Storie dall'heritage. Immaginari, archivi e manuali per Venezia

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24 STORIE DALL’HERITAGE IMMAGINARI, ARCHIVI E MANUALI PER VENEZIA



STORIE DALL’HERITAGE. IMMAGINARI, ARCHIVI E MANUALI PER VENEZIA

SARA MARINI SISSI CESIRA ROSELLI VINCENZA SANTANGELO

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Progetto grafico di Sara Marini, Sissi Cesira Roselli, Vincenza Santangelo Copyright © MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978-88-548-9154-8 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: marzo 2016

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PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università Iuav di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma "La Sapienza" Università degli Studi di Napoli "Federico II" Università degli Studi di Palermo Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria Università degli Studi "G. d’Annunzio" Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino

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INDICE

Introduzione Sara Marini

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Wunderkammer Venezia Sara Marini

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Archivi. Dieci dittici Sissi Cesira Roselli

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Manuale del re-cycle Vincenza Santangelo

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INTRODUZIONE Sara Marini >IUAV

Immaginario, achivio e manuale sono tre “luoghi” nei quali, in questo libro, si cercano le vie dell’heritage a Venezia. Le tre storie, qui raccolte, insistono su strumenti che appartengono all’armamentario della strategia del re-cycle. Heritage e re-cycle s’incontrano e si scontrano nel territorio contemporaneo. Il primo termine raccoglie materiali e pensieri dati, ereditati dal passato, il secondo cerca di disegnare le possibili trasformazioni del trovato, dell’esistente. L’incrocio tra i due lemmi e tra i due campi si ripete e ritorna nel tempo con accezioni differenti. Oggi la nozione di heritage è in forte espansione: macro storie e micro racconti, cose fisiche e dati immateriali, strutture secolari e presenze effimere acquisiscono dignità di eredità. Si tratta di uno dei passaggi fondamentali dalla modernità alla postmodernità, come rilevato a suo tempo da David Harvey nel suo libro The Condition of Postmodernity. La consapevolezza progressiva dell’espansione dell'ac7


cezione di “patrimonio” trova spazio e ricadute sia nei territori della cultura, che in quelli della normativa tanto da far riemergere strategie e strumenti atti a conservare, consolidare o alterare quest’immenso deposito. Re-cycle ritorna così sulla scena del progetto insistendo sia sulla rimessa in uso di un singolo “oggetto”, sia sull’attivazione di un intero ciclo di vita del sistema città o dell'organismo territoriale, confermando così le saldature tra le diverse derivazioni dello stesso lemma dai campi della fisica, della biologia, dell’architettura. Re-cycle collide con la nozione di heritage nel suo tendere a non rispettare a pieno la vocazione della materia ereditata, nel suo lavorare l’esistente considerandolo mutabile, modificabile, piegabile ad altri e nuovi messaggi. Anche questo passaggio ha segnato già più volte nel tempo i territori, ma di nuovo quel che emerge è una diversa intenzione e consapevolezza: non si tratta di agire su un discorso per necessità (di spazio) o per potenziare il nuovo testo, in questo tempo re-cycle ritorna come ricerca del senso stesso del patrimonio, come scavo nell’esistente con la convinzione che qualcosa si annidi ancora, che qualche energia inespressa sia latente. Il legame tra i due campi risulta così indissolubile, ombelicale mentre le risultanti sono ancora da dimostrare, da rendere manifeste. Le tre storie raccolte in questo volume appartengono e sono dedicate a Venezia, perché è in questa città che l’Europa mette in essere e palesa la propria idea di patrimonio, qui il riciclo è da sempre totale, scontato e storicizzato, qui l’invenzione per necessità è diventata eredità da continuare a interrogare. Nella città-isola conservazione e uso, evento e quotidianità, figura e trasformazione disegnano balletti non sempre evidenti, a volte maestosi. Il primato e la fissità della nozione di heritage in questa città potrebbero sembrare scontati, eppure qui se ne comprendono le ambiguità in modo più palese che in altri contesti. Le tecniche di costruzione che hanno portato a questo delimitato manufatto urbano sono un patrimonio immateriale imprescindibile per salvare Venezia, nel contempo la sparizione dei suoi abitanti svuota spazi interni ed esterni facendo cadere le ragioni di un secondo ciclo di vita per i luoghi. Eventi e azioni legate al lento scorrere della quotidianità si scambiano la scena mantenendo ampia l'accezione di architettura che così va a coprire e comprendere sia il persistente, che il temporaneo: la storia della città dona pari dignità a progetti dalla durata limitata e a muri e sedimi secolari. La figura di Venezia è apparentemente immutata e immutabile, nel 8


frattempo ogni giorno si susseguono lievi e strutturali modifiche, si succedono invenzioni per confermare la sua abitabilità. Si guarda all'immenso deposito veneziano immaginandolo, cercando il suo destino e il suo pregresso proiettato al domani, inseguendo pieghe di mutamenti latenti che suonano come conferme ri-evocate. Si legge quello che spesso ormai è difficile vedere, perché dimenticato, abbandonato, disabitato, si stilano liste vertiginose o archivi per utilizzarli come strumenti della rimessa in uso non solo delle cose, ma anche dei significati delle stesse, significati che, malgrado il disuso, persistono come nebbie sulla città in attesa di nuovo ascolto, di nuova visione. Si predispongono altri manuali, dispositivi di pronto utilizzo per tornare a far con mano, per continuare a considerare vive storie che giacciono in depositi polverosi, per avere con queste ancora un rapporto attivo. Venezia è un manifesto perché rende ogni idea manifesta, la traduce in dato fisico e reale: il nesso tra immateriale e concreto è il fatto urbano veneziano, lo stesso nesso, proprio alla nozione di heritage, è il territorio, nel quale si cercano nuove storie e vengono rimessi in uso vecchi strumenti.

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Pagina precedente: Sissi Cesira Roselli, Venice, Venezia 2014

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WUNDERKAMMER VENEZIA Sara Marini >IUAV

Venezia è una wunderkammer, una camera delle meraviglie per il progetto e per i suoi strumenti. Mille immagini da storie sono sedimentate nella città lagunare a difendere l’eredità di un luogo che è reale ed immaginario. La forza e l’eccezionalità dell’isola sono già nella sua fondazione, nell’averla pensata. Da allora l’idea di Venezia con i suoi passati e i suoi possibili futuri, procede parallela alle modifiche necessrie per assicurare la sua persistenza, alle cure per impedire 13


la sua sparizione, alle ragioni per continuare ad abitarla. «Mai il possibile diviene reale, come se questo reale fosse già in qualche modo contenuto in quel possibile; semmai, il reale proietta “all’indietro” la propria ombra e ne scopriamo così la “possibilità”»1. Il possibile e il reale, l’utopia e il dato concreto sono il materiale di questa città, non è possibile attenersi a solo uno di questi termini senza rincorrere quello che appare il suo opposto. «Ma dal nostro punto di vista essa è stata l’utopia di Venezia, l’utopia di farsi città di pietra e di marmi, solida e quadrata, verticale e densa, come di una città destinata a durare; è come se i veneziani avessero dimenticato le loro origini sui suoli primigeni, come se avessero perduto memoria dei tempi lunghi attraverso i quali si formano i paesaggi fisici e si svolge la vicenda geologica di cui pure i loro antenati sono stati spettatori»2. Con Venezia sullo sfondo, al centro e in astratto si articolano tre storie accumunate dalla ricerca di rendere futura e manifesta la lezione che si può trarre da questa città. La prima storia insiste sulle strade novissime disegnate dalla fisica dell’anti-monumento, ovvero sul come la strategia del re-cycle lavori a costruire distanze ed assenze, 14


con un rimando alla Strada novissima di Paolo Portoghesi si concluderà questa prima narrazione. La seconda storia racconta un progetto veneziano fatto di suono, luce e architettura costruito all’interno di una chiesa sconsacrata: la messa in scena della tragedia dell’ascolto narrata dal Prometeo di Luigi Nono. La terza storia affronta il problema della testimonianza e raccoglie appunti su strumenti noti che chiedono una continua rimessa in gioco per modificarsi agendo e per disegnare il destino di patrimoni. L’epilogo apre ulteriori stanze, attraverso il racconto breve di due “ricostruzioni” volge ad un’ulteriore dilatarsi della wunderkammer, in un progressivo ondeggiare tra realtà, ricordi, viaggi necessari a insistere sull’immagine di Venezia come costruzione e artefice.

I storia. Strade novissime: la fisica dell’anti-monumento Questa lezione è fatta soprattutto di semplici disegni. Il motivo è che la scienza, prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, è soprattutto visioni. La scienza è attività anzitutto visionaria. Il pensiero scientifico si nutre della capacità di “vedere” le cose in modo diverso da come le vedevamo prima. Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica

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Re-cycle, prima di essere una pratica, al fondo e umanisticamente, oltre il design e l’uso del termine inglese, è un atteggiamento mentale. Coincide, infatti, con lo scavo continuo, con la sicurezza che c’è uno spessore nelle cose, nelle storie e che questo spessore, spesso incommensurabile, è un terreno di lavoro. La coincidenza di re-cycle con un atteggiamento mentale, prima che con un modo di fare architettura, è palese se si attraversa la storia delle visioni nazionali, se si cerca nelle molteplici teorie italiane. Assumendo che non c’è nessuna sostanza progettuale nella realtà, servono operazioni logiche che lavorano sul presente, serve guardare l’oggetto del presente mettendolo al futuro. Una teoria descrive, non analizza, re-cycle ha in sé la dimensione descrittiva e progettuale, palesa il problema dell’autentico interpretandolo. Sostanzialmente re-cycle oggi rivela con forza l’avvento dell’anti-monumento, mettendone in luce il dato fisico e i principi propri alla fisica. Rimettere in circolo in continuazione è rimandare al moto perpetuo, fermo poi incappare nel problema della produzione di entropia dei processi di trasformazione. Il riciclo agisce sull’esistente togliendogli l’aura dell’istante unico di co16


struzione, mettendo messaggio su messaggio, ricorrenza su ricorrenza, generando così un sostanziale azzeramento. L’anti-monumento è anche un vero e concreto dato fisico in parte cercato nel percorso evolutivo dell’architettura, in particolare di quella italiana, in parte una deriva propria alla postmodernità. Le radici di questa presa di distanza dal punto zero, dal dato temporale (il monumento è atto a mettere in memoria qualcosa in un preciso momento e poi per sempre) sono rintracciabili nell’interpretazione nazionale di un’inattuabile modernità. Se si pensa ad esempio alla Stanza per un uomo costruita da Franco Albini all’interno della sede della Triennale di Milano nel 1936, si può trovare in questo progetto non tanto e solo la risposta per disegnare un interno, ma la modalità per costruire architettura. L’architettura è qui un’attrezzatura, non per questo orfana di una lingua, certamente portatrice di un’idea di modernità alterata, fatta propria, con cui costruire mondi, ma con qualche deriva, mescolata ad altre ossessioni, che mettono in campo distacchi. Il non conformismo con cui molti autori italiani hanno accolto il movimento moderno ha disegnato vie diverse, a volte divaricate, ma sempre guidate dalla consapevolezza che il 17


Paese, nei secoli aveva già costruito molte e altre modernità e forme possibili della stessa. Il ricorrere di diverse modernità e l’autonoma via con cui accogliere il loro susseguirsi avvicinano teoria e progetto al problema dell’inattuale, allo scavo nello spessore esistente alla ricerca di distanze e vuoti da mettere in valore, dentro i quali lavorare. Senza spingersi troppo a ritroso si può cercare lo spazio di questa distanza in alcune esperienze dell’arte povera dove appunto la stratificazione non è un terreno denso ma cavo ed è in queste cavità che si annidano o vengono trovate altre modalità di descrizione, altre forme di anti-monumentalità. Cose senza valore, materiali tratti dalla natura e artificializzati, esposti come arte, raccontano altro da sé, senza essere chiamati a vertiginose metamorfosi: è loro permesso di persistere partecipando alla costruzione di un altro discorso. Le carpe e le piume bianche o le uova nelle opere di Calzolari sono orchestrate, assieme a macchine per la produzione del ghiaccio, in una sinfonia che parla della differenza naturale e del movimento attuato per cambiare stato alle cose, per imprigionarle in una coltre di gelo, removibile. La natura si mostra in questo movimento come un grande magazzino pieno di strumenti 18


e materiali dislocabili, ri-editabili, con i quali costruire storie sull’inorganico, dove anche il tempo diventa una coordinata elastica così come vuole la fisica. Il mutare non è raccontato con accezioni monumentali, eccezionali, ma nemmeno come banale ricorrenza: viene esposto un discorso sull’inattualità stessa del tempo, sulle sospensioni come spazi del cambiamento della materia. Tornando alla novità che segna il titolo di questa storia, novità che non è tale e che cita uno degli allestimenti della mostra curata da Paolo Portoghesi nel 1980 nella Biennale di Venezia, forse in essa è rintracciabile la stessa fredda descrizione del dato temporale, lo stesso scetticismo che già nel moderno costruisce telai e che nel postmoderno si palesa in quinte. La Strada novissima poneva in essere uno storicismo esasperato. La presenza del passato appunto palesata, schiacciata su un presente a due dimensioni segna, in parte suo malgrado, la fine dell’uso della storia come materiale di progettazione3. Indicando una via paradossalmente nuova, ma completamente nel solco della lingua della storia, la strada ha messo in chiaro quella distanza, quella cavità rintracciabile nello spessore delle città, ha messo in mostra l’anti-monumen19


to, coincidente con quel vuoto tra le quinte. In architettura il postmoderno assume le sembianze di un grande contenitore di storia e storie da montare con disinvoltura, ma si tratta appunto di un’apparenza che nasconde il vero protagonista, ovvero l’impossibilità di commemorare, di costruire monumenti, di convergere in un discorso avendo ormai dato corpo all’altra faccia della modernità4. Il termine stesso “anti-monumento” attiene a sé la propria perdita, un’impossibilità che assume nel contemporaneo mille facce, molte delle quali rifuggono dall’architettura dando centralità ad altri saperi, ma è in architettura che l’antitesi diventa costruzione, attiene al dato fisico e alla sua abitabilità, oltre che alla sua vocazione come messaggio. Anche per questo serve ripartire da Venezia, da quelle pareti di cartapesta che hanno annunciato l’avvento dell’antiestetica5 come dogma e della storia come simulacro. Venezia è nella sua attuale realtà la strada novissima: in questa città il nuovo si misura con le profonde cavità della storia, qui interno e piccola scala possono ancora sovrastare grandi e vuote architetture, il riciclo è la norma e l’autentico un concreto ricordo. L’anti-monumentalità è la materia di progetti anche molto diversi 20


per Venezia come le due risposte per Cannaregio Ovest di Peter Eisenman e di John Hejduk esposte presso l’Ala Napoleonica sempre nel 19806. Il primo propone tre nuovi testi, tre nuovi strati da sovraimporre al tessuto urbano, il secondo immagina tredici torri, tredici watchtowers7. Con modalità differenti i due autori scrivono ragionamenti in forma di architettura su quella distanza che diventa la via per rapportarsi all’esistente, per usare le storie più che la storia, l’immateriale più che il concreto, l’immaginario più che le verità. Il rimando a storie date in queste due opere, prese ad esempio, non è però rassicurante, anzi. I nessi non riducono le estraneità, le esaltano dando corpo all’assenza senza commemorarla ma rendendola fisicamente possibile e presente. Si rimanda qui ai ragionamenti sviluppati da Rosalind Krauss nel suo saggio Sculpture in the Expanded Field8. L’allargamento del campo, cui il titolo del saggio fa riferimento, non interessa solo la scultura nel postmoderno ma anche l’architettura, o meglio entrambe iniziano a lavorare sugli spessori insistendo sulle distanze, sulle negazioni più che sulle affermazioni evitando così avanguardia e storicismo. Chiaramente non si tratta di una sola via, ma appunto di una strada, 21


una delle tante che però comunque sono determinate dalla scoperta del vuoto nel e oltre il moderno, dello scetticismo come procedura. Il ragionamento della Krauss procede dal riconoscimento della scultura come “non-paesaggio” e “non-architettura”, all’estensione dello schema, fin qui dotato di due vertici, ad un disegno più complesso riferito in matematica al gruppo di Klein, o gruppo di Piaget in uso nelle scienze umanistiche per operazioni tassonomiche. Il diagramma da binario diventa così quaternario, prendendo in considerazione “paesaggio” ed “architettura” e la loro rispettiva negazione. Lo spazio tra i quattro termini disegna un vero e proprio campo di lavoro. Rientrano in questo perimetro i marked sites quali Spiral Jetty (1970) di Smithson, Double Negative (1969) di Heizer, altre opere realizzate negli anni Settanta da Serra, Morris, Carl Andre, Dennis Oppenheim, Nancy Holt ed altre forme di segnatura dei luoghi. La collocazione di architettura in un proprio schema, equivalente a quello proposto per la scultura, si potrebbe articolare dal binomio “fabbrica” e “monumento” (considerando il domestico tramontato con l’avvento della modernità), per espandersi appunto nella somma tra questi due termini e la loro ne22


gazione. Il campo dell’architettura risulterebbe così ristretto più che allargato, non espanso dalla tensione verso ambiti altri, ma circoscritto solo a due delle tante figure, delle tante metafore che abitano il mondo del progetto. A prescindere da un dizionario in progressiva dilatazione e alle tendenze verso altre modalità di costruzione del mondo, l’architettura moderna e quella post sembrano essersi attorcigliate su due immagini capaci di accogliere e generare molteplici linguaggi. Se si torna alle scritture di Eisenman e a quella di Hejduk per Venezia anche queste possono rientrare nella definizione di marked sites più che di vere e proprie strutture radicanti, che cercano di mettere radici. Segna invece una distanza tra queste architetture e le “sculture” lette dalla Krauss una sorta di nostalgia congelata propria alle prime, di cui sono scevre le opere della land art. In questa nostalgia risiede ancora una forma di monumentalità ma negata, una forma di monumentalità che Venezia può sopportare e non sopprimere, una forma di riciclo ancora possibile fuori da condizioni di necessità, un modo per mettere in chiaro le distanze e le differenze. In questa modalità risiede la discrepanza tra re-cycle e preservation pensa23


ta quest’ultima da Rem Koolhaas come la teoria che costruisce l’unifield field tra authentic e restored. Di nuovo Venezia racconta, e con lei i progetti che si sono confrontati con questa città, che oltre la posmodernità non si annidano campi comuni ma, rimandando al gruppo di Piaget, campi dettati dalla tensione tra vertici, dove l’antinomia non è mera opposizione ma spazio di frizione, spazio di sospensione. L’anti-monumento e il suo sorgere da Venezia come forma pietrificata di immaginario è l’epilogo di questa storia. Non si tratta di un tracciato proprio solo all’architettura dell’isola, dove si fa più manifesto, o di una interpretazione di re-cycle che non ha trovato spazio in altre realizzazioni anche più distanti dall’avvento del postmoderno. Dalle case pietrificate di Rachel Whiteread, all’Hôtel Barriére Le Fouquet's di Eduard Francois, all'architettura doppia del FRAC a Dunkerkque di Lacaton & Vassal l'anti-monumento si è palesato con intenzioni e messaggi differenti, ma confermando lo scavo di un'assenza, la scettica distanza nell'usare l'esistente, la tensione a sottolineare differenze di senso, di uso del tempo anche esasperando contiguità formali e figurative. Le conclusioni di questa prima storia sono argomento delle due vi24


cende successive. Un progetto che dà spazio al suono dichiarandosi palesemente un anti-monumento è oggetto del secondo appunto, mentre il terzo è dedicato alla rimessa in campo degli strumenti per aprire sostanzialmente al problema del testimone. Tutti i materiali citati in questo primo appunto chiedono infatti una presenza, sono discorsi in forma di architettura fortemente relazionali, non perché costruiscono relazioni fisiche con l'esistente, ma perché riaprono dei ragionamenti, propongono delle visioni, sono testi scevri dal problema della verità, come sottolinea più volte Eisenman nella sua teoria per Cannaregio Ovest9. L’anti-monumento attiva una narrazione che va demandata, riapre il problema del messaggio, al testimone è lasciata la prosecuzione del discorso a partire da un incipit che suona come una sospensione.

