestiti. L’architettura delle “zolle” configura alcuni nuovi luoghi identitari, di servizio del quartiere. La nuova “zolla” di Madonna Bianca integra gli spazi commerciali esistenti con spazi per la cultura, lo spettacolo, le attività sportive, il lavoro e i parcheggi di attestamento coperti, attraverso una piastra-piazza giardino e una nuova torre, immaginata per l’accoglienza degli abitanti durante le fasi di rigenerazione. Una nuova “zolla” lavora con l’orografia esistente del rilevato ferroviario, scavandolo e bucandolo per ripristinare il collegamento fisico, tra le due parti del quartiere, e visivo con la valle sottostante del fiume Adige. La “zolla” di Villazzano Tre riconfigura lo spazio commerciale esistente, ampliandolo attraverso una sequenza di piazze-giardino che degradano seguendo l’orografia esistente e che si affacciano anch’esse sul Doss S. Rocco e la valle. Esito di una rigenerazione urbana programmata nel tempo il quartiereparco della e nella città paesaggio, corrisponderà a grande architetturaagricoltura, una città verde, coltivata, fruibile, attrezzata, accessibile e sicura.

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Il caso studio di Madonna Bianca delinea una proposta metodologica e una strategia progettuale che può essere utilizzata in altre parti della città. Imparando dalle torri, la strategia che prevede diversi livelli d’intervento fondati su due figure-luoghi principali, la base e il coronamento, permette di immaginare i quartieri e come una riserva urbana da articolare nelle relazioni interne ed esterne con la città paesaggio. Passando dal ridisegno alla scala urbana degli spazi pubblici aperti, dall’infill di nuovi spazi pubblici comuni di base, alla sopraelevazione, alla riprogettazione della distribuzione interna, a quella dei sistemi di facciate energetiche e statiche, il progetto rappresenta un’occasione concreta per limmaginare l’ampliamento della dotazione di nuovi spazi comuni per la città, condivisi e qualificati, come occasione di sviluppo economico e sociale. Sperimentando la rigenerazione di aree strategiche della città, per posizione, accessibilità, proprietà, il progetto architettonico è in grado di innescare effetti a catena, coinvolgendo in modo più ampio il tessuto urbano e sociale circostante. Ciò a partire dalla prefigurazione della rete di nuovi spazi pubblici condivisi, di relazione e di mediazione, tra territorio, parte di città e fiume. Puntando sul concetto di mixitè, intesa come capacità di rigenerare spazi urbani, integrando diverse funzioni e fasce sociali, attraverso operazioni di addizione di livelli al patrimonio edilizio esistente è possibile ripensare i quartieri, dall’alloggio alla città, scoprendo strumenti utlizzabili anche in altre realtà. I comparti urbani dei condomini Maccani, Puccini, Fucine e Maioliche, sono stati oggetto di studio per sopraelevazioni - sopra, sotto, dentro, a lato del già costruito - a verificare le possibilità d’inserimento di nuovi tipi architettonici e di abitanti generatori di mixitè. Lavorando sull’innovazione tipologica, gli edifici potranno acquisire una nuova dignità architettonica ed efficienza energetica e dotarsi di nuovi spazi comuni, riqualificando anche i tessuti urbani, individuando usi e riusi in grado di innescare nuove relazioni sociali tra gli abitanti. Addizioni, integrazioni, innesti rappresentano un’opportunità per una rigenerazione sostenibile, l’adattamento e la resilienza della città abitata e trovano una valida applicazione nella crescita del patrimonio immobiliare del social housing ma anche come strategia per l’intera città esistente, rendendo operativa l’esigenza di rimettere in gioco soprattutto gli spazi urbani più fragili.

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UPPER

INSIDE

OUTSIDE

UNDER

Il re-cycle architettonico e urbano. Strategie e tattiche Workshop Re-cycle Trento, 2014

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ECO-CLUSTERS L’eco-efficienza delle aree produttive, la qualità urbana, architettonica, paesaggistica e ambientale delle reti infrastrutturali, della logistica e dei sistemi di comunicazione, rappresentano un fattore d’importanza strategica per lo sviluppo dei sistemi produttivi del territorio e delle città. Gli insediamenti industriali e artigianali anziché spazi di produzione slegati dal contesto sociale e territoriale, assumono rilievo come spazi di vita, per chi ci lavora, ma anche per le crescenti integrazioni tra produzione, ricerca, commercializzazione, servizi e funzioni di carattere sociale. Per le aziende, sempre più impegnate nella creazione di un rapporto diretto con i propri clienti e committenti, l’immagine di qualità del contesto ambientale e della propria sede aziendale diventa sempre più sinonimo di qualità delle stesse produzioni. Innovazione e qualità ambientale sono i nuovi codici di comunicazione delle imprese, ne certificano la qualità delle produzioni, sono parte integrante della loro immagine. In un contesto sensibile come quello trentino, dove la produzione s’integra con le attività turistiche e agricole tipiche dei territori di montagna, il tema della sostenibilità ambientale del sistema produttivo tende sempre di più ad affermarsi e a diventare un modello, in primis per la rigenerazione urbana sostenibile, gestione e monitoraggio delle aree produttive esistenti, ma anche per le eventuali esigenze future di ampliamento o per le nuove localizzazioni. All’integrazione tra produzione e nuove competenze si aggiungono gli investimenti in capitale umano, volti a promuovere la continuità imprenditoriale, l’insediamento di giovani imprenditori, lo sviluppo di funzioni terziarie a servizio della produzione. In tal senso le politiche di gestione delle aree produttive non si possono limitare ai soli aspetti di carattere urbanistico, ma assumono il carattere di politiche sociali ed economiche. Lo studio indaga i materiali urbani a bassa tecnologia o a bassa articolazione spaziale, i vacant spaces (Battaino C., 2012), capannoni e tessuti esistenti, disegnati come periferie produttive compatte o diffuse, nelle quali il malfunzionamento si palesa prima di tutto come emergenza ambientale. Per la loro estensione, tali materiali appaiono difficilmente eliminabili, anche solo per parti. Qui la procedura architettonica che s’intende mettere in atto è l’hyper re-cycle (Battaino C., Zecchin L., 2015),

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cioè l’attivazione di più cicli di vita in contemporanea sulla stessa realtà, per renderla più efficiente e rispondente alle esigenze dell’oggi, meno in conflitto con l’ambiente, più inclusiva dal punto di vista sociale, più efficace dal punto di vista energetico. In particolare lo studio riguarda oggetti e aree dismessi o abbandonati nel tratto di fondovalle del fiume Adige compreso tra Mezzolombardo e Ala in Trentino, mappando elementi puntuali, edifici e aree scartati, che si prestano a essere rigenerati e riscritti secondo una narrazione ipertestuale che alluda a un nuovo ordine, stratificato e complesso, di relazioni o reti ecologiche lungo l’asta fluviale. La particolare condizione orografica

Le infrastrutture urbane potenziali Ex Sloi e ex Carbochimica a Trento Nord, 2015

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La mappatura della dismissione, transetti tra Trento e Rovereto I capannoni dismessi della Valle dell’Adige, UNITN 2014

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del fondovalle considerato, che determina uno stato di ampiezza degli spazi, in cui i centri urbani principali, le città di Trento e di Rovereto, sono intervallate da insediamenti minori e da ampie aree agricole, in assenza di una saldatura continua tra l’urbano e gli spazi aperti interclusi, in un territorio ancora ricco di caratteristiche e di luoghi di pregio paesaggistico presenta un alto livello di infrastrutturazione, con nodi logistici e di connessione efficienti rispetto alle grandi reti nazionali e internazionali. Come per altri ambiti paradigmatici del nord-est, in cui sono presenti condizioni di criticità causate da edifici e aree di origine produttiva, artigianale, commerciale, infrastrutturale dismessi, in via di abbandono o oggetto di potenziali abbandoni (Battaino C., 2012), in Trentino il fenomeno assume caratteri del tutto particolari. In questo territorio, infatti, il passaggio da una produzione essenzialmente agricola a un’economia di tipo industriale-artigianale è stata meno brusca che in altri contesti, anche in ragione della complessa orografia, investendo punti e nodi definiti legati alle infrastrutture. Lo sviluppo produttivo principale è avvenuto per grandi poli industriali, le grandi fabbriche e manifatture (ad esempio l’Itacementi, la Michelin, l’Allumetal, ecc.), mentre le originarie attività agricole si sono presto riconvertite al servizio del turismo. Di conseguenza anche la diffusione di aree produttive di piccole e medie dimensioni risulta più contenuta rispetto ad altri casi e differenziata per settori specializzati. Il primo metodo utlizzato dalla ricerca è il viaggio, una scoperta fatta a partire dalle infrastrutture, autostrada e ferrovia, che attraversano questi territori parallelamente al corso del fiume. Una nuova mappa racconta i pezzi trovati, registra la distribuzione dei diversi materiali, capannoni e superfici cementificate, quantifica gli elementi puntuali trovati per consentire la prefigurazione di nuovi scenari di hyper re-cycle. Il territorio indagato, della lunghezza di circa quarantacinque chilometri, è stato suddiviso in fasce di un chilometro per sei chilometri, perpendicolari all’andamento del fiume Adige. Questa lettura per transetti, in cui le diverse fasce inglobano frammenti diversi, aree e edifici, scarti infrastrutturali, spazi residuali, ecc., mette in luce non solo l’anisotropia territoriale, relazionata alla particolare situazione morfologica di fondovalle, e individua qualcosa di più profondo, il disegno, nascosto e invisibile, di elementi puntuali da orientare entro il nuovo ordine più generale dell’asta fluviale. Gli abbandoni di origine produttiva artigianale nella Valle dell’Adige

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di natura puntuale si localizzano in prossimità degli insediamenti. Scarti e frammenti sono in numero maggiore in sinistra orografica, anche in ragione dell’orientamento più favorevole. La ricerca (Battaino C., Zecchin L., 2015), ha registrato un totale di circa 220.000 mq di capannoni abbandonati o dismessi, distribuiti in maniera non uniforme su una superficie territoriale di circa 78.000 ettari, equivalente allo 0,3% della superficie totale del fondovalle, dato da considerare come elemento di criticità attuale e potenziale riferimento per i futuri e prevedibili abbandoni, sottoutilizzi o obsolescenze di oggetti e spazi produttivi. Tra Lavis e Trento la concentrazione di capannoni abbandonati è più alta, pari a circa il 25% di quelli presi in considerazione. Tra Mattarello e Aldeno, la concentrazione è invece bassa, circa il 5% sul totale. Tale differenza può forse essere ricondotta alla maggiore industrializzazione che ha interessato la zona di Trento Nord e le aree a ridosso del centro città. Il viaggio riconosce gli junk spaces, spazi spazzatura ricchi di potenzialità, considerati brutti da chi li abita, indifferenti per chi li attraversa. Spazi che credevamo non avessero nulla da insegnarci, né che potessero essere ammirati, perché molto diversi dagli spazi dei centri storici a cui siamo abituati, luoghi privi di pregio, caratterizzati dalla giustapposizione di edifici progettati spesso sommariamente. Aree che è importante trasformare, individuate come dross attuale o potenziale, spazi scartati identificati, questi pezzi di città produttiva possono diventare elementi strutturanti e connettivi della città contemporanea, invenzione già presente in grado di produrre ancora crescita. I capannoni puntuali o isolati non posizionati in aree strategiche, sembrano invece irrecuperabili. Per questi vuoti urbani è utile immaginare una dismissione strategica mirata alla demolizione e rinaturalizzazione totale, ma che certo si deve scontrare con i vincoli della proprietà privata. Pensare che questi vuoti di proprietà privata possano ritornare alla collettività come beni comuni, coinvolgendo la cittadinanza in progetti anche temporanei per la loro rigenerazione è la sfida che il nostro paese deve ancora affrontare. Sono queste le periferie in evoluzione, in cui i luoghi comuni, risultato di un processo che ora sembra arrestarsi, sono quanto mai necessari, di una città contemporanea che esiste ma il cui grado di urbanità ci appare insufficiente, spazi che sono il risultato di una dimenticanza, di un rifiuto, di un’assenza causata da una crescita non

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regolata e da un’espansione non sempre controllata. Spazi che aspirano a diventare qualcosa, le periferie inglobanti, nella doppia accezione di ciò che ingloba e ciò che è inglobato, corrispondono agli spazi e ai manufatti parziali, incerti, ingombranti, poco stratificati, ibridi e complessi, costituiti da materiali che è necessario riusare per la costruzione di un nuovo progetto urbano. La ricerca sperimentale propone questi materiali - aree e oggetti obsoleti e inutilizzati - come vuoti necessari per la rigenerazione dei tessuti urbani periferici, come nuovi margini da progettare per la riqualificazione di conservate libere da edificazioni, luoghi per nuove prefigurazioni, luoghi

I vuoti potenziali come spazi Capannoni a Trento Nord, 2015

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I frammenti di origine produttiva e artigianale I capannoni dismessi della Valle dell’Adige, 2013-14

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da svuotare o saturare per usi spontanei o trasformazioni legate a possibili riusi. L’hyper re-cycle individua negli elementi puntuali da sottoporre ad agopuntura i nuovi paradigmi in grado di innescare un processo di trasformazione controllato, per la costruzione di un telaio portante di un altro Adige, ecologico, ampio e stratificato. Casi studio per la verifica progettuale sono i frammenti e i gruppi di frammenti riconosciuti a Trento Nord e in prossimitĂ del centro cittĂ . A Trento Nord la dominante è costituita dalla rete delle aree industriali e commerciali dismesse e dalle aree di bordo esterne, che rappresentano

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la parte più estesa di territorio libero disponibile per lo sviluppo della città. Si tratta di aree estese, collocate a cavallo della ferrovia, che cominciano a essere impattanti, dove l’esistente inutilizzato o recuperabile, è di gran lunga superiore alle esigenze presenti e future, almeno per molto tempo. E in particolare: dell’area ex-Sloi, che ospitava una fabbrica di piombo tetraetile chiusa dal 1978 gravata da un terreno inquinato in profondità; dell’area ex-Carbochimica, attualmente dismessa e anch’essa penalizzata da un terreno inquinato; dell’area ex scalo Filzi, vasto residuo ferroviario dismesso; dell’area ex Frizzera di via Brennero, comparto commerciale

I vuoti e le reti per la città verde Capannoni e piazzali dismessi a Trento Nord, 2015

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incendiata e dell'ex Atesina, che ospitava il quartiere generale dei trasporti su gomma, prossime alla demolizione in attesa di eventuali progetti di ricostruzione; dell’area di frangia ricompresa tra gli svincoli della tangenziale, i capannoni, il fiume e il recente parco di Melta. A cui va aggiunta una grande quantità di aree puntuali e diffuse, più o meno grandi, caratterizzate dalla dismissione recente, punteggiate da edifici e nuclei storici residui, in cui sono spezzati i rapporti con il resto della città. In prossimità del centro di Trento, queste aree di bordo interne costituiscono un insieme disomogeneo di brani urbani rimasti inedificati o con destinazione e forma incerta, che rappresentano un segno di discontinuità tra l’abitato, il versante della montagna, il fiume, collocate in un ambito che divide la città storica da quella ottocentesca e contemporanea. Nello specifico si tratta: dell’area ex-Italcementi, alle pendici del Bondone, ancora in attesa di una chiara destinazione e dei residui infrastrutturali dell’ex autostrada a sud del Doss Trento. Molte di queste aree hanno caratteri di forte criticità ambientale, paesaggistica, urbana e architettonica, derivanti dalla presenza di: strutture edilizie di scarsa qualità, omologate e decontestualizzate; impianti urbanistici insufficienti con scarsa o nulla presenza di spazi pubblici, servizi, arredo urbano, percorsi ciclopedonali; localizzazioni con carenze logistiche, che aggravano i problemi della circolazione, del consumo di suolo agricolo, di degrado ambientale e paesaggistico; scarsa attenzione al problema del ciclo delle acque e del risparmio-produzione energetica. La percezione del paesaggio artigianale e commerciale evidenzia le criticità relazionali tra gli elementi insediativi attuali e il contesto, derivanti sia dal modello di sviluppo, sia dalla presenza di ambiti trascurati o abbandonati più recenti. L’attuale situazione di crisi economica, che sembra essere destinata a una lunga durata, pone la necessità di pianificare e ripensare in termini critici le aree produttive e in generale gli insediamenti urbani del recente passato, spingendo sulla rigenerazione urbana sostenibile dell’esistente: costruire sul costruito, per riqualificarlo in una rinnovata alleanza con il paesaggio, limitando ogni nuovo consumo di suolo. Le aree artigianali percepite come aggregati edilizi impattanti ci richiedono un ripensamento che consideri necessariamente: il rapporto, oggi scarsamente valorizzato, con la morfologia montana (visione dal

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Micro innesti blu e verdi Workshop Re-cycle Trento, 2015

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basso e dall’alto) e urbana; l’intensificazione degli elementi di naturalità nel costruito; la rete di relazioni urbane, prevedendo ove possibile la mixitè funzionale e spaziale; il reinserimento delle aree produttive in circuiti policentrici, secondo una modalità a rete, per renderle poli attrattivi e d’interscambio alla scala territoriale ampia. Una prima verifica sperimentale riguarda il rapporto tra architettura, città e paesaggio, indagati in termini performativi e sistemici. Si tratta di indagare le strategie progettuali connesse alle infrastrutture grigie, blu e verdi (secondo quanto richiesto dai più recenti programmi Green and Blue Infrastructures Europe 2020) dei piazzali di servizio e parcheggio; delle reti

Uno strato in più per rigenerare la città Workshop Re-cycle Trento, 2014

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idrografiche come armature verdi, parchi lineari o infrastrutture idriche; della porosità diffusa dei suoli, attrezzati in modo puntuale come spazi pubblici di sosta e spazi-porta dei nuovi sistemi di trasporto pubblico. Le strategie di hyper re-cycle sperimentano in chiave ecologica la qualità paesaggistica di questi spazi urbani, operando sul metabolismo della città (Mostafavi M., Doherty G., 2010) attraverso trasformazioni adattive e resilienti capaci di costruire nel tempo una vera e propria infrastruttura blu e verde, quale telaio della città pubblica e bene comune in senso ecologico, sociale, fruitivo, produttivo. La dismissione, il sottoutilizzo, o la necessità di rigenerazione di ampi frammenti produttivi, rappresentano un’occasione per un nuovo progetto urbano legato tanto alla qualità spaziale quanto alla sua efficienza in termini prestazioni. Alla base della ricerca, l’idea di considerare questi frammenti non come singole entità separate ma come elementi di una rete più ampia entro cui infittire e tessere nuove relazioni, ricucendo tra loro i frammenti e rafforzando la configurazione dei loro margini (Zecchin L., 2012). Entro questa logica sono sperimentate nuove tipologie ibride, senza caratterizzazioni d’uso univoche. I suoli artificiali sono trasformarti in suoli multifunzionali, per la fitodepurazione o lo stoccaggio e drenaggio dell’acqua, sul modello delle sperimentazioni più recenti di playground topografici plurifunzionali. In questo processo, sono centrali le strategie progettuali che prevedono la rimodulazione delle densità, le regole morfologiche e insediative di costruzione dei bordi per ottimizzare il consumo di suolo e conservare i vuoti centrali dismessi come riserve urbane verdi, la previsione di margini ecologici spessi per raggiungere elevati standard di qualità e di dotazione ecologica locale. L’infrastrutturazione ecologicamente orientata di spazi e frammenti urbani propone un approccio sistemico al progetto urbano, capace non solo di preservare funzioni ecologiche attuali ma di instaurarne di nuove ove queste sono assenti. Tale struttura concatenata di vuoti adattivi e resilienti può incidere positivamente sulla fragilità della città contemporanea attraverso la definizione di una rete diffusa e articolata (Zecchin L., 2015) che integri nel disegno degli spazi, la qualità di infrastruttura di riduzione e/o di mitigazione dei rischi connessi ai cambiamenti climatici, idraulici, isole di calore, ecc., e le eco-infrastrutture capaci di attivare nuovi e più cicli di vita sistemici per la città, le persone, il pianeta.

