Scheletri. Riciclo di strutture incompiute

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SCHELETRI RICICLO DI STRUTTURE INCOMPIUTE UMBERTO CAO LUDOVICO ROMAGNI

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Progetto grafico di Sara Marini e Vincenza Santangelo Impaginazione di Anna Rita Vellei e Francesco Ticchiarelli Copyright Š MMXVI ARACNE editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Quarto Negroni, 15 00040 Ariccia (Rm) (06) 93781065 ISBN 978-88-548-9107-4 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: febbraio 2016

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PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università IUAV di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Università degli Studi di Napoli “Federico II” Università degli Studi di Palermo Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino



INDICE

SCHELETRI RICICLO DI STRUTTURE INCOMPIUTE

Introduzione Umberto Cao, Ludovico Romagni

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L'incompiuto e la rovina Ludovico Romagni

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In difesa degli scheletri architettonici Andrea Gritti

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Paesaggio adriatico, casi studio Umberto Cao, Ludovico Romagni

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Scheletri rianimati Umberto Cao

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Ribaltamenti temporali Ludovico Romagni

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Attrezzare l'incompiuto Andrea Grimaldi

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Dispositivi per lo spazio in-between Giovanni Rocco Cellini

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Forza e progettualitĂ delle pratiche di riappropriazione dei luoghi Carlo Cellamare

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Gli scheletri della Magliana Pietro Rovigatti

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INTRODUZIONE

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Scheletro in cemento armato nell'area della ex Snia Viscosa di Roma


INTRODUZIONE Umberto Cao e Ludovico Romagni

Nel volume n. 6 di questa collana Re-cycle Italy è stato indagato il tema delle frequenti mutazioni terminologiche che caratterizzano la comunicazione quando si parla di architettura e città1. Il fenomeno è dovuto anche alla velocità dei sistemi di informazione contemporanei che comportano il rapido consumo di termini e la loro sostituzione con definizioni che ne spostano o approfondiscono il significato. Lo scritto, nella sua conclusione, ricordando lo spaventoso numero di relitti edilizi che popolano le nostre città e i nostri territori, invitava a riflettere su una realtà che presuppone un profondo cambiamento nel progetto urbano: da una parte il

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tema della rigenerazione architettonica di parti di città (o di paesaggio), dall’altra quello del riciclo, per quanto possibile, delle architetture esistenti che hanno perso il loro senso. Entrambe le terminologie presuppongono una inversione del procedimento di analisi, che non si preoccupa solo di comprendere la realtà e i fenomeni urbani, ma ne ripercorre la vicenda per fondarla su motivazioni diverse. In altri termini dobbiamo modificare la nostra attenzione spostandola dall’“oggettuale” (concetto di “nato” o di “creato”) al “processuale” (concetto del “divenire”), integrando la domanda – “attraverso quali necessità si è formata e sviluppata quella parte di città o quell’opera di architettura?” – con questa: “cambiando le necessità come può modificarsi quella parte di città o quell’opera di architettura?” Roma, anni Novanta del secolo scorso, periferia Est, zona Prenestino: improvvisamente nasce uno specchio d’acqua, anzi un vero lago, profondo circa sei metri, rifornito da un ramo della vena d’acqua potabile chiamata Acqua Bulicante. Era accaduto che le ruspe del costruttore che aveva acquisito la proprietà di una vecchia area industriale dismessa, la SNIAViscosa, scavando per realizzare i fabbricati, avevano intercettato la sorgente. Questo inatteso fenomeno metteva in moto un movimento popolare di quartiere che richiedeva con forza la valorizzazione del laghetto e la destinazione a parco dell’intera area industriale dismessa. Sono passati venti anni e oggi la natura ha riconquistato il suo ordine nel vivo della metropoli. Lo specchio d’acqua, chiamato Lago Pertini, è circondato da fitta vegetazione, abitato da uccelli e animali selvatici. Su un fianco delle sponde resta un relitto di pilastri, travi e solai, testimonianza dell’avvio della operazione immobiliare poi interrotta dalla invasione dell’acqua. La comunità di quartiere è ancora oggi impegnata in una battaglia che chiede il vincolo paesaggistico sul lago e sul contesto verde, ma anche il mantenimento dello scheletro in cemento armato che affiora su un fianco. Due estremi di un conflitto tra natura e architettura che evoca un concetto di pittoresco vicino alle tante immagini di rovine immerse nel paesaggio. Ovvero la natura, con la sua forza, può valorizzare il costruito anche quando ordinario, anche quando senza qualità né dignità. Il paesaggio italiano – e non solo italiano – oggi è pieno di relitti edilizi, soprattutto capannoni industriali ma anche palazzi per uffici o residenze. Sono scheletri architettonici, costruzioni in cui l’interruzione del processo costruttivo ha determinato una condizione di non finito caratterizzata dalla presenza dominante del telaio strutturale oppure dalla potenziale

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opportunità di riciclo esclusivamente della struttura portante. Sono testimonianze di un transito dall’età della fabbrica a quella dell’economia di mercato che lascia tracce e incide ferite. L’impiego ormai consueto di strutture portanti realizzate con telai in cemento armato o acciaio in edifici mai ultimati, spesso abbandonati e poi depredati delle loro sovrastrutture architettoniche, oppure non utilizzati e degradati sino a svelare la loro ossatura portante, deposita figure spesso ordinate secondo moduli tridimensionali e misure ricorrenti. Sembra avverarsi la profezia della Maison Domino di Le Corbusier, che reinterpretando la Capanna di Lauger, prima antica formalizzazione del concetto di trilite costruttivo, ci proponeva una elementare struttura intelaiata in cemento armato come icona primigenia della costruzione moderna. L’esperienza del moderno è nata e si è sviluppata proprio attorno all’istanza delle nuove pratiche costruttive, spesso esaltando l’impiego del telaio strutturale ed evidenziandolo nella composizione degli spazi e dei prospetti: da Sullivan a Mies, da Perret a Le Corbusier, attraverso le severità del neobrutalismo o alle rigidità dello stile internazionale, sino alle espressioni più recenti di celebrazione del telaio come immagine forte nel disegno d’architettura (Dardi, Rossi, i Five Architects, Meier, Eisenman, Ungers, Purini ecc...). D’altra parte, anche quando invisibile, il telaio strutturale che sorregge l’edificio può generare forma. Basti pensare alla scansione modulare di tante facciate architettoniche, alle bucature inscritte nella campata e al loro ritmo ricorrente, alle tante geometrie che molte architetture esprimono proprio in virtù di una struttura portante regolare. Il telaio strutturale è talvolta regola, ora nascosta ora esplicita, altre volte vincolo subìto, altre volte ancora antinomia formale tra un sistema tecnico di sostegno e la libertà dello spazio che si muove liberamente, come nella straordinaria innovazione della “pianta libera” dei grandi maestri della modernità. Ma torniamo al tema dell’abbandono e del degrado che interessa le pagine di questo libro e che costituisce una caratterizzazione nuova delle questioni che coinvolgono la struttura portante degli edifici moderni e contemporanei. Come lo scheletro del mondo animale rispetto alle sovrastrutture organiche, anche lo scheletro edilizio costituisce la parte meno deperibile dell’edificio. Con l’aggravante che cemento e acciaio costituiscono anche materiali difficilmente riciclabili in senso stretto, spesso persino dannosi e nocivi. È possibile riciclare i materiali che costituiscono gli impianti termici, elettrici ed idraulici, quelli che rivestono le facciate, sia naturali che

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sintetici, quelli che dividono gli ambienti interni, gli arredi e così via. Tant’è che l’”espoliazione” di edifici in disuso o abbandonati è molto praticata per ragioni più o meno lecite di profitto. A seguire, davanti ad un relitto strutturale magari logorato e danneggiato dal tempo, si pone la soluzione drastica della demolizione. Una soluzione spesso giusta sia dal punto di vista dell’investimento finanziario, che del recupero di suolo. Ma è comunque un atto di distruzione, quindi di ”spreco”. Inoltre il riciclo delle macerie di cemento armato o dell’acciaio è complicato ed inquinante. È possibile allora percorrere altre strade? E in quali condizioni? Nell’ambito del più vasto e articolato interesse che la ricerca Recycle Italy (e questa collana editoriale che la rappresenta) sta sperimentando da qualche anno, abbiamo studiato le possibilità di recuperare alcune parti o l’intero “corpo strutturale” di edifici incompiuti o abbandonati – quasi sempre scheletri di cemento o acciaio – ad altri destini. Riciclare, appunto, la loro struttura portante a partire dalla impossibilità del completamento secondo il progetto e le destinazioni originali, ma anche senza porsi l’obiettivo di ricostruire necessariamente una situazione stabile e definitiva. Il rapporto progetto/tempo che non ha funzionato è la condizione che ha creato il danno all’ambiente, ancora prima di quello economico all’investitore (ammesso che questo danno ci sia stato). Dunque il fattore tempo entra in gioco sin dall’inizio come vincolo elastico e permeabile, e come parametro di un nuovo e forse transitorio destino funzionale. Questo significa innanzi tutto ricostruire la vicenda che ha portato all’incompiuto, all’abbandono o al degrado; quindi indagare le relazioni con il contesto, sia urbano che territoriale, gli operatori, le responsabilità e, naturalmente, le possibilità finanziarie. Ma significa anche capire le valenze dello scheletro da riciclare e inquadrarle rispetto allo spazio che occupa e che lo circonda, a partire dell’effettiva necessità e capacità della città di mantenere gli spazi ereditati da un passato recente. La non raggiunta completezza di un’opera architettonica esprime, nella sua condizione di frammento o di opera mutilata, un grado di potenzialità e trasformabilità. Talvolta lo scheletro, ovvero il telaio strutturale, possiede una qualità formale e una potenzialità (indagata anche in molti momenti della storia dell’architettura) di mediazione nel rapporto tra interno ed esterno, di distribuzione dei pieni e dei vuoti, di confronto tra la “regola” e la “misura”. A partire dal riciclo di questo elemento architettonico, operazioni come l’infill, la sottrazione di parti, la riappropriazione di spazio da

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parte della vegetazione, la costruzione di nuovi manufatti, rappresentano alcuni dei possibili dispositivi compositivi indagati e valutati anche nella loro compresenza a definire il nuovo sistema. Alcuni edifici incompleti o in disuso per diverse ragioni, opere abusive, contenziosi, finanziamenti incompleti, fallimenti, modifiche delle economie locali, passaggio di proprietà, così come gli alti costi di demolizione, rendono spesso più conveniente non completare l’edificio per l’uso previsto, ma riutilizzare solo la struttura portante. Il tema del riciclo investe quindi la destinazione d’uso e gli stessi caratteri architettonici. A seconda delle qualità formali lo scheletro o parti di esso, possono essere riciclati prevalentemente ad uso pubblico. Lo scheletro potrà costituire la struttura di un nuovo organismo architettonico, oppure potrà giustapporsi al nuovo, integrandolo, prima di avviarsi ad una successiva eliminazione.

Note 1

U. Cao, Dal “building of the city al “recycling of the architecture”: mutazioni terminologiche e trasformazioni di senso, in “Re_Cycle Op_position II” (a cura di S. Marini e S.C. Roselli), pp. 54-59, ARACNE Editrice, Roma 2014.

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L'INCOMPIUTO E LA ROVINA

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Interni della ex cartiera Mondadori di Ascoli Piceno, Armin Meili,1968


L'INCOMPIUTO E LA ROVINA Ludovico Romagni

“Non c'è motivo che questa creatura, lo scheletro vivente, ignota, ch'io sappia, all'arte, non assurga a simbolo stesso della vita”.

Keith Chesterton

Per scheletri architettonici intendiamo quegli edifici in cui l’interruzione del processo costruttivo ha determinato una condizione di “non finito” caratterizzata dalla presenza dominante del telaio strutturale oppure dalla potenziale opportunità di riciclo esclusivamente della struttura portante. Confrontarsi con la fine o il mancato inizio dell’uso per il quale un’architet-

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G. de Dominicis, mostra antologica al Museo d'Arte Contemporanea di Grenoble,1990

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tura è stata progettata ci porta ad indagare e sviluppare un ragionamento sul rapporto tra progetto e tempo che investe diverse condizioni dell’opera architettonica: il concetto di non finito, l’opera architettonica compiuta, la sua rovina. Il concetto di scheletro, in arte così come in letteratura, è stato sempre accostato ad un'immagine negativa, come emblema della morte: per Keith Chesterton l’idea che le foglie rappresentassero la principale attrattiva dell’albero è assai banale così come la convinzione che la chioma sia il vanto di un pianista. In realtà l’orrore suscitato dallo scheletro non deriva dalla sua forma quanto piuttosto dalla sua natura misteriosa e nascosta. L’uomo osserva una natura che, con gioia, mostra le forme più strane e orripilanti ma, quando arriva la “deliziosa bizzarria dell’interno, il senso dell’umorismo lo abbandona repente”1. Sia nella condizione di rovina, risultato di un processo di distruzione/disgregazione, sia in quella di non finito, di interruzione di un processo costruttivo e quindi di non raggiunta completezza, gli scheletri architettonici esprimono un certo grado di potenzialità, di trasformabilità. In entrambi i casi riscontriamo un legame che tiene insieme il processo di costruzione, la sua ultimazione e la conservazione: pensiamo ad esempio al cantiere di un’architettura, esso è di fatto l’immagine dell’opera non finita ma è anche, in qualche modo, l’anticipazione di quella che sarà la rovina di quell’architettura. Del resto l’architettura non si può offrire come immagine stabile e immodificabile: nonostante il fine principale sia la sua costruzione, essa non si esaurisce mai in questa fase; si genera sempre uno scarto mai colmato di potenzialità inespresse e, di conseguenza, l’inevitabile fine, la sua morte, ci rimanderà a quelle immagini, a quella condizione di non finito da cui nasce. Possiamo quindi dire che esiste una distanza tra il progetto e la sua costruzione e tra questa e la sua rovina, tra quello che è l’architettura una volta compiuta e quello che sarebbe potuta essere2. Storicamente la rovina è sempre stata, seppur in modi diversi, oggetto dell’interesse delle dinamiche di trasformazione architettoniche ed urbane: si è conservato tutto ciò che ha avuto la maggior vocazione ad adattarsi ai mutamenti della città e alle necessità della società: strutture che, cessata la loro funzione e divenute rovine, hanno avuto la capacità di esprimere un potenziale che le ha rese adatte ad ospitare nuove funzioni.

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Gli esempi di questo processo sono molti: pensiamo ad esempio al Colosseo o al teatro Marcello che, una volta cessata la loro funzione originaria, sono stati “aggrediti” e trasformati in abitazioni, oppure alle terme di Diocleziano trasformate nella chiesa di Santa Maria degli Angeli da Michelangelo (fortemente affascinato dal tema del non finito come assoluto, come metafora della fragilità della condizione umana). Parlare di rovine e di non finito in architettura impone, implicitamente, una riflessione sui concetti di tempo e di città con la consapevolezza che è molto difficile ricondurre queste argomentazioni all’interno di uno schema definito e lineare senza accettare delle contraddizioni di fondo che conducono molto spesso a spunti e conclusioni antitetiche. Il binomio tempocittà è senz’altro un significativo punto di osservazione che permette di indagare cos’è la rovina in relazione alla città. La città contemporanea muta i suoi caratteri con una velocità sempre maggiore, riflesso di una società digitalizzata e sempre più tecnologizzata, dove l’offerta dell’informazione è sempre più ampia e accessibile; far fronte ai bisogni degli individui diventa sempre meno proibitivo e più semplice. Oggi più che mai è possibile guardare la città assimilandola a “un continuo cantiere dove lo spazio urbano si identifica come teatro del paradossale rapporto costruzione-decostruzione; molto spesso, ci confrontiamo con spazi incompiuti, edifici ibridi, stratificati, frammenti di parti complesse, innesti, vuoti definiti o totalmente indefiniti, edifici in costruzione, in demolizione, squarci, giustapposizioni sanate o insanate, ma anche siti archeologici, tracce e rovine di costruzioni precedenti; così che sembra sempre più difficile capire dove finisca la costruzione e dove comincia la distruzione”3. All’interno di questo scenario urbano idealizzabile come una immensa rovina, si genera una contraddizione dovuta proprio alla complessità e alle differenze insite nelle parti che la compongono: se da un lato esiste tutta una serie di frammenti incompiuti e abbandonati, cioè i rifiuti della città che si costruisce (o tenta di farlo), dall’altro c’è la rovina della città della storia identificata nei siti archeologici o nei ruderi dei monumenti storici o del Tardo Moderno. Al ritmo incessante dei primi, si contrappone il tempo lento e inesorabile dei secondi; sembrerebbe quasi che alla rovina romantica, quella del sublime ruskiniano, faccia da controcanto una sorta di rovina opposta che, per via della contrazione temporale con cui avvengono le trasformazioni, nasce di fatto già rudere. La rovina contemporanea nasce rovina, mentre l’edificio storico cade in rovina. Questa compresenza

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conflittuale caratterizza il grande cantiere della città contemporanea e Roma, ad esempio, ne è un caso esemplare dove queste dinamiche si manifestano maggiormente: Francesco Venezia la definisce come una città “continuamente ammonita dalle rovine”4 facendo riferimento ai numerosi reperti archeologici e monumenti presenti; tuttavia il senso dell’affermazione non muta, anzi aumenta di significato se, altrettanto realisticamente, si afferma che la rovina a Roma è la coesistenza di frammenti differenti giustapposti o affiancati bruscamente, isolati nelle periferie o all’interno del tessuto della città. Un collage che tiene insieme l’area dei fori imperiali, il Colosseo con i complessi dell’epoca fascista dell’E42, fino ai grandi fabbricati post industriali (vedi i Gasometri) e le grandi opere incompiute come la Nuvola di Fuksas o le Vele di Calatrava. A Roma la contraddizione tra tempo contemporaneo e tempo storico è potentemente evidente. Questa riflessione sul tempo in relazione alle trasformazioni che esso esercita sulla città è strettamente legata al concetto di passato nella sua presenza come nella sua assenza: i grandi monumenti storici sono testimonianza e veicoli di memoria di un passato glorioso, mentre gli scheletri post-industriali e le grandi incompiute sono il paradigma di un passato fallito o mai verificato. Guardare alla rovina, in generale, significa operare una lettura retrospettiva ricercandone i significati guardando al proprio passato. Marc Augè sostiene che la cultura contemporanea non è più in grado di produrre rovine ma, essenzialmente, solo macerie in quanto la contemporaneità non ha più il tempo di costruire la storia. Nonostante le analogie che accomunano le architetture cadute in rovina e le cosiddette macerie derivanti dalla loro condizione di abbandono, il processo mentale che la rovina implica è quello del ricordo, si riferisce alla memoria; la maceria, invece, comporta la volontà di eliminare, di distruggere il passato5. La lettura proposta da Augè risulta condivisibile anche se non esaustiva in assoluto perché, riallacciandosi all’analisi precedente, la città-cantiere è la compresenza simultanea della costruzione e della distruzione nel suo rapporto conflittuale tra il tempo contemporaneo e il tempo della storia; le rovine ma soprattutto le macerie, non sono episodi eccezionali nel tessuto urbano, ma sono ormai i caratteri riconoscibili e strutturanti della città; se è vero che il junkspace koolhaasiano è il risultato della modernità6, allora la maceria è il paradigma del paesaggio della città contemporanea che coesiste parimenti con la rovina all’interno dello stesso spazio. Se il passato definisce il peso specifico dell’architettura, se essa può essere