II storia. Costruire eredità Il NUME sempre violento {φθονερον τε και ταραχωδες da qui all’Aurora} ti caccia {verso} terre inarrate {dove in} case di giunco su carri vanno gli Sciti 25


{Alle spalle} lascia l’Europa L’Asia entrerai {Inoltrati a Oriente} Prometeo, Seconda Isola

Prima di entrare in questa seconda storia va chiarita la distinzione tra i termini “patrimonio” ed “eredità”: mentre il primo rimanda alle cose del padre e quindi ad una posizione data, statica, il secondo è più complesso ed apre a possibili avvenimenti. L’erede è colui che prende possesso, il vocabolo sottende un passaggio di mano e una azione che è quella di impadronirsi di qualcosa. Da qui si può assumere “patrimonio” come il qualcosa trasformabile in “eredità” prendendone dominio e facendone uso, dandogli un secondo statuto, operando una trasfigurazione che non è semplicemente nominale o concettuale, ma che implica un palesamento: una nuova occupazione. Il Prometeo. Tragedia dell’ascolto di Luigi Nono, opera musicale eseguita per la prima volta10 in un’arca progettata da Renzo Piano nella chiesa di San Lorenzo a Venezia nel 1984, è qui ricordata per cercare di focalizzare come costruire eredità. Il progetto, che oggi può apparire irripetibile a causa della scomparsa di alcuni suoi autori, ma anche a causa per la difficoltà di immaginare un così ingente impegno al fine 26


di realizzare una struttura effimera, è un ipertesto. L’opera, spazio musicale e spazio architettonico, fusi in un unico corpo, intreccia e solleva i seguenti temi: l’autore multiplo, il ruolo dell’architettura a tempo determinato nella costruzione dell’idea di città, le possibili vie della contestualizzazione, l’occupazione di un luogo segnato dal suo precedente uso ormai inattivo, il progetto di elementi immateriali, il riutilizzo della storia. In pratica già da questa lista si evince che l’articolazione ad arcipelago del Prometeo si riflette sui suoi postumi riflessi, moltiplicando diversi fuochi, tutti propri alla teoria italiana del re-cycle. Innanzitutto si tratta di un’opera doppiamente corale. Ideata da Luigi Nono, i testi sono composti da Massimo Cacciari, l’esecuzione è diretta da Claudio Abbado, Renzo Piano costruisce lo “spazio musicale”, il disegno della luce è definito da Emilio Vedova, Hans-Peter Haller è il regista del suono. I testi sono un intreccio di frammenti e passaggi che costringono differenti autori ad incrociarsi sulla scena della stessa storia da Walter Benjamin (Sul concetto di storia), Eschilo (Prometeo incatenato), Euripide (Alcesti), Johann Wolfgang von Goethe (Prometeo), Erodoto (Storie I, 32), Esiodo (Teogonia), 27


Friedrich Hölderlin (Schicksalslied e Achill), Pindaro (Nemea, VI), Arnold Schoenberg (Das Gesetz e Moses und Aaron) a Sofocle (Edipo a Colono). L’autore è quindi multiplo in più direzioni, certo persiste un unico e chiaro artefice, Luigi Nono, che si avvale però del potenziamento dell’opera attraverso la confluenza nella stessa di più “responsabili”, alcuni dei quali, come gli ideatori dei testi, partecipano loro malgrado. Altro appunto desumibile è la saldatura tra le diverse competenze che convergono in un unico risultato: è difficile distinguere il progetto delle luci da quello dello spazio o quello della musica dai testi, eppure sono tutte tracce fissate da personalità molto differenti e marcate. Il Prometeo mette in essere la possibilità che un insieme di singolarità possa diventare un unico discorso potente in più direzioni, come appunto è un arcipelago. L’arca è realizzata per l’esecuzione dell’opera dentro una chiesa fondata nell’isola veneziana nel 854, distrutta da un incendio e ricostruita alla fine del 1500, inutilizzata dagli anni venti del Novecento. La spazialità interna di San Lorenzo è talmente generosa da permettere al suo interno la costruzione di due edifici alti sette piani11, l’aula unica è suddivisa in due aree da una 28


parete forata da grandi archi che ospita l’altare maggiore. Sconsacrata nel XIX secolo, dimenticata a causa dei danni arrecati durante il primo conflitto mondiale che ne hanno costretto la chiusura, negli anni ottanta del Novecento è stata interessata da scavi archeologici che, interrotti, hanno lasciando due grandi voragini, necessita oggi di un restauro integrale. La chiesa è di proprietà del demanio. Occupare lo spazio di San Lorenzo non è certo un’azione scevra da “vincoli”, il primo dei quali è però, in questo caso, la messa in spazio di un’opera musicale. Piano è chiamato a ideare e realizzare una scena effimera, una struttura senza fondazioni ma dal significato inconciliabile con un’architettura rinunciataria. Costruisce un grande invaso sollevato da terra, un brano di nave che occupa il volume della chiesa inglobandolo parzialmente attraverso pareti verticali che si raccordano ad un suolo sospeso, il tutto costruito in legno ed acciaio. La nuova struttura immessa utilizza la parte alta della chiesa come cielo e marca un piano tra il proprio solaio e il pavimento esistente dedicato all’accoglienza. L’arca dichiara un viaggio: arrivata dopo la costruzione e l’abbandono della chiesa è solo di passaggio. Il nuovo invaso annulla la suddivisione in due 29


parti di San Lorenzo attraversandone quasi tutto il perimetro senza cercare coincidenze, marcando con chiarezza una distanza critica dai muri secolari. L’architettura a tempo determinato detiene caratteri propri alla cantieristica navale, cara all’architetto genovese e alla città lagunare, ma anche grafie proprie alla città in trasformazione o alla scena teatrale: sulle sue pareti verticali si arrampicano strutture in acciaio per ospitare l’orchestra e i suoi movimenti, sul solaio le sedie che ospitano il pubblico possono girare su se stesse per seguire lo svolgersi dell’opera nello spazio. La logica dell’ascolto nega l’impianto unidirezionale solitamente dettato dalla posizione statica dell’orchestra e del pubblico: i musicisti si muovono a dare corpo alle diverse isole dell’opera da punti differenti delle impalcature del nuovo invaso, gli spettatori seduti sono costretti a rincorrere il suono e chi lo produce. Effimero ed eterno sono saldati per offrire una nuova abitabilità al suono. «Occorreva – scrive Cacciari – un luogo per questo ascolto. Uno strumento che lo rendesse possibile, […] che “liberasse” l’ascolto da quella servitù al “vedere” (alla dimensione ottico-aptica) che domina nelle sale e nei teatri d’opera 30


normali. Uno strumento, da cui il suono non fugge via, ma in cui possa abitare»12 . L’arca è una “non-scenografia” e il suo “carattere anti-mitologico”13 è potenziato dall’invaso ospitante e da un’idea di contestualizzazione non appianabile in concetti quali la mitigazione o il continuum, ma nella ricerca di moltiplicazioni. «Come realizzare in San Lorenzo gli infiniti possibili di San Lorenzo: quei possibili che sono appunto irrealizzabili…?»14 è la domanda e l’obiettivo di Luigi Nono in questa occupazione del tempo, oltre che dello spazio. La contestualizzazione prende corpo anch’essa in differenti direzioni: i principali artefici del Prometeo sono veneziani, questo potrebbe apparire un dettaglio o un semplice appunto biografico, ma l’idea di acqua, di galleggiamento e la disarticolazione dell’opera, sostenuta da una sua evidente unitarietà, sono riflessi che evocano la città, non in modo letterale, ma nel rimettere in uso i meccanismi che la stessa offre e palesa15. L’interno della chiesa, ulteriore contesto, è lasciato come trovato, con la sua lingua, la lingua del culto scritta su muri e suoli, questa stessa scrittura diventa città nel momento in cui la struttura è “utilizzata” come carattere di un’esternalità 31


dichiaratamente illusoria. Le monumentali pareti interne di San Lorenzo diventano il contraltare di un nuovo interno, costrette quindi a comportarsi come facciate o facce di un sistema urbano che però è un continuo ventre: a Venezia solo la laguna sembra permettere vie d’uscita. I rapporti tra dentro e fuori ondeggiano: un’arca invade un dentro senza acqua, ma comunque si pone ad una quota di salvezza in attesa che tutto lo spazio venga inondato dal suono. Venezia è un viaggio, non un porto e nemmeno un punto di passaggio, nella sua stasi si offre come luogo privilegiato dell’instabilità, anche la storia la rende tale perché difficilmente decifrabile nel suo accatastamento vertiginoso di strati, qui le chiese nei secoli sono ruotate sul proprio sedime ad inseguire le strade d’acqua e poi di terra, sempre confermando il suolo della propria fondazione. L’occupazione dello spazio per l’ascolto del Prometeo si pone come domanda, transitoria essa stessa, sul possibile destino di San Lorenzo. La potenza di uno spazio ecclesiastico non più in uso potrebbe apparire per certi versi un problema: obbliga un confronto con una storia, con un uso preciso, con una posizione. Di nuovo tutto questo potrebbe provocare una stasi, 32


chiedere un congelamento dello status quo, ma è lo spazio stesso con le sue scritture a chiedere produzione, a chiedere di continuare a progettare l’aria, a chiedere di progettare dissacrazioni della logica dello spazio sonoro come nella messa in scena del Prometeo. San Lorenzo espone, oggi ancora con maggior chiarezza data la propria nudità, la propria vastità occupata dall’umidità e dalla luce naturale, unica lama nella grande massa di oscurità. La stessa vastità un tempo ospitava cori e canti dell’assemblea, la stessa umidità era un veicolo di diffusione dell’incenso, la stessa oscurità serviva a illuminare, dirigere, sottolineare punti nello spazio: udito, olfatto e vista erano strumenti di comunicazione in un invaso dove ciò che si vede è poco rispetto a quanto era ospitato, a ciò che di immateriale riempiva la scena. Allo stesso modo gli schizzi di Renzo Piano per la sua arca contemplano muri, pilastri, travi ma anche le curve del suono, della luce, della temperatura. Materiale e intangibile non possono essere scissi in questi spazi dell’ecclesia, come non dovrebbe essere in alcun altro luogo, ma in questi invasi appunto è impossibile sfuggire alla doppia identità, materiale e immateriale, dell’architettura. Questo non è l’unico ritorno all’antico nel33


la dichiarata ricerca di sperimentazione che segna l’opera di Nono e di Piano: l’assedio dall’alto che gli orchestrali mettono in atto sulle pareti dell’arca mentre il pubblico è costretto sul piano a seguirne i movimenti è una scena già stata allestita a San Lorenzo tra il 1740 e il 1782. Lo spazio temporale di oltre quarant’anni è riferito al periodo di possibile datazione del dipinto di Gabriele Bella intitolato Vestiario di una Nobil Dama a San Lorenzo dove è raffigurata l’occupazione della chiesa attraverso strutture lignee poste sulle pareti perimetrali in cui sono distribuiti in file, poste a differenti altezze, i suonatori, mentre gli ascoltatori si muovono liberamente calcando il pavimento della chiesa. Il progetto di Nono e di Piano non rappresenta che l’ennesima occupazione, l’ennesimo progetto in uno spazio per vocazione progettante, che chiede prese di possesso, per continuare a tramandare la propria eredità. Questa storia insiste su come e perché servono sempre nuovi autori che elaborino ancora e di nuovo la materia sempre più consunta, sempre più stratificata. Le vicende del Prometeo mettono in essere la possibilità che più autori disegnino un arcipelago marcando la propria autonomia e articolino una collezione di presenze più che un col34


lettivo. Nell’arcipelago e in altre immagini astratte, come l’arca, lo spazio multiverso, l’interno stesso di San Lorenzo trasfigurato in un altrove si annida l’idea di Venezia. Sono queste apparizioni a sostanziare il contesto a far trapassare i patrimoni in eredità.

III storia. Strumenti o echi progressivi Il testimone è colui che racconta la storia. Senza testimone non esiste storia e senza storia non esiste nemmeno il mondo. Questo vale per il tempo perduto collettivo e per il nostro tempo perduto. «Chiamatemi Ismaele...» così inizia “Moby Dick”. Non ha importanza chi sia Ismaele, o il suo nome: egli è il testimone. Franco Rella, Figure del male

L’arcipelago della seconda storia, tema e strumento del Prometeo e della sua messa in essere nello spazio, è uno degli echi progressivi considerabili patrimonio per costruire altre eredità. Soffermandosi qui sul dato immateriale e soprattutto sulla ricerca teorica, si va a ritroso nel trovare e rimettere in uso armamentari per costruire testimonianze e quindi nuovi progetti. Per rimanere alla teoria italiana la Strada novissima, l’Estate 35


romana, Autobiografia scientifica sono alcuni tra gli ultimi dispositivi messi in uso: il primo è stato utilizzato per allestire una mostra o meglio un ragionamento, la seconda per disegnare una città, il terzo per scrivere un discorso. Si tratta quindi di tre strumenti applicati in contesti diversi e usati da autori differenti che, estrapolati, possono essere raccolti a disegnare un armamentario. La Strada novissima è un dispositivo urbano, una narrazione antica riproposta da Portoghesi in forma di artificio dichiarato: intrappolata nelle Corderie dell’Arsenale, la successione di facciate non è il frame di una serie di volumi, ma solo quinte, frasi di un discorso collettivo fatto da chiare e distinte individualità. L’estate non è certo un’invenzione, ma diventa tale se le si attribuisce il ruolo di momento ricorrente, appunto la stagione, in cui la città può trasformarsi. Per nove anni l’estate di Roma è diventata il tempo e lo spazio in cui accendere eventi fatui, discorsi urbani, idee architettoniche. Un rito in onore del progetto che si è fatto storia. Un'autobiografia per definizione non può essere scientifica, il ricordo e la memoria non lavorano in modo logico ma per salti e fessure, questo procedere della mente può diventare “dichiaratamente” una modalità per viaggiare 36


nel tempo, per agire nello spazio. Le prime due strutture sono collettive ma non per questo sminuiscono gli assoli, tutte e tre i meccanismi lavorano sulla città, sulla sua pluralità di fatti, e in modo decisamente differente agiscono sul tempo. Questi patrimoni sono diventati eredità: basti pensare alla monografia-dizionario di Rem Koolhaas, dalla quale è possibile trarre il procedere di un'idea di architettura piuttosto che, senza mettere a fuoco il contenuto, vederne l'impianto bifronte, il ricadere della stessa idea sulla struttura del racconto. Due distinte modalità, la monografia e il dizionario, sono chiamate a condividere lo stesso territorio, riecheggiando l'impossibilità che una autobiografia sia scientifica. In sostanza servono testimoni tesi a raccontare una storia e non sempre il testimone è diretto, spesso è una modalità di racconto, è un libro piuttosto che un brano di strada apparentemente fatuo, piuttosto che un periodo di tempo nel quale è data licenza alla città di modificarsi, di scoprirsi diversa. Quando il racconto è tendenzioso, quando tende a portare alla luce solitamente è bifronte: agisce sia con il contenuto, che con la propria struttura ad incidere sul dato reale, a piegarlo alla narrazione. Strumenti quali l'archivio o il ma37


nuale sono due differenti luci della modernità, l'uno atto a raccogliere, l'altro predisposto a dire come far con mano, entrambi in continua possibile revisione. In passato si sono spesso archiviate cose che nel tempo sono state sostituite da altre più efficaci o che hanno concluso il proprio ciclo vitale o senso, oggi l'archivio è riempibile di “oggetti” che si sono spenti, sono caduti in un oblio, in un varco: le circostanze ne hanno decretato la caduta di senso, le stesse condizioni non hanno trovato altre vie alternative, gli stessi oggetti sarebbero recuperabili ma le situazioni disegnano uno stallo. Quegli oggetti sono ancora vivi nella memoria, non sono completamente spenti, il loro essere in ombra è una mancanza sentita. Di questa condizione terza l'archivio può dare testimonianza, mostrando non solo il dato ma anche il possibile, anche ciò che dal succedersi della lista può emergere per farsi immagine e da qui evolvere in immaginario. L'archivio non è chiamato a dare completa testimonianza di ciò che appare sulla scena della realtà: può mettere in essere le parti in ombra, le potenzialità non in uso e che ormai sono parte dello status quo. Il manuale nasce per essere facilmente trasportabile, un piccolo libro con la sintesi delle azioni utili per 38


agire. La sua natura specialistica non coincide con situazioni proprie all'heritage e al re-cycle serve allora riscriverlo come intreccio di competenze, come attrezzatura capace di definire un’impalcatura, un percorso possibile che mette insieme le cose, i saperi, pur continuando a distinguerli. Le storie che raccoglie il manuale si diramano nel loro essere frutto di intrecci piuttosto che di direzioni univoche, scomposizioni per riformulare nuove composizioni. Quel che entra nello spazio del manuale viene messo in relazione con altre voci che possono condizionarsi a vicenda: il disegno è quello di una serie di file di carte, tracce che a partire dalla prima mossa vengono alternativamente percorse ottenendo risultati differenti. Il testimone è colui che racconta la storia, di testimoni parlano gli strumenti qui appuntati, di testi che sono già racconti e che si offrono come strutture della mente per poter costruire altre narrazioni, sempre che la “cosa” sia predicabile. «A differenza della realtà, il Reale è ciò che resiste testardamente a ogni tentativo di simbolizzazione. È un buco nell'ordine simbolico, è la “cosa” inevitabilmente perduta, muta, ottusa, liscia, impredicabile. È l'incontro che non si può mancare, è il luogo in cui il linguaggio, 39


quel linguaggio che struttura la realtà per come possiamo conoscerla, finisce, per venir meno, perde i suoi poteri. Il Reale ha la natura dell'evento, non del senso, o meglio dell'evento senza senso, traumatico, in quanto non può essere elaborato, simbolizzato, reso nominabile»16. Gli strumenti annoverati, evocati sono tesi a insistere sulle strutture, sulle interpretazioni, sulle immagini per ripercorrere la strada novissima non come verità ma come via, da percorrere e superare, per continuare a leggere autobiografie scientifiche di autori capaci di valicare la mera descrizione. «Ma la realtà umana non esiste al di là della rappresentazione che ne diamo. La società non è un dato ma un’interpretazione. Il realismo è sempre un’ideologia, una profezia che si autoavvera, un enunciato che produce ciò che descrive»17. Molto banalmente il progetto ha bisogno degli armamenti, degli strumenti che possono permettere di leggere la realtà da lontano, anche in questo caso con un distacco, con una distanza necessaria a cogliere gli spessori e le ombre a catalogarli e a manometterli per farne nuova storia. Il tutto si riferisce sempre e non solo a Venezia, intesa non come unicum ma come exemplum, come 40


condensato di fenomeni accesi che in altri contesti si palesano più flebilmente. Archiviare Venezia e predisporre un manuale per trarne una lezione di riciclaggio o per agire con altri cicli sulla e nella cittàisola sono operazioni che lavorano sull’immagine, che rimettono l’immagine al centro della storia. Nelle pieghe dell’alleanza che sempre a Venezia è viva tra reale e virtuale si alzano i fumi dell’immaginario: come ricorda Martin Heidegger in L’abbandono nelle cose abbandonate si annida il mistero, terreno necessario per poter «sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica». Quel mistero, provocato da zone d’ombra o dalla difficoltà cercata di orientarsi all’interno di stanze dove tutto è accatastato, in primis il tempo, dove quel che si mette in essere è il meraviglioso, lo stupore, è qui considerato luogo di lavoro e anche spazio della produzione di senso. Venezia è un documento storico, un museo, un luogo da decomporre in elementi come nel volume di Giulia Foscari Elements of Venice (2014), una città che non deve morire come ricorda Salvatore Settis nel suo libro Se Venezia muore (2014), è il manufatto logico che intreccia misure e speranze, cose certe ed evocazioni. Per queste ragioni, per questa molteplicità di interpreta41


zioni che offre e costruisce, l’isola si presenta come la terra ideale dove verificare strumenti e costruire eredità18.