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Ai temi urbani si sommano quelli legati al re-cycle architettonico di edifici e spazi in abbandono o oggetto di potenziali abbandoni, che possono essere trasformati per stratificazione e densificazione dell’esistente, per microinterventi diffusi di re-cycle dei manufatti, secondo organizzazioni spaziali a maggiore flessibilità nell’utilizzo degli spazi, l’inserimento di nuove mixité funzionali e nuove attività, la realizzazione di nuovi suoli verdi e abitabili sui tetti, la ricomposizione d’involucri performanti, l’incremento di energia da fonti rinnovabili, la densificazione selettiva, attraverso l’inserimento di nuovi corpi architettonici a saldatura dei fronti discontinui, o il diradamento selettivo di alcune altre parti rinaturalizzandole o

I vuoti potenziali della città verde e porosa Caserme militari dismesse a Trento, 2015

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restituendole alla produzione agricola urbana. Gli spazi artigianali e commerciali possono essere riorganizzati anche internamente, ipotizzando scenari dove due o più aziende scelgono di convivere sotto lo stesso tetto o per piccole imprese in incubazione o per distretti altamente tecnologici condividono dotazioni e servizi comuni, realizzati per densificazione tra due o più manufatti esistenti. La modificazione degli involucri esistenti è volta a riconfigurare l’immagine dei fronti edilizi esistenti e a migliorarne le caratteristiche prestazionali e l’efficienza energetica, operando con isolamento termico, sistemi passivi, serre solari, raccolta acque piovane, etc. Operazioni di retrofitting possono essere finalizzate all’integrazione tra organismi architettonici e vegetali alle diverse scale, dal reinverdimento di pareti e di facciate edilizie attraverso sistemi di verde verticale a opere di rinaturalizzazione urbana. Dal punto di vista strettamente architettonico, la ricerca ha indagato le operazioni di addizione, sottrazione, innesto, involucro. Operazioni di addizione e sottrazione sono la strategia volta a di diminuire o aumentare la densità di un’area, migliorando la qualità degli spazi. L’operazione di sottrazione permette l’alleggerimento volumetrico, tramite la diminuzione della densità con l’eliminazione delle aggiunte successive, migliorando la qualità spaziale oppure svuotando letteralmente alcune aree dell’edificio creando, ad esempio, delle corti interne. La strategia additiva consiste nell’aggiunta di uno o più volumi. L’addizione si traduce nella realizzazione di sopraelevazioni, di espansioni alla base dell’edificio o nella realizzazione di volumi a sbalzo in facciata, di collegamenti tra volumi esistenti o di corpi di servizio necessari per adattare un edificio alle normative vigenti riguardanti l’impiantistica, le norme antincendio e il superamento delle barriere architettoniche. Questa operazione modifica la volumetria dell’edificio, diminuendo o aumentando la cubatura dello stesso si ottengono morfologie anche diverse da quella di partenza. Le operazioni d’innesto consentono di modificare lo spazio interno con l’inserimento di percorsi o di interi piani. Si tratta di un processo che crea nuove relazioni all’interno di un volume preesistente, permette di alterare la percezione dello spazio interno senza stravolgere l’impianto volumetrico del manufatto, di introdurre architetture indipendenti all’interno di strutture preesistenti di notevoli dimensioni. Questa operazione può essere utilizzata anche per ragioni

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di carattere energetico, in presenza di grandi contenitori vuoti in cui non conviene riscaldare o raffrescare l’intero volume ma è preferibile innestare elementi edilizi autonomi minori. Le operazioni sull’involucro affrontano il tema della facciata che, allargando i propri confini dimensionali e prestazionali, può assumere caratteristiche spaziali e prestazionali ampie e flessibili. La facciata unidirezionale è punto di partenza per l’esplorazione delle potenzialità dell’involucro, come membrana: pelle di un organismo edilizio che implica il riconoscimento della sua funzione come mediazione tra interno ed esterno. La spazialità dell’involucro, inteso come spazio di transizione dotato di una propria autonomia, si modifica contraendosi ed espandendosi, chiudendosi o aprendosi, in relazione alle caratteristiche della propria pelle che da semplice elemento di separazione tra interno ed esterno si trasforma in un vero e proprio sistema d’interfaccia da abitare. In questa logica, anche l’idea di porosità e permeabilità si modifica, diventando elemento dinamico di re-cycle architettonico. Ottimizzare l’esistente rigenerandolo, riciclandolo e riqualificandolo in chiave di eco-efficient smart landscape, cioè di sostenibilità inclusiva dei temi ambientali, paesaggistici, della qualità urbana e architettonica, della produzione energetica, ecc., può essere ottenuto attraverso la razionalizzazione dell’occupazione del suolo, della logistica, delle filiere territoriali, puntando sulla riqualificazione, come tessuto urbano, di alcune precise localizzazioni dove è concentrato l’edificato industriale, sulla mitigazione dell’impatto ambientale e paeasaggistico delle aree produttive esistenti e di eventuali futuri ampliamenti o nuovi insediamenti, sull’individuazione di misure di conversione ecologica, sia alla scala dell’area sia dell’edificio.

DESIGN CONCLUSIONS Per l’arcipelago di quartieri così come per quello degli spazi artigianali e commerciali considerati, l’operazione di re-cycle si riferisce sia alla bassa qualità tecnologica dei manufatti, sia alla bassa articolazione e intensità spaziale di questi frammenti entro la città. Le strategie e i modi di re-cycle proposto operano a partire da nuovi strumenti concettuali e progettuali, volti a stabilire una rete di luoghi, dove stratificare le micro-relazioni tra le differenti isole dell’arcipelago,

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innescare condivisioni tra servizi e opportunità, in una sorta di rete sistemica e performante, che costituisce una vera e propria infrastruttura urbana. Tale declinazione del re-cycle può prefigurare e dare consistenza ad architetture e spazi intesi come nuove polarità urbane diffuse da ripensare in relazione al vuoto, che rappresenta oggi la vera distanza tra le cose e le persone, vuoto che è l’elemento che più si offre alla progettazione, e che perciò è un pieno per nuove dinamiche urbane e sociali. In un momento di crisi che vede il progetto di architettura sempre più inteso come soggetto da spettacolarizzare e il progetto urbano spesso risolto come sommatoria di singole architetture avulse dal loro contesto

Uno strato in più per rigenerare la città Workshop Re-cycle Trento, 2015

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relazionale, è più che mai necessario affrontare la problematica con un approccio globale. Senza ambizione di dare risposte definitive, bisogna ricercare modi e strumenti che possano avere un ampio grado di generalità sul piano teorico, cui possa naturalmente corrispondere un ventaglio di riferimenti nella cultura contemporanea dell’abitare. All’interno di questo orizzonte e di queste finalità teoriche generali, la ricerca deve essere sviluppata attraverso la sperimentazione applicata a temi e a contesti diversi: il progetto delle aree dismesse, da ridestinare e da riconfigurare, o d’interi quartieri da riqualificare e da ridefinire, che abbiano valore paradigmatico. Si tratta di un tema cruciale e strategicamente importante. La ricerca, attraverso lo studio sistematico di alcune aree campione, analizza le esigenze di trasformazione della città, offrendo gli strumenti per ripensare in chiave progettuale la definizione di molte aree oggi prive di un ruolo, in un quadro di riconversione e di rifunzionalizzazione dei contesti urbani e territoriali. Tutte le città, di grandi, medie e anche piccole dimensioni, si trovano a disporre di numerose ed estese aree dismesse da riconvertire e d’interi settori urbani periferici o degradatati. Questa grande disponibilità rappresenta naturalmente una risorsa importante per le città: consente di ridefinire interi settori urbani convertendoli a nuove destinazioni, di completarne le parti incompiute, di recuperare le tracce delle urbanizzazioni antiche, di ripensare ai rapporti fra gli elementi naturali e i modi di costruzione della città. Più in generale, ciò permette di ripensare ai modi della crescita futura, alle relazioni con le altre parti della città, a nuovi modelli insediativi, ai modi di organizzare e di dare forma alla città contemporanea, in un’ottica di tutela e risparmio del suolo, di confronto con il patrimonio esistente, di considerazione per i caratteri dei luoghi, di attenzione agli aspetti del risparmio e dell’efficienza energetica, a partire dalla scala urbana degli insediamenti. La questione del progetto urbano è il tema centrale entro cui sperimentare il re-cycle come individuazione dei principi di costruzione della città e di organizzazione dei luoghi attraverso le relazioni fra architetture e spazi aperti, come modo di costruire e ri-costruire le parti di città e di riorganizzazzione della forma urbana. Affrontando contemporaneamente

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tutti i temi e i problemi più urgenti e attuali del nostro tempo, dalla necessità di risparmio di suolo alle questioni del risparmio e dell’efficienza energetica, il re-cycle applicato al progetto di architettura per la città consente di trasformare i problemi in elementi di qualità delle architetture stesse e degli spazi urbani.

BIBLIOGRAFIA Battaino C. (2012), Vacant spaces. Recycling architecture. La periferia inglobante, Milano: Mimesis Battaino C. (2014), Ri-ciclo fondato sul progetto. In Marini S., Roselli S.C. (a cura di), RECYCLE OP_POSITIONS I, Roma: Aracne, p. 200-201 Battaino C., Zecchin L. (2015), Alps_Hyper_Cycle. Osservatorio sui frammenti di origine produttiva-artigianale nella Valle dell'Adige. In MONOGRAPH.IT, v. 2015/n.2mr, Trento: LIST, p. 140-145 Berger A. (2006), Drosscape: Wasting Land in Urban America, New York: Princeton Architectural Press Bocchi R. (1989), Trento. Interpretazione della città. Trento: Saturnia Doron G.M. (2007), Badlands, blank space, border vacuums, brown fields, conceptual Nevada, Dead Zones…. In, Architecture and Indeterminacy. Field: vol. 1, issue 1, Sheffield, pp. 10-23 Gregotti V. (1982), Modificazione, editoriale. In Casabella: rivista mensile di architettura e tecnica n. 498-499, Milano: Electa, pp. 2-7 Gunderson L.H., Holling C.S. (2002), Panarchy. Understanding Transformations in Human and Natural Systems, Washington: Island Press Koolhaas R. (2008), Junkspace. Per un ripensamento dello spazio urbano, Macerata: Quodlibet Mcdonough W., Braungart M. (2002), Cradle to Cradle. Remaking the Way We Make Things, New York: North Point Press Mcdonough W., Braungart M. (2013), The upcycle: Beyond sustainability - designing for abundance, New York: North Point Press Mostafavi M., Doherty G. (2010), Ecological Urbanism, Harward University Graduate School of Design: Lars Müller Publisher Viganò P. (2011), Riciclare la città. In, Ciorra P., Marini S. (a cura di), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Milano: Electa Zecchin L. (2012), Architettura degli spazi marginali. Marginal Spaces Architecture, Trento: University of Trento Press Zecchin L. (2015), Pensare l’utile nell’inutile. Per un progetto di stratificazione del margin[al]e. Agribusiness Landscape & Environment Management, vol. XVIII n. 1 marzo 2015, p. 24-31 CREDITI Progetto Torri: G. Cacciaguerra, C. Battaino, L. Zecchin UNITN DICAM 2013 Workshop Re-cycle Trento: C. Battaino, P. Fossati, L. Zecchin UNITN DICAM 2014 I capannoni dismessi della valle dell’Adige: C. Battaino, L. Zecchin UNITN DICAM 2013-2014 La rete dei quartieri di social housing a Trento e Rovereto: C. Battaino, L. Zecchin, UNITN DICAM 2014-2015

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Recupero Urbano a Gent Foto di Maurizio Costantini, 2014

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ASPETTI TECNOLOGICI DEL RE-CYCLE Maurizio Costantini Andrea Revolti > UNITN - DICAM

IL RE-CYCLE E IL CONCETTO DI SOSTENIBILITÀ La nascita della definizione di sviluppo sostenibile e del termine “sostenibilità” può essere riconducibile al rapporto “Our Common Future”1. Il testo è divenuto oramai un riferimento per la trattazione delle problematiche relative allo sviluppo sostenibile e al suo interno compare la famosa definizione: “l’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far si che esso soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro”: obiettivo di questa visione è uno sviluppo economico compatibile con l’equità sociale e gli ecosistemi, operante in regime di equilibrio ambientale. Una successiva definizione di sostenibilità, in cui è inclusa una visione più globale del termine, è stata fornita, nel 1991, da World Conservation Union (WCU), UN Environment Program (UNEP) e World Wide Fund for Nature (WWF), che la identifica come “un miglioramento della qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi di supporto, dai quali la vita stessa dipende”.Vengono anche dichiarati i “Principi Cardine” delle

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politiche ambientali a venire: il principio di precauzione; il principio “chi inquina paga”; il principio di equilibrio. Nel 1994, l’ICLEI (International Council for Local Environmental Initiatives) ha proposto un’ulteriore definizione di sviluppo sostenibile: “sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i membri di una comunità, senza minacciare la funzionalità dei sistemi naturali, economici e sociale da cui dipende la fornitura di tali servizi”. Ciò significa che le tre dimensioni economica, sociale ed ambientale sono strettamente correlate, ed ogni intervento di programmazione deve tenere conto delle reciproche interrelazioni. Parimenti a queste definizioni generali, la sostenibilità nello specifico settore delle costruzioni è mirata ad ottenere principalmente quattro risultati: miglior utilizzo delle risorse energetiche; controllo delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera; uso più accorto e consapevole dell’acqua come risorsa naturale; riduzione del carico di rifiuti per l’ambiente.

TECNOLOGIA E RICICLO PER LA SOSTENIBILITA’ IN ARCHITETTURA Una sistematica ricerca in letteratura tecnica mostra che sinora risultano codificati scientificamente solo iniziative e processi in ordine essenzialmente ad acqua, processi chimici e processi industriali (nel cui ambito nasce il termine re-cycle). Più recentemente, si è visto - in materia di processo edilizio - ragionare sulla produzione di aggregati per compositi (essenzialmente calcestruzzo) quali materie prime-seconde derivanti da macerie di demolizioni. Riferendosi al riciclo, questo sembra costituire oggi la punta specifica più “evoluta” in materia tecnologica in edilizia, fatto salvo quanto ottenuto dal riciclaggio in settori non specifici (es: materiali plastici, isolanti, metalli, vetro, carta, ecc). Il campo puramente tecnologico non è sufficiente oggi a far attendere significativi risultati in termini di impatto sulla realtà in tempi brevi e adeguati alla situazione attuale. È quindi necessario uscire ancora una volta dalla logica dei “materiali”, per entrare in quella dei “sistemi” che quei materiali utilizzano. Alcuni ragionamenti orientativi possono partire dalla semantica, riflettendo sulle accezioni del termine re-cycle:

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- accezione letterale-originaria: materiali e voci di cicli produttivi (in senso stretto: produrre prodotto fresco dello stesso materiale - tipici esempi: carta-carta, polistirene-polistirene); - per estensione del termine (quando riciclare come sopra detto è troppo costoso o inquinante): riuso o downcycling, in questo caso ottenimento di sottoprodotti o prodotti ibridi di minore qualità o valore (tipici esempi: carta-cartone semplice, corrugato ecc, plastiche in plastiche di grado inferiore); - per limitazione del termine: salvataggio, con recupero da prodotti complessi di componenti di valore intrinseco (tipico esempio: piombo da batterie, oro da componenti elettronici, ecc.) o di specifica riconosciuta pericolosità (esempio tipico: mercurio dai termometri); - accezione figurata: riferita ad entità astratte (aspetto poco significativo in ricerca e in tecnologia); - per derivazione, a scala diversa: estensione delle varie accezioni di cui sopra a oggetti complessi (opere a punto e a rete). Dopo accurata riflessione e specifiche indagini, si ritiene che valgono in effetti, nel campo di ricerca, tutte le accezioni significative. Inoltre, si riscontrano in letteratura scientifica e ancora più in pubblicistica, controversie numerose e di lungo periodo tra sostenitori e detrattori: tali controversie sono anche giocate sulla parola re-cycle, oggi vista da taluni come un sinonimo di ambiente, oppure come termine vuoto facilmente strumentalizzabile. Le stesse controversie potrebbero spostarsi dal livello “oggetto” al livello “opera”. Oggettivamente, si è di fronte ad un problema aperto, la cui soluzione non può che passare attraverso tentativi di riconduzione a costi globali di processo (ove l’aleatorietà è costituita dal tempo di valutazione; si potrebbe riflettere sul peso sulle finanze dell’epoca determinato dai castelli di Ludwig di Baviera rispetto al beneficio del loro sfruttamento turistico in epoca contemporanea). Tuttavia i benefici dal riciclaggio di “opere” appaiono intuitivamente molto più apprezzabili rispetti a quelli legati al riciclaggio di materiali: quindi da un lato vale la pena di procedere nella ricerca senza porsi per ora problemi di efficacia ed efficienza, dall’altro a conclusione si raccomanderà caso per caso, in applicazione, di condurre adeguate analisi costi/benefici, tenendo conto degli intangibili che sono legati ad interventi di recupero a scala macro.