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considerata rovina o maceria, rifiuto, il presente accetta che tutti questi paesaggi dell’abbandono sono simultaneamente presenti, sono tutti i passati condensati nello stesso momento (il tempo storico e il tempo contemporaneo) e per questo motivo, rovina e maceria sono di fatto continuamente contemporanee. Il passato produce differenze, genera identità e memoria, il presente le elimina riconoscendo la continua contemporaneità dell’architettura. Tutto questo è vero per diverse ragioni e valutando diversi aspetti: uno è legato ancora una volta al tempo, in particolare al fatto che esiste una discrepanza tra il tempo dell’uomo e il tempo dell’architettura che è intimamente legato ai processi temporali della natura. Lo spazio di tempo in cui l’architettura entra in relazione con il tempo dell’uomo è solo un punto di tangenza nella lunga parabola della sua vita che è inevitabilmente più lunga. Ed è altrettanto vero che l’architettura in quanto fatto materico, rivendica la propria esistenza all’interno del tessuto della città; le rovine come le macerie occupano fisicamente lo spazio durante l’arco della propria esistenza, esistono insieme nel tempo attuale. La città contemporanea è dunque un unicum fatto di frammenti e di parti giustapposte che richiama direttamente le matrici aldorossiane, è la trasposizione moderna delle vedute piranesiane nel loro punto di incontro con la città generica dello spazio spazzatura di Koohlaas. La città è tutte queste cose insieme. Il rapporto tra passato e presente, sembra essere per certi versi (anche se affine) di nuovo contraddittorio: se da un lato come suggerito dalla lettura di Augè il confronto con la rovina è esperienza estetica temporale del tempo assoluto che si riferisce al passato e che quindi riconosce la rovina e la maceria in funzione della storia in modo retrospettivo, l’accettare la contemporaneità dell’architettura e la complessità della città moderna implica una riflessione che verte nella direzione opposta, ossia verso il futuro: molto spesso infatti le dinamiche urbane non interagiscono in maniera attiva con la rovina escludendola quasi dai processi di trasformazione: ne lambiscono i contorni producendo delle oasi intorno alle quali la città si costituisce o le marginalizza. Questo aspetto riguarda tanto i monumenti quanto gli scheletri post industriali o incompiuti: mentre i primi di fatto sono investiti quasi esclusivamente dai flussi dell’industria del turismo, gli altri sono di fatto abbandonati a loro stessi nelle periferie delle città o ritagliati all’interno dei tessuti urbani. In ogni caso entrambi sembrano estranei alla città, essa non li as-

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sorbe anzi, quasi li rifiuta, pur essendone parte integrante e strutturante. La città produce continuamente macerie e rovine il cui destino è inevitabilmente quello di essere abbandonate anziché essere aggredite, usate, abitate. Il quesito che si delinea riguarda l’avvenire: quale destino attende la rovina? L’attesa di futuro è anch'esso comune denominatore che pone nello stesso punto di osservazione sia la maceria quanto la rovina nel panorama della città contemporanea. Riconoscere quale potenziale positivo il rifiuto, lo scarto e il monumento come se ci trovassimo in un’immensa rovina da usare, su cui accumulare, sovrascrivere il testo mutevole della città, sfruttare l’errore, la mancanza, il frammento, l’inconveniente: la città come il luogo dell’elogio della maceria, dove il tempo deve necessariamente essere “materia irrinunciabile del progetto”7. Considerare il tempo anche come mezzo necessario per riscoprire le origini intime dell’architettura. Se infatti il suo esito finale, la sua funzione ancestrale è quella di costruire una forma compiuta8, allo stesso modo l’architettura risiede in un’idea che definisce un principio organizzativo dello spazio che è di tipo assoluto, universale. La disgregazione dei segni operata dal tempo che conduce l’architettura alla sua rovina è la condizione necessaria perché questo si verifichi: ridurre l’opera alla sua conformazione essenziale, spogliata di ogni sua parte, la avvicina al suo punto zero, al suo inizio. Così come le rovine del tempio greco mettono in evidenza i rapporti che lo costituiscono svincolati dalla loro compiutezza (i caratteri dell’ordine che lo generano), allo stesso modo nelle rovine degli scheletri della contemporaneità si rintracciano i fondamenti che regolano l’idea da cui l’architettura nasce. Questo aspetto è ancora più evidente e portato alle estreme conseguenze se pensiamo che gran parte dalla produzione architettonica dell’esperienza delle avanguardie novecentesche e del movimento moderno è incentrata sull’idea dello scheletro: il modulo, la griglia, essenzialmente discendono da un principio che è universale e assoluto. L’idea dello scheletro è sperimentata da Le Corbusier con la Maison Domino che è teorizzata in uno spazio generico astratto così come il grande telaio di calcestruzzo armato dell’Unitè d’Habitation nel quale poter inserire unità abitative, a seconda delle esigenze, in modo reversibile prefigurando un’architettura smontabile e flessibile: un’opera aperta, un grande “non finito” (una grande rovina), il telaio strutturale, su cui montare e smontare cellule. L’idea di rendere in qualche modo il telaio strutturale

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indipendente dal contenuto, è portata a maturazione nell’edificio dell’Alta Corte di Giustizia di Chandigarh, dove lo scheletro si stacca dal suo contenuto, così come nella sua ultima opera, il padiglione a Zurigo. Ma anche tutta l’esperienza De Stijl è prodotta all’interno di un riferimento cartesiano matematico generico. Ed è solo in questo riferimento astratto che l’idea compositiva può essere assoluta, non vincolata alle logiche costruttive e ai compromessi inevitabili che la realizzazione comporterebbe. Allo stesso modo, tornando più indietro, la cattedrale gotica è di fatto il suo scheletro: esso è esploso all’esterno e il muro/tamponatura è azzerato, ridotto a semplice superficie trasparente. Così come tutta l’opera di Mies Van der Rohe è incentrata nel ridurre l’architettura alle sue parti essenziali: “less is more” è pensare la costruzione dell’architettura che si avvicini il più possibile all’idea che l’ha generata. La poetica del telaio strutturale quale elemento fondativo del progetto attraversa tutto il novecento basti pensare alla casa del fascio di Terragni, alla sede Mondadori a Segrate di Niemeyer, fino alle folie nel parco della Villette di Tschumi. L’ architettura dunque riscopre la sua essenziale verità a seguito della disgregazione dei segni; diventa assoluta quando è rovina, quando cioè ritorna alla sua condizione originale e si riavvicina al modello ideale da cui viene, liberata il più possibile dai compromessi legati alla funzione e alla costruzione. L’ostentazione del telaio strutturale evidenzia il rapporto asintotico che esiste tra la realizzazione dell’architettura e la sua idea: è come se essa tendesse a raggiungere il più possibile la sua origine senza mai veramente riuscirci; la costruzione dell’architettura diventa il suo limite, e la rovina la sua riscoperta.

Note 1

Chesterton G. K., Il bello del brutto, Sellerio, Palermo 1985.

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‘’Non c’è rinnovamento nell’architettura senza il rapporto col passato’’ e senza profonda conoscenza di esso; in architettura gran parte di questo passato è rappresentato dalla rovina. Questa col passare del tempo ha perso parti dell’edificio che rappresentavano la sensibilità del periodo in cui era stato concepito e acquista un significato più universale, di ‘’eterna attualità’’ poiché è sopravvissuta al passaggio di numerose civiltà; è rimasta unicamente con la sua ‘’potenza di forma’’. Il progettista deve essere in grado di vedere la

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potenzialità universale della rovina farla rivivere ideando nuove funzioni per quella forma. [...] Mentre la rovina è ciò che resta di un edificio compiuto, il non finito è ciò che resta di un progetto compiuto. Anche l’edificio non finito contiene una forte valenza estetica poiché ‘’nella loro incompiutezza hanno la forza di commuovere, di conseguire nuova o diversa bellezza’’. Venezia F., Che cosa è l’architettura, Mondadori Electa, Milano 2011. 3

Sbacchi M., Distruzione/costruzione/decostruzione. Il flusso continuo dell’architettura contemporanea, in Tecla n. 10. (http://www1.unipa.it/tecla/rivista/10_rivista_sbacchi.ph)

4

Longheu V., Intervista a Francesco Venezia.

(https://www.youtube.com/watch? v=hvOtlZBuzro)

5

Marc Augè ha notato la connessione che lega spazi vuoti e cantieri e come negli spazi in divenire dell’abbandono, della distruzione e del cantiere si celi la speranza della modificazione e la forza del progetto. Augè M., Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Biringhieri, Torino 2004.

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Mastrigli G. (a cura di), R. Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, Macerata 2006.

7

Di Domenico C. (a cura di), Sul futuro dell’origine. Novità ed Originalità in Architettura,

Il Melangolo, Genova 2014 (p. 167).

8

Purini F., Comporre l’architettura, Laterza, Roma 2000.

Bibliografia Venezia F., Che cosa è l’architettura, Mondadori Electa, Milano 2011. Chesterton G. K., Il bello del brutto, Sellerio, Palermo 1985. Purini F., Comporre l’architettura, Laterza, Roma 2000. Rossi A., Autobiografia scientifica, Il Saggiatore, Milano 1981. Augè M., Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Biringhieri, Torino 2004. Ruskin J., Le sette lampade dell’architettura, Jaca Book, Milano 1983. Lynch K., Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, Cuen, Napoli 1992. Rowe C., Koetter F., Collage City, MIT Press, Cambridge (Ma.) & London 1967. Meyerowitz J., Aftermath, Phaidon Press, New York, 2006. Marini S., Nuove Terre, Quodlibet, Macerata 2010.

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Interni della ex cartiera Mondadori di Ascoli Piceno, Armin Meili,1968

Struttura non ultimata in via Solferino di Porto S. Giorgio (Fermo)

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IN DIFESA DEGLI SCHELETRI ARCHITETTONICI

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Rovine contemporanee: la galleria con il minareto di Consonno (LC)


IN DIFESA DEGLI SCHELETRI ARCHITETTONICI Andrea Gritti

L’uso del termine “scheletro” in architettura si deve all’inesauribile efficacia della metafora che mette in relazione l’edificio e il corpo, il contenitore e il contenuto che lo abita1. Quando si descrive un’opera di architettura il binomio “scheletro/pelle” risulta più diretto e comprensibile della coppia “struttura/rivestimento”, malgrado questi ultimi due termini non si prestino, se non in misura minore, alle distorsioni di senso che i primi, costantemente, propongono2. In architettura lo “scheletro” e la “pelle” alludono all’equivoca dialettica tra due apparati: quello rigido e “freddo” destinato a sostenere il corpo architettonico e quello variabile e “caldo” impegnato a proteggerlo. La con-

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sunzione della “pelle” di un edificio, poi, è il segnale inequivocabile della degradazione in rovina che ne mostrerà lo “scheletro”. I due termini però non godono della stessa considerazione. Nella civiltà contemporanea, che, almeno nel suo emisfero occidentale, ha promosso l’obsolescenza a regola, ha fatto della cosmesi una delle proprie cifre distintive, mostra enormi difficoltà ad elaborare il lutto e a confrontarsi con la morte, è inevitabile che, di questa coppia, il termine “scheletro” debba essere difeso per poter essere restituito, fortificato, alle esigenze del progetto di architettura. Il precedente: Chesterton e “l’orrore per l’architettura delle cose” Nel 1901 Gilbert Keith Chesterton raccolse alcuni contributi, già pubblicati su The Speaker e The Daily News, in una raccolta dal titolo The defendant3, in cui prese le difese degli scheletri umani, cogliendo l’occasione per polemizzare intorno al senso attribuito alla vita e alla morte dalla cultura occidentale4. Il breve testo dedicato agli scheletri si apriva con una lode alla bellezza invernale degli alberi spogli, che, ancorché viventi, venivano presi da Chesterton a prestito per denunciare l’insensato “terrore” che gli uomini provavano nei confronti “della loro struttura e delle cose che amano”. Una vera e propria fobia che, “vagamente avvertita nello scheletro degli alberi”, era amplificata a dismisura quando si trattava della “carcassa” umana. Pur evitando di rivendicare agli scheletri una “bellezza puramente convenzionale”, Chesterton si interrogava sul perché l’uomo provasse nei loro confronti un senso di vergogna, che si traduceva in un vero e proprio “orrore per l’architettura delle cose”. Per Chesterton l’identificazione dello scheletro con gli emblemi della morte o con i simboli del “grottesco” e del “ridicolo” era ingiustificata dal momento che l’intero universo appariva complessivamente sproporzionato e destava “ilarità, dall’animaletto microscopico con il capo troppo grosso per il corpo, alla cometa con la coda troppo grande per la testa”5. Come nelle tradizioni medievali e rinascimentali, la comicità della morte e la drammaticità della vita erano evocate da Chesterton per ricordare che “la qualità più importante e preziosa della Natura non è il suo splendore, bensì la sua profusa ed insolente orridezza”. Nella sua arringa Chesterton invocava in qualità di testimone a discarico “il grugnito di un maiale, un rumore che fa bene all’uomo, una sorta di

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sbuffo fragoroso e represso, che prorompe da impenetrabili segrete attraverso ogni organo e orifizio”. Per l’autore era probabilmente questa la “voce della terra”, ma anche “il senso più profondo, antico, genuino e religioso del valore della Natura, un valore che trae origine dalla sua incommensurabile puerilità”. “Sbilanciata, ridicola, solenne e felice” per Chesterton la “Natura” che fabbricava scheletri, disseccando corpi comunque troppo ansiosi o troppo spensierati, poteva essere personificata dal “bimbo che scarabocchia” sulla lavagna forme primitive, rudimentali, zoppe, orbe e asimmetriche6. Appesa alla sottile linea del paradosso, la difesa degli scheletri di Chesterton esponeva una tesi potente: l’essere umano, evitando di riconoscere la scomposta bruttezza che da ogni parte lo circonda, si rivolge verso una bellezza minoritaria, che, per di più, pretende immune da corruzione e degradazione. La “Natura tutta rosa e fiori” sarebbe dunque il risultato di una forma di voyeurismo ostinatamente parziale, praticata da chi cerca di dissimulare la vera essenza della realtà, fatta da grugniti, scheletri e scarabocchi, ovvero da cose che, consumandosi, si sottraggono a vuoti canoni di bellezza. Dalla prospettiva del loro difensore gli scheletri non erano un’eccezione da cui fuggire inorriditi, ma una regola da accettare per comprendere le ragioni del proprio essere nel mondo. I testimoni: la struttura, la tettonica e la nuda architettura. Chesterton scriveva la sua “difesa degli scheletri” in un periodo nel quale i testi dedicati all’architettura portavano a termine il rinnovamento della relazione tra corpo ed edificio. Questo tragitto è registrato da Cesare Brandi nelle prime pagine del saggio Struttura e Architettura, pubblicato nel 19677. Secondo Brandi, tra XIX e XX secolo, il lento emergere, prima, e il rapido affermarsi, poi, della “struttura” aveva definito l’orizzonte culturale della modernità e chiarito il suo legame con la storia. Brandi notava che “il concetto di struttura, quando lo si trova fuori dall’ambito architettonico, si vede indirizzato a significare qualcosa che non sta direttamente in vista, ma sostiene e informa tutta l’opera o un fatto, qualcosa di più dello scheletro e qualcosa di meno facilmente reperibile dello scheletro”8, anzi, per dirla con il filosofo Merleau-Ponty, la “struttura” non sarebbe altro che “un semplice sostituto della nozione di essenza”9. Sviluppando questa traccia Brandi voleva dimostrare come il termine “struttura”, emancipato dai suoi connotati fisici, si fosse precisato attra-

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verso il transito nella sociologia, nell’economia politica, nell’antropologia, nella filosofia e naturalmente nella linguistica, da dove si offriva alla teoria dell’architettura completamente rinnovato e finalmente distinto da concetti coi quali poteva essere confuso: “articolazione”, “organizzazione”, “sistema”10. L’obiettivo di Brandi era quello di traghettare il termine “struttura” lontano dalle sue radici etimologiche e dall’intima relazione con il fatto costruttivo, per chiedersi se fosse veramente possibile “ricondurre l’architettura ad un sistema di comunicazione come la lingua”11. La risposta negativa a questo quesito consentiva a Brandi di affermare che la “struttura basilare della spazialità architettonica, a cui fa capo qualsiasi codice architettonico è, nella sua espressione più semplice, l’opposizione di interno e di esterno”12 e che ogni “grande architettura è nata dalla precisa intuizione di questa legge basilare, e non dal reperimento di una nuova tettonica o tecnica tettonica, né di un nuovo ornato”13. Nonostante la diversità degli obiettivi, sono molte le simmetrie concettuali tra il saggio di Brandi e il volume Tettonica e architettura, scritto da Kenneth Frampton e pubblicato nel 199914. Sorprendentemente però lo storico americano non dedica allo studioso italiano neppure una citazione, malgrado riparta proprio da dove Brandi aveva concluso – ovvero dal concetto di spazio architettonico – e approdi al ruolo essenziale della costruzione – ovvero da dove Brandi era partito. Anche nel volume di Frampton gli spunti offerti dall’etimologia, che identificavano nelle lingue greca e sanscrita la “tettonica” con la carpenteria, e quelli relativi alle interpretazioni filologiche, che la definivano come “l’arte della connessione”15, non trovano l’occasione per essere coerentemente sviluppati e privano lo “scheletro architettonico” delle linee di discendenza che ne avrebbero precisato il significato. Dopo aver affermato che “il costruito è in primo luogo e soprattutto una costruzione concreta, e solo successivamente, un discorso astratto”16, Frampton invoca le tesi di Karl Bötticher, Gottfried Semper e Karl Gruber per reimmettere la “tettonica” nel circuito della forma e della poetica architettoniche da dove ne valorizza il “potenziale espressivo”. Affidandosi a concetti-guida quali “topografia”, “etnografia”, “ontologia”, “tecnologia” e riferendosi a una rinnovata “metafora corporea”17, Frampton ritarda fino ad evitarlo un autentico confronto tra “tettonica”, “struttura” e “costruzione”, lasciando indeterminato lo sfondo problematico delle sue stesse tesi18.