Epilogo o del ritorno perenne a Venezia L’epilogo di queste tre storie sono, mettendo in essere un’eco, altre due vicende, altri due racconti che sono a loro volta rimesse in uso di vecchie narrazioni. Le due vicende si svolgono non a caso di nuovo a Venezia e sono qui citate in chiusura per aprire di nuovo il ragionamento e non chiuderlo, per rimandare al continuo riflesso che la città lagunare sa produrre, anche quando solo e semplicemente ospita racconti nati altrove, un riflesso che attiene ad un concreto che sa farsi immaginario. Nel 2015 nella galleria Tre Oci alla Giudecca è allestita la mostra Sguardi di donna una raccolta di progetti fotografici al femminile. Lo spazio è costruito da una serie di scene distinte per i tre piani dell’edificio da Antonio Marras, noto stilista sardo. La molteplicità dei progetti è raccolta e distinta da tre diversi materiali provenienti dal backstage del teatro La Fenice. Al piano terra la sala principale è occupata da un’onda sospesa di abiti 42


di scena, al primo piano le casse con ruote dove sono solitamente riposti gli abiti ospitano alcuni dei progetti fotografici esposti, al secondo e ultimo piano una serie di tralicci di scena sono disposti a mo’ di selva, come a sostenere un tetto precario. Due spazi della città si rincorrono in questo progetto: da un lato l’edificio che ospita la mostra qui e ora, dall’altro quel che resta di un evento che ha interessato il teatro veneziano e che giaceva nella dimenticanza, in un magazzino, in un retro. Gli oggetti dismessi raccolti a disegnare masse sono utilizzati per costruire un discorso più che uno spazio, a mettere in primo piano quel che dovrebbe stare nascosto, quel che non è più protagonista, ma ritornano a disegnare un nesso nella città, un travaso di tempi, un archivio che si espone nella sua primaria natura, una messa in scena che è sostanzialmente il diario di un viaggio. Sempre nel 2015 a Palazzo Fortuny è progettata e raccontata la mostra Proportio. In una piccola stanza al piano terra è proiettato il video Atlante di Francesco Jodice, un montaggio di materiali diversamente datati, dal cinema muto alle pubblicità trasmesse in televisione negli anni Ottanta del Novecento negli Stati Uniti sono intrecciati ad 43


una scena che ricorre dove un atlante è lentamente narrato, nella sua immobilità e nel suo faticoso sostenere il mondo, da una telecamera fuori campo. Il racconto è universale, come testimonia la statua del gigante, ed individuale, le scene del film muto, così come i frame delle pubblicità insistono tutti su questioni personali o su una questione di personalità. Di nuovo autobiografico e scientifico si accatastano qui in un susseguirsi di evasivo e di documentaristico. I testi del film muto non sono originali ma manomessi a rendere i dialoghi contemporanei, molte alterazioni si addensano nel racconto, un racconto che insiste sul peso del globo rimbalzando ad intermittenza sul microscopico. Il distacco tra la fatica artefatta dell’atlante e la banalità delle vere scene quotidiane disegna uno spazio, un varco: è lo spazio dell’amnesia di quel che non può essere ricordato che prende massa e può diventare la vera presenza di cui tratta il filmato. In entrambe le scene delle due mostre allestite contemporaneamente alleggia una nostalgia progettante, una dislocazione perenne ed esaltata capace di parlare del locale, un lavorare sulle pause e sulle sospensioni per palesarle come spazi della possibilità. Anche questi due appunti sono strumenti dell’architettura veneziana. 44


Note 1. Cacciari, M., Metropoli della mente, in «Casabella», n. 523, 1986. 2. Turri, E., La valva di Venezia, in La laguna di Venezia, Caniato, G., Turri, E., Zanetti, M. (a cura di), Cierre, Verona 1995. 3. Nel testo O.M.A., Koolhaas, R., Mau, B., S, M, L, XL, Jennifer, Rotterdam 1995 è riportata, a proposito dell’interpretazione della facciata di OMA alla mostra, la frase faustian gambit in reverse che forse è estensibile, in altri termini, alle conseguenze che tutta la mostra ottenne. 4. Si vedano a questo proposito Jencks, C., The Language of Post-Modern Architecture, London 1984 e Adamson, G., Pavitt, J. (a cura di), Postmodernism: Style and subversion 1970-1990, Victoria & Albert Museum, London 2011. 5. Cfr. Foster, H. (a cura di), L’antiestetica. Saggi sulla cultura postmoderna, Postmedia, Milano 2014 (ed. or. The Anti-Aesthetics, Bay Press, Port Townsend 1983). 6. Dal Co, F. (a cura di), 10 immagini per Venezia, Officina, Roma 1980. 7. «Dal 1974 Venezia ha precorso l’essenza del mio lavoro. Essa è il fòro dei miei contrasti interiori. I pensieri si riferiscono all’Europa e all’America; astrazione e storicismo; individuale e collettivo; libertà e totalitarismo; i colori bianco, nero e grigio; silenzio e parola; letterale e ambiguo; narrativa e poesia; osservatore e osservato. I progetti dedicati ad alcuni degli elementi di cui sopra, sono: 1. Il Cimitero delle Ceneri del Pensiero, Venezia 1975; 2. I Testimoni Silenziosi, Venezia 1976; 3. Le Tredici Torri di Guardia di Cannaregio, Venezia 1978-1979». Hejduk, J., in Dal Co, F. (a cura di), 10 immagini per Venezia, cit. 8. Edito in «October», vol. 8, Spring 1979, pp. 30–44, presente nella raccolta di saggi Foster, H. (a cura di), The Anti-Aesthetics, cit. 9. A questo proposito Anthony Vidler nel suo testo Il perturbante dell’architettura istituisce un parallelo tra l’opera di Eisenman

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e Le Grand Verre di Duchamp sottolineando come entrambi gli autori propongano travisamenti piuttosto che verità. Vidler evidenzia anche come lo “stratagemma dell’affermare negando”, comune ai due autori, viene esplicitato da Eisenman anche attraverso la modalità con la quale viene presentato il progetto per Cannaregio: dentro una scatola intitolata Eisenman’s PlexiGlass Box to Duchamp’s Green Box. I diversi strati del progetto vengono riprodotti su fogli di acetato trasparenti e sovrapposti, in cui viene resa impossibile la lettura dei singoli livelli a favore di un uso della trasparenza che porta all’incomprensibilità piuttosto che alla chiarezza. 10. A Venezia viene eseguita la prima versione dell’opera (1981-1984), la versione definitiva è eseguita nel 1985 presso lo Stabilimento Ansaldo a Milano. 11. Il volume di San Lorenzo misura circa 19.000 mc: i due lati del perimetro sono lunghi 30 metri, la sua altezza si estende per 21 metri. 12. Cacciari, M., Verso Prometeo, tragedia dell’ascolto, in Cacciari, M. (a cura di), Verso Prometeo. Luigi Nono, La Biennale-Ricordi, Venezia-Milano 1985, p. 21. 13. Manzione, L., Musica come spazio abitabile. L’arca di Renzo Piano per il Prometeo di Luigi Nono (1983-84), in http://archivio. archphoto.it/2009/04/24/luigi-manzione_ musica-come-spazio-abitabile/. 14. Nono, L., in Conversazione tra Luigi Nono e Massimo Cacciari raccolta da Michele Bertaggia, in Cacciari, M., Verso Prometeo, cit., p. 24. 15. «Venezia è un sistema complesso che offre esattamente quell’ascolto pluridirezionale di cui si diceva… I suoni delle campane si diffondono in varie direzioni: alcuni si sommano, vengono trasportati dall’acqua, trasmessi dai canali… altri svaniscono quasi completamente, altri si rapportano in vario modo ad altri segnali della laguna e della città stessa. Venezia è un multiverso acustico assolutamente contrario al sistema egemone di trasmissione e di ascolto

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del suono a cui siamo abituati da secoli. Ma la vita quotidiana nella sua dimensione più “naturale”, conserva possibilità contraddicenti la nostra percezione più consapevole, la quale ha scelto soltanto alcune dimensioni fondamentali trascurando tutte le altre. Epperò ciò significa anche che, mentre si va all’opera o al concerto idolatrando quelle uniche condizioni e dimensioni di ascolto, nello stesso tempo naturalmente si continua l’esperienza di quest’altro multiverso… Si tratta allora quasi di un’urgenza di risveglio a questa maggiore ricchezza “naturale”». Nono, L., in Restagno, E. (a cura di), Nono, EDT, Torino 1987, p. 262. 16. Giglioli, D., Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata 2011. 17. Ibidem. 18. Questa verifica è messa ad esempio in essere nella mostra allestita presso la Fondazione Prada a Venezia e curata da Salvatore Settis Serial Classic (2015), dove l’eco delle copie di una determinata statua assume autonomia dall’originale, dove il riflesso prende il sopravvento sul punto di origine, producendo altro senso, altre capacità proiettive.

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Mirabilia Federica Mion, Irene Todero

Immagini estrapolate dalla tesi nelle colonne da p. 14 a p. 27.]

Mirabilia è una storia che ripercorrere itinerari abbandonati o sospesi del fantastico, del visionario e del meraviglioso, con ironia e disincanto, ma anche con la nostalgia per un recupero, forse, utopico e impossibile. La wunderkammer, o camera delle meraviglie, è un microcosmo riunito in una stanza, specchio di un intero mondo ritagliato all’interno di quattro pareti: accorcia le distanze, rende conosciuto ciò che è straniero, vicino ciò che è lontano. Al centro di questo percorso fantastico c’è il collezionista, autore di una wunderkammer sdoppiata in due realtà: Palazzo Grimani e l'isola di Forte di Mezzo. Venezia, come uno scrigno, custodisce la sua identità: stupisce, riflette, esalta e potenzia immagini e immaginari. Venezia è pronta a restituire meraviglia. Palazzo Grimani, meravigliosa nota fuori dal coro, si presta ora ad accogliere un nuovo dispositivo spaziale, custode di una collezione tratta da un’enciclopedia surreale e indecifrabile disegnata da Luigi Serafini. Nella teatralità degli spazi che accolgono la collezione, usi, dimensioni, ruoli e configurazioni divengono mutevoli e illusori e gli elementi più normati assumono un valore nuovo e aggiunto che prescinde dall’esperienza comune. L’isola di Forte di Mezzo è realtà microscopica atta a costituirsi come secondo micromondo, riflesso dell’identità del collezionista. Scegliere un’isola della laguna veneziana significa mettere un quadro sotto cornice, aumentare ciò che si trova di possibilità e di relazioni, di spazio e di odori. La meta non è la chiarificazione degli intenti anche in questo caso, l’incertezza dell’approdo e dell’ingresso portano ad una condizione di spaesamento. L’unico dato certo è la collezione: l’isola ne è parte così come la nuova architettura progettata.

Preservation Ecclesiae Anna Ceccolin, Marta Dionese La tesi è composta da manifesti e tavole pieghevoli che insistono su diversi temi: praeservare e preservation, l’abbandono dei luoghi di culto in Italia e in Europa, l’approfondimento sul topos ecclesia con una specifica sul contesto veneziano, la committenza con le sue necessità e gli scenari prefigurati a Venezia, supportati dalla parte giuridica. Il primo capitolo è dedicato al tema della preservazione ed è articolato sulla definizione della strategia, il continuo richiamo al vocabolo permette di valorizzare come il restauro racchiuda già in sè un'idea di progetto, una prospettiva. Il secondo capitolo è dedicato al patrimonio da preservare e salvaguardare facendo riferimento in particolare al fenomeno dell’abbandono degli edifici di culto. I dati riportati mettono in luce il fenomeno a livello mondiale ed europeo e le possibili cause che determinano tale emergenza. Sullo sfondo la domanda se questi luoghi possano diventare nuove terre per l'archietttura. Poi, procedendo a ritroso, è stata sviluppata una riflessione sul topos "architettura" per il culto, con particolare riferimento alla configurazione spaziale che presenta caratteri specifici, soprattutto nell’ambito veneziano. Nell’intento di progettare nuovi cicli di vita per le ex chiese, intese a livello giuridico come beni culturali e tutelati dalla normativa di riferimento, sono state delineate strategie di riutilizzo temporaneo. Le nuove funzioni individuate per questi spazi sono attività di produzione immateriale, articolate in factory che possano beneficiare del tessuto urbano e culturale della città. La narrazione si chiude con la mappatura e la classificazione, effettuata secondo varie sfumature di utilizzo, delle ex chiese presenti nel centro storico di Venezia. A fronte di trenta casi in-

[Mirabilia. Storia di quattro pareti, tesi di laurea magistrale, Università Iuav di Venezia 2015, relatore: Prof.ssa Sara Marini.

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dividuati sono stati approfonditi gli scenari per San Lorenzo, Santa Maria del Pianto e Sant’Andrea della Zirada.

il punto più scuro, più freddo e più spoglio, come esili lampade sonore. Dietro un triplo strato di materiali traslucidi e isolanti, si nascondono delle folies di scale metalliche, i cui pianerottoli diventano spazi individuali del lavoro, illuminati da un soffitto di neon dalle diverse temperatura di colore. I rumori delle azioni interne, dai passi sui gradini, dal ticchettio delle tastiere, dal rombo degli impianti, dalle voci, si ripercuotono all'interno delle strutture metalliche, rimbalzando sulle pareti fonoriflettenti, fino a propagare una nuova armonia contro le arcate intonacate della chiesa: la melodia antropocene del tempo presente.

[Preservation Ecclesiae. Dall’Architettura per la liturgia ad altri sfondi culturali: sovrascritture di nuovi usi per le ex-chiese veneziane di San Lorenzo, Santa Maria del Pianto e Sant’Andrea della Zirada, tesi di laurea magistrale, Università Iuav di Venezia 2015, relatore: Prof.ssa Sara Marini, correlatori: Dott.ssa Micol Roversi Monaco, Arch. Don Gianmatteo Caputo. Immagini estrapolate dalla tesi nelle colonne da p. 28 a p. 39.]

[Immagini estrapolate dal progetto nelle colonne da p. 40 a p. 43.]

La melodia del tempo Ludovica Battista, Anna Berto, Arianna Mondin, Andrea Pastorello, Caterina Redana

Cronaca di un progetto epico Rocco Zanella

Questi legni, queste pietre-spazi di San Lorenzo, infiniti respiri. Luigi Nono

Nell’estate del 2015 si è tenuto il workshop intitolato “The Anthropocene Style. Towards an Art Decorative and Thermodynamic”, diretto da Philippe Rahm e Sara Marini. All’interno del laboratorio fu organizzato un gruppo che si sarebbe dedicato all’analisi e progettazione di un intervento dentro una chiesa veneziana dismessa. Furono fatti dei sopralluoghi nelle chiese di Sant’Andrea della Zirada, delle Terese, di Sant’Anna e di San Lorenzo e venne richiesto di intervenire in quest’ultima. Pur essendo un grande vano incavo, dalle dimensioni dilatate e caratterizzato da alcuni grandi buchi che lasciavano leggere le fondamenta dell’edificio, si decise di accentuare la sensazione del vuoto. Per ricreare una sorta di negativo dell’aula, era necessario sbancare ulteriormente l’area delle voragini, facendo spazio ad una struttura scatolare che andava ad adagiarsi ed innestarsi nello strato argilloso. L’idea venne suggerita da un piccolo libro che presentava il progetto e la realizzazione del nuovo edificio della Cassa di Risparmio di Venezia, in campo Manin, di

Ripensare l’atmosfera di una chiesa sconsacrata, di uno spazio nato per essere protagonista dell’evento religioso, significa innanzitutto cercare di riscoprire, sotto la polvere, i dispositivi sensoriali di cui l’architettura è dotata, per renderli lo scheletro del progetto delle atmosfere future. Così, oltre a collezionare dati scientifici, si è reso necessario indagare il meccanismo percettivo dell’edificio, ritrovarsi nella semioscurità in pieno giorno, udire l’imponente propagarsi dei rumori, cercare con lo sguardo il fondo delle lacune nel pavimento: costruire un immaginario attraverso il proprio corpo. Il progetto si è proposto di dare una nuova “abitabilità” a questo spazio vuoto, identificando nella sua acustica straordinaria il punto fondamentale dell’elaborazione dell'ambiente. Facendosi carico, attraverso l’azione dei corpi a contatto con l’architettura di mettere in atto nuovamente la scena Tre torri si ergono dalle voragini della chiesa, oltre il filtro di marmo e ferro che divide l’altare dal coro,

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Pierluigi Nervi il quale riuscì a ricavare due piani sotterranei stagni alla quota di meno venti metri. La nuova voragine abitabile, quasi a voler seguire un’idea esposta nel libro Lo stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica di Gottfried Semper, venne ripensata con una sua possibile rifunzionalizzazione in senso liturgico: una cappella ipogea. La sua caratteristica peculiare doveva essere il percorso sotterraneo tra antiche vestigia e muri di fondazione, verso un nuovo altare o verso quello che poteva diventare un nuovo fonte battesimale. Le idee vennero sintetizzandosi quando la Prof. ssa Sara Marini si confrontò con gli studenti, immaginando un grande tappetto rigido ed inclinato, quasi una sorta di volume opaco, innestato dentro le voragini nelle quali era collassato il pavimento seicentesco. [Immagini estrapolate dal progetto nelle colonne da p. 44 a p. 47.] [La melodia del tempo e Cronaca di un progetto epico sono due progetti sviluppati durante il workshop “The Anthropocene Style. Towards an Art Decorative and Thermodynamic” coordinato dai docenti Sara Marini e Philippe Rahm presso l'Università Iuav di Venezia, 2015.] [In queste pagine: prima colonna, immagine da Mirabilia; seconda colonna, immagine da Cronaca di un progetto epico; terza colonna, immagine da La melodia del tempo.]