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NULLA DI NUOVO SOTTO IL SOLE? D’altra parte, il tema del riciclo non è invenzione o intuizione solo dell’oggi. I greci riciclavano, questo fatto è dimostrato attraverso la ricostruzione della differenza tra ciò che gli archeologi hanno trovato in discarica e ciò che veniva documentatamente consumato. In epoca pre industriale vi sono evidenze di riciclaggio di bronzo e metalli un pò ovunque; soprattutto in Inghilterra, le ceneri di combustione dei fuochi erano usate per confezionare laterizi, cosa che possiamo considerare un’anteprima dell’uso di ceneri volanti e silica fumes nella produzione dei cementi; sempre in Inghilterra, si riciclava il vetro nell’800, avendo introdotto il deposito cauzionale per i vuoti di vari contenitori, creando così il drive per il conferimento. In epoca industriale, tipicamente, si è sempre praticato il riciclaggio nella produzione di acciaio, dove il rottame metallico è tipica materia-prima seconda; noto è il riciclaggio di scorie (polveri, fumi e loppe) nella produzione di cementi; la stessa industria chimica, anche se non fa notizia, ha sempre praticato il riciclaggio di processo, come si può constatare anche in vecchi testi didattici; indubbiamente e purtroppo, in questo campo, pochissime spinte sono rilevabili nel mondo specifico delle costruzioni; infatti, in passato, si riciclava demolendo opere preziose non sentendole come un valore (ad esempio calce da colonne romane) e oggi - se riciclo vi è - questo è maturato e si è sviluppato nell’industria dell’indotto, e non nel settore costruttivo vero e proprio.

QUADRO NORMATIVO In Italia il recepimento della direttiva europea 2002/91/CE è stato realizzato attraverso l’emanazione di specifica regolamentazione tecnica2, assieme a provvedimenti di incentivazione economica degli interventi3. In Europa dalla Direttiva Prodotti da Costruzione 89/106/CEE (CPD) si è passati al Regolamento Prodotti da Costruzione (UE) n. 305/2011 (CPR). Inizialmente, la CPD stabiliva che le costruzioni, tramite i prodotti contenuti al loro interno, dovessero rispettare i seguenti requisiti essenziali: resistenza meccanica e stabilità; sicurezza in caso di incendio; igiene, salute e ambiente; sicurezza nell’impiego; protezione contro il rumore; risparmio energetico e ritenzione di calore.

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A questi sei punti, il recente CPR aggiunge tra l’altro la riciclabilità e durabilità delle opere da costruzione e dei materiali, non tralasciando l’uso di materie prime eco-compatibili. Col nuovo CPR, pertanto, si è dato un segnale forte sul versante della sostenibilità ambientale per le costruzioni: da un’attenzione esclusivamente limitata al risparmio energetico, infatti, si è adesso esteso il campo d’azione, abbracciando i temi veri e propri della sostenibilità ambientale relativa alle costruzioni. CEN. Il Comitato Tecnico Europeo di Standardizzazione CEN/TC 350 “Sustainability of construction works" ha il compito di definire una serie di norme per garantire che tutte le dichiarazioni ambientali di prodotto (EPD), di materiali, servizi e processi legati alle costruzioni siano armonizzate tra le varie nazioni della Comunità Europea. In seno a tale comitato, il riciclo dei materiali da costruzione viene considerato uno degli obiettivi principali. In questo contesto, riprendendo le definizioni inziali, quest’ultimo può essere considerato come la capacità di recuperare materiali dopo un processo, ad esempio di demolizione, per poi reimpiegarli nel settore delle costruzioni, senza destinarli alla discarica. UNI-EN-ISO. Con la sigla ISO 9000 si identifica una serie di normative e linee guida4 sviluppate dall’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO), le quali definiscono i requisiti per la realizzazione, in una organizzazione, di un sistema di gestione della qualità al fine di condurre i processi aziendali, migliorare l’efficacia e l’efficienza nella realizzazione del prodotto e nell’erogazione del servizio, ottenere ed incrementare la soddisfazione del cliente. In aggiunta, la famiglia ISO 14000 (per i titoli, vedere voci bibliografiche) contiene una serie di requisiti relativi alla gestione ambientale delle organizzazioni, correlabili con le 9000 all’interno di sistemi integrati di gestione.

I PROGETTISTI OGGI Il rapporto CRESME 20065 è un riferimento fondamentale per qualsiasi indagine nel mondo delle costruzioni. Se ne riportano nel seguito uno stralcio commentato. […]“Il recupero complessivamente inteso, articolato

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in manutenzione ordinaria e straordinaria, con riferimento al patrimonio residenziale e non residenziale, rappresenta la principale componente del mercato delle costruzioni: nel periodo di osservazione il suo contributo al valore della produzione varia fra un minimo del 53,6% (nel 1990) e un massimo del 60,8% (nel 2000). Al settore del recupero è fortemente legato il complessivo andamento del mercato delle costruzioni”. "La manutenzione del patrimonio non residenziale pubblico tende sempre più a essere collegata ad altri servizi all’edificio e alle persone che rientrano nella categoria del global service e del Facilities Management. Le attività di gestione e manutenzione aprono spazi sempre più consistenti alla gestione integrata in direzione del Facilities Management, come dimostrato dall’andamento dei bandi "misti servizi", nei quali la componente dei servizi prevale sui lavori". Si può quindi inferire che effettivamente le nuove sfide per i progettisti siano profondamente legate al tema re-cycle e che molto spesso una buona strategia di gestione del processo costruttivo dovrebbe di norma sovrapporsi alla “mera” composizione degli elementi architettonici. Nuove categorie di tematiche con cui i progettisti sono chiamati a confrontarsi sono quindi: miglioramento della qualità degli ambienti interni; uso adeguato dell’acqua; riduzione dell’impatto ambientale dei processi; contenimento, uso razionale e corretta gestione dell’energia (attraverso risparmio energetico, razionalizzazione dei consumi, progressiva sostituzione dei combustibili fossili con fonti energetiche rinnovabili e alternative); utilizzo di materiali a km near-0, facilmente riciclabili/smaltibili e con cicli di vita utile che consentano ipotesi di riuso. Anche i bandi di concorso ormai, sempre più spesso, richiedono all’interno dei requisiti progettuali una particolare attenzione verso le tematiche legate all’eco-sostenibilità e al risparmio energetico, prevedendo nei documenti di gara appositi punteggi o bonus.

CERTIFICAZIONI ENERGETICHE E DI PRODOTTO Per quanto riguarda i differenti schemi di certificazione ambientale, il panorama internazionale vede la coesistenza di certificazioni di tipo energetico e di strumenti per valutare la sostenibilità di interi edifici fin dalla fase di progettazione. Si citano di seguito i principali e più conosciuti.

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1. Gran Bretagna - BREEAM (Building Research Establishment Environmental Assessment Method). È un sistema di valutazione a sei livelli via via più restrittivi ai quali un edificio può arrivare in base ai risultati ottenuti all’interno di nove criteri di sostenibilità (gestione, salute e benessere; consumi di energia con relative emissioni di CO2; consumi ed emissioni durante i trasporti; consumo d’acqua; impatto ambientale dei materiali; gestione dei rifiuti e utilizzo del terreno; valutazione ecologica del sito; inquinamento di aria e acqua). 2. Germania - DGNB (Deutsche Gesellschaft für Nachhaltiges Bauen e.V.). La Certificazione per l’Edilizia Sostenibile Tedesca è un sistema di certificazione volontario, originariamente sviluppato per gli Uffici ed Edifici Amministrativi di Nuova Costruzione. Ora è possibile certificare altri tipi di edifici come Edifici Retail ed Edifici Industriali di Nuova Costruzione. Il DGNB ha lavorato insieme al Ministero Federale dei Trasporti, dell’Edilizia e dell’Urbanistica (BMVBS) per sviluppare tale protocollo. Il sistema assegna dei punteggi nell’ambito di sei aree di valutazione (qualità dell’attenzione all’ecologia; qualità della convenienza economica; qualità socio-culturale e funzionale; qualità tecnica; qualità dell’intero processo; qualità del sito). Il DGNB risulta essere il protocollo di certificazione più completo, ma anche il più complesso, e per questo forse trova ancora qualche difficoltà ad essere applicato al di fuori della Germania. 3. Austria - Energie Ausweis e Total Quality Building. L’Energie Ausweis fissa annualmente il valore limite del parametro consumo energetico specifico (NEZ). È pertanto uno strumento per valutare solamente l’efficienza energetica di un edificio, e non la rispondenza a molteplici parametri legati alla sostenibilità ambientale della costruzione. Il sistema edificio è invece valutato (su base volontaria) mediante il Total Quality Building, che consente di analizzare edifici residenziali, uffici, scuole, alberghi e centri commerciali. 4. Svizzera - Marchio Minergie (Minimal energy). È un’etichetta di qualità che si applica ad edifici nuovi e recuperati. Gli aspetti essenziali di tale certificazione sono costituiti dal comfort abitativo e dal comfort del lavoro in produzione (in relazione alla qualità dell’involucro edilizio e dei sistemi di rinnovo dell’aria) e dal consumo energetico specifico, di cui vengono

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definiti i valori limite da rispettare. 5. Danimarca - Fino al 2008, la Danimarca aveva due differenti schemi di certificazione energetica, con una classificazione degli edifici in funzione della loro superficie (schema ELO per edifici con superficie maggiore di 1.500 m2 e schemi EM/EK per superfici minori di 1.500 m2). La certificazione utilizzata oggi è composta da sette classi (che tengono conto dell’analisi dei consumi di energia, di acqua e delle emissioni di CO2). 6. Francia - Programma HQE (Haute Qualité Environmentale - High Environmental Quality). Si tratta di un sistema, su base volontaria, per misurare la sostenibilità ambientale di un edificio (sia pubblico che privato) in fase di progettazione, costruzione e gestione. Questo programma multicriteriale presenta 14 obiettivi da raggiungere, suddivisi in due aree (impatto dell’edificio sull’ambiente esterno e qualità dell’ambiente interno) e quattro categorie di punteggio: sostenibilità nella costruzione; sostenibilità nella gestione; comfort interno; igiene e salute delle aree interne. 7. Stati Uniti - Certificazione LEED (Leadership in Energy and Environmental Design). Si tratta di un sistema di certificazione, su base volontaria, della sostenibilità edilizia basato su un insieme di prerequisiti e crediti. Il soddisfacimento dei prerequisiti è obbligatorio (nei casi in cui si scelga di aderire alla certificazione LEED) per tutti i progetti. Il sistema dei crediti, invece, è facoltativo e dà luogo a un’assegnazione di punti all’interno di alcune grandi categorie: sostenibilità del sito, gestione efficiente delle acque, energia e atmosfera, materiali e risorse, qualità degli ambienti interni, innovazione nella progettazione, priorità regionali. In base al punteggio ottenuto, un edificio può così ottenere la certificazione: Base (40-49 punti); Argento (50-59 punti); Oro (60-79 punti); Platino (80-110 punti).

La sostenibilità nelle costruzioni in Italia La situazione italiana è, allo stato attuale, abbastanza variegata. Coesistono, infatti, diversi modelli di certificazione ambientale. Gli obblighi normativi, comunque, sono ristretti esclusivamente a certificazioni di

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Prospetti esterni di Malga Pradidali Andrea Revolti, 2014/2015

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tipo energetico, in collegamento con le relative norme6. Ogni volta che si realizza una nuova costruzione o che un immobile viene venduto o dato in locazione, è necessario allegare un attestato di certificazione energetica, redatto da un tecnico abilitato. Va evidenziato che, purtroppo, le modalità di presentazione di tali certificati variano da regione a regione. Le certificazioni ambientali, invece, sono tutte su base volontaria. Nonostante ciò, un numero sempre maggiore di nuove costruzioni viene certificato.

Schemi di certificazione dei sistemi ambientali Rispondere a requisiti di tipo ambientale serve ad evidenziare le caratteristiche di risparmio energetico dell’edificio nel tempo, rendendolo di fatto più appetibile rispetto a costruzioni non certificate. Si riportano di seguito i più diffusi sistemi di certificazione volontaria di SA in Italia. 1. CasaClima - È una certificazione energetica introdotta dalla Provincia Autonoma di Bolzano (che l’ha resa obbligatoria a partire dal 2005), avente l’obiettivo di classificare un edificio in base al consumo energetico annuo. 2. Protocollo ITACA - Il protocollo, facoltativo e pertanto non cogente, può essere applicato a edifici residenziali e ad uffici pubblici e privati (con due distinti percorsi di valutazione). Queste procedure verranno estese a scuole, aree industriali ed edifici commerciali. C’è da segnalare che, ad oggi, non tutte le regioni italiane hanno aderito al protocollo ITACA. 3. Certificazione LEED – GBCHOMEITALIA - L’impegno di GBC Italia (Green Building Council), dopo aver realizzato una versione per il mercato nazionale del protocollo LEED 2009 Nuove Costruzioni e Ristrutturazioni, è stato quello di produrre uno strumento che si rivolgesse prevalentemente al mercato residenziale. Si tratta di un prodotto a marchio GBC Italia, che ha preso come punto di partenza LEED® FOR HOMES, ma che è stato sviluppato specificamente considerando le caratteristiche abitative e le diversità nel modello costruttivo proprie della realtà italiana. Il sistema di valutazione della sostenibilità edilizia GBC HOME è un sistema volontario, basato sul consenso comune degli interessati e guidato dal mercato. Il sistema di valutazione è organizzato in cinque categorie ambientali: Sostenibilità del Sito (SS); Gestione delle Acque (GA); Energia e Atmosfera

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(EA); Materiali e Risorse (MR); Qualità Ambientale Interna (QI); Innovazione nella Progettazione (IP). 4. Certificazione ARCA - ARchitettura Comfort Ambiente è il primo sistema di certificazione ideato e realizzato esclusivamente per edifici con struttura portante in legno. Il progetto nasce in Trentino su iniziativa della Provincia Autonoma di Trento che lavora al progetto dal 2009, per garantire sicurezza, efficienza energetica, comfort e sostenibilità degli edifici in legno. Il regolamento tecnico non definisce a priori specifiche modalità costruttive (pannello o telaio), non fornisce soluzioni prescrittive, ma fissa elementi qualitativi in modo preciso, codificato e misurabile. Si è così creato un sistema aperto inteso fondato sull’analisi degli elaborati progettuali, le verifiche in cantiere ed i test condotti in corso d’opera. Nelle operazioni di ricerca sono poi state indagate le più significative certificazioni di prodotto estere, internazionali ed Italiane. L’elenco e i relativi commenti sono pubblicati nel Report di Ricerca completo, mentre sono omessi nel presente rapporto non solo per questioni di spazio ma soprattutto perché essi ricadono solo in seconda battuta sui prodotti di ricerca attesi.

TIPOLOGIE DI RECYCLE E MATERIALI Conformemente alle definizioni in premessa, un materiale edile può essere considerato come inizio (o base) del re-cycle se, alla fine della propria vita utile, esso potrà essere recupero e re-impiegato in nuovi cicli produttivi e/o utilizzi, come anticipato in premessa. Come precedentemente accennato, a seconda delle tecniche di recupero e dei nuovi possibili impieghi si categorizzano quattro tipologie di riciclo: 1. up-cycle: il materiale recuperato verrà re-introdotto in un ciclo produttivo che lo porterà a formare un prodotto più complesso o qualitativamente più alto. Esempio: materiali da scavo o terre di risulta utilizzate per formare l’impasto del calcestruzzo. 2. down-cycle: il materiale recuperato verrà utilizzato in cicli produttivi

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per formare un prodotto più semplice o elementare. Esempio: il recupero delle guarnizioni dai serramenti, che dopo una nuova fusione andranno a formare i pannelli di tartan grezzo usabili nei parchi giochi per bambini o nelle piste per atletica. 3. re-cycle: il materiale recuperato viene semplicemente reinserito nello stesso ciclo produttivo. Esempio: si possono citare vari materiali tra cui il ferro, l’acciaio, il vetro e il legno. 4. iper-cycle: il materiale viene recuperato tramite macchinari e tecniche costruite ad hoc separandolo da altri componenti considerati scarto inutilizzabile: si tratta di un riciclo di selettiva precisione. Esempio: il rame recuperato da fili elettrici. La scelta di materiali e prodotti viene effettuata sulla base di un ecobilancio che confronta tra loro i prodotti, valutandone i diversi impatti ambientali che i prodotti stessi inducono in tutte le fasi del ciclo di vita. In estrema sintesi la sostenibilità di un materiale si definisce in relazione alla riduzione ai minimi termini del suo impatto ambienale riferito all’intero ciclo della sua vita utile e del suo smaltimento.