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Privato del palcoscenico che forse avrebbe meritato in un simile contesto, scalzato dal ritorno alla ribalta di un “corpo” troppo frettolosamente liquidato dal Moderno, il termine “scheletro architettonico” non viene mai citato nelle 32 pagine del capitolo introduttivo e compie didascaliche apparizioni nelle successive 400, malgrado un ampio e documentato repertorio di immagini lo evochi continuamente. Lo “scheletro” riceve ben altra attenzione nel volume di Valerio Paolo Mosco intitolato Nuda Architettura e pubblicato nel 201219. Il termine compare nella prima delle 6 categorie (4 “bianche” e 2 “grigie”), con cui sono presentate una sessantina di opere recenti20 e collabora alla definizione del “triangolo del Moderno” che, secondo l’autore, imprigionerebbe la “nudità” tra i vertici presidiati dallo “spazio”, dalla “struttura” e dal “rivestimento”21. Questi ultimi si contenderebbero una sorta di primato culturale per tutto il Novecento segnando l’affermazione, il tramonto e la rinascita della “nuda architettura”. Diversamente da Brandi e in un modo più serrato e convincente di quanto faccia lo stesso Frampton22, Mosco non teme di lasciare la parola agli architetti progettisti, mettendo alla prova i concetti su cui basa le proprie tesi. Le fonti selezionate evidenziano come, nella prima metà del XX secolo, la consapevolezza del valore estetico-formale della costruzione, in ferro e in calcestruzzo armato, ponga lo “scheletro” tra i protagonisti di nuovi precetti architettonici accanto alla “struttura”, al “corpo”, al “rivestimento” e naturalmente alla “nudità”. A più riprese, molti grandi architetti sostengono la necessità di “studiare innanzitutto lo scheletro, cioè la nuda costruzione in tutto il suo vigore per cogliere il corpo nella sua interezza, senza confonderlo con i vestiti”23 affidando ai “materiali di rivestimento e di tamponatura” il ruolo di “completare l’ossatura, ma senza diminuirla”24. Nelle fasi di cantiere, infatti, “lo scheletro mostra in modo chiaro e grandioso, più dell’edificio finito, l’audacia della costruzione”25 e “può rivendicare il diritto di essere ammirato” senza “essere rivestito per catturare lo sguardo”26. Del resto “un organismo sano richiede, proprio come l’organismo umano, una sana struttura ossea e ciò che la struttura ossea rappresenta per il corpo umano vale anche per la parte tecnico-tettonica in un edificio rispetto alla configurazione di insieme”27. Animate dalla fiducia verso il processo costruttivo, le sue tecniche e i suoi materiali queste affermazioni avrebbero esaurito, secondo Mosco, la loro

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capacità persuasiva in coincidenza con la sparizione dei loro maggiori interpreti: Le Corbusier, Mies Van der Rohe, gli Smithson. Negli ultimi 30 anni del XX secolo, contributi teorici come quelli di Robert Venturi e Paolo Portoghesi, opere come quelle di Peter Rice e Santiago Calatrava, avrebbero scandito i tempi con cui il “rivestimento” si sarebbe preso la rivincita sulla “struttura”: decorated shed, involucri multi-stratificati, supporti per l’esibizione degli elementi tecnici e schermi su cui proiettare strutture paradossali e autocelebrative ne sarebbero le più evidenti testimonianze. Con l’inizio del XXI secolo, grazie alla ostinata sopravvivenza delle sperimentazioni progettuali della grande ingegneria28 e al cambio di paradigma economico e culturale imposto dalla crisi economica mondiale29, la “nudità” in architettura sarebbe tornata al centro del dibattito e delle pratiche progettuali. Lo dimostrerebbe l’indiscutibile successo del progetto per il recupero di Palais Tokio a Parigi, lasciato “come se fosse un nudo cantiere in costruzione, un non finito allestito con strutture leggere, come un esterno”30. La prova: diversi corpi architettonici transitano sullo stesso scheletro Forse Chesterton avrebbe apprezzato la difesa proposta da Lacaton e Vassal per il “grigio” scheletro del Palais Tokio e trovato sospetto il candore con cui alcuni “scheletri architettonici” sono rappresentati nelle selezioni di Frampton e Mosco31. Per Chesterton ogni organismo vivente, una volta sbarazzatosi del “corpo” attraverso la morte, rivela la propria “struttura” mettendo a nudo l’intima relazione che lo lega ad ogni altro elemento naturale. In virtù di questo processo ineluttabile dovrebbe essere riconosciuto allo “scheletro”, tra tutti gli apparati corporei, un primato testimoniale. In architettura questo primato è costantemente osteggiato da principi estetici che vorrebbero neutralizzarlo. Certamente Chesterton non si stupirebbe nel registrare quanto sia ancora veemente la “fobia” che gli addetti ai lavori e l’opinione pubblica provano nei confronti delle “carcasse” architettoniche, ma forse resterebbe sorpreso nel constatare quanto i nostri territori siano popolati da strutture in disfacimento o semplicemente incompiute, dalle quali si preferisce distogliere lo sguardo, sperando di vederle risorgere sotto nuove, e in alcuni casi mentite, spoglie32. Probabilmente all’autore di The defendant risulterebbe di difficile comprensione anche l’assimilazione nella famiglia degli “scheletri architet-

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tonici”, delle strutture che, per i motivi più diversi, non hanno completato il proprio processo costruttivo. Il riconoscimento che “l’infanzia e la vecchiezza” delle opere di architettura passano entrambe per il disvelamento della loro “struttura”, prima nella fase del cantiere e poi in quella della rovina33, potrebbe essere un’osservazione ingannevole, basata su un’illusione ottica e sul desiderio di legittimare quel genere di esorcismi progettuali – per altro straordinariamente potenti e affascinanti – che, ischeletrendo il corpo dell’edificio, ne vorrebbero fissare una volta per tutte l’età34. Il fatto che gli ultimi elementi stoccati in un cantiere sono di solito i primi a manifestare gli effetti del degrado di un edificio, non autorizza a forzare le analogie tra il ciclo di vita degli organismi biologici e quello delle opere di architettura. Sono infatti ricorrenti i tentativi di trovare una corrispondenza architettonica con le metodologie in uso nell’anatomia comparata e nella paleontologia. L’intento sarebbe quello di stabilire reciprocità formali e funzionali tra le parti e il tutto35. Questi parallelismi sembrano dimenticare che in architettura non si riscontrano le relazioni causali tipiche dei processi di crescita e di formazione degli organismi viventi36. La struttura di un edificio e il sistema di elementi che lo completa si determinano attraverso una serie concatenata di soluzioni di continuità, rispetto alle quali sono possibili anche interventi retroattivi, come dimostrato dal fatto che diversi corpi architettonici possono avvalersi del medesimo “scheletro”, opportunamente adattato e variato ai nuovi scopi. Ad un’osservazione attenta alla prospettiva della lunga durata, questo principio pitagorico appare come la regola di formazione degli insediamenti umani: gli “scheletri bianchi” – autonomi, esteticamente coerenti e realizzati in un unico processo costruttivo – sono vere e proprie eccezioni; al contrario, gli “scheletri grigi” – continuamente trasformati e rimaneggiati fino al limite della loro stessa deformazione – sono la regola. Ciononostante, come ammoniva Chesterton, è solo la solitaria compostezza e la sfacciata giovinezza dei primi a meritare le luci della ribalta, mentre ai secondi non è nemmeno concesso l’onore delle armi. Eppure se c’è una cosa che nell’attualità non manca e con la quale il progetto di architettura deve fare i conti, questa è proprio l’abbondanza di “scheletri grigi”. Nei loro confronti una cultura afflitta dalle perversioni del biopotere37, evita di confessare che l’enorme massa di strutture costruite su suoli un tempo liberi e ora abbandonate, sottoutilizzate o semplice-

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mente non finite, non potrà essere sottoposta se non in minima parte a processi di recupero e di riuso. In questa prospettiva è auspicabile che il progetto di architettura affini le “tattiche” necessarie a gestire l’ordinario piuttosto che lo straordinario38, per esempio, accelerando la consunzione e la decomposizione di quegli “scheletri grigi” che sono troppo grandi, complessi e ormai marginali per poter essere sottoposti a demolizione e ricostruzione. Molte di queste strutture precocemente abbandonate potrebbero essere oggetto di interventi dedicati alla loro messa in sicurezza e, allo stesso tempo, all’esposizione verso processi di rinaturalizzazione programmati. Nel loro insieme queste azioni valorizzerebbero il contenuto ecologico dei parchi dedicati alla fruizione archeologica di rovine contemporanee consolidando nuove forme di partecipazione e di promozione culturale39. Allo stesso tempo nelle aree industriali, in quelle terziarie e di servizio o negli spazi resi residuali dalla presenza delle grandi infrastrutture di trasporto, molti “scheletri grigi”, in parte dismessi e in parte in uso, si prestano ad essere interpretati come infrastrutture di supporto per la realizzazione di nuovi interventi puntali ed energeticamente efficienti. Diffuse su grandi aree queste micro-architetture potrebbero costituirsi come “macchine celibi”, capaci di incentivare, negli spazi urbani negletti, usi basati sulle nuove economie dello scambio e della condivisione40. Questi interventi, a basso costo e ad alto contenuto trasformativo, si inscriverebbero naturalmente dentro l’orizzonte operativo delineato dall’uso nelle pratiche architettoniche contemporanee del concetto di “patrimonio”. Dopo un lungo prestito ad altre discipline che lo hanno arricchito, qualificandolo come “genetico, storico, naturale”, questo “concetto nomade” è, infatti, tornato a rappresentare l’idea che ogni generazione debba assicurare all’altra la trasmissione di beni da valorizzare41. Tuttavia gli strumenti e le tecniche con cui questa operazione viene assicurata in architettura sono ancora indeterminati, come dimostrano lo smarrimento e l’incertezza operativa che accompagnano le fasi di ricostruzione dopo una catastrofe. In quelle occasioni agli occhi dei sopravvissuti si presentano paesaggi popolati da “scheletri architettonici” che mettono a nudo tutta la fragilità e la precarietà delle tecniche costruttive. Tra le strutture che rimangono in piedi, l’attenzione di chi osserva si rivolge a quegli “scheletri” che sono già passati attraverso altre catastrofi e altre ricostruzioni, intorno alle quali

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si è già accumulato un deposito di memorie e di emozioni che non può essere cancellato. A questi “scheletri”, ostinatamente determinati a prolungare il loro destino, ci si deve rivolgere se si vuole capire il ruolo dei materiali e delle tecniche, del contesto fisico e culturale, delle tradizioni costruttive e delle innovazioni tecnologiche. Prendersene cura, riattivando la loro relazione con il progetto, può essere l’occasione per fare giustizia di tutte quelle circostanze in cui è stato insensatamente dimostrato “orrore per l’architettura della cose”42.

Note 1

Sul rapporto tra architettura e corpo cfr.:

Guidoni E., Architettura primitiva, Electa, Milano 1975;

Teyssot G., Body-building verso un nuovo organicismo, Lotus 94, 1997, pp. 118-131;

Bussagli M., L' uomo nello spazio. L'architettura e il corpo umano, Medusa Edizioni, Milano 2005;

Giberti M., Compendio di Anatomia per Progettisti, Quodlibet, Macerata 2014.

2

Ludwig Mies Van der Rohe descriveva la propria architettura come fatta semplicemente di “pelle e ossa”. Questa formula lapidaria è spesso requisita da equivoche ricerche nel campo della tecnologia e del design.

Cfr. Hodge B., Mears P., Skin + Bones, Parallel Practices in Fashion and Architecture, Thames & Hudson, London 2006.

3

Chesterton G. K., The defendant, R. Brimley Johnson,London 1901; trad. it. Il bello del brutto, Sellerio, Palermo 1985. Gli imputati difesi da Chesterton erano i più vari: generi letterari e teatrali (i romanzi d’appendice, i racconti polizieschi, la farsa), proprietà del linguaggio (il nonsense, il gergo), campioni del cattivo gusto (le pastorelle di porcellana, l’araldica, il brutto), prerogative dell’essere umano (l’umiltà, il patriottismo, il culto dei

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bambini, le promesse avventate) e avanguardie del nuovo universo mediatico (la pubblicità, le informazioni inutili). Due difese erano dedicate a elementi simbolici del rapporto con il tempo: i pianeti e per l’appunto gli scheletri. 4

All’inizio del Novecento Chesterton (1874 – 1936) era ancora immune dalle controversie ideologiche che lo riguarderanno sia in vita sia dopo la morte e che, tuttavia, non gli impediranno di contare sull’ammirazione incondizionata di autori come Marshall McLuhan e Jorge Luis Borges. Cfr. McLuhan M., Introduction in H. Kenner, Paradox in Chesterton, Sheed&Ward, London 1948, pp. XI - XXII; Borges J.L., Altre Inquisizioni, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 88-94.

5

“Tanto varrebbe dire che il fumaiolo di una fabbrica è l’emblema della bancarotta. L’opificio può restare vuoto dopo il tracollo, lo scheletro rimarrà nudo dopo la decomposizione della carne, ma hanno avuto entrambi un’esistenza animata e condotta a regola d’arte, con tutte le carrucole che cigolavano e le ruote che giravano”. E più avanti “È per l’uomo un vanto piuttosto singolare non avere, genericamente parlando, nulla da eccepire al fatto di essere morto, ma obiettare in maniera recisa perché avrà un’aria indecorosa”. Chesterton G. K., Il bello del brutto, Op. cit. pp. 34-35

6

“L’albero sopra il mio capo agita le ali come un uccello gigantesco con una sola zampa, la luna somiglia all’occhio di un ciclope. Quantunque mi annuvoli in viso per cupa vanità […] le ossa del mio teschio, al disotto, rideranno in eterno”. Ivi p. 37.

7

Brandi C., Struttura e architettura, Einaudi, Torino 1967, pp.15-49.

8

Ivi, p. 17

9

Ivi, p. 26

10

A questo riguardo Brandi cita, tra gli altri, gli studi di Spencer, Levi-Strauss, Marx, Engels, Freud, Merleau-Ponty, De Saussure, Jakobson e Benveniste.

11

Ivi p.39 “Può sembrare che il parallelismo tra architettura e linguaggio possa permettere di rendere conto dell’architettura nell’ambito della linguistica o almeno della semiologia. Ma un’analisi più approfondita vedrà ridurre queste analogie ad una mera coincidenza”, ivi p. 38. “L’architettura non è una lingua i cui elementi coordinati rappresenterebbero le parole di un discorso: l’architettura se non è arte, è mera tettonica, adeguazione pratica a un bisogno, se arriva ad essere arte, ha una struttura che non è una struttura semantica”, ivi p. 45.

12

“L’opera di architettura avrà allora un interno ed un esterno, ma l’interno non dovrà essere anche esterno a se stesso e l’esterno interno a se stesso: l’esterno di un interno non sarà l’esterno dell’edificio, né l’interno di un esterno sarà l’interno effettivo dell’edificio stesso”, Ivi p. 49.

38


13

Ivi p. 49. Il concetto di “tettonica”, accuratamente distinto da quello di “struttura”, per Brandi sta ad indicare l’elaborazione di una “determinata tecnica, a servizio di uno schema, al cui punto di arrivo avrà preso corpo una determinata conformazione tipologica”, ivi p. 42.

14

Frampton K., Tettonica e architettura. Poetica della forma architettonica nel XIX e nel XX secolo, Skira, Milano 1999.

15

Ivi p. 22.

16

Ivi p. 20.

17

La “metafora corporea” è utilizzata da Frampton per reintrodurre il primato della spazialità architettonica rispetto all’atto costruttivo e per attribuire un valore essenziale alla dimensione “tattile” dell’architettura: “Il corpo articola lo spazio. Nello stesso tempo, il corpo è articolato dallo spazio. Se ‘io’ percepisco la realtà concreta come qualcosa di ‘freddo e duro’, ‘io’ riconosco il corpo come qualcosa di caldo e morbido”. Ivi pp. 30.

18

Frampton rinuncia a una propria definizione di “tettonica” preferendo la raccolta enciclopedica dei contributi di altri autori tra i quali fa emergere quello di Eduard F. Sekler, Cfr. Ivi pp. 39-41.

19

Mosco V. P., Nuda Architettura, Skira, Milano 2012.

20

Le 4 categorie “bianche” sono identificate dai termini skeletal, rough, thin, lyric, le 2 categorie “grigie” dai termini frugal e primitive. I colori dell’architettura nuda deriverebbero dall’interpretazione del contributo di Le Corbusier al tema: tra il 1914 (Maison Domino) e il 1935 (Casa per week-end) “Le Corbusier inventa due tipi di nudità: la prima, dall’alto, è purista e astratta e come tale si potrebbe definire bianca; l’altra invece è dal basso, popolare e vernacolare e come tale si potrebbe definire grigia”, Ivi p. 23.

21

Ivi p. 18.

22

Oltre ai contributi dedicati a Wright, Perret, Mies Van der Rohe, Kahn, Utzon e Scarpa, Frampton riassume il proprio di vista sull’architettura moderna e contemporanea attraverso un lungo “poscritto” dedicato alla ”traiettoria tettonica” tra il 1903 e il 1994, nel quale ricorre ad approcci comparativi non sempre convincenti.

23

Hendrik Petrus Berlage, Ivi p. 18.

24

Auguste Perret, Ivi p. 20.

25

Eric Mendelsohn, Ivi p. 41.

26

Louis Kahn, Ivi p. 29.

27

Walter Gropius, Ivi p. 41.

39


28

Questa linea genealogica partirebbe da Eugéne Freyssinet e Robert Maillart, per continuare con Richard Buckminster Fuller, Konrad Wachsamnn, Eduardo Torroja, Félix Candela, Pierluigi Nervi, Frei Otto e per rinnovarsi recentemente nei contributi offerti da Cecil Balmond, Matsuro Sasaki e Guy Nordenson a progetti di Rem Koolhaas, Toyo Ito e Steven Holl. Cfr. Ivi pp. 33-36.

29

Secondo Mosco gli “involucri” avrebbero “rappresentato l’espressione monumentale” del “capitalismo arrembante della prima globalizzazione. Ivi p. 13.

30

Ivi p. 37.

31

Quando coerenti con il tema dello “scheletro”, le architetture selezionate da Frampton e Mosco si presentano come corpi spogliati ma non dissecati o come apparati ossei non consunti ma incarnati. Ciononostante questi due volumi rappresentano approfondimenti complementari sul rapporto tra architettura e costruzione, che non hanno esaurito il loro percorso di ricerca, come dimostrano le osservazioni espresse in entrambi i testi introduttivi dal medesimo autore, Harry Francis Mallgrave.

32

Al riguardo è di grande interesse la ricerca proposta attraverso il sito http://www.incompiutosiciliano.org.

33

Cfr. Purini F., Comporre l’architettura, Laterza, Roma-Bari 2000 pp. 59-60 e Gritti A., “Rovine del passato, cantieri del futuro. Incontro con Marc Augé” in ARK Rovine, n. 13 (2013), pp. 5-12.