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Pagina precedente: immagine tratta dal progetto fotografico Chiese Chiuse di Sissi Cesira Roselli, Venezia 2014-2015

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ARCHIVI. DIECI DITTICI Sissi Cesira Roselli >IUAV

La forma archivio viene qui presentata in dieci dittici di testo che corrono paralleli a dieci dittici di immagini provenienti dal progetto fotografico Chiese chiuse. Per scandagliare alcune delle possibili voci dell'archivio si seguiranno per grandi linee i quattro punti dettati dallo studioso di archivistica Adolf Brenneke, ovvero: l’origine, il contenuto, l’organizzazione e le finalità. Pensando di porre in relazione l’idea di archivio e l’idea di re-cycle, si prova a mettere a fuoco l’ipotetica architettura di un archivio dello scarto come uno strumento utile a predisporre e catalogare materiali relativi a spazi in disuso, individuando dei parametri in grado di metterne in evidenza il potenziale di riutilizzo e l’eventuale strategia di recupero, rivolegendosi all’archivio “come esperienza irriducibile dell’avvenire”1.

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«Ma per fare da diga all’orrore ci vuole “una rabbia fredda e permanente”, un’arte che abbia “un metodo inesorabile”2, che stringa tutto in una rete perfetta, senza smagliature: una rete che è tesa sull’abisso del nulla».

Franco Rella, introduzione a Bouvarde e Pécuchet, Gustave Flaubert

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1. ORIGINE. LO SCHELETRO DELLA BÊTISE Nel romanzo di Gustave Flaubert Bouvard e Pécuchet, l’archivio è vissuto come uno stratagemma per dominare la bêtise3 del quotidiano, uno schema ordinatore attraverso il quale orientarsi nella quantità che sommerge e condanna a un’ignoranza perpetua4. La forma dell’archivio diventa per i due protagonisti un’ossessione, una mania per incasellare, accumulare per decifrare. La proprietà dell’archivio è quella di guardare la realtà nella sua nudità, senza pregiudizi, riuscendo a soppesare così gli elementi con neutralità. L’archivio serve a strutturare il nulla, a dargli uno scheletro, a renderlo più accettabile, un antidoto alla vertigine disorientante di non saper in quale tassonomia collocare esattamente l'ornitorinco5. Un riscoperto interesse per gli archivi è riscontrabile negli ultimi anni tra gli ambiti più diversi, dall’architettura, che torna a servirsi di questo strumento non solo come uno tra i primi approcci al progetto ma anche in fase compositiva, alle arti figurative, alla moda6. La logica dell’archivio insiste su confini opachi, dove si intrecciano la sete di voler catalogare ogni cosa con la speranza di poterla conoscere meglio dandole un posto preciso nel mondo, l’amore spasmodico per l’accumulo, il desiderio di ricostruire una memoria perduta o forse mai esistita. Il ricorso alla formazione di archivi, tanto da parte di una comunità quanto da parte di una realtà animata da singoli, coincide spesso infatti con una volontà di ricostruzione storica della propria identità dettata da una necessità di legittimazione, che sia questa di tipo culturale, commerciale, religiosa o politica. La presenza di un archivio costituisce una fonte d’informazioni praticabili, organizzate secondo criteri evidenti. Questo permette di rendere consultabile una memoria in pericolo di estinzione e di continuare a farla vivere attraverso i nuovi progetti che vi attingono. L’archivio diventa così una “rete” con la quale passare al setaccio ogni granello di realtà, che trattiene e si libera degli elementi superflui mentre sul fondo lascia decantare quelli necessari al disegno di nuove direzioni. L’archivio è un’illusione magnifica, un miraggio dai contorni slabbrati, un anelito che porta in alto e poi nel buio più profondo, proprio perchè: «è proprio attraverso il sapere, che dovrebbe spiegare gli enigmi del mondo, che ci si affaccia sul nulla»7.

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«Cos'è poi questa “completezza”? Un grandioso tentativo di superare l'assoluta irrazionalità della semplice presenza dell'oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione».

Walter Benjamin, I «passages» di Parigi

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2. UN SILEZIO GLACIALE Archivio, architettura, archeologia sono solo alcuni dei termini che presentano la stessa radice etimologica riferibile alla parola greca archè, che in prima istanza racchiude un sé la nozione di principio, origine, inizio, prima causa, così come anche punto di partenza, estremità, capo, termine. In seconda istanza il termine riporta a un'idea di comando, dominio, potere, autorità8. Riferendosi a queste particolari accezioni del vocabolo, è comprensibile come l’archivio da sempre sia stato uno dei principali punti di partenza per costruire un’identità, singola o collettiva, appunto per la sua capacità di sostanziare la conoscenza del reale in un sistema ordinato e accessibile. Nelle pratiche artistiche, tra l’archivio e l’inventario sembra godere di una connotazione più positiva il secondo. Il verbo archiviare richiama infatti nei suoi sinonimi una serie di azioni volte alla polvere, alla dimenticanza, a un rapporto imbalsamato con la realtà, dando l’idea di un’istituzione creata più per assopire la memoria che per consultarla. Invece l’inventario, dal verbo invenio, è percepito come un dispositivo costruito appunto più che sulla ricerca, sulla scoperta, concepito più per ri-trovare che per seppellire. Tuttavia nella specifica etimologia della parola “archivio” (dal greco archeion o cartofilachion o grammatofilachion, poi nel latino archivium-archivum contente la stessa radice di cartothesum, chartarium publicum, sacrarium, santctuarium, scrinium, tabularium ricollegabili a archa, archarium e armarmi che, in senso traslato, indicavano i contenitori per la conservazione9) si ritrovano anche dimensioni sicuramente apprezzabili da un punto di vista dell’indagine spaziale (come testimoniano esperienze quali L’archivio dello spazio a cura di Roberta Valtorta o le missioni fotografiche della Datar portate avanti dal governo francese come strumento di indagine territoriale), quali quella giuridica, quella sacra – per le memorie delle quali è a tutela e il suo carattere originario di segretezza – nonché una vocazione ad essere uno strumento nato per un pubblico e da esso tenuto in vita. Nello Sciocchezzaio a chiusura del romanzo poco prima citato di Flaubert, come scrive Franco Rella, ci si accorge che quella stessa bestialità, ignoranza, oscurità dalla quale si voleva scappare, è «l’essenza stessa dell’uomo. Che, al di là di essa, al di là del suo borbottio, c’è un silenzio glaciale, dal quale possiamo soltanto sperare che emergano di nuovo voci, che nuovamente ci indirizzino verso uno spigolo d’anima, verso un frammento del mondo»10. 59


«Un'inadeguatezza, uno scarto fra atto della trasmissione e cosa da trasmettere e una valorizzazione di quest’ultima indipendentemente dalla sua trasmissione, appaiono soltanto quando la tradizione perde la sua forza vitale e costituiscono il fondamento di un fenomeno caratteristico delle società non-tradizionali: l’accumulazione di cultura».

Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto

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3. IL SOGNO E L’INCUBO DELL'ACCUMULO Dando un rapido sguardo all’evolversi della forma-archivio nel tempo, si può notare come fino all’Encyclopédie illuminista, lo scibile si nominava attraverso elenchi o summae più con l’intento di dare l’idea vertiginosa di conoscenze illimitate che con quello di delineare una struttura organica del sapere. Alcune suggestioni per una codifica più sistematica delle diverse discipline fu anticipata nel Cinquecento dal progetto utopico Il teatro della memoria di Giulio Camillo, dove ai diversi gradoni dell’ideale teatro erano state assegnati differenti branche del sapere. L’angoscia di perdere la memoria ossessiona Giulio Camillo che finisce per «troppo ricordare per non parlare più»11. Questa suggestione viene sviluppata anche nella scenografia dagli archietti Diller & Scofidio, che nel 1986 progettarono un’installazione teatrale presso il Brooklyn Bridge Anchorage a New York ispirata all’idea di rendere “esplorabile” l’ossessione di Giulio Camillo attraverso un’interpretazione dello spazio passante per la commedia dell’arte. Ancora, tra il Cinquecento e il Seicento, il complesso fenomeno delle wunderkammer che dilagava negli studioli dell’aristocrazia, dapprima italiana e in un secondo momento dell’area germanica, attesta i primi desideri di decifrare la realtà secondo parametri multi-disciplinari basati sull’analogia. In queste stanze della meraviglia, le scienze e l’arte, naturalia e artficialia, trovavano la coerenza del loro collocarsi nella narrazione che il proprietario intendeva intessere del suo tempo. Il processo della conoscenza passava così attraverso la meraviglia e l’accumulo, per trovare solo in un secondo momento nella collezione una modalità di organizzazione del pensiero (così come testimonia il caso di Ferrante Imperato che tentò di trasformare il proprio cabinet di curiosità in uno dei primi musei naturalistici). L’accostamento di tematiche scientifiche e pratiche artistiche attraverso l’analogia, si rivelerà un filone di indagine caro anche ad artisti del Ventesimo secolo (dai Futuristi ai Surrealisti, fino a Mario Merz o a Damien Hirst), come anche diverse Biennali di Venezia – in particolare quella del 2013 curata da Massimiliano Gioni – confermano. Dall’Ottocento in poi, si legge più chiaramente il passaggio dalla collezione all’archivio, al quale si ricorre spesso sotto l’urgenza di una memoria storica in bilico, appellandosi alla sua vocazione di riconoscimento oggettivo di una raccolta di testimonianze12 volte a consolidare, se non spesso proprio a fondare, specifiche realtà collettive.

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«È infatti la sua trasmissibilità che, attribuendo alla cultura un senso e un valore immediatamente percettibili, permette all’uomo di muoversi liberamente, verso il futuro, senza essere impacciato dal peso del proprio passato. Ma quando una cultura smarrisce i propri mezzi di trasmissione, l’uomo viene a trovarsi privo di punti di riferimento e stretto fra un passato che gli si accumula incessantemente alle spalle e lo opprime con la molteplicità dei suoi contenuti divenuti indecifrabili e un futuro che egli non possiede ancora e non gli fornisce alcuna luce nella sua lotta col passato».

Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto

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4. L’ARCHIVIO BIFRONTE L’archivio gode di una natura bifronte, ovvero quella di avere un “in” e un “out” che costituisco il ricircolo che ossigena la sua logica. Infatti, la fase di “in” è quella dell’immissione nell’archivio dei materiali ripresi da una densità di informazioni senza gerarchia, previa scrematura e incanalamento secondo categorie stabilite in partenza. La fase di “out” è invece quella in cui i materiali raccolti nell’archivio vengono restituiti mediante la consultazione agli utenti, che ne rimettono in circolazione i contenuti. Esperienze come quella della Biennale d’arte di Venezia Il Palazzo Enciclopedico, 55. Esposizione Internazionale d’Arte, curata da Massimiliano Gioni e presieduta da Paolo Baratta, evidenzia come l’attenzione generale sia nuovamente attirata dal mondo degli archivi, alimentata da una sete di riordino del reale, da una necessità di trovare strutture che sappiano fornire chiavi di lettura del presente. Il titolo della mostra è stato tratto da un progetto utopistico del 1955 di Marino Auriti, che si proponeva di accogliere tutti i saperi all’interno di un unico edificio, il Palazzo Enciclopedico. Scrive Massimiliano Gioni: «L’impresa rimase incompiuta, ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accomuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti che hanno cercato – spesso in vano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza. Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancor più disperati». La definizione dei principi di pertinenza secondo i quali si sviluppa la mostra, ricorda la struttura multiforme delle tavole dell’Atlante di Aby Warburg, conservando la medesima capacità di generare un luogo elettricamente carico13. Opere di artisti internazionali del contemporaneo, di artigiani di epoche e latitudini lontane, di studiosi anonimi e di autori celebri, vengono disposte uno di seguito all’altra sulla grande superficie orizzontale della Biennale, che sembra riportale a un grado zero dell’oggetto in sè, catalogato non su basi autoriali, temporali o geografiche, ma semplicemente secondo alla potenzialità di relazione che intercorre tra gli oggetti, pilastri tangibili di un sogno irrealizzabile, capitoli mai chiusi del grande romanzo enciclopedico del mondo.

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«Niente archivio senza un luogo di consegna, senza una tecnica di ripetizione e senza una certa esteriorità. Niente archivio senza fuori».

Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana

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5. LE VOCI DELL’ARCHIVIO Tra il 2010 e il 2011 presso il Museion di Bolzano viene allestita la mostra -2 +3. Nel titolo stesso della mostra si racconta l’operazione fatta dai due curatori, Stefano Arienti e Massimo Bartolini, che spostano dal piano dei depositi -2 al piano espositivo +3 l’archivio del museo. La vita dell’archivio viene esposta al pubblico così com’è, riprendendo con puntualità nell’allestimento l’arredo scarno della collezione sotterranea e le sue dinamiche: per tutta la durata dell’esposizione, le opere continuano ad essere prestate all’esterno, spostate, catalogate. Con -2 +3 quello che il Museion mette veramente in mostra non sono le singole opere d’arte, ma la sua collezione e come questa sia un laboratorio di idee vivo e non un magazzino immobile. Con questa operazione si pone l’accento sull’importanza profonda degli archivi, che non risiede tanto o solamente negli oggetti che raccoglie, ma soprattutto nelle relazioni che tra gli oggetti ci sono. Un esempio architettonico di re-cycle che lavora concretamente con la nozione di archivio è quello del Matadero Film Archives degli architetti Churtichaga + Quadra - Salcedo. Il progetto, iniziato nel 2008 e concluso nel 2011, fa parte del più ampio complesso del Matadero, ex mattatoio della città di Madrid, oggi riconvertito in un imponente centro culturale mediante una grande operazione di recupero voluta nel 2003 dalla municipalità che vide nel Matadero un’occasione di recupero non solo delle volumetrie in sé, ma anche del patrimonio culturale madrileno. Quindi si comprende l’importanza assegnata a questo archivio cinematografico, contenente circa 7.000 film ed esteso per più di 2.500 metri quadrati. I tre piani su cui si articola la Cineteca includono, oltre all’archivio, due sale di proiezione, uno studio cinematografico, una terrazza per le proiezioni esterne, uffici e una caffetteria. Le sale di proiezione, così come l’archivio e i collegamenti verticali e orizzontali, sono avvolti internamente da una maglia di tubi per l’irrigazione riciclati, che portano una luce indiretta perfetta per visionare le proiezioni e ideale per la conservazione dei delicati materiali cinematografici, ricreando l’atmosfera semibuia e surreale dei film di fantascienza. In questo modo, il Matadero Film Archives si presta a sua volta a tornare quel che era prima del restauro: spesso il Matadero fu utilizzato durante il suo periodo di abbandono come set cinematografico, dove, tra gli altri, Pedro Almodòvar girò nel 1986 il film Matador. 65


«Ma dirò i capi di navi e tutte le navi. Dei Beoti Penèleo e Leito erano a capo, e Arcesílao e Clonio e Protoènore, Iría abitavano alcuni ed Aulide petrosa, e Scheno e Scolo, e il ricco di vette Eteone, e Tespia e Graia e Micalesso spaziosa; altri abitavano intorno ad Arma, a Ilisio, a Eritra; avevano altri Eleone ed Ile e Peteone, Ocalea e Medeone, borgo ben costruito, Cope, Eútresi e Tisbe dalle molte colombe; altri Coronea e Alíarto erbosa, e altri avevan Platea, e abitavan Gli santo, e avevano Ipotebe, borgo ben costruito, e Onchesto sacra, recinto nobile di Poseidone; altri avevano Arne ricca di grappoli, e Mídea e Nisa divina e la lontana Antedone; vennero di costoro cinquanta navi, in ognuna centoventi giovani dei Beoti eran saliti. Ma quelli che Aspledone e Orcòmeno Minio abitavano, di questi erano a capo Ascàlafo e Iàlmeno, figli d’Ares, che nel palazzo d’Àttore Azeíde, al piano di sopra, generò Astioche, vergine degna d’onore, al forte Ares; ch’egli le giacque accanto furtivo. Per loro trenta navi concave s’allineavano. E dei Focesi Schedío ed Epístrofo erano a capo, figli d’Ifito magnanimo Naubolíde; questi avevan Cipàrisso e Pito petrosa, Crisa divina e Daulíde e Panopeo, e ad Anemoria vivevano e a Iàmpoli, e presso il fiume Cèfiso divino abitavano, e avevano Lílaia, sulla sorgente del Cèfiso; costoro quaranta navi nere seguivano...»

Omero, Iliade, II, 493-760 (Il catalogo delle navi)

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6. CONTENUTO E ORGANIZZAZIONE. OGNI COSA Compreso il metodo con cui un archivio si può strutturare secondo una determinata volontà di scarto14, che agisce in prima battuta in fase di programmazione (dal momento che tanto più le intenzioni e i temi dell’archivio saranno di taglio rigoroso, tanto più si riusciranno a limitare gli scarti futuri) ci si è interrogati circa un’ipotetica catalogazione del dismesso incentrata sul valore che questo può avere. Per determinare questa potenzialità, si è prende spunto dal testo di Jean Baudrillard, La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi15. L’autore propone in queste pagine una trilogia del valore basandosi su tre leggi che a loro volta stabiliscono valori diversi. La prima legge presa in considerazione è la legge naturale che designa il valore d’uso dell’oggetto. La seconda legge è la legge mercantile che stabilisce il valore di scambio. La terza è quella strutturale, alla quale corrisponde il valore-segno (ovvero valido all’interno di un insieme di oggetti). A queste tre leggi (o stadi) Baudrillard ne aggiunge un quarto, ovvero quella frattale, o virale, o irradiata, secondo la quale: «il valore si propaga per pura contiguità, in tutte le direzioni e senza riferimenti. È un’epidemia del valore». Con un movimento analogo di propagazione del valore, si può immaginare che un intervento di re-cycle sia in grado di proporre soluzioni non solo valide per il singolo progetto che affronta, ma che si estenda e “risuoni” in tutta l’area circostante. Forse non è questa esattamente l’epoca dell’archivio, ma probabilmente è questa l’epoca in cui l’archivio più spesso viene reso mediatico, strumento di guadagno e di progetto. In questo senso, l’archivio associato al recycle diventa uno strumento di progettazione, articolabile secondo ampi paramentri come la localizzazione, la data di costruzione, la cubatura, l’accessibilità, l’ex-destinazione d’uso e la possibile nuova destinazione, la proprietà, il grado di abbandono e il relativo grado di riutilizzo, l’azione di re-cycle necessaria a rivalutare il dismesso. Per quanto riguarda questo ultimo punto, ci si riferisce a una lista di azioni possibili (riciclare, ridistribuire, ricostruire, rifare, rimediare, rinnovare, riusare, riparare, restaurare, riorganizzare, riformare, reinventare) che potrebbero essere utili linee per delle direzioni generali piuttosto che non delle soluzioni puntuali, come sembrano suggerire l’opera di John Baldessari Terms most useful in describing creative works of art (1966/1968) o il glossario di Richard Serra (Verb list, 1967/1968) o il lavoro di Carl Andre (Words for my works, 1967). 67


«L’analisi dell’archivio comporta dunque une regione privilegiata, che è al tempo stesso vicina a noi, ma differente dalla nostra attualità ed è il bordo del tempo che circonda il nostro presente, che lo sovrasta e lo indica nella sua alterità; è ciò che sta fuori di noi e ci delimita. […] La sua soglia di esistenza è instaurata dalla frattura che ci separa da ciò che non possiamo più dire, e da ciò che cade fuori della nostra pratica discorsiva; incomincia con l’esterno del nostro linguaggio; il suo luogo è lo scarto delle nostre pratiche discorsive. In questo senso vale come diagnosi».