CARATTERIZZAZIONE DELLA COSTRUZIONE RICICLABILE Nel seguito si riporta una review della letteratura con una analisi ragionata sui caratteri essenziali del progettare e costruire per il riciclo: si tratta di aspetti che spesso nei procedimenti del passato erano presenti come sedimento di un saper fare da buone pratiche, e che nel tempo si sono spesso perduti in nome del contenimento dei costi e della ragion pratica. a. L’approccio al Ciclo di vita (Life Cycle Thinking) Il ciclo di vita di un edificio comprende corrisponde ad una visione di sistema dell’intero processo edilizio; comprende quindi molteplici fasi: 1. estrazione e trasporto delle materie prime; 2. loro trasformazione in semilavorati o prodotti finiti e loro trasporto nel cantiere di utilizzo;

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3. costruzione del fabbricato; 4. periodo di utilizzo dell’edificio (funzionamento degli impianti, gestione e manutenzioni dei componenti dell’edificio); 5. fine dell’utilizzo, con dismissione, smontaggio dei componenti e loro reimpiego o conferimento. Un edificio, naturalmente, consuma energia durante l’intero ciclo di vita nel corso di tutte queste cinque fasi, anche se la fase più critica è la fase 4: su un orizzonte di 50 anni, riscaldamento, climatizzazione estiva, illuminazione e produzione di acqua calda incidono sull’intero ciclo di vita per oltre il 90%. Ciò considerato quanto a impatto sia sull’ambiente sia sui costi diretti ed indiretti, l’architettura sostenibile ha per obiettivo la progettazione di edifici in grado di risolvere il divario sempre possibile e spesso presente tra concezione estetica-formale e concezione energeticafunzionale. b. Eco-bilancio (Life Cycle Assessment) La valutazione degli impatti ambientali è definita ecobilancio, e considera ciascuna fase del ciclo di vita analizzando le esternalità7 in spazi e tempi diversi, valutando: nel tempo, gli impatti che avvengono prima, durante e dopo l’esistenza dell’edificio stesso (ad es. estrazione materie prime, intervento di manutenzione per estendere la durata dell’edificio); nello spazio, gli impatti generati in altri luoghi da quello dell’insediamento (es. nei luoghi di prelievo o produzione dei materiali). c. Compatibilità Integrare l’opera nell’ambiente e nella natura, applicando il concetto di economia inteso non come il minor costo a breve termine, ma come il sistema che consente di evitare gli sprechi e le esternalità. Per fare questo occorrono una visione olistica e un approccio pluridisciplinare che diano priorità al bene generale anziché al beneficio individuale. d. Benessere Lo scopo del costruire è il benessere degli abitanti, inteso come stato psicofisico cui concorrono salute dell’individuo, equilibrio socioeconomico e attenzione all’ambiente. In questa visione, l’edificio non è un oggetto a sé stante, slegato dal contesto, ma è parte di un sistema interattivo e dinamico

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che considera gli elementi naturali (terra, acqua, vento, sole, vegetazione, paesaggio) e sociali (identità e appartenenza ai luoghi) come input fondamentali del progetto. Ovviamente, è fondamentale che il costruito sia realizzato con materiale che non presenti rischi sanitari o, ove possibile, che abbia qualità che contribuiscano a sanificare l’ambiente. L’estetica è stata, durante i primi anni di esperienza dell’architettura sostenibile, un aspetto trascurato, sacrificato sull’altare dell’efficienza dei sistemi solari attivi (pannelli solari). Oggi ci si sforza di rendere il costruito “bello”, proprio in aderenza al principio che la bellezza degli edifici contribuisce al benessere psicologico delle persone. e. Risorse energetiche Uno degli obiettivi che l’architettura sostenibile si pone è quello di razionalizzare l’uso dell’energia. Se non altro ai fini di questa ricerca, si ritiene che l’opportunità di un tale obiettivo non sia da dimostrare. Dando per scontate note classificazioni, infatti, da un lato alcuni aspetti e visioni sono condivisibili e condivisi, mentre altri generano dibattiti e controversie, in letteratura sia scientifica sia divulgativa, sui quali non si intende qui intervenire. D’altra parte, è bene richiamare alcuni dati (fonte: ENEA8): da carbone: 30% dell’elettricità in Europa, 50% negli USA, 75% in Cina (40% nel mondo); da petrolio: circa il 5% della produzione mondiale di energia elettrica; da gas: 23%, con previsione di aumento nei prossimi anni. A lato, IEA (International Energy Agency) stima una crescita dell’87% della sola domanda di energia elettrica mondiale tra il 2007 (18,8 x 1012 Kwh) e il 2035 (35 x 1012 Kwh): quindi, a 20 anni, se anche la quota fossile di elettrico scendesse di qualche percento, i consumi complessivi primari corrispondenti cresceranno oltre l’80%, con buona pace di chi giustamente auspica l’aumento dell’uso di energie alternative. A buon senso quindi, parafrasando Plutarco, qui si postula che comunque parcere necesse est; ovvero: il risparmio energetico è non solo un’opportunità ma una necessità, anche alla luce delle prospettive europee di near-zero building. Per una corretta progettazione energetica quattro sono i fattori essenziali: approccio bioclimatico (orientamento, soleggiamento e ombreggiamento, ventilazione naturale), obiettivo ben nota dall’antichità, e trascurata in era di energia facile; coibentazione dell’involucro (riduzione del fabbisogno per riscaldamento e raffreddamento); efficienza degli impianti (riduzione dei consumi a parità di prestazione); ricorso a fonti energetiche alternative/

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sostitutive. Se i primi due aspetti sono correlati alle caratteristiche dell’edificio (caratteristiche “passive”), gli ultimi due sono tipicamente impiantistici. f. Approccio minimalista I progetti tendono a ridurre dimensioni e accessori non indispensabili: dopo aver esplicitato le necessità che danno efficacia all’opera, si punta a minimizzarne la dimensione, razionalizzando il confort offerto; obiettivo: rimuovere l’inutile e concentrarsi sull’aumentano dell’efficienza e dell’efficacia dell’opera. Questo approccio ha immediato effetto sul consumo di suolo e sullo sfruttamento delle risorse naturali, e un beneficio nell’economia di gestione. g. Temporaneità come valore Le costruzioni temporanee (case unifamiliari, microarchitetture e installazioni) sono “prodotti” architettonici fatti per durare un determinato intervallo di tempo o per modificarsi nel tempo. L’aggettivo “temporaneo” si contrappone alla condizione di permanenza che sempre caratterizza l’oggetto edilizio, fatto per “durare nel tempo”. Le costruzioni temporanee si possono definire tali quando, per caratteristiche intrinseche (tecnologie leggere, assemblaggio a secco), occupano il suolo solo temporaneamente, ma anche quando, pur essendo stabili, esse risultino adattabili ad usi e utenze distinte, grazie a strutture flessibili che “attrezzano” lo spazio e lo rendono adattabile alle diverse esigenze. Diverse sono le accezioni del costruire temporaneo che riguardano ciascun ambito del vivere (abitare, lavorare, divertirsi, studiare) e sono la mobilità, il nomadismo, la precarietà e l’emergenza. Il modo di pensare, costruire e abitare subisce mutamenti in virtù delle innovazioni tecniche fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento: ciò induce a sostituire a un’architettura duratura, con una propria “quota di eternità”, un’architettura pur durevole ma concepita per avere una vita relazionata al tempo in cui, presumibilmente, sarà utilizzata (obsolescenza programmata). Si assiste così ad un passaggio dall’idea di tempo all’idea di temporaneità, intesa come declinazione del concetto di tempo nel costruire e nel vivere.

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RUDERE ESISTENTE

SCHEMA PIANTA PIANO TERRA

SCHEMA PIANTA PIANO PRIMO

Concept progettuali e piante intervento di recupero dei ruderi di Malga Pradidali Andrea Revolti, 2014/2015

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LE TECNICHE DELLA TEMPORANEITÀ a. Leggerezza È la caratteristica delle tecniche da cui una costruzione temporanea non può prescindere. La leggerezza, infatti, garantisce velocità e facilità di impianto, così come velocità e facilità di disarmo. Materiali e sistemi costruttivi devono pertanto essere leggeri, prima di poter diventare espressione di temporaneità: di conseguenza, la costruzione temporanea si avvale di materiali che siano ridotti nelle dimensioni e nel peso e ricondotti ad elementi da comporre e assemblare a secco, scelti a catalogo nell’ambito della produzione industriale. b. Rereversibilità È il più alto livello di temporaneità che richiede, nell’atto del costruire, l’impiego di tecnologie leggere e tecniche esecutive industriali, come l’assemblaggio a secco e un approccio sensibile alla ricerca di strategie in grado di stabilire delle interrelazioni tra l’ambiente e le sue risorse. La reversibilità è quindi la capacità di un processo costruttivo di tornare al punto di partenza “senza lasciare tracce”, ad esempio nelle fasi di progettazione, realizzazione e gestione di un green building. Si possono definire reversibili le costruzioni che: sono assemblate a secco, senza utilizzo di leganti; possiedono un attacco a terra poco invasivo, cioè con fondazioni poco profonde e non particolarmente ancorate); sono costruite con materiali e sistemi ecocompatibili o riciclabili; è nota la procedura di montaggio e di smontaggio, con fasi supportate da un progetto a monte che le prevede e le regola. c. Flessibilità Nel costruire contemporaneo è la capacità di produrre ambienti in grado di evolversi e di adattarsi ai cambiamenti di vita degli utenti, o all’uso che essi ne fanno nel tempo. Essa costituisce un ulteriore livello di temporaneità, espressione dinamica di costruzioni stabili che assolvono nel medesimo spazio diversi gradi di variabilità. Consente all’edificio, sostanzialmente, di assolvere a utilizzi o contesti temporanei nella sua già prevista temporaneità. Si può definire flessibile una costruzione che possiede o presenta: pianta libera, cioè priva di elementi che individuano forzatamente degli spazi, ad esempio nel caso di troppi muri tramezzi;

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accurata distribuzione di impianti e servizi; unica copertura che unifica spazi diversi, aperti o chiusi; pareti mobili che garantiscono configurazioni diverse dello spazio; sistemi di chiusura esterna variabili nella conformazione e funzionalmente; struttura tale da permettere eventuali, futuri ampliamenti. d. Progettare la demolizione, progettare per la demolizione La demolizione di opere è “lo smontaggio di impianti industriali e la demolizione completa di edifici con attrezzature speciali, ovvero con uso di esplosivi, il taglio di strutture in cemento armato e le demolizioni in genere, compresa la raccolta dei materiali di risulta, la loro separazione e l’eventuale riciclaggio nell’industria dei componenti”9. Sin da tale definizione, quindi, l’abbattimento di un edificio è un operazione in due fasi: demolizione vera e propria; smaltimento dei rifiuti prodotti. L’intervento di demolizione vede un vero e proprio progetto, al pari di un intervento di costruzione: mancanza di dati certi sul manufatto da demolire, spazi limitati intorno all’edificio, difficoltà di comprensione ed interpretazione dello schema strutturale sono alcuni fattori che rendono difficoltoso e pericoloso l’intervento di demolizione. Esistono tre modalità d’intervento in uso attualmente per la demolizione di strutture complesse, come fabbricati industriali o edifici: demolizione convenzionali con escavatori muniti di pinze e frantumatori; demolizione non convenzionali con esplosivo; smontaggi strutturali. In generale un buon intervento di demolizione deve: ridurre il più possibile i costi; ridurre i tempi dell’intervento; garantire la sicurezza e la tutela dei lavoratori; non generare disturbo durante le operazioni di demolizione; ridurre l’impatto ambientale; ottimizzare il recupero delle macerie. Per procedere correttamente, sotto il profilo metodologico, il primo passo è un’attenta pianificazione seguita da uno studio di impatto ambientale e da un progetto preliminare redatto secondo le esigenze e le indicazioni del committente, nel rispetto della sicurezza e della qualità dell’opera: dopo aver messo in sicurezza la zona dell’intervento, si procede con la bonifica dell’edificio e la caratterizzazione dei rifiuti, fino a giungere alla demolizione vera e propria ed al ripristino dell’area di intervento. Infine avviene lo smaltimento corretto dei rifiuti (cemento, legno, alluminio, ferro ed altri) nel rispetto delle normative ambientali. Termini come "Demolizione selettiva, Smontaggio per il riuso, Smontaggio

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per il riciclo" devono entrare di forza nel vocabolario del progettista al posto della mera Demolizione. Va da sè che quando il fine vita di un’opera è previsto sin dalla progettazione definitiva ed esecutiva, gli obiettivi sopra definiti si trasformano in precisi requisiti che governano la scelta dei materiali, dei sistemi costruttivi e delle tecnologie poste in essere, e la demolizione diventa un vero e proprio decommissioning.

LCA: LIFE CYCLE ASSESSMENT Delineare e inquadrare i molteplici sviluppi di un argomento eterogeneo e discusso come il LCA (Lyfe Cycle Assessment) ha posto numerosi e delicati problemi, e ha richiesto l’interessarsi a diversi campi di indagine. Innanzitutto, come primo passo, sono state studiate le basi comuni sulle quali si sono costruiti i compositi concetti di “ciclo di vita di un materiale”, di “sostenibilità” in generale, e di “eco-sostenibilità” in particolare. Il che comporta che si debba partire dal concetto di “limite dello sviluppo”, come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi (Club di Roma, 1972) per arrivare a comprendere invece le nuove caratteristiche di uno sviluppo sostenibile non solamente auspicabile, ma ormai vera e propria necessità. Secondo passo è stato quello di raccoglie e studiare la normativa vigente a livello italiano ed europeo, per capire quali limiti e regole siano già in vigore e dove tale apparato potrebbe essere migliorato, sia in termini incrementali, sia in termini sostitutivi, sia infine in termini di semplificazione / eliminazione. Terzo passo è stato riflettere sui metodi LCA e LCD (Life Cycle Design), che permettono, in linea di massima, di controllare i vari step della storia di un materiale/elemento costruttivo/manufatto. Si tratta di strumenti potenti ma potenzialmente ambigui: la loro completa affidabilità è infatti messa in discussione in quanto, all’aumentare della complessità di costruzione e degli accostamenti di materiali, tanto più aumenta la facilità di “inquinare” il metodo alterando taluni parametri allo scopo di riuscire ad ottenere proprio i risultati definiti a priori: in altri termini non è l’algoritmo che fornisce il risultato, ma è il risultato che determina l’algoritmo. Come quarto passo, si sono studiati gli elementi complessi, arrivando a discutere ed analizzare le tecnologie costruttive: prefabbricare, industralizzare, costruire a secco, progettare pensando già alla demolizione

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e/o alla dismissione, progettare il riuso e combattere l’obsolescenza sono tutte pratiche importanti per evitare sprechi di materiali, di risorse economiche e anche di territorio. Come quinto passo, si è tentato di trattare LCA/LCD da un punto di vista anche economico, prospettiva considerata come ultima, dopo aver raccolto materiale sufficiente riguardo agli elementi e fattori già elencati, giacché nessuna buona pratica viene davvero impiegata se non si prevede un beneficio economico per chi si appresta ad utilizzarla. Quali incentivi o ritorni economici sono quindi in vigore e quali è possibile prevedere? La ricerca di cui qui si riferisce punta in sintesi a fornire informazioni utili e concrete sia per la pubblica amministrazione sia per il privato, definendo nuove idee utili tanto alla progettazione quanto al privato cittadino/ committente, che dovrebbe abituarsi a richiedere queste soluzioni in fase progettuale.

Situazione odierna, stato dell’arte e aspettative Il metodo LCA è una procedura standardizzata che permette di registrare, quantificare e valutare i danni ambientali connessi con un prodotto, una procedura o un servizio, all’interno di un contesto ben preciso, che deve essere definito a priori. Questo studio può essere inteso come “integrale”, in quanto considera anche tutti i passaggi precedenti e seguenti la procedura in esame10. La struttura di LCA viene descritta in normativa11 come "compilazione e valutazione attraverso tutto il ciclo di vita dei flussi in entrata e in uscita, nonché i potenziali impatti ambientali, di un sistema di prodotto". È doveroso riportare anche la definizione proposta dalla SETAC (Society of Environmental Toxicology and Chemistry), che descrive LCA come “un processo oggettivo di valutazione dei carichi ambientali connessi con un prodotto, processo o attività, condotto attraverso l’identificazione e la quantificazione dell’energia e dei materiali impiegati e dei rifiuti rilasciati nell’ambiente, per valutare l’impatto di questi usi di energia e materiali e rilasci nell’ambiente, e per vagliare e realizzare le opportunità di miglioramento ambientale. La valutazione include l’intero ciclo di vita del prodotto, processo o attività, includendo l’estrazione e il trattamento delle materie prime, la fabbricazione, il trasporto e la distribuzione, l’uso, il riuso, la manutenzione, il riciclo e lo smaltimento finale.” Studiando i cicli di vita dei materiali e lavorando sulla loro possibile

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“collaborazione” con programmi di BIM, si è ragionato in vista di un modello realmente obiettivo e quindi credibile per l’utilizzo pragmatico e vincente delle metodologie LCA. L’affidabilità dei modelli infatti è messa in discussione, in quanto all’aumentare della complessità di costruzione e degli accostamenti di materiali, una piccola modifica di taluni parametri porta ad ottenere proprio i risultati voluti, come conseguenza di una manipolazione a scopi pubblicitari. Capire il grado corretto di approssimazione e inserire parametri coerenti con il senso comune, non puramente matematici/fisici, si potrà ottenere un metodo snello e “pulito” per il controllo della progettazione, costruzione e dismissione degli edifici.