34

Per approfondire questa similitudine si potrebbe sottoporre la configurazione assunta da un edificio nelle fasi cantiere e in quelle di rovina alle regole di riconoscimento dello “scheletro strutturale” descritte in Arnheim R., Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 1982.

35

“Datemi la piuma di un uccello di una specie sconosciuta e estinta, dice Cuvier, e vi descriverò la struttura completa, ad esempio vi descriverò le caratteristiche dello scheletro”, l’anatomia comparata infatti possiede il “principio di correlazione delle forme negli esseri organizzati, per mezzo del quale ogni tipo di essere potrebbe a rigore venire conosciuto mediante un frammento qualsiasi di ciascuna delle sue parti”. Cfr. Cassirer E., Lo strutturalismo nella linguistica moderna, Guida, Napoli 2004, pp. 17-18.

36

Cfr. Thompson D. W., On growth and form, Cambridge University Press, 1917.

37

Cfr. Foucault M., Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976.

38

Sul rapporto tra dimensione spaziale della “strategia” e dimensione temporale della “tattica” cfr. de Certeau M., L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001.

40


39

All’interpretazione in chiave progettuale dei concetti espressi in Augé M., Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2003 si riferisce la tesi di laurea di Fabio Marino, Sandro Riscino e Davide Traina dal titolo “Rovine contemporanee: Un esperimento progettuale nel borgo di Consonno”, relatori: Andrea Gritti (PoliMi) e Monica Amari (UniMi), discussa presso la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano nell’a.a. 2012-13.

40

All’interpretazione in chiave progettuale dei concetti espressi in Emery N., Distruzione e Progetto, L’architettura promessa, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011 si riferisce la tesi di laurea di Ruben Bosetti dal titolo “Mutazioni della pratica architettonica nei paesaggi dello scarto”, relatori: Andrea Gritti (PoliMi), Enric Massip-Bosch e Xavier Vancells (ETSA Vallés), discussa presso la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano nell’a.a. 2012-13.

41

Cfr. Choay F., Allegoria del patrimonio, Officina, Roma 1995.

42

Alle esperienze promosse da http://proyectamemoria.cl e http://www.reclaimingheritage.org nei luoghi colpiti da catastrofi naturali si riferisce la tesi di laurea di Federico Rota, dal titolo “Reclaiming Heritage L’Aquila. Strategie per la rigenerazione dei nuclei abitati a seguito del terremoto”, relatori: Ilaria Valente, Andrea Gritti (PoliMi) e Renato D’Alencon (TU Berlin), discussa presso la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano

nell’a.a. 2012-13.

41


Cicli urbani. Mutazioni della pratica architettonica nei paesaggi dello scarto. Autori

Ruben Bosetti Relatori

Andrea Gritti (PoliMi), Enric Massip-Bosch e Xavier Vancells (ETSA VallĂŠs) Anno di discussione

2013

42


Cicli urbani. Mutazioni della pratica architettonica nei paesaggi dello scarto. Autori

Ruben Bosetti Relatori

Andrea Gritti (PoliMi), Enric Massip-Bosch e Xavier Vancells (ETSA VallĂŠs) Anno di discussione

2013

43


Rovine contemporanee: Un esperimento progettuale nel borgo di Consonno Autori

Fabio Marino, Sandro Riscino, Davide Traina Relatori

Andrea Gritti (PoliMi), Monica Amari (UniMi) Anno di discussione

2013

44


Rovine contemporanee: Un esperimento progettuale nel borgo di Consonno Autori

Fabio Marino, Sandro Riscino, Davide Traina Relatori

Andrea Gritti (PoliMi), Monica Amari (UniMi) Anno di discussione

2013

45


Reclaiming Heritage L’Aquila. Strategie per la rigenerazione dei nuclei abitati a seguito del terremoto Autore

Federico Rota Relatori

Ilaria Valente, Andrea Gritti (PoliMi), Renato D’Alencon (TU Berlin) Anno di discussione

2013

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PAESAGGIO ADRIATICO, CASI STUDIO

47



PAESAGGIO ADRIATICO: CASI STUDIO Umberto Cao, Ludovico Romagni (ricerche sul campo di Martina Camarri, Letizia Camilletti, Roberta Marcantoni, Valeria Silla)

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STRUTTURA A TELAIO IN C.A. MODULARE Porto Sant'Elpidio (FM)

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COMPLESSO TERZIARIO Complesso Terziario ubicato in via Ravenna_Porto Sant’Elpidio _ Anno di costruzione 2000/10_Destinazione Terziaria

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STRUTTURA A TELAIO IN C.A. MODULARE Fermo (FM)

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COMPLESSO RESIDENZIALE Complesso Residenziale ubicato in via Ada Natali_Fermo (FM) _ Anno di costruzione 2000/10_Destinazione Residenziale.

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STRUTTURA A TELAIO IN C.A. MODULARE Montegiorgio (FM)

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PALAZZO COLONNA Complesso industriale ubicato sulla S.P. 239 Croce di Via (FM) _Montegiorgio_Anno di costruzione 1980/90_Destinazione Industriale.

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STRUTTURA A TELAIO IN C.A. MODULARE Ascoli Piceno (AP)

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COMPLESSO RESIDENZIALE Complesso residenziale ubicato in via del Commercio_Ascoli Piceno (AP) _Anno di costruzione 2000/10_Destinazione Residenziale.

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STRUTTURA A TELAIO IN C.A. MODULARE Maltignano (AP)

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COMPLESSO RESIDENZIALE Complesso residenziale ubicato sulla Strada Provinciale 41 _Maltignano_Anno di costruzione 1980/90_Destinazione Residenziale.

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STRUTTURA A TELAIO IN C.A. MODULARE Grottammare (AP)

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COMPLESSO RESIDENZIALE Complesso ubicato in via dei Laureati_Grottammare (AP) _Anno di costruzione 1980/90_Destinazione Residenziale.

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STRUTTURA A CAMPATA AMPIA REGOLARE_IRREGOLARE San Benedetto del Tronto (AP)

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COMPLESSO TERZIARIO Complesso Terziario ubicato in Via Calatafini_San Benedetto del Tronto _Ascoli Piceno_ Anno di costruzione 2000/10_Destinazione Terziario.

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STRUTTURA A CAMPATA AMPIA REGOLARE_IRREGOLARE Porto Sant'Elpidio (FM)

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COMPLESSO INDUSTRIALE Complesso Industriale ubicato in Via Consorzi Artigiani Zona Artigianale _Porto Sant’Elpidio_ Anno di costruzione 2000/10_Destinazione Industriale.

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STRUTTURA A SETTI O PARETI IN CEMENTO ARMATO Ascoli Piceno (AP)

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COMPLESSO INDUSTRIALE Complesso Industriale ubicato in Strada Provinciale 88 Valditronto _Ascoli Piceno_ Anno di costruzione 2000/10_Destinazione Industriale.

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STRUTTURA A SETTI O PARETI IN CEMENTO ARMATO Ascoli Piceno (AP)

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COMPLESSO RESIDENZIALE Complesso Residenziale ubicato in Via del Commercio Zona Industriale _ Ascoli Piceno_Anno di costruzione 1980/90_Destinazione Residenziale.

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SCATOLE RIGIDE Montegranaro (FM)

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PALAZZETTO DELLO SPORT Complesso Sportivo ubicato a Montegranaro nella Zona Artigianale Montegranaro (FM)_Anno di costruzione 1980/90_Destinazione Sportiva.

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STRUTTURE RIPETUTE A SISTEMA Ancona (AN)

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EX SEDE DELLA PROVINCIA DI ANCONA Complesso per il Terziario ubicato in Via Palestro_ Ancona (AN) _Anno di realizzazione 1960/70_Destinazione Amministrativa.

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STRUTTURE RIPETUTE A SISTEMA San Benedetto del Tronto (AP)

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COMPLESSO INDUSTRIALE Complesso Industriale ubicato in Via Calatafini_S. Benedetto del Tronto (AP)_Anno di costruzione 1960/70_Destinazione industriale.

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SCHELETRI RIANIMATI

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SCHELETRI RIANIMATI Umberto Cao

Prendiamo in considerazione i telai strutturali in cemento armato e in acciaio. In particolare quelli che si ripetono con regolarità, che, in genere, appartengono ad edifici multipiano destinati a residenze o uffici. Gli elementi in alzato, ovvero i pilastri, sono lineari, mentre gli elementi in pianta possono essere lineari se costituiti solo da travi, oppure, nel caso più frequente in cui siano stati realizzati i solai, sono superfici piane. Dal punto di vista della figuratività architettonica l’impatto visivo tra il cemento armato e l’acciaio è concettualmente simile, con l’ovvia differenza della sezione derivata dal calcolo strutturale: più sottili e con luci maggiori i telai in acciaio, più pesanti e con luci minori quelli in cemento armato.

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Le due diverse soluzioni strutturali però, sempre nel caso di edifici residenziali o per uffici, tendono a non differenziarsi molto in virtù del fatto che l’acciaio, più resistente del cemento armato, con luci eccessive rischia di presentare elasticità incompatibili con le caratteristiche degli edifici. Ci sono due condizioni per valutare l’immagine di una struttura incompiuta: la geometria della singola campata tridimensionale, e la serialità del sistema. L’apparato figurativo di un telaio strutturale a vista infatti si valorizza attraverso la regolarità del modulo trilitico (x=y=z) e la sua ripetizione costante sino ad avvicinarsi ad una griglia regolare di virtuali figure cubiche, una soluzione limite, però, difficilmente raggiungibile. Infatti l’interasse tra i pilastri deriva in parte dalle caratteristiche tipologiche e dimensionali dell’edificio in costruzione e in parte dal calcolo strutturale di travi e solai, mentre l’altezza, e cioè l’interpiano, deriva esclusivamente dal tipo edilizio. L’interpiano al rustico strutturale di residenze o di uffici oscilla, in genere, tra i metri 3,00 e i metri 4,00, mentre la campata, che coincide con la maglia di pilastri, in genere non è inferiore ai 4 metri, e secondo necessità, può raggiungere anche i 6-8 metri di luce per le travi e anche di più per i solai. Di conseguenza la scansione regolare quadrata dei moduli strutturali in facciata è difficilmente raggiungibile a meno che non sia stata progettata volutamente. Il reticolo architettonico spaziale – non ha importanza che sia strutturale o meno – come elemento della composizione esprime un minimalismo che si spinge sino all’assenza di forma: ci comunica dunque il valore assoluto della geometria elementare che occupa e misura uno spazio senza compromissioni di linguaggio: è metrica pura. Ma il reticolo, quando anisotropo, e cioè allineato secondo un asse principale, esprime una caratterizzazione figurativa e funzionale anche come elemento di relazione o collegamento orizzontale. Il reticolo è anche la rappresentazione più assoluta della trasparenza di un involucro, che ci sia o non ci sia la chiusura in vetro. Per questo nelle architetture che chiedono massima trasparenza ha impatto molto maggiore la vetrata scandita dai telai degli infissi rispetto alla banale e spesso volgare chiusura con il vetro strutturale. Il reticolo suggerisce anche il tema classico del “non infinito”, di un processo costruttivo, di una storia architettonica interrotta: in questo senso è immagine propriamente urbana. Altre volte, seppure invisibile, agisce come modulo geometrico regolando la composizione dei volumi e delle facciate. Fin qui il telaio come elemento della composizione. Ma è possibile rein-

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Sou Fujimoto, Serpentine Pavilion

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Franco Purini, disegno

Curtain wall

Carmelo Baglivo, disegni

Figini-Pollini, Officine ICO a Ivrea

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trodurre il telaio strutturale come elemento figurativo in se, sia per restituire qualità alla città, sia per riciclare edilizia incompiuta o abbandonata? La città ed il paesaggio italiano e mediterraneo oggi sono invasi da relitti edilizi, soprattutto capannoni industriali ma anche palazzi per uffici o residenze. Sono scheletri architettonici, costruzioni in cui l’interruzione del processo costruttivo ha determinato una condizione di non finito caratterizzata dalla presenza dominante del telaio strutturale oppure dalla potenziale opportunità di riciclo della struttura portante. Prescindendo dalle dimensioni perfettamente regolari, immaginiamo una struttura portante – uno scheletro appunto – costituita da campate che si ripetono regolarmente nelle tre dimensioni spaziali (in alzato, in lunghezza e in profondità). Su questa struttura portante noi non vogliamo intervenire per realizzare l’edificio progettato ma non realizzato, e neppure un edificio diverso con la stessa struttura e volumetria. L’interesse invece è quello di “riciclare” lo scheletro edilizio, senza mascherarlo, pensandolo come condizione di nuove possibilità, in attesa del compimento del suo destino. Lo riattiveremo valorizzando le sue caratteristiche formali e assumendone la stereometria e il vuoto come elementi di una nuova spazialità. È evidente che questa pratica impone innanzi tutto la convenienza dei costi, la rapidità e semplicità dei lavori e, probabilmente, anche il carattere provvisorio, senza escludere a tempi lunghi anche l’abbandono e la distruzione, con il riciclo, più tradizionale, delle macerie. Prescindendo da considerazioni prettamente tecniche che non interessano in questa sede (lo stato di conservazione del cemento armato o dell’acciaio, il degrado eventuale dei solai, i collegamenti pilastri-travi e quelli travi-solai, i controventamenti, ecc...), vediamo quali possono essere i dispositivi progettuali per intervenire lasciando aperta e flessibile la scelta della nuova destinazione d’uso. Lo faremo aiutandoci con esperienze progettuali condotte su scheletri edilizi esistenti. Accennerò a due esperienze progettuali condotte con modalità diverse, in due diversi contesti, su strutture architettoniche caratterizzate da un maglia strutturale regolare e indifferenziata. La prima di carattere urbano, esito di una ricerca svolta dal Berlage Institute di Rotterdam, su aree urbane degradate di Atene caratterizzate dalla ripetizione della cosiddetta polykatoikia, la tipica palazzina greca con telaio in cemento armato1. La seconda come ipotesi di recupero di edifici incompiuti di cui è presente solo la struttura in cemento armato, esito della ricerca svolta all’interno

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di un Seminario di Laurea nella Scuola di Architettura e Design di Ascoli, Università di Camerino2. Polykatoikia in Greco significa casa plurifamiliare, che generalmente coincide con la dimensione della nostra palazzina di 5 o 6 piani, ma è formalmente meno curata e caratterizzata dalla ripetizione di soluzioni strutturali convenzionali in cemento armato. Caratterizza molti quartieri intensivi di Atene, anche in aree centrali, in una condizione di frammentazione della proprietà e di forte disordine urbano. I ricercatori del Berlage, analizzando un quartiere tipico di Atene, hanno ipotizzato una serie di azioni architettoniche volte a ridisegnare la città finalizzandola alla dimensione collettiva di cui il quartiere è quasi totalmente privo. Queste azioni portano a realizzare figure architettoniche paradigmatiche costruite sul modello figurativo del telaio strutturale che costituisce il DNA degli edifici esistenti. La prima figura fa riferimento all’archetipo del Chiostro: una grande terrazza viene ricavata al di sopra del piano terra, generalmente commerciale, e, sopra ancora, un fitto reticolo indifferenziato perimetra gli spazi unificando frammenti di proprietà e trasformando lo spazio vuoto in una nuova e ampia corte interna (Ji Hyun Woo, Berlage Institute, 2011). La seconda figura fa riferimento al concetto di Piattaforma: Con la demolizione delle pareti non portanti che dividono gli spazi al pianterreno solo parzialmente occupato da negozi, si mette a nudo la struttura portante originaria che viene a disegnare un porticato libero da muri, privato, ma tuttavia accessibile a tutti (Ivan K. Nasution, Berlage Institute, 2011). La terza fa riferimento alla Trabeazione: per trasformare la monofunzionalità residenziale delle palazzine in un sistema urbano polifunzionale, si propone di realizzare, come collegamento strutturalmente autonomo tra gli edifici esistenti ed al di sopra degli stessi, un edificio lineare multipiano a grande luce che accolga la destinazione ad uffici (Davide Sacconi, Berlage Institute, 2011). La quarta simulazione progettuale si riferisce al paradigma dello Stoa: Al fronte delle facciate viene sovrapposta una struttura reticolare per offrire un nuovo portico pubblico. La stoa, strutturalmente autonoma dalle case adiacenti, consente anche di trasformare in spazi produttivi semiprivati i portici esistenti, ora discontinui e inutilizzati (Roberto Soundy, Berlage Institute, 2011). La quinta ed ultima azione progettuale riporta al paradigma del Teatro. La palazzina viene svuotata delle tamponature esterne e dei muri divisori

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Un quartiere residenziale di Atene

Ji Hyun Woo, Chiostro (immagine Domus)

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Ivan K. Nasution, Piattaforma (immagine Domus)

Davide Sacconi, Trabeazione (immagine Domus)

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Roberto Soundy, Stoa (immagine Domus)

Yuichi Watanabe, Teatro (immagine Domus)

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riducendosi a sola struttura portante. Diventa così scena teatrale della vita di ogni giorno e spazio pubblico coperto a diposizione degli abitanti del quartiere. Questo archetipo mette a nudo lo scheletro della polykatoikia, riportandola alle sue origini, la Maison Domino. (Yuichi Watanabe, Berlage Institute, 2011) Ancora più esemplare è la ricerca condotta sul riciclo di scheletri esistenti nel territorio marchigiano. Esaminiamo un primo caso nel quale sia necessario ricostruire uno spazio chiuso e protetto, ovvero climatizzato e insonorizzato rispetto all’ambiente circostante. La regolarità del modulo strutturale costituisce un valore formale tridimensionale che può essere lasciato a vista. Converrà allora liberare le campate di perimetro arretrando la necessaria tamponatura di facciata. Ma se vogliamo conservare l’immagine complessiva di un “non finito architettonico” in tutta la sua instabilità e precarietà, restituendogli però dignità architettonica, dovremmo mettere in atto ancora altri accorgimenti: rendere permeabile, quindi trasparente, il nuovo involucro; posizionarlo in posizione indipendente rispetto all’allineamento delle strutture in alzato; studiare le “figure altre” che si rendono necessarie per completare le destinazioni d’uso in modo che la loro “estraneità” sia leggibile il più possibile. In definitiva l’obiettivo architettonico può essere quello di rileggere nella sua interezza lo scheletro edilizio lasciando che gli elementi introdotti dal progetto di riciclo architettonico siano visibili per trasparenza. Questo dispositivo di intervento è rintracciabile nel progetto per il riciclo delle strutture portanti di un edificio che da oltre 5 anni appartiene ai casi irrisolti di una città marchigiana. Si tratta della ex sede della Provincia di Ancona nel centro storico della città. Negli anni Sessanta del secolo scorso, l’Amministrazione provinciale di Ancona realizzò un ampliamento della sua sede accanto alla precedente costruita nel 1870, subito dopo l’unità d’Italia. Ma l’edificio, realizzato con struttura intelaiata in acciaio, aveva le pareti di tamponamento che contenevano ingenti quantità di amianto. Quindi, secondo le nuove normative, inagibile. Nel 2010 ne venne ordinata la parziale demolizione con l’asportazione non solo delle pareti in amianto ma anche di ogni altro apparato costruttivo. A lavori terminati l’edificio si presentava completamente spoglio, con la sola struttura portante. Fu messo all’asta, ma rimase invenduto. Caduta definitivamente la destinazione a sede della Provincia di Ancona, oggi si ipotizza un accordo