Michel Faucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura

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7. L’ARCHIVIO È UN ATTREZZO Come nel libro di David Foster Wallace Tennis, tv, trigonometria, tornado gli elementi enunciati nel titolo sembrano essere accumunati semplicemente dall’allitterazione della lettera iniziale “t”, per capire il senso della fruizione dell’archivio, si potrebbe affermare che si attinge all’archivio non in forma di romanzo, ma in forma di raccolta, fino ad arrivare alla comprensione del sottotitolo che accompagna un titolo didascalico e chiarisce gli intenti dell’autore – della raccolta di saggi – Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più). Soffermandosi per un attimo sulle modalità con cui da sempre si fruisce dell’archivio, è possibile riscontrare come queste somiglino molto a quelle con le quali oggi si consulta il web. L’uso di un archivio da parte dell’utenza procede infatti per salti, per passaggi più legati all’analogia che alla logica di una causa-effetto, come in un libro diverso appunto da un romanzo da leggersi dalla prima pagina all’ultima. Queste che Umberto Eco chiamerebbe pertinenze impossibili o pertinenze pazze16, sono le stesse che stanno alla base della defininzione dei nessi secondo i quali può essere organizzato un archivio nascente. Pertanto si riscontra come l’analogia sia una modalità non solo di fruizione, ma anche di “fondazione” degli archivi, che in questa costruzione circolare hanno la capacità di determinare delle sorte di matrici attraverso le quali poter codificare la realtà e dare traccia per nuove ricerche. L’archivio aiuta quindi a trovare quegli interstizi in cui può inserirsi un'azione dirompente di frizione tra il passato (abbandonato) e il presente. In questo senso, l’archivio è un attrezzo che apre all’interazione con i processi della storia e, rendendoli più comprensibili attraverso una sorta di “scomposizione” dalla narrazione in cui essi sono calati, permette di identificare vie possibili nelle quali poterli ricollocare e metodi con i quali conferire nuovo senso a frammenti che lentamente sembravano averlo smarrito. Un pre-testo, un inizio a un possbile archivio dello scarto che parta da Venezia, è offerto dall’esempio sul territorio rappresentato dalle decine di chiese sconsacrate presenti sull’isola. Pertanto ci si è addentrati in quella sacra nube17 che avvolge l’isola, per quanto complesso è artcolato sia il concetto di sacro, e, di conseguenza, di sconsacrato18, che si riversa da pratiche “trascendentali” in muri, spazi i cui destini spesso vengono determinati da fatti molto terreni eppure capaci di mantenere la propria immensa qualità spaziale, in attesa di essere caricata di un senso nuovo. 69


«Tutto può divenire, con l’attività degli uomini e con il tempo, un archivio. Anzi, sembra proprio che l’esistenza stessa consista in due attività fondamentali: lasciare segni e raccoglierli per cercare di capirli».

Roberta Valtorta, Archivio dello spazio 2

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8. L’ARCHIVIO SANS PAPIERS L’archivio corre spesso il rischio di suonare come una struttura desueta, un’impolverata modalità di riordino del sapere o un vettore di cultura dalla consultazione stanca. Tuttavia il rumore che oggi producono argomenti come i big data, o l’attenzione che richiama il successo dei social networks, riportano al centro l’importanza strategica che può generare la costituzione di un archivio, essendo questi esempi altro se non dei bacini di informazioni digitalizzate, redatte e ordinate secondo precise categorie. Questa sorta di nuovi archivi, alimentati bulimicamente dagli utenti, producono una serie di sistemi economici che fanno della vertiginosa raccolta di dati la propria fortuna in un’architettura virtuale del controllo e, di conseguenza, del potere. Coerentemente con la natura degli archivi, onnivora e polimorfa, la tecnologia dell’informazione sembra sempre più presentarsi come l’espressione del sogno di poter accedere a una conoscenza illimitata, come le chiavi di accesso a un “palazzo enciclopedico”. Lo strumento attraverso il quale si è raccolto e organizzato il materiale per questo archivio, parziale e tendenzioso, è il progetto fotografico, che in modo riassuntivo ma ci si augura efficace, illustra il panorama attuale degli ex-edifici religiosi a Venezia. In questa operazione la modalità di pensiero adottata è quella della collezione di un bricoleur dal momento che l’archivio è uno strumento utile «a raccontare le discontinuità e a preservare le diversità»19. Accostati secondo parametri uguali su una stessa mensola (non a caso, una delle origini etimologiche alla quale si fa risalire il termine archivio è àrca, ovvero armadio) una serie di oggetti si faranno conoscere attraverso le proprie somiglianze e, di riflesso, attraverso le rispettive differenze. Nel tentativo di rendere una proposta di catalogazione coerente, si è ricorsi allo strumento fotografico come dispositivo di racconto e di ricognizione delle situazioni trovate, con l’intenzione di trarne indizi per nuove direzioni che gli elementi dell’archivio potrebbero intraprendere. Si è optato per questa via nel solco del noto sodalizio esistente tra architettura e fotografia, riferendosi con il termine fotografia a quella porzione di territorio di indagine più ampio della visual culture, che si è adoperata, rifacendosi alla traccia descritta da Michael Certeau, come una tattica del quotidiano.

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«L’esperienza umana è adesso più visuale e visualizzata di quanto lo sia mai stata nel passato: dalle immagini satellitari a quelle mediche delle sonde ecografiche che possono penetrare nel corpo umano. Nell’era degli schemi visuali il vostro punto è di vista cruciale».

Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale

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9. L’ARCHIVIO E L’IMMAGINE MONDO Osservando l’universo editoriale, sia cartaceo che digitale, sia patinato che ufficioso, attraverso codici sempre più unificati il manufatto architettonico parla di se stesso tramite la fotografia, come se lo scatto fotografico fosse l’ultimo step del progetto architettonico e ne diventasse il veicolo primo della propria immagine, carta di identità di un progetto subito consultabile e divulgabile attraverso la sua immagine. La fotografia precede l’esperienza dello spazio e riassume il racconto del progetto, compatta su un’unica lastra temporale tutti i momenti di vita di un’architettura. Per l’immediatezza del proprio messaggio, la fotografia si fa veicolo del racconto spaziale e della realtà architettonica che, a ragione di ciò, tende sempre più ad essere raffigurata piuttosto che rappresentata, come già Martin Heidegger, estendendo questo ragionamento all’immagine-mondo, asseriva: «L’immagine del mondo […] significa quindi non una raffigurazione del mondo, ma il mondo concepito come immagine. […] Non è che l’immagine del mondo da medioevale che era divenga moderna; ma è il costituirsi del mondo a immagine di ciò che distingue e caratterizza il Mondo Moderno». Le due discipline si contaminano certo a vicenda, come testimoniano le attuali tendenze artistiche – in primo luogo italiane20 – che rivolgono la loro attenzione a una fotografia di paesaggi urbani e antropologici, ma anche storicamente numerose esperienze, da quelle nazionali di Paolo Monti o Mario Carrieri, a quelle di oltreoceano di Berenice Abbott, evidenziano come il ricorso alla fotografia si sia giustificato quale dispositivo narrativo per la sua capacità di rendere visibili e comprensibili i mutamenti urbanistici di una città o le sue paralisi silenziose. Solo in un secondo momento, trasmigrato e assimilato dal mercato artistico, il progetto fotografico incentrato sull’architettura viene visto come arte, e l’arte come progetto. I fotografi che conducono un coerente colloquio con l’architettura sono infine quei fotografi che, secondo la distinzione operata da Szarkowski, non solo si sanno guardare allo specchio, riproducendo realtà intime e introspettive, ma che sanno osservare anche dalla finestra, con l’abilità di documentare quanto accade all’esterno, sentendosi contemporanei ed eppur estranei alla contemporaneità21.

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«Ma dove comincia il fuori? Questa domanda è la domanda dell’archivio. Forse non ce ne sono altre».

Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana

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10. CHIESE CHIUSE. UN PROGETTO FOTOGRAFICO Appunti di metodo Nel caso dell’archivio dello scarto applicato a Venezia, lo strumento fotografico è stato usato con un duplice livello di lettura. Gli elementi sono ordinati accostando scatti frontali dell’esterno delle ex-chiese a fotografie di particolari degli interni. Questo perché attraverso la struttura dell’archivio si intende innescare un ragionamento sul dentro e sul fuori delle architetture prese in considerazione, andando a catalogare la doppia identità di questo patrimonio in disuso. La lettura che ne scaturisce mostra, attraverso due modalità diverse di fotografare, come la vera opportunità offerta da questi manufatti sia conchiusa nei loro interni, spesso inaccessibili e ricchi di una spazialità potente, rara e in attesa di un nuovo destino. Il progetto fotografico è stato condotto analizzando quindi il rapporto tra interno ed esterno delle architetture, riconoscendo come valore principale delle ex-chiese veneziane proprio i loro interni, non solo per le cubature mediamente importanti, ma soprattutto per la qualità spaziale che esse offrono, celate e spesso insospettabili. Alle categorie interno/esterno, corrispondono due modalità completamente differenti di produzione delle immagini fotografiche: per gli esterni ci si è serviti di un metodo di rappresentazione rapido, che si fermasse al racconto delle superfici e restituisse l’idea di come di solito viene fruito il contesto degli oggetti studiati: estemporaneo ed epidermico. Ne scaturisce uno scatto che tiene le distanze dal soggetto, sempre frontale, che può raccontare le impossibilità di avvicinarvisi, le aperture a un’esplorazione, la varietà degli usi turistici, l’interminabilità di alcuni cantieri di restauro. Per quanto riguarda invece gli interni ai quali si è avuto accesso durante i sopralluoghi (quello della Chiesa di Sant’Andrea, della Chiesa di San Lorenzo, della Chiesa di San Fantin e della Chiesa di San Gallo), si è optato per una costruzione visiva composta da poche immagini d’insieme e molte immagini di particolari. Questi sono visti come frammenti che rivelano la propria potenza nel loro essere una sorta di figure retoriche: le immagini sono delle sineddochi indicanti la parte per il tutto, potrebbero appartenere a qualsiasi chiesa di Venezia (da qui la scelta di non esplicitare nelle didascalie il soggetto). Queste immagini compongono una delle possibili collezioni del fronte e del retro di un re-cycle veneziano.

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Note

Giulio Einaudi Editore, Torino 1986, p. 5. Interessante da parte dell’autore a questo proposito le definizioni di taumatopoietica o taumastica, ovvero l’arte di produrre meraviglie e miracoli. 12. Un classico esempio a questo proposito è il caso della shoah, che vede numerosi artisti lavorare sulla nozione di archivio come, per citarne una, Hannah Hoch. 13. Forster, W.K., Mazzucco, K., Introduzione ad Aby Warburg e all’Atlante della Memoria, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 10. 14. Si intende per volontà di scarto quel processo di sottrazione attraverso il quale, adottando anche vincoli di tipo volontario, si arriva dall’accumulo all’archivio con definizione delle sue precise finalità.La nozione di volontà di scarto è ampliamente descritta in Romiti, A., Archivistica generale, Civita Editoriale, Lucca 2003. 15. Baudrillard, J., La trasparenza del male. Saggio sui fenomeni estremi, SugarCo Edizioni, Milano 1990. 16. In Eco, U., Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 1995. 17. Concina, E., Le chiese di Venezia, L’arte e la storia, Magnus Edizioni, Udine 1995. 18. Definizione di sconsacrazione dai Canoni del Codice di Diritto Canonico, Can. 1212: I luoghi sacri perdono la dedicazione o la benedizione se sono distrutti in gran parte oppure destinati permanentemente a usi profani con decreto del competente Ordinario o di fatto. 19. Bourriaud, N., Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione, Postmedia Books, Milano 2014. 20. Basti pensare a casi come il fuoco selettivo che trasfigura le città in maquettes di Olivo Barbieri; le città calcificate che tutte si assomigliano di Vincenzo Castella; le rigorose narrazioni metropolitane di Gabriele Basilico; le descrizioni berlinesi drammaticamente dorate di Giovanni Chiaramonte; le minuscole storie postindustriali di Guido Guidi; gli scatti di architettura visionari di Mimmo Jodice e il lavoro di narrazione visuale di Francesco Jodice.

1. Derridda, J., Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 1996, p. 89. 2. Dalle lettera di Gustave Flaubert a A. L. Colet, 19 dicembre 1852, e a M.lle Leroyer de Chantepie, 18 marzo 1857. 3. Voce del termine bêtise, dizionario Garzanti, Milano 2007: I. stupidità, imbecillità; II. stupidaggine, sciocchezza, corbelleria; III. sciocchezza, inezia, bagattella. 4. Ci si riferisce qui all’introduzione al romanzo scritta da Franco Rella di Flaubert, G., Bouvarde Pécuchet (ed. or. Bouvarde et Pécuchet, Fasquelle, Parigi 1899), Feltrinelli, Milano 2014. 5. «Le tassonomie, dice (Saint-Hilare), non sono solo modi di ordinare, sono guide all’azione». Eco, U., Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 2008, p. 213. 6. Già le esperienze pregresse di assegni di ricerca condotti presso l’Università Iuav di Venezia nelle discipline altre rispetto al progetto architettonico, presentano un’attività consolidata e contraddistinta dalla trasversalità del tema dell’archivio che viene affrontato sia nell’ambito delle arti, della tecnologia o della moda (si veda a tal proposito il ruolo fondamentale svolto dagli archivi presso le case di moda, come le ricerche condotte all’interno dell’ateneo in collaborazione con il Lanificio Paoletti o la Marzotto testimoniano, o l’importanza delle librerie di autocad negli studi di architettura in fase di progettazione). 7. Franco Rella in Flaubert, G., Bouvarde Pécuchet, cit., p. 12. 8. La traduzione del termine è desunta dalla voce riferita ad archè del vocabolario greco-italiano Lorenzo Rocci, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1939. 9. Derivazione della parola in Romiti, A., Archivistica generale, Civita Editoriale, Lucca 2003, p. 120. 10. Franco Rella in Flaubert, G., Bouvarde Pécuchet, cit., p. 16. 11. In Brusatin, M., Arte della meraviglia,

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21. Scrive Giorgio Agamben in Che cos'è il contemporaneo (Nottetempo, Roma 2008): «Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese […] ma proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo». [Il saggio e il progetto fotografico qui riportati sono frutto dell'assegno di ricerca condotto da Sissi Cesira Roselli presso l'Università Iuav di Venezia (marzo 2014 marzo 2015) e finanziato dal Fondo Sociale Europeo. La ricerca è stata sviluppata in collaborazione con l'azienda Altevie Technologies, Regione Veneto, Comune di Venezia e Curia Patriarcale di Venezia. Responsabili scientifici dell'assegno: Prof. Renato Bocchi, Prof.ssa Sara Marini.]

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CHI ESE CHIUSE UN PROGETTO FOTOGRAFICO 79


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Cn

Dd D o r s o d u r o

C a n n a r e g i o

SM S a n

SP SC S a n t a

M a r c o

S a n P o l o

C r o c e

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Cs C a s t e l l o


Santa Teresa

Sant'Anna

Cs_02

San Vidal

Dd_03

Sant’Antonin

SM_05

Abbazia della Misericordia

Cs_01

Sant'Andrea della Zirada

Cn_04

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San Leonardo

SC_01

San Giovanni Novo

Cn_03

San Maurizio

SM_04

Santa Maria della Presentazione

SM_03

Santa Maria delle Penitenti

Cn_02

Santa Maria dei Servi

Cn_01

San Basso

SM_02

Santa Maria del Soccorso

Dd_01

SM_01

San Gallo

Dd_02

Diagramma degli ex-edifici religiosi di Venezia in ordine crescente di cubatura


Santa Maria Maggiore

Santa Maria del Pianto

San Lorenzo

Cs_05

Santa Maria della CaritĂ

Cs_04

San Gregorio

SC_02

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Santi Rocco e Margherita

Dd_10

Santa Giustina

Dd_09

Santa Caterina

SP_02

San Barnaba

Cs_03

SP_01

Santi Cosma e Damiano

Cn_05

Dd_06

San Fantin

Dd_08

Sant'Aponal

Dd_07

Santa Marta

SM_06

Santa Margherita

Dd_05

Dd_04

Santa Croce


SM _ 01

Dd _ 01

SM _ 02

Cn _ 01

SM _ 03

SM _ 04

6. santa maria della presentazione (zitelle)

Cn _ 02

Dd _ 02

Cn _ 03

SC _ 01

Cn _ 04

Cs _ 01

SM _ 05

Dd _ 03

Cs _ 02

Dd _ 04

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Dd _ 05

Dd _ 06

SP _ 01

SM _ 06

Dd _ 07

Dd _ 08

Cn _ 05

Cs _ 03

SP _ 02

Dd _ 09

Dd _ 10

SC _ 02

Cs _ 04

Cs _ 05

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SM_ 01

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Dd_ 01

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SM_ 02

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SC_ 01

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Dd_ 04

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Cs_ 04

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Cs_ 05

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In questa pagina e in quella precedente, illustrazioni tratte dal Manual of Surgical Bandages, Devices and Dressing, St. Petersburg 1859

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MANUALE DEL RECYCLE Vincenza Santangelo >IUAV

Una riflessione su come oggi gli scarti chiedono una revisione di sguardi, progetti e visioni; la ricostruzione dello stato dell’arte dello strumento del manuale, evidenziandone il progressivo inaridimento culturale; una disamina degli odierni manuali intorno al tema del re-cycle e l’esigenza di un loro ripensamento; l’individuazione di dispositivi del re-cycle partendo da una collezione critica di casi studio; un approfondimento su un manuale del re-cycle per la città di Venezia, apparentemente intoccabile e priva di occasioni, questi sono alcuni dei diversi tasselli che si incastrano, nell’intento di costruire un ragionamento sullo strumento di un possibile manuale del re-cycle per intervenire sul patrimonio di scarti che reclama sguardi, progetti, futuri.