Analisi del metodo L’idea di base del metodo LCA è la registrazione di tutti i flussi di materiale ed energia connessi con un prodotto, un processo o un servizio. Questo significa che non vengono presi in considerazione solo gli effetti ambientali a livello dell’impianto di produzione, bensì l’intero processo che porta ad un prodotto, a partire dall’approvvigionamento delle materie prime, fino allo smaltimento, passando attraverso l’utilizzo e il consumo. Questo approccio di tipo estensivo è essenziale: se si considerasse un panorama troppo ristretto, si arriverebbe infatti a conclusioni distorte, potenzialmente pilotate, circa vantaggi e svantaggi. Come sopra accennato, il metodo vede una serie di passaggi vincolanti: 1. Goal Definiton and Scoping: definizione degli obiettivi, del campo di applicazione e dei confini del sistema. Vengono definite le finalità dello studio, il campo di applicazione del sistema che si vuole studiare, l’unità funzionale a cui riferire i dati e i risultati dell’analisi, il fabbisogno di dati, le assunzioni necessarie e i limiti dello studio; in particolare l’obiettivo di un LCA deve stabilire senza ambiguità quali siano le applicazioni previste (ad esempio, monitoraggio interno, etichettatura ambientale o confronto fra prodotti aventi la medesima funzione). 2. Life Cycle Inventory Analysis - LCI: analisi di inventario. L’inventario consiste nell’individuazione e quantificazione dei flussi in ingresso e in uscita per il ciclo di vita del sistema oggetto di analisi: verranno identificati e quantificati i consumi di risorse (materie prime, acqua, prodotti riciclati),

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di energia (termica, elettrica, da fonti rinnovabili) e le emissioni in aria, acqua e suolo, in modo da strutturare un bilancio ambientale esaustivo. 3. Life Cycle Impact Assessment - LCIA: analisi degli impatti. L’inventario precedentemente definito viene studiato per analizzare l’impatto ambientale provocato da un processo produttivo o da un’attività; lo studio viene effettuato mediante l’ausilio di alcuni indicatori aggregati di uso internazionale, che consentono di quantificare gli impatti e confrontare le eventuali alternative di processo o di prodotto; in pratica, in questa fase, si passa dal dato numerico raccolto nell’inventario al giudizio di pericolosità, tramite l’ausilio di metodi di valutazione e indicatori riconosciuti a livello internazionale. 4. Life Cycle Interpretation and Improvement: interpretazione dei risultati e valutazione dei miglioramenti. È la fase che interpreta i risultati dell’analisi, identificando le criticità ambientali e mettendo in evidenza le potenzialità di miglioramento sia tecniche che gestionali del sistema analizzato; in genere, in questa fase, possono essere effettuate delle analisi di sensibilità per valutare e confrontare scenari alternativi.

Critiche al metodo e punti di debolezza Poiché il metodo LCA, sia per la fase di normalizzazione, che per quella di valutazione, si basa su valori di soglia (targets) d’impatti ambientali relativi a particolari zone geografiche, anche mondiali, stabiliti da un’Authority, è auspicabile ipotizzare che: tali targets (quando si riferiscono a valori mondiali) siano costanti nel tempo e validi per tutto il pianeta; l’inquinamento a livello mondiale sia rilevato con adeguata frequenza con appositi monitoraggi. Se le ipotesi precedenti sono verificate, il metodo LCA è un valido strumento che permette di collegare l’impatto ambientale legato ai processi produttivi dei paesi più industrializzati con quelli in via di sviluppo. Per determinare eventuali mancanze o debolezze del metodo LCA è stato utilizzato un metodo comparativo12. Sono stati visionati alcuni esempi di applicazione del metodo LCA, che mettevano in relazione/ confronto diverse categorie di prodotto. Senza entrare in dettagli, e senza citare le ditte coinvolte, è stato possibile individuare l’esistenza alcune possibili critiche/incertezze riguardo al metodo e alla sua applicazione,

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riassunte nei punti seguenti. Molto spesso l’analisi viene eseguita su dati secondari, non essendo ancora disponibili banche dati “primarie” complete ed esaurienti.: se si eseguisse una verifica comparata su entrambe le categorie di dati si avrebbe sicuramente un’analisi più corretta e obiettiva. Rimane a discrezione dell’ente/agenzia/studio l’inserimento o meno di alcune categorie di dati secondari. Si possono citare, facendo riferimento ai casi studiati: la formazione di ossidanti fotochimici (POPC - Photochemical Ozone Creation Potential); l’acidificazione (AP - Acidification Potential); l’eutrofizzazione (EP - Eutrophication Potential); la distruzione dell’ozono stratosferico (ODP - Ozone Depletion Potential). Vi è la possibilità, per l’ente certificatore, di variare alcuni paramenti di riferimento come quelli temporali. Ad esempio, il contributo all’effetto serra può essere riferito al tempo-orizzonte di 100 anni, quando la vita media di un materiale/oggetto è di circa 30 anni. Si può ritenere normale utilizzare orizzonti temporali che permettano “cifre tonde”, ma l’orizzonte poteva essere fissato ai 50 anni. Si riscontrano eccessive semplificazioni nella fase “di produzione assemblaggio - trasporto”, nella quale non vengono forniti dati specifici perché ritenuta con lo stesso carico di impatto per tutte e tre le categorie di serramento esaminate. Ma ciò è vero solo in determinate condizioni, che dipendono dalla considerazione dei “Limiti del Sistema” studiato. Vengono, in alcuni casi, considerate caratteristiche diverse tra gli oggetti messi in comparazione. Questa discrepanza può derivare dalla volontà di mantenere le stesse dimensioni geometriche (anche se sono meno rilevanti rispetto ad altri parametri). Molto spesso la parte D dell’ LCA, ovvero quella riguardante il fine vita e il re-impiego degli infissi oggetto di studio, non viene inserita come parametro dell’analisi, o se viene inserita, viene presentata come serie di ipotesi di riutilizzo, senza il supporto di tabelle, dati realistici ed esempi virtuosi. In generale quindi, la ricerca ha mostrato come l’LCA sia una metodica

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molto potente quando usata con fini progettuali di buona fede, ma con possibili ricadute nel Greenwashing se usata da produttori poco scrupolosi o comunque di visione limitata. Il termine è un neologismo, formato dalla crasi di green (verde) e whitewash (riverniciare, nel senso di occultare, trasformare), che indica l’ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un’immagine positiva dell’organizzazione e di proprie attività (o prodotti), o di un’immagine mistificatoria per distogliere l’attenzione da proprie responsabilità nei confronti di impatti ambientali negativi13. Si compie tramite l’impiego di messaggi, pubblicità, certificazioni, pratiche aziendali e o produttive falsamente definite come ecologiche, sostenibili o ambientali. Le origini di questa strategia, in realtà, risalgono agli anni Settanta, quando la tecnica era utilizzata prevalentemente per nascondere o rimediare a veri e propri disastri ambientali causati da organizzazioni che operavano senza il minimo riguardo per l’ambiente. La denuncia della sua diffusione fra le imprese proviene da un articolo dell’Independent, del 19 febbraio 2006, dove si riferisce che fra le prime cento aziende quotate alla London Stock Exchange (la Borsa londinese, n.d.r.) una ogni cinque mostrava chiari segni di greenwash. Nonostante già nel 1987 la “World Commission on Environment and Development” avesse inquadrato lo scopo comune di uno sviluppo sostenibile, circa venti anni dopo ancora moltissime aziende non rispettavano le pratiche di responsabilità sociale e non erano ancora in grado di fornire delle chiare documentazioni sull’impatto ambientale, sociale ed economico generato dalle loro attività. La diffusione del fenomeno negli ultimi anni è legato al boom del mercato dei prodotti verdi, non più considerato un settore di nicchia, perché cresciuto del 79% dal 2007 al 2009, accompagnato anche dalla crescita esponenziale delle eco certificazioni. La tentazione di “tingere di verde” la propria comunicazione per soddisfare questa nuova esigenza ha quindi fondamenti economici sempre più significativi. Oggi questo fenomeno, rinnovato dalla sempre più viva attenzione alla sostenibilità ambientale, rischia di esplodere indebolendo le iniziative genuine che molte aziende attuano per migliorare la loro sostenibilità e che rappresentano la migliore opportunità per risolvere i problemi ambientali che stiamo affrontando. Un’esplosione che non è solo il risultato di un atteggiamento opportunista, ma anche, e in larga parte, della mancanza di competenze in materia ambientale da parte di quanti si

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occupano della comunicazione aziendale. Il greenwash non è misurabile, ma minaccia l’intero comparto delle aziende impegnate nel rispetto dell’ambiente. Lo scetticismo di fronte a messaggi poco credibili, infatti, erode la fiducia verso l’intero settore. Recenti indagini (La Nuova Ecologia; AssoScai) mostrano che nel Regno Unito l’80% delle persone ritiene che il messaggio ambientalista, sia delle imprese che dei governi, non sia autentico. Lo stesso vale per gli USA: il 70% dei consumatori pensa che dietro a un prodotto green ci sia una strategia di marketing. Tra le principali problematiche, spicca il fatto che il sistema di certificazione vada adeguato al rapido evolversi dell’agenda della sostenibilità. A questo

Inserimento nel contesto di Malga Pradidali Andrea Revolti, 2014/2015

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si aggiunge un certo abuso di questo strumento, che comporta la tendenza ad assommare tante attestazioni differenti, per soddisfare le esigenze dei diversi stakeholder invece di puntare a una visione organica comune. Un ulteriore aspetto critico riguarda il sospetto di conflitto di interessi e quindi di mancanza di imparzialità dell’ente certificatore, pagato dalla stessa azienda che dovrebbe valutare. Non basta quindi vantare un numero crescente di certificazioni essere riconosciuti per il proprio impegno verso la sostenibilità . Il proliferare di nuovi loghi e dichiarazioni di vario genere, lungi dal rassicurare il consumatore, rischia di creare confusione e diffidenza.

Ipotesi di trasporto in quota degli elementi prefabbricati tramite elicottero Andrea Revolti, 2014/2015

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Prime conclusioni Il metodo dell’LCA risulta tanto più attendibile quanto più è ricca la banca dati delle sostanze rilasciate nell’ambiente dai vari processi industriali necessari per l’ottenimento del prodotto in esame. Inoltre, poiché la valutazione dei risultati dell’LCA dipende sia dalla scelta dei metodi utilizzati per collegare le sostanze emesse nell’ambiente alle categorie d’impatto ambientale, sia dalla scelta attuata per ridurre l’attuale livello di sostanze inquinanti in un tempo determinato, si comprende come queste due scelte siano molto delicate e complesse; esse coinvolgono infatti molteplici aspetti tecnici, sociali ed economici, quali il rispetto dell’ambiente, il rapporto tra costi e benefici, che riguardano non solo le aziende, ma anche tutta la società civile.

FOCUS SUL MATERIALE X-LAM Nei ragionamenti generali sul riciclo, considerare la questione del riciclo del legno come materiale da costruzione è un virtuale obbligo nel panorama tecnologico attuale e di prospettiva. Infatti, da un lato, il trend nazionale del settore delle costruzioni e conseguentemente della maggior parte dei materiali dell’indotto continua ad essere negativo: il miglioramento complessivo attualmente percepito nell’economia, al di là di un suo auspicato ma ancora incerto consolidamento è legato ai servizi e al sistema manifatturiero esclusa l’edilizia, e previsioni qualificate di una ripresa nel campo delle costruzioni rimandano una possibile ripresa al 2020, con probabile esclusione di possibilità di recupero di posizioni precedenti. Dall’altro lato, in netto contrasto con questa situazione negativa attuale e previsionale, il mercato del legno da costruzione è l’unico mercato dell’indotto che si presenta in continua espansione, e punta ormai ad assorbire una consistente fetta di mercato. Ciò significa che, se da un lato il mercato è giovane e non si pongono oggi significative esigenze di riciclo di materiali provenienti da questi tipo di edilizia, dall’altro si pongono due tipi di esigenze sistemiche: prevedere da subito quali possano essere le possibilità di riciclaggio e/o le modalità di smaltimento di questi materiali e far decollare finalmente, contestualmente, la concezione che il progetto deve farsi carico dell’intero processo edilizio, dalla concezione dell’opera,

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alla sua costruibilità sicura, dalla previsione della vita utile dell’opera, sino ad arrivare alla fase di fine vita e di decostruzione, con una chiara e documentata pianificazione del destino dei materiali risultanti.

Scopi e obiettivi della ricerca Il legno come materiale da costruzione non è certamente definibile come un “nuovo materiale” e, dopo i grandi incendi delle più popolose città europee nei secoli, solo assai di recente ha raggiunto un importante riconoscimento da parte del mondo delle costruzioni e del suo indotto: per diverse ragioni - in parte di carattere culturali, in parte legate all’innovazione tecnologica - un importante riferimento per la progettazione e per la realizzazione di opere, sia di edifici “normali” sia, almeno in prospettiva, di grande importanza per altezza e complessità. Il TTRP (Timber Tower Research Project) di Skidmore, Owens & Merril14 e lo studio finanziato dal Canadian Wood Council (CWC) per conto della Wood Enterprise Coalition (WEC) e del Forestry Innovation Investment (FII)15 sono punte avanzate, seppure per ora non realizzate, in questa direzione. Questi progetti futuribili sono dimostrati fattibili, almeno a livello di modellazione, usando come elemento costruttivo base proprio quell’XLam delle cui prospettive di riciclo questa parte di ricerca tratta16. Il legno “ingegnerizzato”, riprendendo la definizione inglese di timber, distinta da quella di legno massiccio wood, ha raggiunto ormai alti standard qualitativi e grazie anche all’avvento delle macchine a controllo numerico, è possibile attualmente un sereno confronto con altri materiali caratterizzati da tolleranze costruttive molto basse: paradossalmente, ma non troppo, è in parte al laterizio e in parte all’acciaio da costruzione, più che al calcestruzzo, che il legno oggi in certa misura si propone come materiale competitivo. Parallelamente a questa rapida diffusione, il legno ha assunto una solida immagine di materiale ideale in quanto legato alle caratteristiche geofisiche del territorio Italiano, anche se poi di fatto il legno nazionale è più costoso rispetto alla concorrenza internazionale, e pertanto le quote di importazione sono finora assolutamente rilevanti. Nel complesso, la “nuova” immagine del legno è dovuta soprattutto al fatto che rispetto ad altri materiali esso presenta non pochi vantaggi, come la leggerezza, la resistenza, l’elasticità e la semplicità in termine di processo produttivo e di processo montaggio: tutto ciò ha reso il legno,

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ad esempio, la riposta ideale ad alcuni tragici eventi sismici (tra il quale il più importante è stato certamente il terremoto che nell’aprile del 2009 ha colpito l’Aquila e l’Abruzzo), sia come nuovo materiale da costruzione, sia come materiale per interventi di riabilitazione statica. Anche se, nel contempo, quella stessa esperienza ne ha messo in luce la delicatezza in termini di progettazione e di esecuzione sotto il profilo della protezione dagli agenti atmosferici, pena i gravi inconvenienti che si sono manifestati e che possono manifestarsi. Il legno è entrato anche a far parte dell’immaginario green come un materiale in grado di far raggiungere un bilancio negativo in termini di emissioni di CO2 prodotta per la sua lavorazione. In sintesi estrema, il legno si presenta secondo molti aspetti come un materiale “ecosostenibile” ideale. Ma questa impegnativa affermazione, anche alla luce della sua notevole diffusione, va validata secondo un’ottica scevra da preconcetto, valutandone la convenienza economica e tecnologica a fronte di considerazioni sul LCA (Lyfe Cycle Assessment), sul costo globale dell’opera, e in termini di costi ambientali. Infatti, ragionando di riciclo dal punto di vista dei materiali, è legittimo e appropriato porsi una serie di questioni. Cosa succede ad una struttura in legno lamellare o a un pannello di tavole incrociate (XLam, CLT - Cross Laminated Timber) al termine dello svolgimento della propria funzione? Che incidenza ha sull’ambiente la sua eventuale combustione? Può essere rilavorato e reimpiegato o semplicemente riciclato come materia-prima seconda? L’attività di ricerca condotta, vista la limitatezza dei mezzi a disposizione e l’incertezza attuale delle conoscenze in materia, non pretende certamente di essere arrivata a conclusioni esaustive. Al contrario, sono stati posti in luce numerosi elementi che richiedono approfondimento e verifica. Essa tuttavia ha consentito: da un lato, la compilazione di una review che fa il punto sulla questione della riciclabilità del legno da costruzione; dall’altro lato, la stesura di ipotesi operative realistiche relative a nuove fasi nel ciclo di vita dei componenti in legno, indicandone per il futuro possibili ulteriori cicli di riutilizzo in grado di allungarne la life span, migliorandone cosi l’intero bilancio di eco-sostenibilità. Con questi limiti ben chiari, si ritiene comunque di essere riusciti a: dimostrare che la questione della sostenibilità è assai più complessa di quanto si tenda a pensare sia presso l’opinione pubblica sia nello stesso mondo tecnico e produttivo; dare una strumentazione non solo concettuale