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tra Provincia, Comune ed Università per il suo completamento. L’ipotesi progettuale che illustriamo ne propone una destinazione per lo svolgimento di attività universitarie non curriculari, ma ricreative (teatrino, pub), culturali (auditorium, biblioteca, spazi espositivi) o di avviamento al lavoro (coworking, spin-off, start-up) che trovano una collocazione ideale nel centro storico di una città. Il progetto che presentiamo3 non propone una destinazione definitiva e neppure una dettagliata articolazione funzionale. Intende invece realizzare uno spazio flessibile, riciclando l’apparato modulare della struttura portante in acciaio ad un uso estemporaneo e provvisorio per l’ipotesi funzionale prima accennata. La campata strutturale è perfettamente quadrata, di m 7,90 x 7,90. In alzato l’interpiano è di m 3,20. Nel piano interrato i pilastri di acciaio sono integrati con pilastri in cemento armato. I solai sono realizzati con travi incrociate e soletta in c.a. su lamiera grecata. Poche le parti a sbalzo. All’interno si aprono due chiostrine che riprendono la dimensione dell’interasse strutturale. A fianco di ognuna un blocco servizi verticali con scala, ascensori e cavedio. Lungo il perimetro dei solai nel corso della demolizione delle parti non strutturali era stata montata una ringhiera in rete keller. Complessivamente una situazione interessante per l’esperimento progettuale del riciclo. Queste sono le azioni che il progetto prevede sulla struttura portante: 1. Bonifica delle parti strutturali in vista con opere di verniciatura protettiva; 2. Demolizione della porzione di solaio compresa tra le due chiostrine in corrispondenza del 1° e 2° solaio (piano terra e primo piano); 4. Chiusura delle due chiostrine del 3° solaio con il completamento dell’impalcato; 5. Chiusura di una chiostrina con il completamento del 4° solaio e parziale ampliamento dei solai da 3° al 8° solaio. Viene poi prevista l’introduzione di nuovi elementi volumetrici all’interno dell’edificio: 1. Una parete di vetro, posta a circa 2 metri dall’allineamento perimetrale dei pilastri, che chiude gli spazi interni; 2. Un volume Auditorium tra il 1° e il 3° solaio; 3. Un volume Teatrino Scientifico tra il 4° e l’8° solaio; 4. Due grandi coni di metallo e vetro, che attraversano in altezza il fabbricato e penetrano nei due volumi dell’auditorium e del teatro portando all’interno luce ed equilibrio termico; 5. Un sistema continuo di percorsi che inviluppano su tre lati il perimetro del fabbricato, con scale mobili a salire e a scendere; 6. I servizi igienici che completano il blocco esistente dei servizi di distribuzione verticale; 7. Una copertura leggera rivestita di

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pannelli fotovoltaici che prosegue verso il limitrofo edificio del rettorato universitario sino a coprirne la corte interna. L’Auditorium e il Teatrino Scientifico, così come i grandi camini, sembrano galleggiare nel corpo della struttura. Gli spazi interni sono suddivisi solo dagli arredi e da vetrate. Tutte le finiture interne di pareti e soffitti sono al rustico tranne i pavimenti che sono rivestiti in gomma ignifuga. Le canalizzazioni degli impianti sono a vista, fissati all’intradosso dei solai. Tutto però concorre a creare un equilibrio ambientale in ambito di risparmio energetico. Ogni elemento aggiunto è chiaramente distinguibile dal reticolo strutturale di facciata. La trasparenza è assoluta. Un secondo dispositivo di intervento sullo scheletro strutturale multipiano di edifici incompiuti, sempre in un ambito di temporaneità ed economicità dell’intervento, è quello che lo interpreta come “moltiplicatore” del piano urbano. La presenza di solai grezzi, ruvidi, quasi “terrosi”, insieme alla mancanza di murature divisorie, di sovrastrutture architettoniche e di ragioni funzionali, evoca un ipotetico terreno libero sul quale svolgere attività pubbliche che richiedono ampie superfici ormai indisponibili in aree densamente costruite. In altri termini abbiamo voluto interpretare lo scheletro edilizio con la sua stratificazione di solai come un possibile suolo pubblico “inpilato” su più livelli. In questo caso il dispositivo di riciclo dovrà lavorare in profondità, attraversare lo scheletro, salire e scendere tra un piano e l’altro per utilizzare i solai quasi fossero terreno libero urbano. Questa seconda ipotesi è stata applicata in uno dei tanti relitti edilizi sparsi nei centri minori italiani. È il caso del cosiddetto Palazzo Colonna di Montegiorgio, nella Valle del Tenna in provincia di Fermo. In virtù di un vecchio accordo pubblico-privato che prevedeva la costruzione di un edificio industriale, nel 1983 iniziano i lavori, tre anni dopo il Comune li interrompe, causa l’altezza non regolare degli interpiano, prima ancora che fosse ultimata la struttura dell’ultimo solaio. Viene chiesta una sanatoria e nel 1991 riprendono i lavori con una nuova destinazione d’uso, ma in breve si fermano ancora a causa di liti tra i proprietari. Dopo nuovi tentativi di accordo e nuovi contenziosi con il comune tutto si ferma definitivamente. Nel 2007 viene effettuata una perizia sulla conservazione delle strutture realizzate – 4 solai in elevazione e un quinto, arretrato e incompleto – che ne conferma la stabilità. Lo scheletro edilizio si presenta con una forma ad “U” appoggiata alla strada provinciale e aperta verso l’interno dell’area

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Letizia Camilletti, progetto di riciclo di scheletro in acciaio, edificio incompiuto, Ancona

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Letizia Camilletti, progetto di riciclo di scheletro in acciaio, edificio incompiuto, Ancona

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Letizia Camilletti, progetto di riciclo di scheletro in acciaio, edificio incompiuto, Ancona

Pianta primo piano_AUDITORIUM

Pianta secondo piano_BAR / RISTORO, SPAZIO ESPOSITIVO

Pianta terzo piano_BIBLIOTECA, TEATRO

Pianta quarto piano_SALA LETTURA / COWORKING, TEATRO

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industriale nella quale esistono aree ancora inedificate. L’intera struttura portante è in cemento armato con pilastri di sezione quadrata cm 45 x 45 al primo elevato e 30 x 30 all’ultimo. Le campate in pianta sono quadrate con interasse di circa m 5,50 x 5.50. L’interpiano in alzato è di circa m 5,50 al piano terra e di m 4,50 ai piani superiori Le travi in c.a. sono a spessore solaio, tessute in entrambe le direzioni, i solai del tipo tradizionale in c.a. e laterizio. Anche in questo caso il progetto4 non cerca una soluzione stabile e definitiva di completamento, ma si pone il problema di una destinazione d’uso provvisoria con la quale avviare un nuovo ciclo di vita di una struttura dismessa che si trova ai margini di un’area industriale poco sviluppata. Montegiorgio però è collocato in una zona in cui viene ancora praticata una buona politica agroalimentare e in cui, da quando è iniziata la crisi industriale, si parla di avviare sperimentazioni di “filiera corta”, ovvero di allestire siti destinati al mercato ortofrutticolo a “kilometro zero”, molto carenti in tutta la regione Marche. Dopo l’inevitabile pulizia e tinteggiatura dei pilastri e delle parti in vista dei solai, queste sono le azioni progettuali messe in atto: 1. Demolizioni di parti di solaio lungo il perimetro della facciata principale su strada per inserire una rampa continua; 2. Un percorso coperto a sezione scatolare che percorre ogni piano dell’edificio distribuendo gli stand di vendita dei prodotti e alcune piazzole nelle quali sono coltivate erbe aromatiche; 3. Una diramazione del percorso al primo e al secondo piano che prosegue linearmente lungo uno dei due bracci, distribuendo un nuovo edificio a due piani posto su alti pilotis che coprono l’area di movimento dei veicoli merci; 4. Scalette che portano al piano terra dove si trovano gli orti; 5. Serre e spazi di stoccaggio ricavati nelle aree retrostanti libere e nei capannoni industriali in disuso. Il nuovo corpo di fabbrica lineare è progettato con struttura leggera in acciaio smontabile ed è completamente privo di tamponature: solo protezioni di teli e reti come un qualsivoglia mercato ortofrutticolo. Oltre al sottostante spazio veicolare per il movimento delle merci, è costituito da due piani, il primo dei quali consente il passaggio dei prodotti direttamente dai retrostanti orti allo stand di vendita e al consumatore; il secondo livello è dedicato ai prodotti di serra. In copertura un giardino pensile con colture sperimentali.

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Martina Camarri, progetto di riciclo di scheletro in cemento armato, edificio incompiuto, Montegiorgio (FM)

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Martina Camarri, progetto di riciclo di scheletro in cemento armato, edificio incompiuto, Montegiorgio (FM)

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Martina Camarri, progetto di riciclo di scheletro in cemento armato, edificio incompiuto, Montegiorgio (FM)

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Il terzo dispositivo di intervento di riciclo di uno scheletro edilizio riguarda situazioni urbane complesse per le quali viene messo in atto un progetto di trasformazione di ampia scala. Definite le finalità e le nuove funzioni urbane, l’analisi studia i caratteri morfologici, tipologici e funzionali delle strutture e infrastrutture da modificare e il progetto interviene con strumenti diversi a scale diverse: dalla demolizione alla ricostruzione; dal restauro alla ristrutturazione; dalla definizione degli spazi aperti alla costruzione di nuove volumetrie; dalle relazioni di mobilità alla viabilità interna e così via. Considerando interventi di trasformazione su superfici costruite di molti ettari, capita sovente di includere edifici degradati, dismessi o addirittura mai completati. Edifici che non hanno ancora avuto un ciclo di vita o che lo hanno già concluso. Oppure ancora edifici la cui ragione è incompatibile con la trasformazione urbana in atto. Torna quindi il ragionamento che si pone alla base di queste pagine: escludendo la demolizione, quale può essere il dispositivo di recupero che li possa inserire in un nuovo disegno urbano senza però escludere che questo nuovo ciclo di vita possa ancora una volta concludersi? Vogliamo riferirci alla occasione di trasformazione urbana che impegnerà il confine nord del Comune di San Benedetto del Tronto, quando sarà avviato il progetto di ristrutturazione portuale collegato alla costruzione del Molo Nord, previsto nel PRG della cittadina. Questo grande tema di progettazione urbana che comporterà un ridisegno dei confini portuali e una pesante riorganizzazione dei capannoni di stoccaggio e lavorazione del pesce, non potrà escludere il riutilizzo di alcuni manufatti (tra cui l’ex Stadio Ballarin) posti all’interno dell’area e nelle immediate vicinanze. Uno di questi è la costruzione realizzata tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso da un noto imprenditore marchigiano con destinazione ad uffici, ma non ultimata, causa un contenzioso con il comune e tuttora in abbandono. Anche questo edificio si presenta a forma di “U”, parzialmente chiuso però da un’altra struttura a pianta quadrata. L’edificio presenta un piano terra e due piani in elevazione. La struttura portante, realizzata con procedimenti di industrializzazione edilizia, è in telai di cemento armato con campate regolari a pianta quadrata di circa m 4,00 x 4,00; l’interpiano è di circa m 3,50. La sezione dei pilastri di circa cm 40 x 40, non mostra particolare differenze tra piani bassi e piani alti. Lo spessore del corpo di fabbrica è pari a 4 campate, quindi di circa 16 metri. A parte i corpi scala che fuoriescono dal reticolo strutturale, gli unici elementi

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aggiunti alla struttura sono i pannelli prefabbricati fissati alla testa dei solai. Anche in questo caso, quindi, siamo davanti ad uno scheletro strutturale in buono stato di conservazione ma inutilizzabile per le finalità del progetto originario. Il progetto studiato per il recupero di questo scheletro5 parte dalla considerazione che, demoliti i pannelli prefabbricati di facciata, i telai di cemento possono apparire come una sequenza regolare di scansioni trilitiche. Altro tema è stata quello della destinazione d’uso, che doveva essere compatibile con la destinazione portuale dell’intera area. Un forte vincolo era la dimensione corta della campata (m 4 x 4), e lo spessore considerevole del corpo di fabbrica (m 16) pensati per una destinazione ad uffici probabilmente distribuiti da un corridoio interno. Si è scelto di proporre una struttura turistico-ricettiva, costituita da due parti congruenti tra loro, ma distributivamente e costruttivamente separate: un hotel e un centro benessere pubblico. L’immagine complessiva dell’intervento rispecchia questa scelta: un reticolo strutturale leggero e trasparente (l’hotel con i servizi generali al piano terra e le camere ai due piani superiori) al quale viene sovrapposto un volume parallelepipedo chiuso da pannellature di rete in metallo forato che ospita la grande struttura pubblica per la salute. Ma la sovrapposizione non doveva creare tra le due parti vincoli né strutturali né funzionali, lasciando che potessero affrontare destini diversi Per l’hotel, e cioè lo scheletro da riciclare, sono state messe in atto le seguenti azioni progettuali: 1. Smontaggio dei pannelli prefabbricati di facciata; 2. Demolizione dei corpi scala esistenti e realizzazione di nuovi collegamenti verticali; 3. Posizionamento dei servizi generali dell’hotel al piano terra chiusi da una vetrata allineata con la seconda campata strutturale in modo da liberare un portico lungo il perimetro; 4. Posizionamento delle camere al primo e secondo piano occupando le due campate centrali e utilizzando quella di perimetro esterno come terrazza; 5. Inserimento dei disimpegni verticali (scale e ascensori) ed orizzontali (corridoi e ballatoi di distribuzione) nelle campate di perimetro che affacciano all’interno. Per il Centro Benessere, la nuova costruzione ad uso pubblico, sono state svolte questa azioni progettuali: 1. Posizionamento di ventiquattro grandi piloni di acciaio e cemento con interasse variabile da 12 a 16 metri strutturalmente autonomi dallo scheletro esistente (fuori dal perimetro o al centro di campate previa demolizione

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dei solai) che salgono oltre la copertura; 2. Una piastra di forte spessore e rigidità (circa 2 metri di altezza), che copre l’intero edificio, realizzata con travi di acciaio incrociate, che costituisce un nuovo piano di imposta strutturale immediatamente al di sopra dell’ultimo solaio dello scheletro preesistente; 3. Utilizzazione del volume a pianta quadrata che chiude parzialmente la corte dello scheletro come disimpegno verticale ad uso esclusivo del centro benessere; 4. Utilizzazione per impianti tecnici dello spessore vuoto tra l’ultimo solaio dello scheletro e il nuovo solettone a piastra; 5. Posizionamento di una nuova struttura in elevazione in acciaio fondata e ancorata sul solettone e modulata secondo le necessità del centro benessere e delle sue attrezzature. In questo modo la sovrapposizione si realizza nella completa autonomia strutturale, non crea servitù funzionali e consente ai due edifici sovrapposti di percorrere autonomamente il loro ciclo di funzionalità ed esistenza.

Note 1

Gli studi sono stati presentati da Pier Vittorio Aureli, Maria Giudici e Platon Issaias con il titolo “From Dom-ino to Polykatoikia” su Domus, N. 962 2012.

2

Seminario di tesi di laurea applicato al rilevamento di campioni di “scheletri edilizi” dispersi nei territori della Regione Marche (cfr la seconda parte di questo volume). Alcuni di questi “casi” sono stati selezionati e studiati in modo approfondito e su di essi è stato applicato un procedimento di riciclo – definitivo o provvisorio – fondato sulle caratteristiche reali del caso studio. Il seminario è stato guidato da Umberto Cao e Ludovico Romagni e ha prodotto i sui risultati finali nell’AA 2013-14; Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno, Università di Camerino.

3

Progetto di tesi di laurea di Letizia Camilletti, sviluppato nell’ambito del seminario di laurea “Scheletri architettonici” (2014), relatore prof. Umberto Cao; correlatore prof. Ludovico Romagni; correlatore per gli impianti prof. Eduardo Barbera.

4

Progetto di tesi di laurea di Martina Camarri, sviluppato nell’ambito del seminario di laurea “Scheletri architettonici” (2014), relatore prof. Umberto Cao; correlatore prof. Ludovico Romagni (cfr. nota 2).

5

Progetto di tesi di laurea di Valeria Silla, sviluppato nell’ambito del seminario di laurea “Scheletri architettonici” (2014), relatore prof. Umberto Cao; correlatore prof. Ludovico Romagni (cfr. nota 2).

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Valeria Silla, progetto di riciclo di scheletro in cemento armato, edificio incompiuto, San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno)

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Valeria Silla, progetto di riciclo di scheletro in cemento armato, edificio incompiuto, San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno)

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Valeria Silla, progetto di riciclo di scheletro in cemento armato, edificio incompiuto, San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno)

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RIBALTAMENTI TEMPORALI

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Immagine: Ribaltamenti temporali, Ludovico Romagni, Maurizio Tempera, 2014


RIBALTAMENTI TEMPORALI Ludovico Romagni

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Ribaltamenti temporali La necessità di metabolizzare il superamento del concetto “positivista” di crescita infinita in cui, dal boom economico agli ultimi decenni, ogni individuo nel costruire la sua porzione di “proprietà” e benessere ha generato, per sommatoria banale, quello scenario multiscalare che ha consumato territorio, energie, risorse, restituisce oggi un variegato e immenso “patrimonio” di scorie alle quali ridare senso. Trasformare questo enorme problema in opportunità, in occasione, per l’appannata cultura architettonica e per i nuovi orizzonti di quell’economia legata al settore dell’edilizia appare un percorso, nel bene e nel male, ineludibile1. Data per oramai indiscussa la battaglia al più equivoco e irresponsabile principio del moderno e cioè considerare il territorio come risorsa illimitata, una delle occasioni per tornare ad immaginare e sperimentare strumenti di regia delle trasformazioni territoriali è rappresentata dalla presenza di scheletri in cemento armato o acciaio, nonché di “rovine” dismesse disperse nel territorio in attesa di un nuovo destino. L’immenso patrimonio dell’inutilizzato e del non ultimato si offre come laboratorio di idee per ricercare modalità operative e procedure progettuali che, a partire dalla capacità di sviluppare scenari, anche dal valore utopico legati al tema del riciclo, indaghino nuove configurazioni urbane e architettoniche. La fragilità delle forme è una delle caratteristiche distintive dell’edilizia contemporanea che non è mai riuscita ad elaborare fino in fondo uno dei principi più controversi ereditati dal “moderno” e cioè l’orizzonte temporale di un’opera. È possibile imporre un tempo vitale ad un organismo architettonico senza cadere poi nelle tentazioni dell’affezione e nei tecnicismi più sofisticati di “recupero”? È una questione che palesa la contraddizione di fondo posta alla base della concezione di edifici destinati ad una esistenza di breve durata, come nel caso dei capannoni industriali, o comunque progettati senza tener conto di questo dato, come nel caso dell’edilizia residenziale, che ha favorito lo sviluppo di sistemi costruttivi non reversibili e l’uso di materiali dal decadimento prestazionale ed estetico indefinito; la loro durata può essere improvvisamente accelerata o faticosamente estesa trascinando gran parte degli edifici in quella condizione di non definizione e degrado che caratterizza gli scenari urbani della contemporaneità.