Manuale dello scarto. (D)istruzioni per l’uso La condizione di crisi e l’affiorare della terza rivoluzione industriale hanno innescato una serie di processi che inevitabilmente hanno prodotto e continuano a produrre scarti materiali e immateriali, che nell’insieme costruiscono un patrimonio con cui il progetto deve fare i conti. Il dibattito sul 111


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re-cycle è sempre più denso, ma le coordinate per confrontarsi con questo patrimonio di scarti sono ancora incerte. Nel mare della bibliografia sul tema, dove volumi, saggi, articoli provano a circoscrivere le questioni teoriche e le ricadute nei differenti contesti attraverso l’individuazione e descrizione di molteplici fenomeni, proliferano i manuali che, con diversi approcci e declinazioni, cercano di dare “istruzioni” su come intervenire. A partire dallo scarto Ora più che mai gli scarti stanno mettendo in crisi il modo di guardare il nostro territorio, di progettare i nostri spazi, di immaginare il nostro futuro. Mettono in crisi gli ordini rigidi che lo governano, diventando allo stesso tempo domanda di nuovi modi di guardarlo, progettarlo e governarlo, esigendo un ribaltamento dello sguardo e uno scardinamento di economie e norme. 112


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Le situazioni di scarto non sono circoscritte nel tempo e nello spazio, ma sono parte di cicli più ampi e complessivi, intrecciandosi con altri cicli a diversi livelli, spesso sfasati. Molto spesso gli scarti sono gli effetti collaterali, spesso imprevisti ma talvolta anche lucidamente premeditati, di processi economici e sociali che trasformano i nostri paesaggi. Effetti di idee di città, di esperimenti urbani, di modelli importati da altre realtà, di progetti di modernizzazione, di susseguirsi di economie materiali e immateriali, di processi clandestini e illegali. Effetti che costruiscono nuove terre1. Nuove terre, ma allo stesso tempo a noi note. Sono le situazioni che quotidianamente attraversiamo, che abitiamo, che conosciamo, ma che ignoriamo e forse volutamente rendiamo invisibili allo sguardo, come se non ci appartenessero o riguardassero; è il perturbante che pur appartenendo alla nostra normalità quotidiana ci inquieta2. Pensiamo che una volta che tali oggetti e situazioni abbiamo raggiunto la data di scadenza, non essendo più utili cessino di esistere, inconsapevoli che allo scadere di una 113


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situazione ne entra in gioco un’altra, con un’altra data di scadenza, in una sorta di circuito chiuso3. Luoghi sicuramente non asettici, ma spesso teatri di azioni individuali, economie sommerse spesso anche illegali, situazioni marginali, dispositivi temporanei che ogni giorno sovvertono il senso di questi luoghi. Gli scarti vanno prima di tutto “rivelati” a noi stessi e quindi il primo passo è osservarli con uno sguardo consapevole, perché ci riguardano più di quanto ammettiamo, e anche con un atteggiamento più laico. Quando lo sguardo diventa progetto, si è chiamati non solo confrontarsi con delle situazioni di scarto, ma anche con le riparazioni e le tecniche di adattamento messe in atto dal basso e con la necessità di sperimentare nuovi linguaggi e forme architettoniche. In questo mare ancora incerto dello scarto con le sue declinazioni, qualche istruzione per l’uso può aiutare nella navigazione.

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Sul manuale La parola manuale deriva dal latino manuàlem, da mànus (mano), indicando ciò che era stato fatto a mano, ma anche qualcosa di maneggevole, da portare facilmente con sé4, sottolineando l’esigenza di averlo sempre a portato di mano dettata anche dalla frequenza d’uso. Nonostante una versione acerba dell’attuale significato sia possibile riscontrarla nell’Encheiridion o Manuale di Epitteto, compendio di massime e insegnamenti morali, o ne L’Oráculo manual di Baltasar Gracián del 1659, che dava precetti per gente di corte, è solo tra l’Ottocento e il Novecento che si afferma il significato moderno e corrente del termine, con il moltiplicarsi dei volumi monografici, propedeutici, di volgarizzazione, che in piccoli formati racchiudevano la trattazione sistematica di una determinata disciplina, arricchiti con raffinate illustrazioni. A cavallo fra gli anni Quaranta e Sessanta il manuale diventa lo strumento per eccellenza per la descrizione e la diffusione di istruzioni sui saperi 115


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più disparati, anticipando la contemporanea disciplina dell’infografica. Gli esempi sono centinaia, ma basta citare: il Recognition Pictorial Manual5, realizzato dall’United States Military durante la Seconda Guerra Mondiale per fornire ai militari indicazioni per l’identificazione delle flotte, incentrato sul concetto di recognition basato su un addestramento visuale attraverso un registro grafico con pittogrammi in bianco e nero illustranti i vari elementi; i manuali d’uso dei prodotti delle più prestigiose aziende industriali, come quello realizzato per la macchina da scrivere Lettera 22 della Olivetti, dove la grafica raffinata di Xanti Schawinsky trasforma un oggetto generalmente utilitario in prezioso; i manuali realizzati negli anni Trenta e Quaranta negli Stati Uniti dai dipartimenti pubblici per rispondere a determinate urgenze6, come l’Industrial Camouflage Manual7, per il camouflage di edifici già esistenti o da realizzare, o le linee guida della Farm Security Administration, per creare degli insediamenti rurali in aree sottosviluppate8 come risposta alla grande crisi del ’29 che aveva creato milioni 116


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di disoccupati, che non solo riconoscono e sollevano una questione, ma provano anche a darne una possibile risposta attraverso dei manuali nei quali emerge una ricerca culturale, un’ibridazione delle discipline, una ricerca grafica che ne consenta la trasmissione ad un pubblico eterogeneo. Manuali che hanno sicuramente assolto la loro funzione di organizzare e restituire istruzioni e informazioni in merito ad uno specifico argomento in un determinato contesto storico e culturale, ma che restano ancora oggi, a distanza di decenni, cartine al tornasole di vicende specifiche che hanno segnato la modernità e oggetti preziosi da ricercare e collezionare. L’introduzione della parola “manuale” nella lingua italiana, nel suo significato contemporaneo, si deve all’editore Ulrico Hoepli che conia appunto il termine, traducendo così la parola inglese handbook, dando avvio alla fortunata collana dei Manuali Hoepli9, iniziata nel 1875 con il Manuale del tintore di Roberto Lepetit, ma il cui titolo più famoso resta il Manuale dell’ingegnere di Giuseppe Colombo, uno dei protagonisti dell’industrializzazione 117


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lombarda. Nella collana, che fra il 1875 e il 1971 pubblica più di duemila titoli, i contenuti tecnici erano centrali ma non esclusivi: attorno ad essi era organizzato ogni campo del sapere, dalla storia della letteratura bizantina allo studio delle malattie mentali, mettendo in gioco inattese ibridazioni disciplinari e una grande attenzione per la grafica e le illustrazioni. Nonostante l’estromissione dei Manuali Hoepli dalla cultura dell’editoria e il velato disprezzo degli storici e intellettuali, Hoepli è riuscito con un coraggioso sforzo editoriale a tessere un’articolata rete dei saperi più disparati, creando una sapiente attività di collegamento con i centri organizzativi della cultura tecnica, ingegneristica e specialistica, avvalendosi soprattutto degli apporti delle culture transalpine (in particolare quella tedesca e anglosassone). Vengono coniati e introdotti nuovi termini: abrasivo, automobilista, fotocopia, radiocomunicazione, telepatia, ecc. Si amplia sempre più il numero dei lettori; il macchinista, l’agronomo o il letterato attingono a manuali nello stesso luogo editoriale. Prodotto e insieme sim118


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bolo di questo sforzo di integrazione tra settori diversi del sapere e del fare sapiente, attraverso i manuali appare in filigrana l’Italia che si trasforma: lo sviluppo della dimensione industriale, il processo di urbanesimo e abbandono delle campagne, la tecnicizzazione dell’agricoltura, la razionalizzazione dell’abitare, l’infrastrutturazione del territorio. A partire dalla fine degli anni Settanta il manuale inizia a subire un progressivo processo di scarto dai circuiti teorici e culturali, affermando sempre più una natura specialistica, a tratti asettica e forzatamente tecnicistica, e riducendo in tal senso anche il ventaglio dei possibili lettori. La teoria e le questioni culturali tendono sempre più a scomparire dai manuali rimanendo sullo sfondo; norme, regole, numeri, rappresentazioni anonime diventano il corpus dei manuali, perdendo di senso dopo periodi sempre più a brevi all’evolversi delle condizioni e delle normative vigenti; la volontà di produrre un oggetto con una sua estetica e l’attenzione alla comunicazione grafica cedono il passo ad un prodotto a tratti anche dozzinale con la 119


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convinzione che ciò lo renda accessibile ad un pubblico più ampio. Da strumento capace di intercettare i cambiamenti e oggetto prezioso e raffinato da conservare con cura anche quando non ha più una validità d’uso, oggi il manuale si imbriglia in tecnicismi e si appiattisce, diventando uno strumento con una data di scadenza sempre più breve dopo cui buttarlo via. Manuali del re-cycle Generalmente un manuale viene creato quando emerge una nuova questione che richiede istruzioni per essere meglio compresa e gestirne le ricadute pratiche nella quotidianità. Come le indicazioni dei manuali sui mestieri risentivano dell’epoca che li aveva prodotti, anche gli odierni manuali risentono della condizione contemporanea segnata dalla crisi. Specularmente ai dibattiti in corso e alle diverse posizioni che si stanno consolidando intorno al tema del riciclaggio, si introducono manuali con 120


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differenti approcci, orientamenti, spesso anche dettati dall’approccio culturale del paese di provenienza. I dibattiti ambientali-ecologici sempre più accesi e gli orientamenti verso tecnologie sempre più futuristiche hanno determinato la creazione di un vasto numero di manuali di riciclaggio architettonico, dove la questione è interpretata come riutilizzo degli scarti di svariati processi produttivi all’interno di progettazioni ex-novo, comunicata attraverso collezioni di sperimentazioni progettuali e brevetti. Per tutti vale il manuale Superuse10 dei 2012 Architekten, incentrato su alcuni materiali di scarto e strutturato sulla disamina di alcuni casi studio su piccole scale ibridando architettura e design, sostanziati da interviste dove emerge l’ostacolo economico e la scarsa diffusione del riciclaggio anche fra gli addetti ai lavori. L’onda del DIY (do it by yourself)11 ha portato alla proliferazione di manuali che cercano un ponte fra strumenti formali e azioni informali, nell’intento di far applicare alcune delle strategie direttamente ai soggetti privati e 121


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farle arrivare ad una fetta più ampia di popolazione. Fra gli ultimi il manuale A2 Green Guide che illustra in maniera semplice ed immediata diverse “strategie quotidiane” del riciclaggio che ogni cittadino può mettere in pratica, nato da un’iniziativa della municipalità di Ann Harbor che ne ha favorito la diffusione attraverso la stampa e la distribuzione gratuita di 10.000 copie ai cittadini12. L’affermarsi del segno “meno” piuttosto che del segno “più” in architettura, sta ormai orientando alcuni manuali verso il tema della demolizione. In larga parte sono di matrice statunitense13, dove molto spesso i promotori sono le stesse municipalità come ad esempio il Construction and Demolition Waste Manual promosso dal Department of Design and Construction della città di New York14. Destinato sostanzialmente alle amministrazioni, introduce l’urgenza di confrontarsi con la demolizione all’interno dell’ampio progetto di rigenerazione della città, illustrando attraverso casi studio le strategie possibili e le azioni da compiere, soprattutto sotto il profilo 122


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normativo ed economico. Nonostante la varietà e la quantità, gli attuali manuali intorno al tema del re-cycle segnano la persistenza di uno strumento che ragiona e restituisce logiche monodiscisplinari; le scale del progetto lavorano o sulla grande dimensione o sul dettaglio tecnologico, evidenziando un vuoto su ciò che sta nel mezzo; si lavora sugli oggetti scartati, piuttosto che sui processi entro cui si collocano e sugli interi cicli di vita; il re-cycle entra in gioco solo dopo che è finito il ciclo di vita utile dell’oggetto, trascurandone le opportunità preventive in fase di progetto; i soggetti continuano ad avere contorni molto sfumati, altalenando solo fra gli incerti termini “pubblico” e “privato” e tralasciando le occasioni di azioni sinergiche. L’assorbimento parziale, se non addirittura insufficiente, del tema del recycle nel dibatitto e progetto contemporaneo è reso ancora più evidente dalla sua totale assenza nei manuali di architettura. Nella più recente edizione del Manuale dell’Architetto non vi è traccia dell’esigenza di con123


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frontarsi con il segno meno in architettura e con i progetti di intervento sull’esistente. Nel Manual for emerging architects, che dovrebbe preparare i giovani architetti al mondo del lavoro, si continua a procedere come se la crisi del mercato delle costruzioni non fosse una realtà concreta. Lo stesso Rem Koolhaas in Fundamentals, aggira il crollo della modernità e forse della stessa contemporaneità, tornando agli elementi compositivi del progetto architettonico. Come del resto prova a fare anche la rivista Inventario che in alcuni numeri ha un editoriale che prende proprio il nome di Manuale dell’Architetto15 dove diversi autori provano a dare indicazioni su alcuni elementi: finestre, alberi, ecc. come una sorta di archivio critico costruito attraverso una collezione di esempi che spesso si muovono a cavallo fra arte e architettura. Partendo proprio da una riflessione su questa lacuna negli attuali manuali architettonici e dall’esigenza di rivedere lo strumento stesso del manuale, nasce l’occasione per provare a costruire un manuale del re-cycle che 124


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ne sovverta concetti e ne scardini impostazioni, mettendo in campo nuovi sguardi e approcci più aderenti a quelle che sono le questioni dettate dal re-cycle. (D)istruzioni per l’uso In questo frangente può essere utile guardare l’Operating manual for spaceship earth di Buckminster Fuller. Pubblicato nel 1962, è considerato un testo precursore della biodiversità e del concetto di ecologia, in cui la terra è vista come un’astronave fragile dalle risorse limitate e ormai in esaurimento, e ciò spinge a dare delle “istruzioni” per il futuro. L’approccio non è arido e tecnicistico, ma partendo dalla costruzione di un punto di vista, intreccia le questioni con le azioni da mettere in campo. Destinato agli “addetti ai lavori”, ha invece avuto una diffusione in tutti i campi del sapere, restando a distanza di anni una lucida e ancora attuale riflessione su delle emergenze del nostro pianeta. Un manuale quindi dove si interse125


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cano le discipline, si va oltre l’aridità del numero e la rigidità della norma, non si ha una data di scadenza dell’originalità e validità del punto di vista. Allora forse per costruire un manuale sul tema del re-cycle diventa necessario in prima istanza ragionare sulla “distruzione” della logica granitica che caratterizza oggi questo strumento, con approcci troppo tecnicistici e asettici entro cui l’insieme di numeri e norme diventa inutile al cambiare delle condizioni al contorno; provare a smontare la rigida monodisciplinarietà per recuperarlo come strumento in grado di essere territorio di confronto e ibridazione disciplinare, dove il progetto si intreccia ad esempio come i saperi dell’economia e del diritto, facendo emergere opportunità ma anche paletti; verificare l’opportunità di riciclare gli attuali manuali sul tema per reinventarne uno in grado di individuare orizzonti più ampi per intervenire su architetture, città, paesaggi.

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Dispositivi. Sovvertire le regole del gioco I territori dello scarto, materiali e immateriali, costruiscono una nuova geografia che inizia a diventare una sorta di “terzo paesaggio”16 per il progetto di architettura e non solo17. Queste nuove terre18, esiti dei cicli di trasformazione dello spazio e del susseguirsi di diverse logiche economiche, sono un terreno fertile per sviluppare una serie di esperienze progettuali, trasformandoli in laboratori dove sperimentare inedite strategie, azioni e progetti e esercitare una creatività più ampia, impensabili per gli spazi dove è consolidato una sorta di marketing architettonico. Nuove terre dove per poter innestare nuovi dispositivi devono spesso confrontarsi che le tattiche19 che nel frattempo sono state in atto dal basso, assorbendone il carattere sovversivo, ma anche la domanda latente che nei fatti questi pongono al progetto dall’alto. Nuove terre dove sovvertire le regole del gioco20, trovando nelle deroghe e nelle eccezioni, nelle pieghe delle normative granitiche imposte dall’altro e nelle contraddizioni burocratiche le 127


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modalità per mettere in campo un nuovo modo di giocare le diverse partite delle situazioni di scarto, sovvertendo il senso degli spazi e creando situazioni inedite e inattese21. Collezionare e riguardare criticamente le esperienze contemporanee che si misurano con il patrimonio dello scarto, riallacciandosi a molteplici filoni di ricerca teorici e progettuali, consente di tracciare delle tendenze, esplorare delle linee possibili di azioni praticabili, orientare differenti strategie, azioni e progetti, che attraverso l’uso di differenti politiche provano a far reagire le molteplici risorse piÚ o meno latenti delle situazioni di scarto, individuando dei dispositivi che quindi siano trasversali alla tipologia e alla condizione di scarto e in grado di ragionare sulle ricadute economiche e normative. Tendenze da intendersi come solchi retorici, che negli esiti reali sfumano i loro contorni, fino a intrecciarsi e sovrapporsi, da sovvertire di volta in volta in un processo aperto.