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ma anche pratica alle interessanti novità che il riciclo del legno consente e ai limiti che esso impone; dare un contributo non marginale - di carattere anche divulgativo - al dibattito sulla sostenibilità dei diversi materiali, per evidenziarne i reali punti di forza, ma senza tacerne i punti di debolezza, e quindi senza cadere in un attraente ma controproducente green-washing. Una prima parte di questa tranche di lavoro ha sviluppato di necessità l’analisi e lo studio dei processi produttivi legati al legno e ai componenti in essi impiegati e da essi derivanti. I risultati di tale attività in quanto tali non sono direttamente pertinenti al tema del re-cycle: essi tuttavia sono la premessa alle e la giustificazione delle conclusioni a cui si è arrivati in tema di re-cycle. Entrando nel merito, i principali sistemi costruttivi in generale disponibili sono: i sistemi a Telaio; i sistemi Cross Laminated Timber (CLT)17. Il primo tipo di sistemi è molto leggero e versatile; esso può essere prefabbricato, e attraverso una progettazione costruttiva “spinta” le pareti possono arrivare in cantiere complete di serramenti, impianti e finiture interne e cappotto all’esterno. Il secondo tipo di sistemi vede invece pannelli massicci di tavole incrociate sviluppati secondo la tecnologia costruttiva del legno lamellare. In particolare, questa tranche di ricerca sul riciclo del legno approfondisce specificamente questo secondo filone tecnologico nella filiera del legno, operando una scelta di convenienza e di opportunità. Infatti, dal punto di vista del riuso, i sistemi a telaio presentano diverse problematiche che li rendono meno versatili, o semplicemente diversi, rispetto agli obiettivi della ricerca. Il telaio è costituito generalmente da un sistema di pannelli piani18 fra i quali è frapposto un graticcio di travi, pilastri e isolante. Gli elementi verticali (detti montanti), si innestano in elementi orizzontali (correnti) che tipicamente presentano fresature in corrispondenza del punto di innesto19. La variabilità di questi sistemi e la singolarità progettuale con la quale vengono composte queste pareti (che come detto possono arrivare in cantiere già dotate delle dotazioni tecnologiche al loro interno) rappresentano di per loro stesse un primo ostacolo al riuso su vasta scala di un sistema a telaio. In secondo luogo, la connessione tra telaio e pannelli viene realizzata con chiodi ad aderenza migliorata. Questi sono molto difficili da rimuovere senza intaccare l’integrità delle lastre, lasciando comunque indeboliti gli elementi lineari20. Inoltre, in molti casi, il telaio

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viene assemblato direttamente in opera da una manodopera che affronta problemi pratici, che sfiorano o invadono la progettazione, risolti nella maggior parte dei casi - in modo più o meno appropriato - in tempo reale in cantiere. Questo da luogo a singolarità che rendono più problematico il riuso su vasta scala del sistema a telaio. Si è passati quindi direttamente al secondo filone (XLam o CLT), anche perché questo specificamente quello su cui si è focalizzata la tecnologia in Italia e nei paesi limitrofi. Per analizzarne le possibili caratteristiche di riciclabilità e riuso di un materiale il primo passo compiuto è stato ovviamente uno studio del processo di produzione del semi-lavorato. Rispetto al telaio, l’XLam/CRT è un sistema molto più semplice dal punto di vista sia della progettazione sia della realizzazione. Ha peraltro costi industriali superiori, e per questo motivo si possono contare sul territorio nazionale ancora pochi produttori, quelli in grado di effettuare investimenti significativi in termini di tecnologia e di attrezzature. Per questo combinato anche se contraddittorio disposto, l’XLam è un materiale che si sta diffondendo sempre più rapidamente in Italia e nel mondo, sopravanzando i sistemi a telaio, comunque da sempre più sviluppato nel nord America. Questa rapida diffusione probabilmente è dovuta anche in parte alla somiglianza con i principi costruttivi dell’edilizia cosiddetta “tradizionale” che caratterizza i pannelli di tavole incrociate (continuità dei setti sui vari piani e possibilità di coprire luci analoghe con gli elementi di chiusura orizzontale). Per analizzare le possibili caratteristiche di riciclabilità e riuso di questo componente, come sopra indicato, si è partiti dalle conclusioni dello studio del processo di produzione. Prima di procedere con le soluzioni proposte per il re-cycle di questo prodotto e di queste opere è tuttavia necessario operare alcune considerazioni sulla struttura di formazione dei costi.

Brevi considerazioni generali sui costi di processo e di riciclo I maggiori costi di produzione dei componenti XLam sono legati all’acquisto della materia prima, generalmente proveniente dall’Austria, dalla Svezia e dall’Europa dell’est, fino alla Russia: attualmente infatti il grande e pregiato patrimonio boschivo del nord Italia è poco sfruttato perché i costi della prima fase del processo e della manodopera sono giudicati

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insostenibili. Concepire e praticare il riuso/riciclo di questi elementi costruttivi per generare elementi funzionalmente identici a se stessi, oltre che costituire una scelta eco-compatibile garantendo una seconda vita ai pannelli, potrebbe senz’altro determinare un abbattimento sia dei costi di approvvigionamento della materia prima sia dei costi complessivi di produzione dell’XLam in quanto tale. La via che la ricerca indica parte da un ragionamento sul processo produttivo e sull’ottimizzazione con la quale viene “riempito” il semilavorato di partenza, quello che viene definito il master panels. Questo processo, detto in gergo tecnico nesting (annidamento), non è altro che una specie di tetris che ha lo scopo di ridurre al minimo, commessa per commessa, lo sfrido di produzione. In effetti, quelle che in opera saranno pareti XLam vengono estratte da un unico grande pannello XLam, di dimensioni variabili secondo i vari standard aziendali e secondo le autorizzazioni rilasciate dall’EOTA. Per fissare le idee in modo realistico, si è preso in considerazione come caso di studio una linea produttiva reale21, che produce master panels ed elemnti XLam di dimensioni insieme importanti e ampiamente rappresentative della realtà del mercato22.

Nesting di secondo livello Il processo di nesting è quella fase nella quale viene ottimizzata (rispettando la direzione delle fibre dei pannelli) la distribuzione geometrica degli elementi tecnici parete all’interno del master panels, al fine di ottenere gli elementi costruttivi che servono al progetto minimizzando come detto gli sfridi. Il riciclo studiato in questa ricerca inserisce da uno a più ulteriori passaggi nel ciclo: si tratta di sviluppare un processo virtuoso di riuso che vede l’impiego di pareti dismesse come nuovi elementi master panels da cui ricavare in tutto o in parte i pannelli adatti ad una nuova commessa. Questo processo è stato da noi definito definito nesting di secondo livello. Per comprende al meglio la propspettiva è necessario conoscere quello che attualmente propone il mercato delle costruzioni in legno. Come accennato nella premessa, la tecnologia XLam/CLT è relativamente recente, e in effetti è da pochi anni che si è incominciato a produrre questi elementi su vasta scala. Prima dell’avvento dell’XLam, il legno, vista la scarsissima diffusione in Europa della tecnologia a telaio23, era

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legato per la maggior fetta di mercato alla costruzione di coperture che si posavano su costruzioni edificate con materiale “tradizionale” (C.A. o laterizio). Esisteva poi un mercato di nicchia di costruttori di abitazioni a telaio che come le coperture, seppur in modo più articolato, erano costituite da elementi lineari (travi, montanti, correnti, saette, etc.). La conseguenza di questi prodromi è che le macchine per la lavorazione di queste strutture erano state sviluppate per lavorare elementi di lunghezza anche considerevole (superiori ai 13 metri) ma con sezioni relativamente contenute (minimo 20x60 mm, massimo 300 x 1250 mm)24. Con l’avvento dell'XLam, i grandi centri di produzione hanno effettuato considerevoli investimenti per lavorare su elementi di notevoli dimensioni fino a riuscire a lavorare su interi master panel di dimensioni 3,5 m x 3,5 m x 0,297 m25. Per parte loro, i piccoli centri di taglio, dotati della vecchia tecnologia, per far fronte alle richieste di mercato di questo nuovo “materiale”26, hanno trovato l’escamotage di ritagliare elementi-parete di larghezza massima pari a 1250 mm, per poter effettuare le lavorazioni con le medesime macchine impiegate per il taglio di elementi lineari. Questo particolare tipo di approccio conferma ulteriormente la via individuata per il riuso dei pannelli XLam, specialmente per quelli di grande e media dimensione, dilatandone l’applicabilità. Le dimensioni oggi utilizzate sul mercato sono vincolate da: geometria della costruzione e del progetto statico (ad esempio, la lunghezza delle pareti di irrigidimento sismo-resistenti); capacità di sollevamento della gru di cantiere (che in verità non deriva da un vincolo tecnologico, ma dalla disponibilità d’impresa, a sua volta legata alla dimensione d’impresa); limiti massimi del trasporto su gomma (collo d’oca, detto anche carrello ribassato, e rimorchio “normale”); problematiche di accessibilità al cantiere, sia per la viabilità esterna utilizzabile, sia per la viabilità interna realizzabile; problematiche di trasporto nazionali ed eventualmente internazionali (limiti di trasporto inferiori al sud Italia per gallerie di vecchia costruzione, che impongono il divieto al transito di veicoli di altezza superiore ai 4,10 m); altezze di interpiano dell’edificio. Sul mercato Italiano non è poco frequente la fornitura di pareti di dimensioni 10,00 x 3,20 m. Considerato che con queste geometrie la differenza rispetto al master panel iniziale non è poi così considerevole, è senz’altro fattibile la proposta di impiegare questi elementi-pareti come elementi base per un nesting di secondo livello. Questa logica potrebbe essere

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Software di Nesting

Schema per Nesting di secondo livello Pannelli CLT Cross Laminated Timber

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interessante soprattutto per i piccoli centri di taglio che andrebbero verso l’obsolescenza e che viceversa, continuando a lavorare con le macchine “Hundegger” già disponibili, potrebbero sfruttare i vecchi metodi di lavoro senza dover passare direttamente dal grosso produttore, almeno non per l’intera commessa ricevuta. D’altra parte, la prospettiva di re-cycle proposta da questa ricerca potrebbe essere anche molto appetibile per i grandi produttori, che dal costo di produzione potrebbero detrarre (costi di trasporto ed eventuale acquisto dell’”usato” a parte) il costo della materia prima. Note le dinamiche interne di queste grandi aziende, ci si rende conto come già oggi siano disponibili tutti gli elementi necessari all’attuazione della proposta. In particolar modo ogni singola fornitura di materiali è accompagnata da: file macchina per il centro di taglio dove sono note dimensioni, lavorazioni e numerazione di ogni singolo pezzo; modello 3D completo (ideale è il Modello BIM) e distinta pannelli. Le distinte pannelli prese in considerazione dal punto di vista del committente potranno costituire il manuale delle strutture o libretto delle pareti, cioè la carta d’identità dei pannelli che compongono l’edificio. Il secondo punto si rivelerà di particolare importanza al momento della dismissione dell’edificio, parallelamente allo sviluppo del nuovo progetto nel quale dare corpo al re-cycle degli stessi pannelli, che diventeranno il punto di partenza per il nuovo nesting.

STRUTTRURE IN XLAM/CLT Vita nominale, vita utile e resistenza meccanica iniziale e di riciclo Va osservato che le considerazioni sulle resistenze meccaniche delle strutture lignee, a fronte della potenziale caducità del materiale, non considerano ipotesi o parametri legati a una “data di scadenza” della struttura. In effetti la questione della durabilità del legno è questione complessa, ma fondamentalmente riconducibile da un lato ai trattamenti cui è sottoposto inizialmente il materiale, dall’altra alle condizioni ambientali nelle quali il materiale stesso opera e alle condizioni di sorveglianza e manutenzione cui è sottoposto. Accade così ad esempio che nella città di Bologna siano ancora funzionali e funzionanti strutture lignee all’aperto risalenti ad epoca medievale (in quanto opportunamente

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protette e opportunamente manutenute), mentre si sono avuti recenti gravi collassi assolutamente precoci dovuti a infiltrazioni d’acqua non previste e tantomeno monitorate. D’altra parte, normativamente, si trova traccia di riferimenti alla durabilità “solo” per quanto riguarda la progettazione statica, e senza uno specifico riferimento al materiale (cosa corretta dal punto di vista di una normativa prestazionale, ma scomoda dal punto di vista della promozione di un materiale comunque “delicato”), e solo con riferimento generale al concetto di vita nominale delle costruzioni27. Come si può dedurre dalle N.T.C. la vita nominale per un edificio di civile abitazione è di 50 anni, quella di una grande opera, quale può essere un ospedale28, è di 100 anni. Prendendo in considerazione l’uso di pannelli XLam per la realizzazione dei due edifici citati, non esiste quindi alcuna distinzione a livello tecnologico: le caratteristiche dei pannelli ed i test che questi devono superare in fase di creazione sono i medesimi. D’altra parte, da questo si può dedurre che, una volta dismessi (ad esempio dopo 20 anni di vita) i pannelli utilizzati per la costruzione di un’abitazione, questi si potrebbero potenzialmente rimpiegare per la realizzazione di un altro edificio senza riscontrare particolari difficoltà o impedimenti normativi, almeno all’oggi. Alcuni problemi si potrebbero semmai incontrare in riferimento al livello di durabilità del prodotto a seguito di cattive progettazioni del dettaglio costruttivo, infiltrazioni o lesioni strutturali, che potrebbero causare deterioramenti di tali pannelli. La ricerca si è quindi posta la domanda di quali potrebbero essere le prove che si dovrebbero effettuare sul semi-lavorato riciclato per poterlo impiegare con totale sicurezza in un’altra costruzione. Il ragionamento proposto parte dalle prove che attualmente vengono svolte sul prodotto per sviluppare un’ipotesi di test da effettuare sui pannelli dismessi da riciclare, allo scopo di validarne la funzionalità. Attualmente, partendo dal presupposto che gli elementi costruttivi in XLam siano stati precedentemente selezionati e certificati dal fornitore, le verifiche che si compiono riguardano fondamentalmente l’incollaggio, e non la zona corrente in legno; le prove che risultano indicate allo scopo possono essere le seguenti: 1. test di delaminazione. Nel nesting di secondo livello proposto in questa ricerca, è senz’altro sensato procedere con lo stesso tipo di verifica

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che si adotta per il pannello al suo primo ciclo di vita. Tale test serve per garantire l’incollaggio tra le lamelle che compongono i vari strati. La procedura si esegue su una percentuale di campioni proporzionale alle superfici prodotte per la commessa: inizialmente, la commessa di primo ciclo, poi per quella di riciclo sfrido; dal master panel si prelevano, ritagliandoli, dei cubetti che vengono pesati per misurarne il contenuto d’acqua; in un secondo momento questi cubetti vengono inseriti in autoclave per inzupparli facendo così aumentare le tensioni interne tra i vari strati per via del rigonfiamento delle fibre del legno che per capillarità naturale assorbono l’umidità; di seguito a questa fase, il cubetto viene inserito in un forno per riportarne l’umidità ai livelli previsti; Il cubetto viene quindi ripesato per controllarne l’umidità complessiva. Come ultima parte del procedimento, si procede alla rottura del provino con un’ascia normalizzata, operando lungo le linee di incollaggio. A questo punto si verifica visivamente la percentuale di rotture che avvengono sulla colla e quelle che avvengono sulle fibre del legno. L’ultima parte del procedimento viene ripetuta per ciascuno strato che compone il pannello XLam/CLT. Le percentuali vengono vagliate sullo singolo strato e globalmente. 2. Test di tenuta dell’incollaggio a pettine (finger joint). Serve per verificare l’incollaggio tra le assi che compongono i singoli strati. Nota la classe di resistenza dell’asse materia prima (C16, C20, etc.), è possibile prevedere il punto di rottura dell’asse giuntata. La rottura anche in questo caso deve avvenire preferibilmente lato legno e non lato colla. Per quanto riguarda il riciclo, da un pannello XLam/CLT non è possibile ri-estrarre i singoli finger joint senza deteriorane l’integrità. In questo report si propone pertanto di ricondurre i test a questa situazione, nella prospettiva di riciclo: tagliando piccole striscie di CLT parallele alla direzione della fibratura principale del pannello si potrebbero effettuare test analoghi. Per fare ciò si dovrebbero individuare lunghezze standardizzate che contengano giunti in punti normizzati. Ipoteticamente la base minore del pannello potrebbe coincidere con la larghezza media di una tavola di abete (circa 20 cm) o comunque confrontabile con gli standards della prova classica. Identificata la posizione centrale del giunto sul singolo lato (caso A e caso B), studiando la matrice delle rigidezze proprie della composizione di tavole, si potrebbe facilmente estrapolare un modello matematico di riferimento sul quale effettua i test di resistenza a flessione dei pannelli e quindi verificarne anche intrinsecamente le giunzioni finger joint.