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Dalla materia alla piccola scala. L’operazione del riciclo investe un ampio campo di azioni di difficile definizione che variano a seconda degli scenari, della scala di intervento e degli obiettivi che si prefigge. Alla piccola e piccolissima scala, quella che si riferisce all’idea stessa di “materia”, il processo di “ciclo” risulta chiaro e già in parte metabolizzato attraverso il proliferare di mostre, ricerche e realizzazioni di carattere sperimentale: il “ciclo” comprende tutte quelle operazioni che a partire dalla materia arrivano alla costruzione di un prodotto finito nella consapevolezza del riutilizzo della materia stessa. In sostanza si parte da qualcosa che esiste ma non ha più utilità, oppure che nella sua configurazione ha esaurito il tempo di utilizzo programmato e la si decompone: gli scarti, i materiali riciclabili, le parti tecniche “funzionanti” vengono utilizzati come elementi per la costruzione di qualcos’altro, (non necessariamente prodotti architettonici), con la nobile finalità di ridurre al minimo lo spreco e lo smaltimento delle risorse2. Spostare materia ed elementi per ricomporli in nuovi organismi rimanda ad azioni compositive legate alla tecnica del montaggio, dell’assemblaggio, dell’accostamento che oramai da qualche tempo caratterizzano le esperienze di numerosi architetti impegnati nel ricercare dispositivi in grado di giungere ad un’opera compiuta e statica con la finalità di concepire scenari in continua trasformazione e configurazioni continuamente differenti. L’utilizzo dell’azione di riciclo definisce un processo, un “ciclo”, che anziché rispondere esclusivamente a necessità emergenziali diviene strumento programmatico e persino estetico. Sono ricerche che ispirate a principi etici quali l’attenzione al sociale, il low cost, l’autocostruzione, i nuovi modi dell’abitare, agiscono su un uso programmatico di materiali riciclati provenienti dalla dismissione o dagli scarti dei cicli produttivi. Un idea non nuova se pensiamo alla Ecole nomade (1957) a Villejuif o alla sua casa a Nancy (1954), dove Jean Prouvé già recuperava frammenti di abitazioni provvisorie; così come, negli stessi anni, Le Corbusier reimpiegava le pietre di un’antica cappella distrutta durante la seconda guerra per erigere i muri bianchi di Notre Dame du Haut (1950-55) a Ronchamp. L’organizzazione di importanti mostre quali la “Matière grise. Matériaux /réemploi/architecture”, al Pavillon de l’Arsenal a Parigi, curata da Nicola

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Delon e Julien Choppin, così come “Re-cycle” del MAXXI curata da Pippo Ciorra e Sara Marini, hanno evidenziato la necessità di un approccio etico che non annulli l’intenzione formale3: l’uso di materiali di riciclo non produce solo risultati tecnologicamente corretti ma poveri dal punto di vista architettonico. In molti dei progetti esposti, quasi tutti realizzati, si nota come sia possibile concepire architetture anche di notevole bellezza, utilizzando strutture e materiali provenienti da edifici risalenti ad epoche e localizzazioni geografiche remote o da tipologie del tutto diverse. Tanti sono oramai gli esempi: il muro con pile di quadrotte di moquette pressate nella Lucy Carpet Hause di Rural Studio (2002), così come il progetto di Villa Welpeloo di Superuse Studios (2009) dove la struttura portante è realizzata con profili di acciaio derivati da macchine per la produzione tessile e le facciate con il legno utilizzato per produrre truciolato o combustibile ed ancora la dnA House di BLAF Architecten (2013) costruita con mattoni di recupero. L’uso di materiali riciclati, alla fine del loro ciclo di vita, o naturali, con un costo ambientale basso o prossimo allo zero, l’impiego di risorse locali in un complessivo processo di riduzione dell’entropia caratterizza anche la ricerca di gruppi italiani quali ARCò o lo studio Albori4. Ricicli territoriali Più complessa e ancora di difficile definizione appare l’applicazione del concetto di riciclo quando investe i tessuti urbani e i sistemi costruiti con l’intenzione di poterli rigenerare. Una prima considerazione riguarda il rischio che si corre nel confondere termini e azioni già in uso e fortemente applicati sull’esistente: operazioni come il “restauro” inteso come attività legata alla manutenzione e conservazione di un manufatto storico, il “riuso” come reimpiego o riutilizzo di materiale antico in costruzioni più recenti e “riciclo” come riutilizzo dei materiali di rifiuto e trasformazione della materia prima in prodotto finito, applicati all’incompiuto o alla rovina di recente realizzazione, fanno fatica e definire un’azione specifica e spesso coesistono. Quasi sempre assistiamo al passaggio dalla formula tradizionale della sostituzione o del restauro architettonico, che ha caratterizzato le azioni nei nostri centri storici, con operazioni più complesse di ricostruzione e rigenerazione dell’esistente su scala urbana.

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Jean Prouvè, casa a Nancy, 1954

Lucy Carpet House, Rural studio, Mason’s Bend, Alabama, 2002

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dnA House, BLAF Architecten, Asse, Belgio, 2013

A. Rossi e G. Braghieri, stazione di San Cristoforo, Milano, 1983

Ecomostro addomesticato, studio Albori, 2008

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Potremmo affermare che, intervenire alla scala urbana sull’esistente attraverso un azione di “riuso” significa confermare il predominio dei valori dell’esistente, mentre intervenire con una azione di “riciclo” significa considerare l’esistente come materiale utile per un progetto completamente rinnovato. Quest’ultima operazione, di “riciclo” dei tessuti urbani, appare più complessa e deve fare i conti con quei processi di costruzione della città, in particolare con quelle parti di maggior criticità quali le periferie urbane, gli elementi dispersi nella città diffusa e le dismissioni delle aree produttive, finalizzati alla costruzione di una migliore condizione sociale e di riqualificazione ambientale. Ma l’esistente, che sia non ultimato o dismesso, non può rappresentare, proprio perché non è riuscito a definire o mantenere configurazioni spaziali efficaci, il punto di partenza di un progetto di “riciclo” urbano5. È necessario definire nuovi principi insediativi che siano in grado di rigenerare, modificandoli, i resti fisici e le tracce del sistema esistente verso qualcosa di nuovo: il progetto non si genera dall’azione di riciclo/ recupero anche parziale dell’esistente ma dal ripensamento di quelle strategie insediative e di quegli elementi che definiscono l’identità del luogo sia in senso fisico che percettivo. Partire in definitiva da quel sistema di relazioni che legano le caratteristiche specifiche di quella porzione di territorio: dalle geometrie del costruito agli elementi di maggior valore naturale e antropico fino alla definizione delle possibili nuove strategie insediative. Secondo questa impostazione l’esistente diviene un elemento, non necessariamente fondativo, che partecipa alla definizione di un nuovo sistema urbano. La valutazione dell’esistente e le ragioni dell’abbandono La difficoltà di affermazione di autentiche strategie di rigenerazione urbana fondate sulla cancellazione di tutto ciò che non ha più una sua utilità e che non ha mai espresso una qualità architettonica per ottenere una più ambiziosa operazione di risanamento territoriale inevitabilmente porta a dover valutare l’esistente sotto diversi punti di vista: non tutto ciò che è dismesso o non ultimato può essere recuperato, è necessaria una indagine ricognitiva finalizzata alla individuazione di alcune situazioni strategiche entro cui l’azione progettuale dovrà agire nell’intento di

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innescare un processo rigenerativo. Non si tratta di avviare tradizionali operazioni di imponenti rigenerazioni che non troverebbero né le risorse, né la volontà politica per essere ideati, ma di mettere a punto strategie minute di intervento che coniughino opportunità critiche di abbattimento ad operazioni minute di riciclo6. Del resto attuare un’azione di abbattimento di tutti quei manufatti dispersi per i quali non è possibile immaginare alcun riutilizzo con un altrettanto coraggiosa opera di rinaturalizzazione del contesto e di ritorno allo stato di materia delle scorie più indigeste non appare un’operazione semplice. La demolizione ha comunque un costo difficilmente sostenibile ed inoltre, è eticamente corretto demolire qualcosa che si è costruito, su cui si è investito? È così semplice abbattere e definire un percorso non programmato di rinserimento naturale degli scarti? Il vero interrogativo su cui riflettere diviene quello di capire se è possibile mettere a punto un’azione di riciclo degli edifici dismessi o non ultimati, quali gli scheletri architettonici, e quale sarà il senso che dovremmo dare all’azione di riciclo. Sarà necessario partire dalla verifica dallo stato di abbandono del manufatto che dovrà essere rilevato e mappato alla luce della sua condizione di inutilità e delle potenzialità di attrazione di nuove energie interessate a rioccupare uno spazio reinserito in un nuovo contesto. Occorre quindi sviluppare e verificare un ragionamento sul ruolo che questi manufatti possono assumere nel disegno di “nuovi territori” e nei destini che li attendono. Sarà altresì necessario verificare i modi di intervento su un’architettura progettata per uno scopo specifico modificandone la destinazione d’uso originaria, definendo strategie di “riciclo” legate al tempo di utilizzo, stabilendo le ragioni di possibili modalità di trasformazione della struttura esistente, fino a ridefinire un rapporto tra costruito e spazio aperto sulla base dell’effettiva necessità e capacità della città di mantenere questi spazi all’interno di nuovi modelli insediativi. Tali modelli dovranno avere la capacità di rispondere a esigenze (anche opposte) che vanno dalla rinaturalizzazione, ai processi di densificazione del costruito, alla ridefinizione delle regole e delle geometrie ordinatrici di nuovi sistemi insediativi. Nell’ottica di poter offrire un supporto ad un nuovo assetto territoriale, il tema del riciclo degli edifici non ultimati o dismessi si inserisce quindi all’interno di un insieme di valutazioni che riguardano la destinazione

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d’uso e gli stessi caratteri architettonici di questi elementi. A seconda delle qualità formali lo scheletro o parti di esso, sarà riciclato per inserire funzioni diverse da quelle per le quali è stato concepito: potrà costituire la struttura di un nuovo organismo architettonico, oppure potrà giustapporsi al nuovo, integrandolo o inserendosi all’interno di strutture più grandi definite da un tessuto connettivo più uniforme. Piccole Utopie: ribaltamenti temporali La complessità e l’enorme apparato di regole e prescrizioni che consentono oggi l’agibilità di un edificio sia pubblico che privato induce tuttavia ad un concreto scetticismo sulla possibilità di poter agire in maniera completa su questo tipo di strutture per poterle utilizzare come se fossero di nuova realizzazione. La comprensibile combinazione tra due convinzioni sempre più condivise e cioè, da un lato la sfiducia di poter rifunzionalizzare delle strutture che necessitano di interventi di verifica, consolidamento e modifiche di assetto (economicamente non convenienti), così come, dall'altro, la non convenienza ad accollarsi i costi di demolizione, suggerisce una strada ulteriore da indagare verso l’integrazione di questi elementi nei nuovi scenari di “riciclo urbano”: affidare all’azione disgregatrice del tempo, al lento deperimento delle strutture il completamento del ciclo vitale fino alla completa scomparsa. Gli scheletri divengono il luogo dove inserire funzioni provvisorie o eseguire piccoli interventi capaci di estendere il ciclo vitale dell’edificio in un orizzonte temporale definito prima di avviarsi ad una successiva eliminazione. La ricerca di una serie di operazioni minute come l’infill, la sottrazione di parti, la riappropriazione di spazio da parte della vegetazione, l’integrazione con nuovi manufatti, rappresentano alcuni dei possibili dispositivi compositivi indagati e valutati anche nella loro compresenza a definire questa possibilità. Questi dispositivi di intervento sono stati sperimentati in alcuni progetti di riciclo di strutture portanti in cui si è indagata la possibilità di ricercare nuove forme di relazione tra lo scheletro architettonico ed il suo spazio circostante. A partire dal rilevamento di campioni di “scheletri edilizi” dispersi nei territori della Regione Marche, sono stati selezionati e studiati in modo

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approfondito alcuni manufatti e su di essi è stato applicato un procedimento di riciclo – definitivo o provvisorio – fondato sulle caratteristiche reali del caso studio: un palazzetto dello sport non ultimato a Montegranaro (FM), definito esclusivamente dalle pareti perimetrali e privo della copertura7, una struttura a telaio in cemento armato modulare posta a ridosso di un sistema insediativo consolidato a Montegiorgio (FM)8, la struttura prefabbricata in cemento armato di una copertura non ultimata immersa nel tessuto poderale del sistema costiero9 e una struttura ripetuta a sistema in un ambito urbano in attesa di ridefinizione ad Ascoli Piceno10. Su questi ambiti di sperimentazione abbiamo indagato la possibilità di agire attuando un ribaltamento tra gli elementi costruiti, i “pieni” e lo spazio a loro circostante i “vuoti”. Il punto dal quale siamo partiti consiste nel fatto che uno “scheletro” nasce come “pieno” di un ambito territoriale che comprende uno spazio “vuoto”: è lo spazio della pertinenza, degli standards, dei parcheggi, del verde, dei servizi collettivi. La sfiducia di poter rifunzionalizzare quelle strutture, anche con una funzione differente da quella per le quali sono state concepite, attraverso l’apparato di interventi necessari di verifica della stabilità, consolidamento, modifiche di assetto e impiantistica, così come l’impossibilità di accollarsi i costi di demolizione ha suggerito un ribaltamento di ruoli: ricostruire un nuovo “pieno” nello spazio “vuoto” (nella pertinenza), e trasferire lo spazio aperto nello scheletro. Ricostruire cioè un nuovo suolo che si moltiplica nei livelli successivi dei solai che compongono l’edificio incompiuto. Il “vuoto” diviene “pieno” ospitando un nuovo organismo architettonico, il “pieno” (lo scheletro) si trasforma in “vuoto”. Un nuovo “suolo” sovrapposto si offre per ospitare quelle funzioni “passive” (incapaci di generare rendite) a servizio del nuovo edificio: pertinenze esterne, tutte le possibilità di parcheggio, giochi, isole ecologiche, spazi collettivi e per piccoli eventi, pertinenze esterne per le singole unità immobiliari, orti. Considerando le esigenze specifiche dei territori sui quali si sono elaborate le sperimentazioni progettuali, le soluzioni ottenute hanno verificato i possibili scenari futuri di sistemi insediativi caratterizzati da necessità di densificazione, enfatizzando i nuovi pieni, o diradamento attraverso interventi di rinaturalizzazione finalizzati a valorizzare lo spazio aperto. Nel tempo, mentre il “nuovo” inizia il suo ciclo di vita, lo scheletro prolunga

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la sua esistenza disgregandosi fino a scomparire restituendo il vuoto in un nuovo assetto ribaltato. Proiettata verso il suo estremo, questa strategia, che nel tempo porterebbe alla cancellazione di segni e materiali esistenti, offre la possibilità di una possibile riscrittura che per sovrapposizione ridefinisce un nuovo palinsesto territoriale.

Note 1

“Scheletri: capannoni, armature in cemento non terminate, infrastrutture incompiute, casali abbandonati. Tutti questi elementi raccontano di una corsa selvaggia e inebriante verso una modernità necessaria e di una rivoluzione incompleta che ha lasciato molte vittime sul terreno, vittime che oggi si rivelano come un problema difficile da affrontare. Molinari L., Una seconda vita, in Domus 964.

2

“Ma il tema più rilevante e controverso del riciclo in architettura appare oggi quello della modalità cosidetta C2C (cradle to cradle), secondo la formula proposta da Williams Mc Donough, Michael Braungart, il primo architetto e il secondo chimico, cioè il caso in cui la fine “senza sprechi” di un oggetto sia parte integrante del suo progetto …..”. Mastrigli G., Il ciclo dell’architettura, in Marini S., Santangelo V. (a cura di), Recycland, Aracne, 2013.

3

Manzione L., Architettura di seconda mano, in www.archphoto.it.

4

Nulli A., Osservare, riflettere, bighellonare: tre progetti dello studio Albori, in Domus 945.

5

Bocchi R., Dal riuso al riciclo. Strategie architettonico urbane per le città in tempo di crisi, in Marini S., Santangelo V. (a cura di), Viaggio in Italia, Aracne, Roma 2013 (pp. 185,190).

6

Coccia L., Fatti per non durare, in Marini S., Santangelo V. (a cura di) Recycland, Aracne, 2013.

7

Progetto di tesi, laurea triennale di Giulia Carminati, sviluppato nell’ambito del seminario di orientamento in Progettazione Architettonica (2014), relatore prof. Ludovico Romagni.

8

Progetto di tesi, laurea triennale di Sabrina Boffa, sviluppato nell’ambito del seminario

di orientamento in Progettazione Architettonica (2014), relatore prof. Ludovico Romagni.

9

Progetto di tesi, laurea triennale di Davide Petrini, sviluppato nell’ambito del seminario

di orientamento in Progettazione Architettonica (2014), relatore prof. Ludovico Romagni.

10

Progetto di tesi, laurea triennale di Gorniak A. Monika, sviluppato nell’ambito del seminario di orientamento in Progettazione Architettonica (2014), relatore prof. Ludovico Romagni.

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Bibliografia Lynch K., Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e cittĂ , CUEN, 1992. Mc Donough W,. Braungart M., Dalla culla alla culla, Blu edizioni, 2003. Abalos I., Herreros J., Recycling Madrid, Actar, 2000. Ciorra P., Marini S., Re-Cycle. Strategies for Architecture, City and Planet, Electa, 2012. Bauman Z., Wasted Lives. Modernity and its Outcasts, Polity Press, 2004. Berger A., Designing the reclaimed landscape, Taylor & Francis, 2008. Marini S. (a cura di), Esercizi di post produzione, Aracne, 2014.