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Soft post-production La precaria congiuntura economica e l’incalzante dibattito sui temi del re-cycle segnano uno spostamento dell’ago della bilancia delle politiche contemporanee di intervento sul patrimonio esistente dalle azioni di demolizione e costruzione ex-novo ad azioni di “post-produzione” dei manufatti. Nel 1999 Nicolas Bourriaud, cofondatore e direttore del Palais de Tokyo fino al 2005, introduce il termine “post-produzione”22 per indicare la pratica artistica contemporanea di reazione al caos della cultura globale nell’era dell’informazione, dove si elaborano forme e concetti attraverso operazione di editing su ciò che già preesiste. Per il concorso del Palais de Tokyo, palazzo per le esposizioni costruito nel 1937 deteriorato dal susseguirsi degli interventi di trasformazione, Lacaton & Vassall partecipano una proposta di “soft post-production” perfettamente in linea con l’orientamento culturale di Bourriaud e con le limitate risorse economiche a disposizione. La loro proposta, risultata poi vincente, valorizzava le caratteristiche 129


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formali ed estetiche del manufatto, intervenendo solo attraverso delle trasformazioni minime per garantire accessibilità e sicurezza, adeguata all’esiguo budget a disposizione. Dal Palais de Tokyo, fino ad altri esempi che si sono mossi nello stesso solco, traspare come la soft post-production è da intendersi come un dispositivo innescato attraverso azioni minime che preservano l’atmosfera della struttura preesistente, enfatizzando le originali qualità degli spazi sia in termini materiali che immateriali; dove l’aggiunta di pochi elementi è per l’aggiornamento degli impianti e della fruibilità alle esigenze contemporanee, ma anche ad una sorta di funzione di segnalazione della trasformazione operata; che entra in gioco anche per periodi temporanei, in attesa della decisione di un destino di medio-lungo periodo per il manufatto; dove viene messa in campo una sostanziale riscrittura del funzionamento mettendo in gioco processi che rendono gli spazi cangianti e flessibili pronti ad accogliere attività mutevoli23 ma anche nuove forme di gestione ed economie. 130


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Roof extention Nelle città il tetto sembra quasi rappresentare lo spazio che consente di lavorare con un senso di liberazione da quelli che sono i vincoli imposti dal livello zero e mettere in gioco delle sperimentazioni inedite24. Dall’attico Beistégui di Le Corbusier ad esempi contemporanei come la Didden House di MVRDV25, senza tralasciare le superfetazioni informali che caratterizzano le metropoli di tutto il mondo, la roof extension è il dispositivo che sembra dare una possibile risposta ai problemi dettati dalla densità, dando spazio a residenze, giardini e playground, scuole, hotel, negozi, ecc., costruendo nell’insieme una sorta di “roofcity” che si alza al di sopra della città, richiamando la Villa Spatiale di Yona Friedman26. Ma la roof extention è anche il dispositivo che consente operazioni di recycle che vanno oltre la demolizione o la preservazione integrale dei manufatti esistenti. Tra il 1968 e il 1970 Superstudio elabora la Sopraelevazione del Colosseo all’interno del più ampio progetto Monumento Continuo, dove 131


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ciò che resta dell’anfiteatro romano, già soggetto a molteplici manomissioni nel corso dei secoli, diventa portatore di una nuova carica simbolica attraverso la sua sopraelevazione nello skyline romano, che lascia immutata la preesistenza e semplicemente la reinventa attraverso l’addizione di un volume. Evitare l’alterazione dell’edificio preesistente, sia all’interno che all’esterno, preservando la volumetria e il carattere generale è una delle questioni che maggiormente si pone quando si deve intervenire su una preesistenza soggetta a degli specifici vincoli. Lavorare sul “sopra”27 diventa allora l’astuzia che consente di aggirare l’ostacolo, riciclando ciò che esiste lasciandolo totalmente senso ma configurando un manufatto con un senso del tutto nuovo. Masking Christo inizia ad impacchettare con tessuti oggetti dell’uso quotidiano (scarpe, telefoni, ecc.) nel 1958 fino ad arrivare con la compagna Jeanne132


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Claude a edifici monumentali e porzioni di paesaggi, che acquistano una nuova identità. La struttura e le proporzioni dell’oggetto originario non vengono negate e alterate, ma enfatizzate con un nuovo senso, dove il nascondimento diventa lo svelamento. Dalle esperienze artistiche di Christo e Jeanne-Claude alle sperimentazioni architettoniche il passo è breve dato che spesso l’arte intuisce prima dell’architettura le utopie praticabili28. Il mascheramento, sia in natura che in guerra29, consente di sfuggire all’avvistamento nemico, ma nell’arte e nell’architettura diventa quasi una sorta di soluzione non conflittuale, che tende a creare un’immagine finale capace di mascherare ciò che è controverso o indesiderato30. Impacchettare, mascherare, coprire nei progetti di re-cycle diventa il dispositivo che consente di occultare costruzioni senza qualità, camuffare edilizia anonima, riabilitare spazi conflittuali, ma anche di salvaguardare ciò che preesiste con una reversibilità alla situazione originaria pressoché 133


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totale. Come afferma Tschumi per Le Fresnoy: «Conceptually, we see the project as a succession of boxes inside a box»31. Il dispositivo di masking non fa altro che inscatolare la preesistenza, mascherando il contenuto ma lasciandolo intuire, mettendo in scena la sparizione dell’oggetto. Assemblaggio Garbage Housing di Martin Pawley32 offre un doppio ordine di lettura: un attacco alle modalità costruttive e speculative dell’housing, ma anche la proposta di lavorare sul riciclo di materiali di scarto e riassemblaggio per creare nuove residenze per i cittadini. Oggi il riutilizzo di materiali di scarto di alcuni processi produttivi per reinventarli in molteplici spazi dell’abitare contemporaneo ha forse perso la sua carica sovversiva e innovativa, diventando una pratica ormai comune, spesso anche volutamente leziosa. Al di là dei progetti puntuali di recupero e assemblaggio di singoli elementi, diventa interessante osservare 134


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operazioni che provano ad andare oltre, articolando processi più complessi e strettamente aderenti alle logiche economiche e produttive dei luoghi, come ad esempio Villa Welpeloo e Opalis. Nel caso di Villa Welpeloo33, al di là del tipo di materiali di scarto utilizzati e il risultato finale del progetto di assemblaggio, ciò che interessa è la creazione di una “harvest map” che rintraccia tutti gli scarti nel raggio di 15 km per poter abbattere i costi di trasporto, sollevando anche una riflessione su quello che è il processo di disassemblaggio dei materiali iniziali di scarto ma anche dell’eventuale esigenza di dover disassemblare la struttura finale, dell’assenza di questi materiali nei capitolati di descrizione, delle modalità di trasporto e deposito in cantiere. Opalis34, creato dal collettivo Rotor, è invece un archivio online dei materiali scartati e dei rivenditori di scarti della provincia di Brussels, sostanziata anche da consigli su come farli rientrare nei processi edilizi, provando a rispondere all’esigenza per un progettista o costruttore di non sapere dove reperire 135


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materiali di scarto e di che genere. Il dispositivo dell’assemblaggio apre numerosi orizzonti e possibilità a tutte le scale, ma richiede anche approfondimenti più mirati che vadano oltre l’occasioni e consentano di mettere in campo processi che da straordinari possano diventare ordinari all’interno del ciclo progettuale e costruttivo. Addomesticamento Silos, gasometri, torri delle acque, gru sono gli elementi ricorrenti ed identificativi dei paesaggi industriali delle città contemporanee35. Nell’era della post-produzione questi manufatti pensati per ospitare segmenti di svariati cicli produttivi, tramutano di senso diventando scrigni della memoria industriale di questi luoghi. Questi stessi luoghi sono oggi le aree maggiormente interessate dai masterplan di rigenerazione urbana e oggetto di pressanti speculazioni immobiliari, spesso incuranti di ciò che resta e orientati a fare tabula rasa. 136


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L’alternativa alla tabula rasa, che comincia a prendere piede in differenti contesti, è innescare dispositivi di addomesticamento per alcuni elementi rappresentativi del passato produttivo: i manufatti industriali da contenitori di merci e funzioni produttive accolgono l’uomo e nuove dimensioni domestiche, attraverso l’introduzione di nuovi linguaggi e pratiche e la manipolazione delle scala del manufatto per adeguarla a quella dell’uomo. Oggetti e costruzioni non ideate per essere abitate dall’uomo, si prestano oggi all’architettura come nuovi spazi domestici36. Il primo passo è un addomesticamento intellettuale37 con azioni impreviste, capaci di rompere l’involucro e sovvertirne il senso: da spazio negato all’uomo a spazio calibrato per l’uomo, ma parallelamente per innescare l’addomesticamento è anche indispensabile ricercare e costruire un forte appoggio con la pubblica amministrazione per poter sbloccare i vincoli burocratici a cui sono soggetti questi manufatti, per rendere possibile una dimensione abitativa e delle destinazioni d’uso di pubblica utilità. 137


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Infill In agraria l’innesto è l’operazione «con cui si fa concrescere sopra una pianta una parte di un altro vegetale della stessa specie o di specie differenti al fine di formare un nuovo individuo più pregiato o più produttivo o più giovane»38. Nella sfera progettuale l’innesto può essere equiparato al dispositivo di infill39, in cui data una preesistenza vi si introduce un nuovo elemento che ne modifica il senso, aggiornandola alla contemporaneità e aumentandone il valore, ma lasciando leggibile – e spesso intatta – la struttura originale. È quello che viene anche definito “effetto Matrioska”, dove una cosa incorpora l’altra o anche l’una genera l’altra, evidenziano sia la dimensione fisica che temporale40. Innescare il dispositivo di infill apre ad un ventaglio di opportunità, soprattutto perché molto stesso consente la totale reversibilità dell’intervento e il ripristino integrale delle condizioni iniziali, ma allo stesso tempo implica anche confrontarsi, e spesso anche scontrarsi duramente, con quelli che 138


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possono essere dei regimi normativi che negano la possibilità di modificare ciò che preesiste – perché spesso soggetto a vincoli di natura storicoculturale che non consentono alcun tipo di modifica – per innestarvi delle nuove progettualità capaci di far reagire la struttura originaria. In Italia gli ostracismi delle soprintendenze ridimensionano ogni intenzione di sperimentazione di dispositivi di infill o qualsiasi altra modifica, in Gran Bretagna e Germania, il vincolo storico-culturale di un bene non impedisce interventi di re-cycle, che quindi consentono interessanti sperimentazioni capaci non solo di salvaguardare la preesistenza ma anche di inserirla in un nuovo ciclo di vita, in una dimensione contemporanea. Duplicazione La parola “duplicazione” deriva dal latino duplicatio -onis e indica sommariamente l’atto di “raddoppiare”, cioè rendere, fare doppio, ingrandendo, prolungando, aggiungendo la stessa quantità, ripetendo41. La duplicazione 139


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nella sfera architettonica ha attraversato i secoli42, presentandosi sotto molteplici declinazioni: la duplicazione esatta delle chiese di San Cristina e San Borromeo in Piazza San Carlo a Torino, il raddoppio delle Twin Towers nello skyline di Manhattan, il rapporto dialettico fra pieno e trasparente delle John Hejduk Memorial Towers. Duplicazione, raddoppio, gemellaggio, fotocopia, riproduzione: non si tratta solo di una semplice ripetizione dell’elemento in un gioco di simmetrie spaziali, quando piuttosto mettere in gioco elementi indipendenti, ma con delle forti relazioni fra di loro. Nella sfera del re-cycle l’impossibilità di intervenire sulla preesistenza per problemi strutturali o per restrizioni storico-culturali ma anche l’esigenza di ampliare gli spazi trova una possibile risposta nella duplicazione che consente di riprodurre, senza emulare, il manufatto iniziale, esaltandone le caratteristiche e reintepretandole in un nuovo elemento. Il tutto viene giocato sulle relazioni e sugli spazi che si creano fra i due manufatti, sulle 140


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alterazioni dell’elemento originale nel nuovo elemento, nei contrasti fra i diversi materiali e tecniche costruttive, creando un dialogo fra i due manufatti, senza tuttavia innescare una competizione. Greening Nel lavoro fotografico per Archivio dello Spazio43 Walter Niedermayr punta lo sguardo su ciò che resta dei processi di trasformazione del territorio lombardo, mettendo a fuoco come la natura lentamente si riappropria dello spazio sottratto dall’uomo per i suoi manufatti. Dallo sguardo sulla natura che avanza al progetto di una riappropriazione controllata della natura dei manufatti dismessi il passo è stato breve. Le teorie del terzo paesaggio che avanza trasformando la terra in uno sconfinato giardino planetario44, giardini verticali che si arrampicano sulle facciate arrivando a colonizzare i tetti45, gli orti che tornano nelle città come risposta alla crisi economica46 costruiscono un filone culturale e 141


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progettuale dove il verde consente di inglobare il carattere frammentario e discontinuo dello spazio contemporaneo, accogliendone tutti gli eclettismi e le scomposizioni, attenuandone i conflitti e le frizioni. L’architettura sparisce47 lasciando il passo a processi di rinaturalizzazione, sanando i sensi di colpa verso gli oggetti scartati e rifiutati con una sorta di potere etico purificatore che mette tutti d’accordo. De-costruzione Azioni di de-costruzione su manufatti abbandonati sono state la cifra dei lavori Splitting (1974)48 e Day’s End (1975)49 di Gordon Matta Clark. I buildingcuts creano delle spaccature nella spazialità degli edifici, rielaborando un nuovo ordine percettivo e una diversa opportunità di abitare uno spazio con tagli e vuoti, ma diventa anche una forma di sovversione verso determinati paradigmi sociali, economici e politici. A riguardo Matta Clark scrive:

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«Penso ad essi come a qualcosa di potenzialmente funzionale. Non c’è alcun motivo perché una persona non dovrebbe essere in grado di vivere in quel luogo. Sarei molto interessato a realizzare dei tagli in luoghi ancora abitati. Questo potrebbe cambiare la vostra percezione e sicuramente potrebbe alterare molto il concetto di privacy. Potrebbe essere una risposta concreta alla risoluzione di molti problemi spaziali. Attraverso i buchi. Sì, uscite fuori!»50

La de-costruzione mette in gioco nuove opportunità per ripensare o creare nuovi spazi, sovvertendone il senso e introducendo inediti modi di abitarli. La distruzione diventa nuova forma di progetto51, forse più aderente alle attuali condizioni economiche che si spostano verso il segno “meno”, introducendo la decostruzione nei diversi cicli di vita del manufatto e reimmettendone gli scarti all’interno del processo stesso o di altri. Non a caso la municipalità di New York ha redatto un manuale di demolizione52, la rivista del mese di novembre del padiglione portoghese della XIV Biennale di Architettura di Venezia mette in primo piano la demolizione come soluzione praticabile e auspicabile, il governo spagnolo avanza una proposta 143


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di legge per demolire gli edifici residenziali non completati a causa della crisi. Segnali che annunciano un prossimo futuro dove più che aggiungere sarà necessario sottrarre e fare i conti con le macerie.

Venezia vs Venice. La partita del re-cycle In un’illustrazione di Aldo Manuzio per Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna del 1549 Venezia è un labirinto d’acqua fortificato, da cui affiorano pochi elementi riconoscibili, lasciando sommerso e nascosto tutto il resto. Venezia è ancora un labirinto inestricabile e il nascondimento la sua cifra. È fra le città più visitate al mondo con i suoi venti milioni di turisti l’anno, coprendo quasi l’intero fatturato del Veneto; è strafotografata e riprodotta, creando un’overdose di rappresentazioni; è copiata e incollata in ogni continente con repliche esatte o ambientazioni evocative; è il luogo dove la competizione degli spazi diventa feroce. Eppure nonostante sia 144


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costantemente sotto i riflettori è anche la città che più di ogni altra maschera luoghi in attesa di un nuovo destino. Chiese sconsacrate da anni per mancanza di fondi e di fedeli, incastonate nei fitti sestieri veneziani, spesso con annesse preziose corti o giardini incolti celati dietro muri invalicabili; ex-laboratori o magazzini memoria del passato produttivo di Venezia prima dell’esodo verso la terraferma; edifici per uffici o depositi dell’area portuale chiusi da anni e invasi dalla vegetazione; spazi che vengono occupati e utilizzati solo per brevi periodi dell’anno, restando completamente inutilizzati e chiusi nei restanti; vuoti in attesa della realizzazione di progetti rimasti sulla carta e sfumati nel corso degli anni. Rintracciare questi spazi significa riscoprire nuove possibilità per Venezia, soprattutto in un momento in cui l’eccellenza internazionale cerca una vetrina unica e la crisi dell’urban sprawl determina un ritorno abitativo e produttivo nel centro. Se le strategie del re-cycle si affermano nel progetto contemporaneo e 145


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trovano spazio in differenti contesti, la fragilità veneziana, dietro cui si nascondono precisi interessi e silenziose pressioni, non consente un re-cycle disinibito né un manuale generico. Se il re-cycle non è riuso o ristrutturazione, funzionando con logiche altre, e quindi non è ingabbiato in un rigido registro normativo, allora diventa possibile procedere con uno sguardo obliquo per scovare nell’intricato labirinto veneziano le occasioni di scarto, infilarsi con astuzia nelle smagliature normative per aggirare l’ostracismo burocratico, mettere in campo dispositivi di re-cycle capaci di costruire nuove visioni veneziane. (Contro)indicazioni Se l’eccezione è per definizione ciò che si sottrae alla norma, allora Venezia può considerarsi a pieno titolo come la città dell’eccezione. È un’isola dove le strade e piazze assumono il nome di calli e campi e dove il sistema di numerazione toponomastica è diverso da quello a cui siamo abituati. È 146


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un’isola dove le auto non possono circolare, costringendo a spostarsi a piedi o in barca. È un’isola dove l’imbarcazione tipica, oltre che unica, è la gondola che si muove veloce e leggera per i canali, sfidando la statica con la sua asimmetria. È un’isola dove spesso gli interventi di modificazione procedono per deroghe alle norme, innescando processi spesso invisibili e sommersi, ma non per questo meno incisivi. È un’isola in cui il re-cycle si è sempre fatto consentendo alla città di reinventarsi riciclandosi ciclicamente, dal punto di vista materiale che di senso. In tal senso allora un manuale del re-cycle per la città di Venezia può costruirsi come uno strumento retroattivo che, attraverso i progetti53 che si sono realizzati in quest’isola dell’eccezione, mostra come tutti i dispositivi del re-cycle nei fatti sono stati già pensati e applicati, smentendo l’intoccabilità e la staticità di Venezia. Le centinaia di altane che costellano i tetti veneziani che si sono prestate a numerosi usi, compreso quello di vedette di avvistamento durante il periodo bellico54 o il visionario progetto di Yona 147


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Friedman che colonizza il cielo veneziano in una duplicazione sopraelevata dell’isola stessa mostrano l’uso continuato nel tempo del dispositivo del roof extention. L’inserimento di “scatole” nelle tese abbandonate dell’arsenale o di un anfiteatro nella chiesa sconsacrata di Santa Marta, fino all’innesto di Koolhaas di una scala che connette i piani del Fondago dei Tedeschi sono declinazioni del dispositivo dell’infill che è uno dei dispostivi più diffusi a Venezia per aggirare i limiti burocratici e i vincoli architettonici. Gli scarti, i detriti, i materiali di risulta dei processi di trasformazione si sedimentano facendo affiorare nuove terre come le Sacche o vengono messi in scena nel Padiglione Spagnolo dall’artista Lara Almarcegui raccontando il dispositivo di de-costruzione, che parte dai processi di demolizione per poter generare nuovi spazi e spazialità. Manuale re-cycle Venezia Anticamente il manuale indicava non solo ciò che era fatto a mano o qual148


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cosa da portare facilmente con sé, ma anche l’astuccio in legno per preservare i fogli dal logorarsi quando li si portava con sé. Se lo strumento del manuale dovrebbe tornare ad essere cartina al tornasole dei dibattiti e portatore di innovazione come lo era negli anni d’oro della sua diffusione, allora il manuale del re-cycle per Venezia potrebbe guardare alle origini dello strumento ed essere una scatola che raccoglie e contiene tutti i progetti di re-cycle che già sono stati realizzati nella città e dalla città stessa. Uno scrigno che acquista un valore in sé, a prescindere dall’evoluzione della normativa e degli equilibri economici, capace di raccontare Venezia attraverso la sua capacità di riciclare e riciclarsi attraverso i secoli. Una collezione di schede che come carte di un gioco possono essere continuamente rimescolate, sovvertendo regole precostituite e inventando nuovi modi per giocare la partita del re-cycle a Venezia.