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Come conclusione, si sostiene che è possibile verificare secondo metodiche esistenti e affidabili la idoneità all’uso dei pannelli XLam/CLT a medio e lungo termine, cosa essenziale nella logica di un uso di questi componenti in cicli successivi che definiamo “secondari”, intendendo per secondari dei cicli che mantengono la funzione di “elemento tecnico” vero e proprio, ovvero con le stesse funzioni dell’elemento tecnico primitivo, ancorché dotato di dimensioni ridotte a seguito dell’operazione di ritaglio. Si distingue così tra riciclo da elemento tecnico a elemento tecnico, rispetto al riciclo da elemento tecnico a rifiuto ancorché riciclabile (materiaprima seconda): nel primo caso non si ha degrado dello status funzionale dell’elemento, nel secondo caso si. Oltre a questi controlli, anche secondo la destinazione d’uso dell’opera, è ovviamente raccomandato di effettuare controlli visivi sulla qualità dei pannelli verificando l’eventuale presenza di zone deteriorate o cromaticamente variate, causate da muffe e funghi. Il deterioramento delle caratteristiche di resistenza del CLT non è dovuto esclusivamente a fattori di invecchiamento del materiale o all’esposizione agli agenti atmosferici. Un altro punto da tenere strettamente in considerazione è l’esistenza delle connessioni e la presenza di tasche per l’alloggiamento degli elementi lineari (travi, putrelle, travetti). Esistono diversi tipi di connettori ma quelli più diffusamente impiegati sono le connessioni chiodate e le viti. I chiodi impiegati ad aderenza migliorata, risultano impossibili da rimuovere senza deteriorare irrimediabilmente la struttura dei pannelli. Le viti d’altro canto possono essere molto spesso rimosse con facilità anche a distanza di anni ma ciò nonostante al contrario dei chiodi che se lasciati all’interno del pannello non ne inficiano la capacità di resistenza, le viti una volta tolte lasciano un punto di debolezza all’interno della parete. Andando cioè ipoteticamente ad infiggere la vite nella medesima posizione, questa non raggiungerebbe le stesse prestazioni. Oltretutto va inoltre osservato che sia i chiodi e le viti rappresentano un vero e proprio problema per qualsiasi centro di taglio. Si propone di affrontare tali problematiche nei seguenti modi: 1. Rifilare ulteriormente le pareti per ridurre le zone deteriorate nelle quali siano presente elementi metallici. A tale proposito sarebbe interessante ricordare il caso della segheria della Magnifica Comunità di Fiemme. Molte delle piante che vengono attualmente lavorate dalla segheria, erano già

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esistenti all’epoca della prima guerra mondiale ed essendo stati i boschi del Trentino zone di prima linea durante il corso dei combattimenti si possono trovare all’interno del fusto di queste piante schegge metalliche di bomba. Per impedire a questi frammenti di deteriorare le lame delle segatrici si effettua una vera e propria radiografia sulla pianta subito dopo la scortecciatura. In questo modo è possibile scartare eventuali pezzi di metallo. Questa soluzione potrebbe essere riproposta in tale contesto. 2. Si potrebbe in alternativa lasciare all’abilità dell’operatore nesting la sistemazione delle nuove pareti all’interno del master panel di secondo livello che una volta individuate le aree critiche eviterà le zone deteriorate che quindi verrebbero scartate. La ricerca propone quindi di effettuare un riuso dei pannelli CLT reimpiegandoli ancora una volta come pareti o solai da costruzione. Da questa considerazione, tra qualche decina d’anni, quando i primi edifici si avvicineranno naturalmente al loro ipotetico fine vita potrebbero nascere nuove realtà imprenditoriali che vedono in questo materiale dismesso non un rifiuto bensì un bene prezioso riutilizzabile. Questa vision potrebbe aumentare la competitività in termini di eco sostenibilità ma anche economici l’XLam. Molte aziende produttrici potrebbero sfruttare la propria banca dati (costruita negli anni) per compiere ragionamenti di questo tipo. Anche molti piccoli imprenditori che nel momento di contrazione economica tristemente faticano a stare sul mercato potrebbero trarre considerevoli vantaggi dal riuso di questo materiale. Come ultimo punto ma non certamente in ordine di importanza i destinatari finali potrebbero fruire di eventuali scontistiche per il reimpiego di questo materiale riciclato (sgravi fiscali o contributi pubblici) incentivandone così il riuso. Se questi contributi non fossero applicabili alla fase di riutilizzo sarebbe comunque logico associarli alla fase di dismissione di un edificio. I pannelli o le parti non congrue per il riuso come materiale strutturalmente portante potrebbero essere dismesse seguendo l’attuale ciclo o reimpiegate come pareti divisorie (o tamponamenti) di edifici a telaio o concepiti secondo diversi criteri statici. L’architettura moderna, caratterizzata sempre più da una totale mancanza di unitarietà e dal tentativo di svincolarsi da ogni schema compositivo classico, fa sempre più ricorso a forme complesse come quelle delle

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strutture geodetiche che vengono concepite dai progettisti come sculture a scala di abitazione. L’avvento dei modellatori di calcolo, fin dai tempi della progettazione della Sydney Opera House, hanno permesso di definire forme nuove, un tempo segregate al campo delle utopie architettoniche, prossime alla scala di Escher o alle “geometrie impossibili”. Del resto, complementarmente, le tecnologie BIM hanno reso gestibili con relativa facilità sia gli aspetti geometrici descrittivi sia quelli tecnologici impiantistici e strutturali Questi nuovi mezzi che identificano nella MESH la propria primitiva unità costruttiva si sposano perfettamente con questa idea di riuso. Questo accade e si rende necessario proprio perché gli elementi

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che costituiscono questo tipo di architetture sono molto più piccoli delle dimensioni delle pareti che comunemente costituiscono il mercato del CLT e vi possono quindi essere contenute. Nel caso studio sovra citato (opera realizzata e progettata da ARMALM) i pannelli XLAM avevano una chiara funzione statica ma il verso delle fibre non era fondamentale. I pannelli sono stati dunque “nestati” (annidati) in funzione di una semplice ottimizzazione mirata al contenimento degli sfridi. Un processo di riuso del materiale come quello proposto dalla ricerca si potrebbe quindi prestare a questa moderna concezione costruttiva e in controtendenza con la superata visione consumistica della realtà costruttiva innescare meccanismi di

Prefabbricazione elementi costruttivi in x-lam a fondo valle Andrea Revolti, 2014/2015

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riutilizzo conformi alla visione green che ad oggi sta prendendo sempre più piede. La parte finale del LCA del materiale legno è ancora oggi al centro di analisi e discussioni. Alcune tesi intuitive, supportate da articoli scientifici, sostengono che non sia possibile uno smaltimento pirico di elementi in legno contenenti colle (indipendentemente dalla tipologia di queste ultime) che sia dissociabile dall’inquinamento. Altre ricerche (analizzate ma non riportate in questo documento) sostengono invece che sia possibile, attraverso particolari processi di pirolisi a temperatura controllata, operare lo smaltimento per combustione su vasta scala dei semi lavorati “esausti”, ovvero non riciclabili in secondo o terzo ciclo. Tuttavia, al di là delle attuali incertezze in materia, è comunque scontato il fatto che questo smaltimento non è certamente possibile nell’ambiente domestico con stufe e caminetti. Inoltre, in Italia, a differenza di altre realtà e contesti, tale tipo di combustione è vietato per legge.

UN ESEMPIO PROGETTUALE DI SOSTENIBILITÀ: IL CANTIERE NONCANTIERE. CASO DI STUDIO PROGETTO MALGA PRADIDALI Costruire in quota è quasi costruire contro la natura, o quantomeno è costruire contro la gravità. In natura, le pietre rotolano, mentre per costruire, l’uomo solleva pietre, materiali, componenti. Più in alto si costruisce, più lontano dalle vie di comunicazione si edifica, dove non arriva né rotaia, né gomma, più il lavoro (in senso fisico oltre che economico) tende ad aumentare, e se la filosofia del “chilometro zero” è in generale intuitivamente comprensibile, essa diventa qualcosa di immediatamente percepibile e tangibile quando si opera in quota, quando il chilometro è in verticale. Ciò che non si trova in situ viene portato con la gerla o lo zaino; in casi fortunati, con la teleferica. Oppure - oggi - con mezzi eccezionali: gli elicotteri. Che presentano un vantaggio notevole, anche se relativamente costoso: se la teleferica sostituisce l’uso di mezzi di trasporto “orizzontale”, un elicottero vicaria sia la funzione del trasporto orizzontale che quella del sollevamento verticale. L’elicottero, con una buona pianificazione, riesce ad essere la “macchina unica” del cantiere in quota. Rifugi figurati, rifugi reali. Costruire una abitazione è già costruire un “rifugio” (… un abri contre le chaud et le froid, la pluie, les voleurs et

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les indiscrets ...)29, secondo una visione (non certo infondata anche a fondovalle) di una “natura antagonista”, nei confronti della quale l’uomo reagisce dapprima rifugiandosi nell’abri natural, poi realizzando un ambiente costruito, nella logica dell’abri artificiel di Le Corbusier. Viceversa, il rifugio non figurato ma “reale”, il rifugio di montagna come tale, non è mai stato e non è neppure oggi metafora, salvo che non sia stato metamorfizzato in sofisticato mountain lodge. Questo rifugio è un rifugio archetipico di fatto, dove vento, pioggia e neve sono manifestazioni più che mai sensibili della realtà, dove l’architettura comunque cessa di essere esperimento stilistico, cessa di essere persino art de bâtir, per diventare essenza, pura funzione, esclusivo privilegio delle prestazioni attese: i rifugi “realizzano” fino in fondo ciò che “Corbu” teorizza. I pregressi. In Italia, prima del 1863 (anno di fondazione del Club Alpino Italiano), di fatto non esistevano rifugi: chi praticava la montagna, passava la notte bivaccando, secondo una sorta di “omnia mea mecum porto”: al più, l’abri era uno spuntone roccioso. Ed è interessante che la prima azione sensibile del Club sia stata proprio la realizzazione di rifugi alpini, un piano verisimilmente non casuale. Il primo rifugio è il Ricovero dell'Alpette (o Alpetto), uno dei primi quindi dell’ arco alpino, realizzato in pietra e calce, inaugurato nel 1866, costruito per iniziativa di un notaio piemontese appassionato di montagna30. In questo inizio, vi è certamente un forte simbolismo, legato alla cultura liberale dell’epoca: lo sport alpino è un’altra metafora, quella dell’evoluzione e del miglioramento dell’uomo (come non ricordare a proposito anche “La picozza” di Pascoli?) Interessante è, a sostegno, una chiosa che viene “dall’interno”31: “Vincere la battaglia con la montagna, per i liberali piemontesi dell’Ottocento, divenne il sinonimo della vittoria su tutti i freni al miglioramento individuale e collettivo dell’uomo. I ricchi, secondo questa filosofia, avrebbero dovuto essere le avanguardie, che avrebbero contagiato i meno abbienti, inducendoli a rimboccarsi le maniche, a contare sulle proprie forze, allenandole al meglio, per emergere e conquistare anch’essi le vette della vita. Un pensiero che, naturalmente, fu ambiguo ed autogiustificativo. Difficile da condividere e capire per i poveri e, in special modo, per i montanari.” Spontaneità vs. progetto. Naturalmente, al di fuori di un quadro progettuale formalizzato e strutturato, i primi rifugi si sono configurati

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di fatto come architettura spontanea, e hanno con questa condiviso una sorta di selezione darwiniana: alcuni sono stati travolti da valanghe, altri sono caduti in rovina, altri ancora sono stati abbandonati, ed è stato proprio lo studio delle cause di questi eventi avversi a far individuare gli errori commessi: errori di ubicazione da una parte, errori di costruzione dall’altra. Tanto che Giulio Apollonio, un ampezzano, scrive negli anni ’50 una relazione sul come costruire rifugi: lì, leggiamo della necessità di una “… libertà di progettazione, con esclusione di dilettantismi ed esperimenti architettonici; perciò [il rifugio, n.d.r.] deve essere armonizzato con quanto lo circonda, senza note stridenti di forme e di colori …”, e ancora “….la progettazione e la direzione lavori non possono essere opera di un tecnico (per quanto volonteroso) esperto solamente di lavori in città, ma di chi conosce la montagna, di chi l’ha vissuta, sofferta e goduta …”32. Affermazione senz’altro condivisibile, ma contraddetta almeno nella prima parte da alcuni esempi di tecnologia spaziale in quota: il Refuge du Goûter delle Alpi Marittime, tra questi. Troppi rifugi? Si, i rifugi sono tanti, anzi troppi: altro motivo più che valido per pensare in termini di re-cycle. Secondo il Club Alpino, “… l’attuale situazione delle aree montane, … presenta ormai saturazione ed in alcuni casi esubero di tali strutture in rapporto alle esigenze alpinistiche e del sistema ambientale”33. Sin dal ’91, in conseguenza, è stato approvato un documento con il quale si “vieta” la costruzione di nuovi rifugi, così come è vietata la ristrutturazione con aumento di capacità ricettiva. Il che riconduce ad interventi - la regola è stata relativamente rispettata - più di recupero e conservazione (ancora di restauro non si parla, né forse si parlerà) che di nuova costruzione. Una riflessione e uno spunto per l’oggi e il domani. Queste considerazioni preliminari e questa analisi hanno portato ad uno studio e ad una ricerca, collegati ad un Master STEP34 e Università di Trento (DICAM)35, su come intervenire sull’esistente in termini “sostenibili”, ove per sostenibilità si intende una pluralità di requisiti e caratteri: equilibrio tra costo e valore, rispetto di definiti parametri energetici e di comfort, rispetto del vincolo ad intervenire sull’esistente, salvaguardia del contesto: il risultato è una metodologia di intervento generalizzata, definita a partire da un esempio contestualizzato ad una situazione concreta, ubicata nel sito “Dolomiti-

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Unesco”, luogo di evidente ed autodimostrata delicatezza paesaggistica, ambientale e naturalistica.

Un cantiere non-cantiere Il lavoro qui presentato ha portato ad un intervento nel quale il cantiere, inteso come “impianto di cantiere”, non esiste più: ciò è reso possibile grazie al fatto che il procedimento interviene su “un rudere” esistente, da un lato, dall’altro prevede l’esecuzione in quota solo di montaggi di parti pre-assemblate a valle e portate in quota con un elicottero, senza uso di macchine a terra e senza lavorazioni bagnate. Macchine e lavorazioni sono infatti da considerare fonti - oltre che di difficoltà logistiche - anche di inquinanti potenziali o attuali. Il procedimento è nato per ottimizzare e minimizzare un intervento reale nel delicato contesto sopra descritto, ed è stato successivamente generalizzato secondo una procedura ripetibile in altri siti esistenti, con strutture a vario livello di conservazione. Il punto di partenza del procedimento è un “rudere" standard, che può essere tale come condizione di partenza (il caso di studio base) , o come punto di arrivo, a partire da una pre-esistenza “regolarizzata” a questo stato attraverso un processo selettivo di demolizione della struttura esistente. Il livello del rudere funge poi da fondazione, e viene definito per lo specifico progetto: un progetto che a questo punto è un vero e proprio costruttivo e non un “semplice” esecutivo. Il procedimento prevede - relativamente ai materiali di demolizione - di trasportare a valle il minimo quantitativo possibile e quanto qualitativamente necessario, lasciando in quota tutto ciò che è considerabile come inerte, per essere usato come riempitivo del rudere fondativo. In opportune condizioni, questo consentirà - creando dei rompitratta - anche di economizzare sulla “platea”, ovvero di ottimizzare anche logisticamente i conci di soletta da trasportare in quota.

Procedura Passo 1: Sino a questa fase, è in gioco un primo tiro di elicottero, usato per il trasporto in quota degli attrezzi e dei dispositivi di sicurezza per il lavoro di demolizione ed i futuri montaggi; nel viaggio di rientro potranno essere trasportate a valle le quote di demolito che non possono essere lasciate in loco. La geometria della soletta, con i conseguenti pesi, viene definita in

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funzione del mezzo di sollevamento, avendo posto come limite l’impiego di un elicottero monorotore, evitando quindi i proporzionalmente molto più costosi mezzi a due rotori: infatti, l’idea non è certamente quella di usare elicotteri-gru tipo S-64 Skycrane; un monorotore interessante dispiegabile in zona dolomitica può essere un AS332 Super Puma. Indicativamente, per superfici e volumi tipici di questo genere di costruzioni, si indicano, per fissare le idee, 4 elementi di soletta prefabbricata in cls per un volume di circa 10 m3 ed un peso totale di 25 mila decaNewton. Passo 2: Sino a questa fase, sono in gioco 5 tiri di elicottero, per il trasporto in quota di 5 conci di soletta/fondazione. È indicata come alternativa, all’oggi leggermente più costosa, la scelta di una soletta in scatolare in acciaio zincato. La convenienza dell’alternativa è sostanzialmente legata al prezzo del carburante, che recentemente ha iniziato a oscillare, una situazione che non consente una analisi costi benefici una tantum, ma da ripetere all’occasione con i valori correnti. Successivamente, il volume utile viene ricostruito con elementi modulari in legno prefabbricati a valle, come da progetto standard. Passo 3: Sono in gioco, per fissare le idee, 8 tiri di elicottero per il trasporto in quota di sottosistemi pre-assemblati. Vengono successivamente portati in quota gli arredi, essi stessi standardizzati da progetto. Passo 4: Sono in gioco 3 tiri di elicottero; i voli di rientro sono ottimizzati con il trasporto delle attrezzature per i montaggi e per la sicurezza. Il cantiere non-cantiere, a questo punto, “chiude”. Passo 5: È in gioco un ultimo tiro di elicottero per trasportare e riportare a valle persone e attrezzature residue per ispezioni, prove, controlli e collaudi. NUMERO DI TIRI

LAVORAZIONE

1

Trasporto attrezzature, uomini e dispositivi sicurezza in quota

5

Trasporto e collocazione soletta

8

Trasporto e collocazione dei sottosistemi prefabbricati in legno

3

Trasporto in quota di arredi e finiture del manufatto

1

Trasporto attrezzature, uomini e dispositivi sicurezza a valle

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Cosa viene mantenuto? Il procedimento studiato da un lato opera in un solco di conservazione. In particolare, ciò che ha presieduto il progetto è stato il proposito di semplicemente rispettare - anche se in modo estensivo e attualizzato - i caratteri indicati da Apollonio, ovvero: - utilizzare materiali locali: nell'esempio, il bacino di “prelievo” è quello della Magnifica Comunità della Val di Fiemme, per la produzione di elementi cross-laminated (CSL); - mantenere l’aspetto del tetto a falde: si è voluto riprende il modello antico, non solo per estetica, ma per il rispetto funzionale della limitazione del carico di neve; - rispettare la semplicità degli ambienti: viene assicurata una riproducibilità di assetti distributivi con pannelli divisori in legno (CSL) disposti secondo occasione e misura; - mantenere gli assetti originali: nell'esempio, viene prevista una camerata a 12 posti letto, sdoppiabile in due camerate da 6, invece di camere separate, che se necessario o richiesto sono comunque realizzabili; - fornire comfort di livello essenziale, con tecnologie adottate solo per l’autosufficienza del manufatto: nessuna intenzione quindi di rendere disponibile reti wireless, o di mettere a disposizione saune o SPA; - rispettare il vincolo di volume aggiunto zero. Cosa viene innovato? Il procedimento studiato, d’altro lato, intende deliberatamente introdurre alcuni elementi di innovazione come risposta alle sfide tecnologiche che il costruire in quota comporta. L’innovazione comporta: - tecnica costruttiva di prefabbricazione in legno: si prevede l’uso di pannelli in cross-lam; - costruzione a valle di elementi e sottosistemi sia a basso che ad alto valore aggiunto, con trasporto in quota tramite elicottero, e montaggio rapido in situ; - cantierizzazione ridotta al minimo: quindi, assenza di sbancamenti, lavorazioni e presenza di macchine operatrici di alcun tipo; - uso di pannelli solari (per una superficie di circa 25-30 m2), con centralina geotermica, per tendere all’autosufficienza del modulo; - sistema di recupero acque piovane, da impiegare per scarichi del WC e

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Ambienti interni di Malga Pradidali Andrea Revolti, 2014/2015

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per alimentazione docce; - coibentazione e comfort ambientale con pannelli isolanti a LCA (Life Cycle Assessment) controllato; - adozione di criteri gestione e manutenzione sulla base di un piano di manutenzione e in applicazione delle prescrizioni del FTO (fascicolo tecnico dell’opera). Lo studio, la cui sperimentazione è prevista in un prossimo futuro sul caso di studio base, mostra che è possibile realizzare in tempi estremamente contenuti (nell’ordine dei 30 giorni), con costi ragionevoli (1200-1500 euro/m2), interventi di riqualificazione in quota sia di ruderi sia di edifici alpini esistenti, con impatto praticamente zero sull’ambiente per quanto riguarda la fase di attuazione, e in fase di gestione con un impatto inferiore alle linee guida del Club Alpino Italiano.