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Sabrina Boffa, progetto di riciclo di scheletro in cemento armato, edificio incompiuto, Montegiorgio (Fermo)

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Giulia Carminati, Progetto di riciclo di struttura in cemento armato, Palazzetto dello sport di Montegranaro (Fermo)

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Michele Pieroni, Progetto di riciclo di struttura in cemento armato, Palazzetto dello sport di Montegranaro (Fermo)

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Davide Petrini, struttura prefabbricata in cemento armato di una copertura non ultimata immersa nel tessuto poderale del sistema costiero

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Gorniak Agnieska Monika, struttura ripetuta a sistema in un ambito urbano in attesa di ridefinizione ad Ascoli Piceno

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ATTREZZARE L’INCOMPIUTO RIPENSARE L’ESISTENTE

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Il "bottigliere" di Le Corbusier. Sistema portante, sistemi portati. Le unitĂ spaziali degli alloggi sono portate dal sistema gerarchicamente superiore della struttura


ATTREZZARE L’INCOMPIUTO / RIPENSARE L’ESISTENTE RIFLESSIONI SUL RICICLO DI STRUTTURE A SCHELETRO CEMENTIZIO Andrea Grimaldi

Sul portato estetico della struttura Il valore primario della struttura nella costruzione della forma architettonica è argomento che potremmo definire scontato. La concezione strutturale dell’oggetto architettonico ha infatti sempre avuto un ruolo fondamentale nel processo realizzativo, non solo per ovvie ragioni statiche, ma per il portato estetico ed identitario che ad essa si è sempre associato. In epoca moderna l’invenzione del telaio in cemento armato, dalla Maison Domino in poi, ha sancito un punto di svolta nel processo d’ideazione dell’organismo architettonico allorché, alleggerendo della componente

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statica il limite fisico di separazione tra interno ed esterno, ne ha liberata la parte puramente figurativa, dotandola di una propria autonomia significante, a volte a prescindere dal valore dello spazio contenuto che, come involucro edilizio, concorreva a realizzare. Il telaio cementizio ha sciolto la relazione stringente che esisteva negli edifici in muratura tra involucro e struttura rendendo il primo suscettibile di un notevole grado di libertà rispetto alla seconda. è sembrato importante partire da queste considerazioni per affrontare il tema centrale di questo contributo ovvero il riciclo di quegli scheletri edilizi che come avanzi di un metabolismo malato compaiono a punteggiare tanta parte dei nostri territori; tema al quale si è immediatamente associata l’idea di considerare come architettura scheletrica tutta quella edilizia prodotta nella fase espansiva dalla nostra economia nella seconda metà del secolo scorso e che ormai palesa grandi criticità un po’ in tutta Europa. È possibile immaginare delle specifiche strategie d’intervento utili a rendere economicamente sostenibili gli investimenti su questi manufatti? L’avvento di una diversa sensibilità nei confronti delle risorse materiali, l’assunzione di una consapevolezza nei confronti dei costi, non solo economici, legati al concetto di demolizione totale, sembrano costituire una prima positiva risposta a questa domanda. Strategie di trasformazione Quando s’interviene su di una struttura esistente la scala dell’intervento è obbligatoriamente già segnata dalla sua consistenza. Si potranno operare, in virtù dei regolamenti edilizi, piccole demolizioni o modeste aggiunte di volumi ma la dimensione complessiva e l’impatto urbano dell’operazione saranno generalmente già definite dalla consistenza fisica del manufatto esistente. In queste condizioni la strategia operativa che in termini comunicativi sembra pagare di più è quella che agisce sulla riconfigurazione estetica dell’edificio, sulla sua pelle; su quella che oggi appare connotarsi sempre più come membrana tecnologica capace di costruire involucri dal punto di vista prestazionale assai efficaci ma spesse volte estremamente poveri sul piano dell’uso, della fruizione emotiva degli spazi che concorrono a definire1. A ben vedere l’approccio involucrante è l’estremizzazione di quel processo che proprio l’invenzione del telaio strutturale aveva messo in moto un secolo fa e che Le Corbusier aveva codificato attraverso la definizione del concetto di facciata libera, che null’altro era se non la presa

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di coscienza della libertà espressiva della membrana edilizia, a prescindere da tutti i vincoli di ordine statico che, una volta, costituivano parte essenziale della estetica degli edifici. L’interpretazione lecorbusieriana però nelle sue applicazioni pratiche non perse mai di vista il valore degli spazi contenuti, mentre oggi sono moltissimi i progetti che puntano tutto unicamente sulla espressività materica delle superfici involucranti viste non come parte di un sistema spaziale contenuto ma come terminale liminare dotato di un proprio significato e di una propria funzione. Scaturiscono da queste considerazioni due possibili modi d’interpretare una struttura intelaiata incompiuta o risultante da demolizioni: - un primo modo vede la struttura come semplice supporto al servizio di un sistema di riconfigurazione autonomo per logiche costruttivo-formali, giustapposto o sovrapposto ad essa; - un secondo modo fa invece proprie le logiche ordinatrici dello schema strutturale dato, producendo nuova figurazione ma a partire da una interpretazione delle regole spaziali del reticolo esistente. Nel primo caso l’operazione ha più a che fare con la dimensione estetica del design, con l’idea di una figurazione altra, di una carrozzeria, di un bell’involucro da calare come una sorta di armatura a mascherare lo scheletro, annullando il portato figurativo della struttura. Nel secondo caso i sistemi intelaiati in cemento armato assumono invece il ruolo di apparati di misurazione dello spazio, grazie ai quali si definiscono gli impalcati relazionali tramite cui tenere assieme le diverse possibilità figurative dell’involucro e dello spazio contenuto e come con il pentagramma, che si pone quale sistema ordinatore/aggregatore delle note musicali, consentire così la costruzione di una espressione unitaria significante, anche in presenza di episodi eterogenei. Può sembrare paradossale ma è proprio a partire dai vincoli dimensionali che queste strutture impongono che si può avviare un percorso di progettazione potenzialmente sempre diverso come diverse sono le armonie musicali che le sette note, variamente imbrigliate nel pentagramma, ci restituiscono. Il reticolo strutturale è infatti lo scheletro che supporta e sostiene l’organismo architettonico e, come per il corpo umano le ossa, costituisce la parte invariabile della forma. Nei processi di trasformazione e recupero degli edifici a gabbia, la struttura è ciò che permane mentre i sistemi di tamponamento sono la componente variabile.

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Per una strategia di recupero “spaziale” Una strategia operativa che produca esiti capaci di migliorare la qualità di questi manufatti deve allora tendere, più che a definire involucri apparentemente belli, a realizzare organismi che si palesino come il frutto di processi progettuali in cui, partendo dalla riorganizzazione programmatico-funzionale delle spazialità scandite dagli scheletri strutturali, si giunga a costruirne l’immagine esterna come sintesi delle complesse dinamiche fenomeniche che permeano l’abitare contemporaneo. Una simile strategia d’intervento attinge culturalmente alla dimensione teorica del progetto di interni ed alla missione programmatica del fare spazio per la vita dell’uomo ed a partire da questo, generare forme e figure. Cos’è ad esempio l’intervento di ristrutturazione di un appartamento se non il ripensamento complessivo di uno spazio dato, in ragione di una serie di vincoli tra i quali al primo posto vi è quello strutturale? Se nella ristrutturazione di un interno il sistema dei vincoli endogeni ed esogeni obbliga a contenere il rapporto interno/esterno alle sole bucature esistenti, nell’interpretazione dello scheletro cementizio come matrice spaziale, il limite perimetrale può diventare luogo d’invenzione e connotazione figurativa cui è possibile attribuire un carattere valoriale aggiuntivo generato dall’essere, quella figura, espressione di una idea di spazio abitato che la sot-tende. Idea che nasce dalla scala dell’unità spaziale minima misurata dalla griglia strutturale che ne individua la consistenza. Lo scheletro allora concorre a definire un sistema di riferimento che segnala il limite tra lo spazio avvolgente esterno e lo spazio contenuto interno, tra la carrozzeria-involucro esterno e la fodera interna del manufatto architettonico2. Il modo d’interpretarne lo svolgimento fisico separa due diversi modi d’intendere l’architettura: uno più attratto dalla componente estetico-figurativa della architettura come oggetto; l’altro frutto di una riflessione più sensibile alla restituzione fisica di un programma d’uso, di una idea di spazio abitato, secondo precisi principi programmatici che vedono nell’immagine la sintesi di un processo ideativo incentrato sui valori dell’uomo che vive lo spazio. Come nel “bottigliere” lecorbusieriano dell’Unité di Marsiglia che definisce un criterio di massima per la strutturazione dello spazio, è il modo con il quale lo si riempie che fa la differenza e genera la qualità architettonica. È la gestione dello spazio contenuto, l’ideazione di un diverso modo di configurarlo ed usarlo che produce qualità e dona senso all’oggetto ar-

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chitettonico restituendo figure vive che rendono ricca ed emotivamente profonda l’immagine esteriore del manufatto. Dunque il trattamento dello scheletro come semplice traliccio da “carenare” sembra semplificare un po’ troppo il processo di rigenerazione che si può avviare riflettendo maggiormente sul valore degli spazi contenuti come luoghi di vita. Come ricorda Rafael Moneo3 la struttura a telaio può perdere la propria autonomia figurativa rispetto al sistema di tamponamento annullandosi in esso “se finisce per integrarsi nel meccanismo di definizione dello spazio e delle attività che esso consente” com’è accaduto per anni a partire dalle prime applicazioni di Perret e continua ad accadere nonostante l’intuizione della pianta libera di Le Corbusier. Se la struttura infatti detta le misure e proporzioni di massima di un organismo architettonico, è il modo con il quale lo spazio ingabbiato dal telaio viene rivelato fisicamente dalle tampo-nature che rende evidente e comprensibile il carattere figurativo e materico dell’architettura. È lo spazio delimitato ed involucrato in fin dei conti ciò che l’utente percepisce e comprende ed il telaio ne costituisce solo una componente, importantissima perché espressione del sistema portante ed elemento di misurazione scalare dello spazio, ma secondaria perché non sufficiente ai fini della piena fruizione e comprensione fenomenico-percettiva dello stesso. Gli scheletri cementizi dunque sono architetture in fieri, concettualmente già definite ma non ancora rivelate ed è in questo scarto di senso tra forma evidente e forma immaginabile che si apre lo spazio del progetto. Un caso emblematico. La reinterpretazione dei telai strutturali di Park Hill a Sheffield 4 Tra i vari esempi di recupero di strutture intelaiate in cemento armato uno dei più interessanti e si-gnificativi per i nostri ragionamenti è l’intervento condotto dallo studio Hawkins/Brown in associazione con lo studio Egret/West sul complesso residenziale Park Hill a Sheffield (2008/2012). Con la crisi della cittadina industriale anche il complesso di abitazioni popolari progettato negli anni ‘50 del secolo scorso da Jack Lynn e Ivor Smith, iniziò un lento processo di declino che portò ad ipotizzarne l’abbattimento in epoca thatcheriana. Nel 1998 l’apposizione di un vincolo di tutela storico-architettonica ne impedì la demolizione. Il vincolo, posto solo sulla struttura in cemento armato e una vendita simbolica al costo di una sterlina ha poi consentito ad un investitore privato di scommettere sul

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recupero dell’intero complesso. Gli edifici sono stati scarnificati e riportati allo stato di ossature portanti. Un interessante processo di riorganizzazione di alcuni punti notevoli, come l’attacco a terra, la zona dell’ingresso e la cerniera allo snodo tra le stecche residenziali, ha attrezzato la figura identitaria del complesso (lo scheletro) portandolo a nuova vita. Tutti i prospetti sono stati ripensati per materiali e rapporti tra pieni e vuoti ma con modalità compositive che hanno guardato e reinterpretato i caratteri figurativi del vecchio complesso di cui hanno mantenuto l’impostazione tipologica con ballatoi di distribuzione ogni tre livelli e molti alloggi duplex. Il risultato è un’architettura chiaramente contemporanea ma con evidenti radici nel suo passato più prossimo, esempio efficace di quella filosofia dell’ascolto che anche in presenza di un semplice scheletro strutturale può produrre importanti esiti architettonici. Una tesi ed un corso Le riflessioni sin qui condotte hanno trovato personali campi di verifica in diverse occasioni tra cui alcuni corsi di Architettura degli Interni nei quali l’esercitazione progettuale ha riguardato, come a Sheffield, il riutilizzo di vecchie strutture industriali a scheletro ed alcune tesi tra cui una in particolare che ha riguardato il completamento e riuso di una struttura non finita in cemento armato degli inizi degli anni ’90 ubicata all’interno dell’area ex Snia Viscosa di Roma. Nei corsi il tema affidato a ciascuno studente è stato quello di reinterpretare lo spazio definito dalla struttura attrezzandolo a residenza speciale. L’edificio, una vecchia stazione di pompaggio adagiata sulle rive del Tevere nella zona Ostiense, con le sue campate iterate, ha permesso di verificare sul campo l’infinita casistica che le strutture a gabbia offrono al progettista. La logica del porta bottiglie lecorbusieriano ha costituito il substrato concettuale di tutte le operazioni progettuali sperimentate. La netta separazione tra struttura portante principale e sistema spaziale portato è stata resa ancor più evidente dall’obbligo di lavorare solo con sistemi costruttivi a secco (legno e/o metallo) esplicitando così in maniera assai efficace l’ordine gerarchico tra le strutture (portanti e portate) e tra vecchio e nuovo che, pur nella ricerca di soluzioni anche dal punto di vista figurativo piuttosto innovative, non hanno mai perso di vista quelle relazioni di continuità nel cambiamento che sole riescono a dare senso agli interventi di trasformazione del costruito. In questo modo si è palesata con grande chiarezza

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Park Hill. Il complesso ricondotto alla sua condizione di scheletro strutturale

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Park Hill. L'immagine esteriore, prima e dopo l’intervento

Park Hill. Il gioco compositivo strutturatamponamenti. Nell'angolo la nuova scala di sicurezza rivestita con materiale specchiante dialoga con la struttura

Lo scheletro in cemento armato rimasto incompiuto nell'area della ex Snia Viscosa di Roma

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l’idea del nuovo intervento come Attrezzatura che restituiva allo scheletro edilizio una nuova vita ed un nuovo uso5. Nel lavoro di tesi condotto da Giulia Casolla, il tema è stato invece proprio quello di attrezzare una struttura incompiuta in c. a. abbandonata in occasione della formazione di un lago artificiale prodotto dai lavori di sbancamento richiesti da un progetto speculativo elaborato per l’ex complesso industriale Snia Viscosa di Roma. La singolarità del contesto ambientale è divenuta il pretesto per sviluppare un progetto nel quale lo scheletro strutturale è stato posto a regola e matrice figurativa di un programma d’uso in cui si coniugano le esigenze del quartiere con una idea di rivitalizzazione dell’intera area. Cellule residenziali per studenti, volumetricamente autonome rispetto alla struttura cementizia, colonizzano lo spazio geometrico che quest’ultima scandisce abitandone le campate. Un nuovo sistema strutturale ligneo, impostato sul passo di quello in cemento armato esistente, completa il volume prismatico che questo suggerisce definendone lunghezza, altezza e profondità. Lo scheletro strutturale stabilisce le regole d’utilizzo dello spazio ponendosi quale sistema di appoggio per la costruzione di nuove figure e la definizione di nuovi usi. La logica che regola e guida le scelte progettuali è tutta incentrata sul dialogo tra le figure della struttura e delle cellule spazio-funzionali e sulla gestione dello spazio intermedio, dello spazio “tra”: tra elementi strutturali e superfici di tamponamento; tra piani portanti e volumi portati; tra pieni e vuoti, riproponendo il gioco semplice e magnifico dell’architettura come espressione del confronto tra materia e luce.

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Note 1

Stiamo parlando di tutte quelle operazioni che vengono raggruppate sotto la categoria del retrofitting ovvero dell’applicazione di nuove tecnologie a vecchi organismi edilizi.

2

La definizione di Fodera dell’interno architettonico è stata coniata da R. De Fusco per chiarire il carattere dell’invaso spaziale abitato interno, in contrapposizione al concetto di involucro. cfr. R. De Fusco, Storia dell’arredamento, Franco Angeli, Milano 2004, p. 7.

3

R. Moneo, “L’avvento di una nuova tecnica nel campo dell’architettura: le strutture a telaio in cemento armato” in La solitudine degli edifici e altri scritti, U. Allemandi, Torino 1999, p. 176.

4

Per una conoscenza puntuale del progetto si vedano: Architectural Record, march 2013; Detail, april 2013; AJ, june 2013.

5

Il concetto di Attrezzatura architettonica è stato da me approfondito nel volume Attrezzare l’architettura. Strategie operative per l’architettura del terzo millennio, Officina edizioni, Roma 2012, cui si rimanda per chiarimenti ed approfondimenti.