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Note

html. 13. Winkler, G., Recycling Construction & Demolition Waste. A LEED-Based Toolkit, McGraw Hill Professional, 2010. 14. Department of Design and Construction, City of New York, Construction e Demolition Waste Manual, 2003. 15. Cfr. Pirola, M., Manuale dell’architetto. Finestre, in «Inventario», n. 2, 2010, pp. 108-125; Ubaldi, A., Manuale dell’architetto. Alberi, in «Inventario», n. 5, 2012, pp. 100123; Siracusa, M., Manuale dell’architetto. Angoli, in «Inventario», n. 7, 2013, pp. 38-57. 16. Zardini, M., Un terzo paesaggio per l’architettura, in «Lotus», n.130, 2007. 17. Koolhaas, R., Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di Mastrigli, G., Quodlibet, Macerata 2006. 18. Marini, S., Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, cit. 19. Ippolito, F., Tattiche, Il Melangolo, Genova 2013. 20. Cortazar, J., Il gioco del mondo, Einaudi, Torino 1969. 21. Klanten, R., Feireiss, L. (a cura di), Spacecraft. Fleeting Architecture and Hideouts, Die Gestalten Verlag, Berlin 2007. 22. Bourriaud, N., Postproduction. Come l'arte riprogramma il mondo, Postmedia, Milano 2004. 23. Marini, S., Post-produzioni. O del problema della scelta, in Marini, S., Santangelo, V., Recycland, Aracne, Roma 2013. 24. Busch, A., Rooftop Architecture. The Art of Going Through the Roof, Henry Holt & Co, New York 1991. 25. Melet, E., Vreedenburgh, E., Rooftop architecture. Building on an elevated surface, NAi Publishers, Rotterdam 2005. 26. Friedman, Y., Utopie realizzabili, Quodlibet, Macerata 2008. 27. Borrella, G., Il lavoro di aggiunta. Per un’architettura della manipolazione, in «Lotus International», n. 133, pp. 52-57. 28. Behrens, R.B., Architecture, Art and Camouflage, in «Lotus», n. 126, 2006, pp.

1. Marini, S., Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodlibet, Macerata 2010. 2. Vidler, A., Il perturbante dell’architettura, Einaudi, Torino 2006. 3. Braungart, M., McDonough, W., Cradle to cradle. Remaking the way we make things, North Point Press, New York 2002. 4. Enciclopedia Italiana Treccani, 2015. 5. United States. War Department, Aircraft Recognition Pictorial Manual, Training Division, Bureau of Aeronautics, Navy Department, 1943. Questo manuale fa parte degli oltre 600 Field and Technical Manuals pubblicati dall’US Army. 6. È interessante notare come siano dipartimenti e uffici, costituiti da team anonimi, a costruire questi manuali come risposta a delle urgenze ed emergenze e non figure autoriali. Ciò non ne sminuisce il contributo, ma evidenzia una modalità di lavoro parallela a quella autoriale. 7. Pratt Institute, Industrial Camouflage Manual, Reinhold Publishing, New York 1942. Si veda anche Zardini, M., Cohen, J-L., Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War, The Canadian Centre for Architecture and Hazan Editions, Paris 2011. 8. Si veda Eckbo, G., Art of home landscaping, Dodge Corporation, New York 1956; Conkin, P., Tomorrow a New World. The New Deal Community Program, Da Capo Press, New York 1959. 9. Assirelli, A., Un secolo di Manuali Hoepli 1875-1971, Hoepli, Milano 1992. 10. Van Hinte, E., Peeren, C., Jongert, J. (a cura di), Superuse. Constructing New Architecture by Shortcutting Material Flows, nai010 publishers, Rotterdam 2013. 11. Cfr. Siegle, L., Recycle. The Essential Guide, Black Dog Publishing, London 2010; Roberts, J., Redux. Designs That Reuse, Recycle and Reveal, Gibbs M. Smith Inc, Layton 2005. 12. http://www.a2greenguide.com/index.

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75-83. 29. Zardini, M., Cohen, J-L., Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War, the Canadian Centre for Architecture and Hazan Editions, Paris 2011. 30. Gomez-Moriana, R., Il mascheramento dell’occultamento per assimilazione con il contesto urbano, in «Lotus», n. 126, 2006, pp. 126-137. 31. Tschumi, B., Le Fresnoy: Architecture In/ Between, The Monacelli Press, New York 1999. 32. Pawley, M., Garbage Housing, Architectural Press, Londra 1975. 33. Van Hinte, E., Peeren, C., Jongert, J. (a cura di), Superuse. Constructing New Architecture by Shortcutting Material Flows, nai010 publishers, Rotterdam 2013; http:// www.recyclicity.org/. 34. http://opalis.be/. 35. Marini, S., L’architettura dei container, in Ciorra, P., Marini, S. (a cura di), Recycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano 2011. 36. Ambasz, E., Italy: The New Domestic Landscape, MoMa, New York 1972. 37. Vidler, A., La deformazione dello spazio. Arte, architettura e disagio nella cultura moderna, Postmedia Books, Milano 2009. 38. Vocabolario della lingua italiana Treccani, voce “innesto”, 2015. 39. Densità, Infill, Assemblage, in «Lotus», n. 117, 2003. 40. Bona, M.C.C., Innesti, matrioske & C., 2/11/2012, su www.domusweb.it. 41. Dizionario della lingua italiana Treccani. 42. Özkaya, S., Double. Storefront for Art and Architecture. Manifesto Series 2, Lars Müller, Zurigo 2013. 43. Sacconi, A., Valtorta, R. (a cura di), Archivio dello spazio. 10 anni di Fotografia Italiana sul territorio della Provincia di Milano, Art&, Milano 1998. 44. Clément, G., Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005. 45. Repishti, F., Green Architecture. Oltre la metafora, in «Lotus», n. 135, 2008, pp. 3437; Repishti, F., Oltre il giardino, in «Lotus

International», n. 128, 2006, pp. 102-110. 46. Donadieu, P., Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, edizione italiana a cura di Mininni, M.V., Donzelli Editore, Roma 2006. 47. Virilio, P., Estetica della sparizione, Liguori Editore, Napoli 1992. 48. Splitting documenta il taglio eseguito da Gordon Matta Clark in una casa abbandonata in Humphrey Street nella cittadina di Englewood. 49. Day’s End documenta il lavoro di Gordon Matta Clark sulle strutture di un hangar abbandonato di New York, realizzando diverse sezioni della porta, del pavimento e del tetto. 50. Gordon Matta-Clark Archive, CCA, Montrèal, Archival Books, PH CON 2002:0016:005: Reviews, Announcements, Catalogues 1970-1977. 51. Emery, N., Distruzione e progetto. L’architettura promessa, Marinotti, Milano 2011. 52. Op. cit, Department of design and construction of New York, Construction and demolition waste manual, New York 2003 53. Cfr. Foscari, G., Elements of Venice, Lars Müller, Zurigo 2014; Kusch, C.F., Gelhaar, A., Venezia. Guida all’architettura, Dom Publishers, Berlino 2014. 54. Franzini, C. (a cura di), Venezia si difende 1915-1918, Marsilio, Venezia 2014. Immagini 1-5. Pagine tratte dal Manual of Surgical Bandages, Devices and Dressings, Francia 1859 6-8. Pagine tratte da United States. War Department, Aircraft Recognition Pictorial Manual, Training Division, Bureau of Aeronautics, Navy Department, 1943 9-13. Pagine tratte dal Pratt Institute, Industrial Camouflage Manual, Reinhold Publishing, New York 1942 14-16. Copertina e pagine tratte da Instructions for the use of the Olivetti Lettera 22 typewriter

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17. Immagine tratta da Matteucci, G., Elioterapia Artificiale. Manuale pratico per le applicazioni del sole artificiale, Hoepli, Milano 1931 18. Copertina e pagine interne tratte da Colombo, G., Manuale dell'Ingegnere, Hoepli, Milano 1878 19. Copertina di AA.VV. Consiglio Nazionale delle Ricerche, Manuale dell'Architetto, Edizione C. N. R., Hoepli, Milano 1953 20-21. Copertina e pagine interne tratte da Van Hinte, E., Peeren, C., Jongert, J. (a cura di), Superuse. Constructing New Architecture by Shortcutting Material Flows, nai010 publishers, Rotterdam 2013 22. Copertina dell'A2 Green Guide consultabile su http://www.a2greenguide. com/index.html 23. Copertina di Department of Design and Construction, City of New York, Construction e Demolition Waste Manual, 2003 24. Copertina di Zevi, L., (a cura di), Nuovissimo Manuale dell'architetto, Mancosu, Roma 2014 25. Copertina di Wonderland, Manual for Emerging Architects, Springer Vienne, Vienna 2012 26. Copertina e immagine complessiva di Koolhaas, R., Elements of architecture, Marsilio, Venezia 2014 27. Copertina di Buckminster Fuller, R., Operating Manual for Spaceship Earth, Simon and Schuster, New York 1969 28. Citazione tratta da Buckminster Fuller, R., Operating Manual for Spaceship Earth, Simon and Schuster, New York 1969 29. Schema rappresentativo dei dispositivi recycle 30-46. Pagine del manuale elaborato in occasione dell'Assegno di ricerca Manuale recycle, responsabile scientifico Prof.ssa Sara Marini, 2013-2014 47. Illustrazione di Aldo Manuzio per Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna, Venezia 1549 48. Scatola Manuale Recycle 49. Mappa 50-51. Tessere

[Il saggio e i materiali del manuale nascono a partire dalla ricerca sviluppata all’interno dell’assegno di ricerca di ateneo condotto da Vincenza Santangelo presso l’Università Iuav di Venezia (aprile 2014-marzo 2015). Responsabile scientifico dell’assegno: Prof. ssa Sara Marini.]

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Bibliografia 2012Architecten, Recyclicity. Industrial ecology applied in the urban environment, 2009. AA.VV. (a cura di), Handbook of Recycled Concrete and Demolition Waste, Woodhead Publishing, Cambridge 2013. Aravena, A., Iacobell, A., Elemental. Incremental Housing and Participatory Design Manual, Hatje Cantz, Ostfildern 2012. Assirelli, A., Un secolo di Manuali Hoepli 1875-1971, Hoepli, Milano 1992. Baum, M., Christiaanse, K., City as loft. Adaptive Reuse as Resources for sustainable urban development, gta Verlag, Zurich 2012. Buckminster Fuller, R., Operating Manual for Spaceship Earth, Simon and Schuster, New York 1969. Burchell, R.W., Listokin, D., The adaptive reuse handbook, Rutgers University, Center for Urban Policy Research, 1981. Celant, G. (a cura di), Rotor. Ex Limbo, Edizioni Progetto Prada Arte, Milano 2011. Conkin, P., Tomorrow a New World. The New Deal Community Program, Da Capo Press, New York 1959. De Carli, C., Architettura. Spazio primario, Hoepli, Milano 1982. Decleva, E., Ulrico Hoepli 1847-1935. Editore e libraio, Hoepli, Milano 2001. Eckbo, G., Art of home landscaping, Dodge Corporation, New York 1956. Jongert, J., Nelson, N., Goosens, F., Recyclicity: A Toolbox for ResourceBased Design, in «Architectural Design», Volume 81, Issue 6, pages 54-61, November/December 2011. Koolhaas, R., Elements of architecture, Marsilio, Venezia 2014. Lund, H., McGraw-Hill Recycling Handbook, McGraw-Hill Professional, New York 2000. Petzet, M., Heilmeyer, F., Reduce, Reuse, Recycle. Architecture as Resource, Hatje Cantz, Ostfildern 2012. Pratt Institute, Industrial Camouflage Manual, Reinhold Publishing, New York 1942. Roberts, J., Redux. Designs that reuse, recycle, and reveal, Gibbs Smith, Layton 2005. Salotto Buono, Manual of decolonization, A+MBookstore, Milano 2010. Siracusa, M., Manuale dell’architetto, in «Inventario. Tutto è progetto», n.7, 2014. 153


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INTERVISTA 01 _ SØREN NIELSEN / VANDKUNSTEN STUDIO

Torpedo Shipyard Housing / Vandkunsten The steel and concrete Torpedo Hall, constructed in 1955, served as a maintenance hall for torpedo boats. In the conversion the architects left the structural elements intact to emphasize the unique architecture of the 155 meter long building. Trusses and columns stand untouched by the new building. The old roof was removed, leaving the original trusses exposed, to admit daylight into the interior street on the second floor above the garage. Footbridges running across and along the street contribute to the dynamic sequence of movement.

THE PROJECT OF THE TORPEDO SHIPTARD HOUSING Why have you decided to proceed with a project to recover the existing structure and to integrate it in the new building, rather than proceed a with demolition and reconstruction action? The idea of converting the ship-yard building into luxury recidences was actually the client’s, who was the visionary developer Kurt Thorsen (he endet up in jail and the project was taken over by another developer 2L). However, at Vandkunsten we immediately adopted the idea and found solutions which were able to meet the requirements from the authorities to parking, density, open spaces etc. The whole area was under development after it was vacated by the navy a few years earlier and we found the building worth preserving as an urban monument – as a kind replacement of cathedrals or towns halls known from the classical city. By incorporating a large number of parking lots in the lower part of the building and making these available for the surrounding developments it was possible to make the authorities accept a higher density than originally planned for. The conservation qualities are quite obvious, both in terms of its characteristic typology, scale and material patina. The building depth constituted a substantial challenge for residential functions but was solved by introducing an interior street, which is not visible from the outside. From a regulatory point of view, have you faced specific specific restrinction to be respected or permissions to be able to do this “infill” of 155


the new structure in the existing one? The planning authorities were very positive towards the preservation intentions. However, no dispensation to the general building regulation were given. Only the parking solution mentioned above was a result of a creative interpretation of the local planning regulations. From the economic point of view what has led to make this re-cycle project and what the possible difficulties? Since only the very structure – columns and roof trusses – was preserved there were no economic arguments for the preservation. There were even more expenses connected with reparation of the existing building parts. In a strictly building economy perspective it would have been more profitable to demolish the building and replace it with an entirely new construction. However, by preserving the historical reminiscences and by accepting the geometrical boundaries of the existing building, and by using these as the point of departure for a new spatial narrative, the value of the property has increased enormously. Actually, recently traded apartments have performed the highest m2-prices in Copenhagen of all times, a proof of the economic potential in a preservation strategy as opposed to demolishment.

RE-CYCLE IN DENMARK The condition of contemporary crisis often leads to need for projects on existing buildings rather than ex-novo buildings. Is this trend recorded in Denmark too and with what implications? The Danish market for residential building was only shortly affected by the finance crisis due to a large proportion of publicly supported housing. The market for new office building is almost dead but public investments in school and university buildings maintain a fair amount of activity. It is a general condition that it is less expensive to demolish and build new than to renovate and refurbish, but because there is a quite thorough registration of preservable buildings restrictions take care that many buildings are preserved despite the apparent economic disadvantage. Speaking long term – taking the learning from the MTB-case – preservation is probably more profitable, which make public restrictions a good business 156


model for the society as a whole. In Denmark there is another particular structural mechanism, that secures that very few residential buildings are demolished, even when social problems generated by failed planning might suggest the use of demolishing as a social instrument: there is a large amount of social housing which gets maintained and renovated through grants from a common fund owned by the social housing corporations. According to the regulations of this fund new construction cannot be granted support. This implies in practice that it is impossible to finance a solution based upon demolishing and rebuilding. In Denmark is there regulations for actions on the existing buildings, which can be defined as re-cycle projects, and any tax benefits? While there is quite efficient regulation of buildings to secure the preservation and conservation of cultural values, there are till now no regulation of high-level recyclability. The Danish recycling market is very efficient when measured on the recyclability degree, where about 90% of building materials are reprocessed on material level, which means it can re-enter manufacturing processes. So there is little waste to be deposited. The efficiency is sustained by fees on handling demolition material and by fair prices on particularly glass, paper, gypsum and metals. The governments in Denmark have actually succeeded in balancing the market in such a way that it is economical viable to hand in demolition material instead of dumping it illegally. What has not been introduced yet are incentives to reuse at higher levels. This market is very young and narrow and mostly focusing trading unique components with specific identity such as old doors and windows with ‘shabby chick’ qualities. The newly revised Norwegian building regulation has introduced the requirement for documentation of disassembly and future reuse potential for new constructions. It is likely that the Danish building regulation will incorporate similar steps since there is an emerging focus on LCA-aspects and resource preservation – all derived by the view of resource scarcity and rising prices in the horizon.

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AUTORI

Sara Marini, architetto, dottore di ricerca, è professore associato in composizione architettonica e urbana presso l’Università Iuav di Venezia. È direttore, con Alberto Bertagna, della collana editoriale “Città e paesaggio. In teoria” e membro del comitato scientifico delle collane editoriali “Città e paesaggio. Saggi” e “Città e paesaggio. Album” per la casa editrice Quodlibet (Macerata). È direttore, con Alberto Bertagna, della collana editoriale “Carte Blanche” per la casa editrice Bruno (Venezia). Principali pubblicazioni: Marini, S., Bertagna, A., Venice. A document, Bruno 2014; Bertagna, A., Marini, S., In teoria. Assenze, collezioni, angeli, Quodlibet 2012; Bertagna, A., Marini, S., The Landscape of Waste, Skira 2011; Marini, S., Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodlibet 2010; Marini, S., Architettura parassita. Strategie di riciclaggio della città, Quodlibet 2008. Sissi Cesira Roselli, architetto, dottore di ricerca, è assegnista presso l'Università Iuav di Venezia. Dopo la laurea, ottiene una borsa di studio per il Master in Photography and Visual Design allo Spazio Forma di Milano e alla Nuova Accademia di Belle Arti. La sua attività di ricerca si focalizza sui temi della teoria della progettazione architettonica parallelamente a quelli della fotografia documentaria. Vincenza Santangelo, architetto, dottore di ricerca, ha conseguito il dottorato internazionale Quality of Design con una tesi sulle opere pubbliche interrotte nel territorio italiano. Ha svolto attività di ricerca come assegnista presso l’Università Iuav sui temi degli spazi del lavoro e del re-cycle, all’interno del PRIN Re-cycle Italy. Ha svolto attività di didattica e di tutoraggio presso diverse università italiane e straniere e all’interno di workshop nazionali e internazionali.

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PRESERVATION ECCLESIAE Storie dall’heritage è il ventiquattresimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. Immaginario, archivio e manuale sono tre strumenti che appartengono all’armamentario della strategia del re-cycle, sono tre “territori” nei quali si cercano le vie dell’heritage a Venezia. Le tre storie raccolte in questo volume appartengono e sono dedicate a Venezia, perché è in questa città che l’Europa mette in essere e palesa la propria idea di patrimonio; qui il riciclo è da sempre totale, scontato e storicizzato; qui l’invenzione per necessità è diventata eredità da continuare a interrogare. Si guarda all’immenso deposito veneziano immaginandolo, cercando il suo destino e il suo pregresso proiettato al domani, inseguendo pieghe di mutamenti latenti che suonano come conferme ri-evocate.

ECCLESIA IN VENETIA

ISBN

euro 18,00

978-88-548-9154-8


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