RISULTATI E CONCLUSIONI La parte della ricerca Re-cycle Trento titolata “Aspetti tecnologici del recycle” si è articolata fondamentalmente in 4 parti: 1. Analisi dello stato dell’arte in materia sia normativa sia di schemi di certificazione a supporto quantitativo e a documentazione dell’LCA e della sostenibilità. 2. Studio delle tecniche di LCA ed analisi critica dei procedimenti nell’ambito della valutazione della sostenibilità, di cui il re-cycle è parte integrante, con esame di un caso di studio relativo ad una tipologia di elementi costruttivi (le chiusure esterne trasparenti); si è mostrato come i metodi di valutazione in sè siano sufficientemente definiti e attendibili, ma ciò che richiede validazione è il sistema di dati di input: il sistema è fortemente multifattoriale, i dati delle grandezze caratteristiche possono essere fortemente incerti in assenza di una seria sperimentazione, ed è sufficiente un piccolo scostamento nella quantificazione di uno dei fattori per modificare drasticamente il risultato: si è quindi mostrato come il metodo sia oggi valido per individuare “grossi” scostamenti tra un sistema e l’altro, e come viceversa scostamenti “zero virgola” possano essere più un’illusione di precisione, se non il risultato di greenwashing a fini

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pubblicitari, che reale competitività sulla sostenibilità. 3. Studio e analisi delle possibilità di re-cycle seguito da down-cycle: si è considerata una specifica tecnologia di impiego del legno nel costruito che attualmente, caso unico oggi nel settore, vede un notevole sviluppo sia in attualità sia in prospettiva; è stata presa in considerazione la componentistica in XLam-CLT e se ne sono analizzate le caratteristiche costruttive, tecnologiche e di impiego: su questa base, si sono analizzate le possibilità di riciclare i componenti, e si sono individuare le soluzioni possibili. 4. Studio e analisi, con simulazione di prototipo, di un casi di up-cycle: un possibile “cantiere non-cantiere”, ovvero di un procedimento costruttivo fondato su tecniche di prefabbricazione, appoggiato a un cantiere base geograficamente distaccato dal sito e con l’utilizzazione di elicotteri sia per trasporto sia come mezzo di sollevamento; in questo modo si azzerano tanto la presenza di macchine o lavorazioni umide in sito quanto la necessità di scavi, sbancamenti, e alterazione del sito in generale, con conseguenti necessità di ripristino; questo procedimento trova una applicazione ottimale nei cantiere in quota, dove l’impatto in situ del procedimento costruttivo è oggettivamente più critico se non potenzialmente devastante, e dove vi è la documentata presenza di un eccesso di strutture di rifugio con necessità di adattamento e recupero.

NOTE 1. G.H. Brundtland, ministro norvegese,1987. 2. D.Lgs. 192, 19/8/2005, modificato e integrato dal D.Lgs. 311, 28 /12/2006. 3. D.M. 19/2/2007, sulla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente e D.M. 19/2/2007 su criteri modalità di incentivazione della produzione elettrica mediante conversione fotovoltaica da fonte solare. 4. ISO 9000 “Sistemi di gestione per la qualità - Fondamenti e vocabolario”, ISO 9001 “Sistemi di gestione per la qualità - Requisiti”; ISO 9004 “Gestire un’organizzazione per il successo durevole”. 5. La questione abitativa e il mercato casa - Il settore delle costruzioni in Italia – Manutenzione del territorio Italiano. 6. All’oggi, D.Lgs. 4/7/14, n. 102, Attuazione della dir. 2012/27/UE sull'efficienza energetica, che modifica le dir. 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le dir. 2004/8/CE e 2006/32/CE, Gazz. Uff. 18/7/14, n. 165. 7. Attività di produzione o consumo che influenza, positivamente o negativamente, lo stato di un soggetto senza che questi paghi un prezzo (impatto positivo) o riceva una compensazione (impatto negativo). 8. http://www.enea.it/it/comunicare-la-ricerca/le-parole-dellenergia/ccs/perche-catturare-

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la-co2/continueremo-a-produrre-co2) 9. DPR n. 34, 25/01/2000 - Allegato A. 10. Striegel, 2000. 11. DIN/ISO 14040 e seguenti. 12. Caso studio è stato la comparazione di tre tipologie di serramento, in collaborazione con il prof. Albatici. 13. Il neologismo è stato coniato nel 1991 dalla rivista indipendente americana “Mother Jones”; greenwash è entrato ufficialmente nel lessico inglese nel 1999, nel “Concise Oxford English Dictionary”, e identifica “la disinformazione divulgata dalle organizzazioni così da presentare un’immagine pubblica ambientalmente responsabile”. 14. SOM Final Report, Skidmore, Owens & Merril, Chicago 2013, May 6th. 15. Report “The Case for Tall Wood Buildings: How Mass Timber Offers a Safe, Economical, and Environmentally Friendly Alternative for Tall Building Structures”, Michael C. Green, mgb Architecture + Design Equilibrium Consulting, Vancouver February 22, 2012. 16. Per la definizione di XLam, vedere la nota successiva. 17. Questo tipo di “oggetto” (semilavorato se visto come Master Panel – pannello base; elemento tecnico se già tagliato, conformato e attrezzato secondo le specifiche del cliente) presenta parecchie denominazioni indicanti sostanzialmente lo stesso tipo di oggetto: CLT (Cross Laminated Timber), LSL (Laminated Strand Lumber), (LVL) Veneer Lumber mel mondo anglosassone, XLam, CrossLam in Italia, sono denominazioni equivalenti che denotano pannelli massicci ottenuti per incollaggio di strati di legno disposti secondo direzioni incrociate. 18. Per certi versi in analogia, ad esempio, al cosiddetto OSB/3 (Oriented Strand Board, pannello a scaglie orientate, in classe 3 quanto a condizioni ambientali): si tratta di un pannello a base legnosa formato da scaglie incollate mediante resina sintetica, con scaglie pressate in diversi strati. Le scaglie degli strati esterni sono generalmente orientate longitudinalmente, mentre le scaglie degli strati intermedi sono di solito orientate trasversalmente. 19. Il passo tra gli elementi verticali può variare a seconda delle esigenze della statica, ma tipicamente si attesta sui 625 mm (multiplo di 1250 e 2500, dimensioni commerciali tipiche anche dei pannelli OSB e delle lastre di cartongesso): questi parametri dimensionali, si vedrà rendono poco interessante la prospettiva di riciclo di alto livello, ovvero bloccano di fatto le possibilità di recycle e portano solo ad un downcycle dal notevole degrado (ad es. segatura): vedere al paragrafo 9 – Tipologie di recycle e materiali. 20. Le maglie di chiodatura sono di norma molto fitte: per esigenze statiche, possono raggiungere passi di 150 mm. 21. Si tratta di una primaria azienda produttrice di XLam, con un importante stabilimento in Trentino. 22. La linea considerata produce MPs che arrivano a dimensioni di 13,5 m x 3,5 m con spessori che variano dal 3 strati 57 mm (3x19) fino al 9 strati 297 mm (39x3). 23. Se si fa eccezione per le cosiddette “case a graticcio” presenti come costruzioni storiche o emulate in parte della Mittel Europa. 24. Dimensioni riferite a titolo di esempio a componenti del catalogo Hundegger, K2. 25. L’esempio è quello della produzione dell’azienda del caso di studio considerato. 26. In effetti, un pannello XLam/CLT è un elemento costituito da un materiale nuovo, che possiamo considerare “composito”, “semi-omogeneo”, “quasi-isotropo”, a differenza del legno che certamente è anisotropo. 27. Norme tecniche sulle Costruzioni ex G.U. n° 29 del 04/02/2008. 28. Che effettivamente sia ragionevole e utile una vita utile di 100 anni per un ospedale è peraltro questione discussa e non scontata, essendovi ragionevoli motivi per ridurre la vita utile a beneficio di relativamente frequenti ricostruzioni, a fronte degli elevati costi di gestione

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rispetto ai costi di costruzione, del rischio di infezioni ospedaliere, e delle modificazioni profonde delle tecniche e delle tecnologie assistenziali. 29. “Vers une Architecture”, LE CORBUSIER-SAUGNIER (citazione di Charles-Édouard Jeanneret-Gris? o di Ozenfant? o condivisa?): l’ambiguità non appare risolbibile. 30. Tommaso Simondi, di Barge. 31. "1947 - 2007 Sessant'anni d'amore per la montagna", Club alpino italiano - sezione di Barge. 32. Riferimento tratto da “I RIFUGI ALPINI - Progettare e costruire oggi. Alcune problematiche dell’iter procedurale”, a cura della Commissione Rifugi Regionale Lombarda. 33. ibid. 34. Scuola per il governo del territorio e del paesaggio, Provincia di Trento. 35. Dipartimento Ingegneria Civile Ambientale e Meccanica. BIBLIOGRAFIA R. Albatici, Analisi e valutazione dell’efficienza energetica di edifici in legno progettati secondo i criteri dell’architettura sostenibile, in Intersezioni e mutazioni nei rapporti tra Architettura e Tecnica, Napoli: Luciano Editore, 2006 P. Baggio, Consumi di energia e sviluppo sostenibile, in C. Dia¬mantini (a cura di), Temi e indicatori di sostenibilità ambientale in una regione alpina, Trento: Temi, 2005, p. 273-301 A. Frattari, Gli edifici per uffici e l’architettura ecosostenibile, in ARCHITETTIREGIONE, v. 40, n. 40 (2006), p. 21-30 M. Dalprà, Il cantiere LEED: attività ed esempi di misure per costruire in modo sostenibile, in IL PROGETTO SOSTENIBILE, v. Anno VIII, N.27 , (2010), p. 76-79 C.Lamanna (a cura di), Recycling Coommon Ground: esperienze di riciclo per la rigenerazione urbana, Firenze: Alinea editrice, 2012, 90 p. (architettura e paesaggio) S. Gialanella, A. Molinari, G. Straffelini, A. Fuganti, O. Baravalle, Studio preliminare del riciclo di compositi a matrice metallica mediante metallurgia delle polveri, in METALLURGIA ITALIANA, v. 90, (1998), p. 27-31 Recycling: demolizioni & riciclaggio. Inizia nel 1997 Ricavato da: ACNP. Parma: PEI, 1997 v. ill., tab.; 29 cm. Bimestrale. Trimestrale, 1997-1999. Descrizione basata su: A. 7, n. 1 (gen. 2003) e su: BNCF. Sulla cop.: Normative, leggi e mercato, tecnologie e prodotti, cantieri e ambiente, novità e notizie. Inizia nel 1997 Ricavato da: ACNP. Agg.: A. 15, n. 2 (mar. 2011) RSU, riciclaggio, salvaguardia, utilizzo / scritti di Falqui ... [et al.] ; a cura di Dario Franchini. Milano: Guerini e Associati, 1987. - 181 p. : ill. ; 24 cm. (Il macroscopio ; 1). In calce al front.: CISIAC, Centro italiano servizio informativo ambienti costieri Marini, Sara, Architettura parassita: strategie di riciclaggio per la città / Sara Marini 2. ed. Macerata: Quodlibet, 2010 Rigamonti, Ennio, Il riciclo dei materiali in edilizia / Ennio Rigamonti; presentazione di Claudio Molinari. Rimini: Maggioli, 1996. 299 p.: tab., diagr. ; 24 cm. (Ambiente, territorio, edilizia, urbanistica ; 156) (Serie di biotecnica e architettura) Carlini, M., Rifiuti plastici: riciclaggio e biodegradabilità: aspetti energetico-ambientali ed economici, tecnologie di riciclaggio, direttive CEE e legislazione italiana / M. Carlini, M. Villarini. Roma: Buffetti, 1994. IX, 203 p.: ill. ; 24 cm. - (Ambiente / [Buffetti]) Di Fidio, Mario, Economia dei rifiuti e politica ambientale: diritto pianificazione sistemi di smaltimento e riciclaggio / Mario di Fidio 2. ed. - Milano: Pirola, 1990. - XXVII, 945 p.: ill.; 24 cm. (Pirola tecnica e territorio ; 17). Con appendice legislativa Baldo, Gian Luca, LCA life cycle assessment: uno strumento di analisi energetica e ambientale / Gian Luca Baldo ; in collaborazione con Vanni Badino. Milano: Ipaservizi, 2000. XIV, 302 p.:

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tab., diagr. ; 24 cm. Bibliogr.: p. 287-302. Descrizione basata su fotocopia Baldo, Gian Luca, Analisi del ciclo di vita LCA: gli strumenti per la progettazione sostenibile di materiali, prodotti e processi / Gian Luca Baldo, Massimo Marino, Stefano Rossi Nuova ed. aggiornata. Milano : Edizioni Ambiente, 2008. - 268 p.: ill. ; 29 cm. (Manuali di progettazione sostenibile). Indicazioni di contenuto sul front Borlenghi, Riccardo, Guida alle norme ISO 14000: i sistemi di gestione ambientale, l’audit ambientale, il labelling, la valutazione del ciclo di vita (LCA), la valutazione delle prestazioni ambientali (EPE), i sistemi integrati di gestione / Riccardo Borlenghi. Milano: Hoepli, 2000. XIII, 226 p.: ill.; 24 cm + 1 floppy disk. (Biblioteca tecnica Hoepli) Life cycle assessment: (LCA): a guide to approaches, experiences and information sources: august 1997 / authors: Allan Astrup Jensen ... [et al.]. - Luxembourg : Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 1998. 119 p.: tab.; 30 cm. (Environmental issues series ; 6). In calce al front.: European environment agency. - Stampato in Germania Pousette, Anna, Life cycle assessment (LCA) of two timber bridges in Sweden / Anna Pousette. Stokholm : Nordic timber council, c1999. 20 p. : ill.; 29 cm. (Nordic timber bridge project). Biblio¬gr.: p. 19-20 De Santoli, Livio, Analisi del ciclo di vita del sistema edificio-impianto / Livio de Santoli. Roma: Palombi, 2006. 158 p.: tab.; 30 cm. (Collana Facoltà di architettura Valle Giulia. Quaderni) Rigamonti, Lucia, Riciclo dei rifiuti: analisi del ciclo di vita dei materiali di imballaggio / Lucia Rigamonti, Mario Grosso. Palermo: Flaccovio, 2009. 286 p.: ill., tab.; 24 cm. Bibliogr.: p. [273]281. Sitogr.: p. [283]-286. Con appendici Per l'elenco bibliografico e sitografico completo, si rimanda alla versione integrale del Report di Ricerca "Aspetti tecnologici del re-cycle" elaborato dal gruppo di lavoro coordinato dal prof. ing. Maurizio Costantini. CREDITI Il presente testo è un estratto del Report di Ricerca "Aspetti tecnologici del re-cycle" elaborato dal gruppo di lavoro coordinato dal prof. ing. Maurizio Costantini, con l'ing. Andrea Revolti e con la collaborazione, per singoli aspetti specifici, del prof. ing. Rossano Albatici e dell'ing. Mauro Paternolli.

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Finito di stampare nel mese di dicembre del 2016 dalla tipografia «la Cromografica S.r.l.» 00156 Roma – via Tiburtina, 912 per conto della «Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale» di Canterano (RM)



Re-It 34

La ricerca dell’Unità Locale di Trento Smart Re-cycle. Strategie di riciclo per le architetture e la città distesa affronta il ripensamento di materiali e di spazi in cui la contemporaneità mostra chiari segni di crisi, riconsiderando la questione del consumo di risorse per una trasformazione ecologicamente orientata. I tre saggi raccolti costituiscono singoli approfondimenti del re-cycle sviluppati a partire dagli interessi delle varie discipline coinvolte. Il primo affronta la tematica del re–cycling partendo dagli esiti sedimentati dei progetti di dispersione insediativa e, insieme, sottolinea l’esigenza di dare un nuovo ruolo e una nuova immagine ai luoghi in crisi, con l’idea che il Piano debba portare all’integrazione fra processi insediativi e processi naturali, riconsiderando in questa chiave il tema del consumo del suolo. Il secondo approfondisce le strategie del progetto di re–cycle architettonico applicato a edifici e a tessuti insediativi del recente passato – in uso, sotto utilizzati o abbandonati – che si presentano come unità morfologiche indipendenti dotate di relazioni interne autonome solo debolmente legate alla città e caratterizzate dalla bassa qualità tecnologica dei manufatti e dalla bassa articolazione o intensità spaziale. Il terzo indaga le potenzialità e l’attualità del re-cycle tecnologico analizzando la normativa esistente, studiando metodi di valutazione degli effetti dei materiali sull’ambiente, individuando e sviluppando casi di studio caratteristici e specifici, e infine procedurando modalità produttive per intervenire nel recupero di costruzioni in quota a impatto quasi zero. isbn

978-88-548-9906-3

Aracne

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Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture del paesaggio trentino

Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture del paesaggio trentino è il trentaquattresimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Recycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione.

34 NUOVI CICLI DI VITA PER ARCHITETTURE E INFRASTRUTTURE DEL PAESAGGIO TRENTINO


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