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Reinterpretare uno scheletro cementizio: la centrale di pompaggio dell’Ostiense. Progetto di Enrica Martinelli. Pianta di una campata, stralcio della stessa. La sezione rivela le relazioni tra spazio contenuto ed involucro articolate attorno ai “punti fissi� definiti dalle travi preesistenti in cemento armato

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Reinterpretare uno scheletro cementizio: la centrale di pompaggio dell’Ostiense. Progetto di Enrica Martinelli. Prospetto

Attrezzare l'incompiuto. Il nuovo telaio ligneo completa la figura preesistente

Attrezzare l'incompiuto. Il telaio viene colonizzato da micro-architetture residenziali costruite con tecnologie a secco. Il riferimento al “bottigliere" lecorbusieriano è evidente

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DISPOSITIVI PER LO SPAZIO IN-BETWEEN NEL RICICLO DEGLI SCHELETRI IN MURATURA

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Ensamble Studio, Reader’s House, Madrid, Spagna, 2012


DISPOSITIVI PER LO SPAZIO IN-BETWEEN NEL RICICLO DEGLI SCHELETRI IN MURATURA Giovanni Rocco Cellini

Lo scheletro, inteso nella sua accezione letterale di struttura rigida di sostegno che contribuisce a dare una caratteristica forma al corpo o alla costruzione, costituisce nell’ambito del riciclo il grado zero di un progressivo stato di decomposizione della forma architettonica. Questo deterioramento interessa sia l’aspetto morfologico del manufatto che le sue finiture e gli impianti tecnologici; di conseguenza anche l’aspetto funzionale viene completamente annullato o comunque ridotto notevolmente. Le condizioni di tali manufatti, altamente diffusi nel nostro territorio, evidenziano un comportamento malsano di abbandono e disuso, depauperando lo stato dei paesaggi che da visioni nostalgiche arrivano addirittura

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al degrado ambientale, sociale ed economico. Pur facendosi sempre più urgente una ricerca progettuale relativamente agli scheletri delle cosiddette strutture intelaiate, non sono da sottovalutare, sia per quantità che per qualità, le condizioni in cui versano le strutture continue principalmente in muratura e oggi spesso anche in cemento armato o addirittura in legno. Queste costituiscono il sistema costruttivo principale del passato ma anche di una certa quantità di architettura contemporanea, forse più tradizionale ed evocativa, ma che accoglie comunque le problematiche attuali del riciclo. In questo contesto infatti, la progettazione può provvedere a nuovi interventi di ri-composizione architettonica lontani dalle logiche conservative e imbalsamatrici della forma: non si tratta di lavorare sulle questioni del linguaggio, dello stile o dell’eventuale analogia tipologica, ma alla maniera dell’artista Gordon Matta-Clark, di alterare, tagliare, assemblare secondo le logiche del ready-made e dell’objet-trouvé; quindi intendere la progettazione come un processo aperto a nuovi cicli di vita, potenzialmente reversibili e trasformabili. Secondo quest’atteggiamento, l’intervento di ri-composizione, oltre il rapporto figurativo vecchio/nuovo, vede tra le questioni fondamentali della progettazione, lo spazio e i nuovi significati che esso può assumere. Una delle possibili soluzioni per la progettazione è quella di prevedere, con il nuovo intervento, un ambito spaziale intermedio tra questo e la consistenza materiale dello spazio preesistente, attraverso un vuoto o un corpo di fabbrica che consenta una soluzione di prossimità tra le parti, non escludendo il confronto reciproco ma valorizzandone le singolarità. Questo ambito, che si identifica come uno spazio in-between, definisce una nuova relazione di tipo sintattico: una “pausa temporale” tra vecchio e nuovo, tautologicamente risolutiva delle problematiche di separazione e distinzione tra le parti, sia figurativamente che materialmente e allo stesso tempo di continuità spaziale e progettazione unitaria dell’intervento complessivo. Nel concreto, si tratta di progettare dei dispositivi spaziali atti ad ordinare le parti e regolarne i rapporti. Non a caso, nella sua definizione, il termine dispositivo che etimologicamente deriva da disporre, assume un duplice significato: da una parte inteso come congegno, meccanismo che applicato ad un apparecchio o ad un impianto (quindi anche ad una preesistenza architettonica) svolge una determinata funzione; dall’altra come disposi-

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zione nel senso proprio di atto del disporre, stabilire e ordinare. Rimanendo comunque nell’ambito della teoria disciplinare è lo stesso Vitruvio che nel Primo Libro del De Architectura ha definito tra le varie categorie proprio la dispositio o disposizione, intendendola come “l’appropriata collocazione degli elementi in modo che l’insieme renda un effetto di eleganza sul piano della qualità”. In aggiunta a questo, egli afferma che la disposizione si chiarisce con la triplice elaborazione di icnografia, ortografia e scenografia, ovvero per mezzo di pianta, alzato e visione prospettica1. Quindi se da una parte il dispositivo, in quanto oggetto fisico, è regolamentato dalla geometria e dalla misura, dall’altra introduce la problematica della sua progettazione nell’ambito della topologia e delle reciproche relazioni e giaciture che si determinano con la prossimità tra le parti. Il dispositivo in-between diventa quindi uno strumento operativo per l’ideazione del progetto: una strategia spaziale che di conseguenza induce ad una particolare figurazione nella dualità tra il vecchio e il nuovo. Il processo compositivo per la concezione generale di questo dispositivo parte da un modello spaziale che fa riferimento alla matrice greca della “contrapposizione dei volumi autonomi”2. Si genera così una spazialità complessa dove i volumi, i vuoti e le varie strutture, nella loro composizione, evocano gli ambienti delle Carceri d’Invenzione piranesiane. Questo spazio in-between, mettendo a confronto tempi differenti, determina una spazialità psichica, in quanto è legata alla materia e alla luce che insieme contribuiscono a definire una migliore lettura della stratificazione, attribuendo una maggiore complessità al significato. Le dislocazioni fisiche degli elementi di nuova realizzazione possono diventare delle operazioni supplementari alla preesistenza: la variazione di prossimità tra le pareti murarie, quindi la possibilità di avere uno spazio maggiormente compresso o dilatato, consente differenti stati figurativi e qualità funzionali/prestazionali che variano dal semplice giunto o vano tecnico fino all’estremo spazio distributivo, abitabile o addirittura ambientale. La sperimentazione topologica è in grado di riconoscere diverse soluzioni di prossimità che possono dar luogo a sovrapposizioni, inserimenti, giustapposizioni, fino agli attraversamenti dei corpi di fabbrica, tanto da evocare l’immagine del San Sebastiano trafitto. Una delle possibili relazioni che si possono stabilire è proprio quella della sovrapposizione reciproca: un esempio chiarificatore in questo senso è il

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progetto di Herzog & De Meuron per il Caixa Forum di Madrid, dove l’operazione compositiva, oltre alla sopraelevazione in acciaio cor-ten, è stata quella di realizzare un volume occulto, interrato e staccato dalla preesistenza in muratura che appare quindi rialzata dal suolo, formando uno spazio pubblico in-between dalla forte connotazione urbana per via del contesto in cui si colloca. All’interno di questa categoria della sovrapposizione rientra a pieno titolo anche il progetto del Moritzburg Museum ad Halle (Saale) in Germania, firmato dallo Studio Nieto Sobejano. In questo caso la spazialità del nuovo intervento si configura come un dispositivo di copertura, che oltre a costituire esso stesso un invaso spaziale, forma con le rovine del vecchio castello un ambito d’intermezzo che consente agli utenti di apprezzare il reciproco confronto e le differenze matericotemporali tra le parti. Diverso invece è l’intervento realizzato dallo studio Rafael De La-Hoz Arquitectos per il Centro Culturale Daoiz y Velarde a Madrid, dove un vecchio complesso di una caserma militare è stato trasformato attraverso l’azione dell’inserimento. L’interno della fabbrica, completamente svuotato, è stato colmato da un nuovo volume che si dispone in maniera indipendente dalle murature in laterizio della fabbrica preesistente. Tale recinto enfatizza la sua singolarità anche dalla copertura che risulta essere da esso disgiunta, così da stratificare i segni e consentire una particolare visione con l’esterno. Per quanto riguarda l’operazione della giustapposizione è possibile riferirsi alla Biblioteca in un ex-mattatoio a Landau, in Germania, di Caterina e Ansgar Lamott. Un intervento questo, realizzato nel 1998 e che ha dovuto fare i conti con un complesso programma funzionale, poiché la quantità dei libri superava la capacità spaziale del vecchio mattatoio3. Per far fronte a questo problema la soluzione è stata quella di ampliare la preesistenza, giustapponendo un dispositivo al suo fianco e quindi una struttura aggiuntiva ad integrazione degli spazi già esistenti. Pur fisicamente adiacenti, l’interno denuncia la distinzione delle parti per mezzo della luce cadente dai lucernari e da alcune passerelle di collegamento sospese nel vuoto. La progettazione di tali dispositivi assume un grado di complessità maggiore nel momento in cui le parti si scontrano vicendevolmente: la metafora del San Sebastiano per quanto riguarda l’attraversamento è palese per capire come tali strategie si legano profondamente al gesto in architettura, all’azione per la trasformazione e il riciclo. Lavorando sul tema figura-

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tivo dell’incrocio, Ensamble Studio ha realizzato il progetto per la Reader’s House al Matadero di Madrid, dove ha coniugato la sua ricerca ai temi del riuso della preesistenza. Una serie di travi prefabbricate in cemento armato precompresso sono state infilate nelle bucature perimetrali dei capannoni in muratura, attraversando lo spazio basilicale trasversalmente e configurando una spazialità totalmente diversa da quella originaria ma idonea ai nuovi usi. Con questo progetto si è conformato uno spazio vuoto in-between altamente dinamico tra i dispositivi delle travi e l’impianto originario della basilica: la concezione dello spazio interno è stata completamente trasformata, sostituendo gli ambiti delle navate laterali con la sequenza aerea di un nuovo ordine trasversale.

Note 1

Vitruvio P., De Architectura, libro I, cap.I, Interpretazione a cura di Giovanni Florian, Giardini ed., Pisa 1978.

2

Purini F., Comporre l’architettura, Laterza, Bari 2006, p. 122.

3

Lamott C. e A., Biblioteca in un ex mattatoio, tratto da Casabella 672, Novembre 1999, p. 68.

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Nieto Sobejano Arquitectos, Nuova copertura del Moritzburg Museum, Halle (Saale), Germania, 2008

Rafael De La-Hoz Arquitectos, Centro culturale Daoiz y Velarde, Madrid, Spagna, 2013

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FORZA E PROGETTUALITÀ DELLE PRATICHE DI RIAPPROPRIAZIONE DEI LUOGHI

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Metropoliz e il complesso della ex Fiorucci (foto A. Lanzetta)


FORZA E PROGETTUALITÀ DELLE PRATICHE DI RIAPPROPRIAZIONE DEI LUOGHI Carlo Cellamare

Processi di riappropriazione. Progetto come processo di interazione sociale Un edificio abbandonato e dismesso non è mai solo un relitto fisico “abbandonato e dismesso”; esso è sempre sull’orizzonte visuale, ma anche su quello relazionale ed empatico di un contesto urbano e della collettività che lo abita. Così come un “vuoto urbano” non è mai veramente “vuoto”. È generalmente denso di usi informali e di relazioni intense con i territori circostanti. I territori sono continuamente attraversati da pratiche di uso della città (Crosta, 2010) e, con un’intensità crescente, da processi di appropriazione e riappropriazione dei luoghi. Le città contemporanee

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sembrano essere attraversate da nuovi movimenti e iniziative che in forma autorganizzata usano, attrezzano, gestiscono, riutilizzano parti diverse del contesto urbano (in molti casi gli “scarti” o i margini della città), spesso reimmettendoli nel “ciclo di vita” della città1: edifici dismessi, aree abbandonate, aree verdi, aree agricole, spazi pubblici. Si tratta di esperienze molto diverse tra loro, legate a spazi e attori sociali portatori di differenti immaginari: dagli usi a scopo abitativo di spazi inutilizzati agli orti-giardini condivisi, dalle nuove occupazioni al recupero da parte di comitati e associazioni locali di edifici (anche storici) per renderli fruibili al proprio contesto locale, dall’autocostruzione e autogestione di spazi verdi attrezzati alla realizzazione di piccoli agglomerati insediativi in aree golenali, e così di seguito. L’esperienza di lavoro sul campo ci mostra come i processi di progettazione siano complessi processi di interazione sociale che si sviluppano nel tempo e coinvolgono molti soggetti sociali diversi e dove, soprattutto gli abitanti, si muovono nella sfera dell’azione, della trasformazione diretta. Processi di riappropriazione a Roma. Metropoliz ed ex SNIA Viscosa Roma è ricca di esperienze di appropriazione e riappropriazione, anche perché il governo della città è piuttosto carente e privo di lungimiranza e la capacità imprenditoriale degli operatori economici, soprattutto immobiliari, è veramente debole e prevalentemente predatoria; per cui la città è caratterizzata, da una parte, da numerosi edifici dismessi o abbandonati, in particolare edifici industriali, così come, dall’altra, da molti problemi irrisolti, a cominciare da quello dell’emergenza abitativa per passare poi a quello della mancanza di servizi e attrezzature urbane, come le aree verdi e gli spazi pubblici. Per cui, molto spesso, le realtà locali si autorganizzano e attivano processi per rispondere in autonomia ai problemi emergenti a partire dall’appropriazione del patrimonio esistente, e quindi riusando e riciclando edifici o aree apparentemente inutilizzati. Una self-made city, una “città autoprodotta” (Cellamare, 2014; S.M.U.R., 2014). Interi territori si autorganizzano per gestire spazi comuni, realizzare aree verdi mancanti e servizi carenti, comprese le attività sportive o quelle culturali2. Allo stesso tempo, sono molte le iniziative che sui territori tendono a contrastare le operazioni speculative, e quindi cercano di sottrarre aree e edifici abbandonati o dismessi alla pura e semplice valorizzazione economica per restituirli al ciclo di vita della città. E anche in questo caso gli esempi sono numerosi.

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Metropoliz è un’occupazione abitativa che interessa gli edifici dismessi della ex fabbrica Fiorucci, che produceva carni e insaccati, in un’area periferica di dismissione industriale e di riconversione speculativa sulla via Prenestina, a Roma est. Si tratta di capannoni industriali, delle strutture di servizio e degli edifici a uffici che sono stati riattati, in primo luogo, per realizzare abitazioni. Il complesso di edifici, infatti, è stato occupato nei primi anni 2000 a scopo abitativo. Le popolazioni presenti sono soprattutto dell’est europeo e del sud America, ma in prossimità è stato autocostruito un campo rom, e numerose sono anche le famiglie di italiani. Questa esperienza è stata supportata dai movimenti di lotta per la casa romani ed ha visto successivamente il coinvolgimento di artisti e architetti romani, italiani e stranieri che hanno sviluppato un percorso ricco e complesso di iniziative ed eventi culturali, nonché di produzione video e cinematografica, che non ha comportato solo la riqualificazione degli spazi, ma ha anche permesso di portare l’esperienza fuori dalle sue mura e di raccontarla a tutta la città ed, infine, ha portato alla realizzazione di opere artistiche all’interno dell’edificio stesso (comprese opere di Pistoletto, solo per citare un’artista tra i più noti). Col tempo il complesso si è trasformato in un grande museo, riconosciuto a livello internazionale, il MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove a Metropoliz3. Paradossalmente, l’edificio in sé e per sé, su cui sono state realizzate le opere, ha ora un considerevole valore proprio, che può essere economicamente valutato. La convivenza tra le due realtà, quella artistica e quella abitativa, non è e non è stata facile, ma ha sicuramente dato origine ad una realtà molto ricca e complessa. Per il suo essere una “occupazione”, e una occupazione a scopo “abitativo”, i rapporti di questa esperienza con il contesto circostante non sono facili, perché ha avuto un ruolo importante la dimensione “difensiva” dell’occupazione abitativa. È interessante, però, che quella esperienza abbia attivato e si sia inserita in un più ampio processo di riuso e di riappropriazione di edifici e di aree abbandonate nell’area est di Roma4, quella che – a guardare con un occhio libero e distaccato – potrebbe essere considerata una vera e propria politica “pubblica”, molto intelligente (Crosta, 2009). Diversa è l’esperienza all’ex SNIA Viscosa nel quartiere Prenestino di Roma. Qui è un intero quartiere, tramite una rete di associazioni, comitati, singoli cittadini, che si è riappropriato di un grande spazio abbandonato con un processo e una mobilitazione locale in corso da molti anni.

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Alcune sistemazioni interne di Metropoliz (foto A. Lanzetta)

Alcune strutture della ex SNIA Viscosa nel quartiere Prenestino di Roma (foto Dauhaus)

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Il laghetto della ex SNIA Viscosa (foto Dauhaus)

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Si tratta della fabbrica abbandonata della SNIA Viscosa e dell’intera area circostante, in parte già da recuperata per realizzare un parco pubblico (il Parco delle Energie), peraltro molto fruito in un quartiere dove manca quasi totalmente il verde. È presente anche un centro sociale che ha occupato alcuni capannoni. L’edificio della fabbrica abbandonata ha un suo importante pregio architettonico e ha profondi legami di memoria con gli abitanti del quartiere, perché la SNIA Viscosa era storicamente una fabbrica di riferimento per tutto il settore urbano. Dopo la dismissione e l’abbandono vi è stato un tentativo (speculativo) di riconversione con funzioni residenziali e commerciali. Nella realizzazione delle fondazioni del centro commerciale è stata intercettata la falda acquifera e si è formato un lago. Nonostante i tentativi di proseguire, i lavori sono stati interrotti e l’area è stata nuovamente abbandonata (e, per alcuni periodi, utilizzata come ricovero di emergenza da diverse popolazioni migranti) fino all’epoca della giunta Alemanno. Tramite un bando di idee si è cercato di riattivare un processo di valorizzazione economica che avrebbe portato alla realizzazione di torri residenziali, in cambio di aree verdi attrezzate. Gli esiti discutibili del bando sono stati impugnati dalla successiva giunta Marino che ha bloccato lo sviluppo del processo e, grazie alla pressione degli abitanti, ha reso fruibile l’area del lago. Nel frattempo, infatti, il lago e l’area circostante hanno visto lo sviluppo di un contesto naturalistico che oggi risulta di grande interesse e valore. Il conflitto che si è generato intorno a quel contesto ha determinato negli anni una grande mobilitazione sociale che si è concretizzata in diversi modi5: la realizzazione di edifici e attrezzature per la fruizione del Parco delle Energie, lo sviluppo di percorsi di conoscenza, di studio dei valori ambientali dell’area del lago e di ricostruzione della memoria nei confronti della ex fabbrica, lo sviluppo di un percorso di progettazione partecipata, l’attrezzatura provvisoria della nuova area verde resa fruibile, l’organizzazione di giornate di studio ed eventi culturali, l’elaborazione di idee e proposte per il riuso degli edifici industriali dismessi e dello scheletro in cemento armato dei nuovi edifici di cui è stata interrotta la costruzione. La produzione di luoghi Dove è il valore aggiunto di queste esperienze? In primo luogo, al di là degli aspetti strettamente tecnici, si colloca nel radicamento in processi sociali diffusi e che strutturano un rapporto profon-

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do con i territori circostanti. Mettono in forma aspettative, valori esistenti o attribuzioni di valore ai luoghi, relazioni di memorie e di affetti, oltre che funzioni ed usi sociali che i territori esprimono e di cui sentono l’esigenza. Un processo di appropriazione è anche un processo di significazione, trasforma gli spazi in luoghi, li inserisce e li costituisce in una rete di relazioni. Allo stesso tempo innesca anche una responsabilizzazione; tant’è che si tratta sempre di luoghi molto curati e per i quali gli abitanti si spenderebbero totalmente. Sono esperienze che trasformano i conflitti in energie sociali costruttive, mettono al lavoro il protagonismo sociale. Sono esperienze che inseriscono il processo di riuso e riciclo in una dinamica socio-economica di sviluppo dei territori, che si calano cioè nel processo complessivo di riqualificazione di un contesto urbano, in forma integrata. I processi artistici, infine, che spesso si attivano intorno a queste esperienze, aprono generalmente percorsi che permettono di pensare l’impensato (Decandia, 2008), di riaprire a possibilità immaginative diverse da quelle consolidate, di ripensare gli spazi con prospettive innovative. Competenze progettuali Gli abitanti, come singoli o tramite le varie forme organizzative e aggregative, esprimono competenze rilevanti in materia progettuale (Cottino, 2009). La città della modernità, ed ancor più in età contemporanea, ha determinato processi di espropriazione della capacità creativa e progettuale degli abitanti (Cellamare, 2011), mentre essi possono mettere in campo competenze molto importanti. In alcuni casi, legati al fatto che sono coinvolte persone professionalmente preparate (ingegneri, architetti, urbanisti, ecc.6), tali competenze hanno anche importanti contenuti tecnici. In genere, comunque, sono competenze rilevanti su aspetti che pure caratterizzano i processi progettuali: capacità di coinvolgere i soggetti, capacità di gestire le relazioni e rielaborare i contenuti emergenti, capacità di dare soluzioni concrete ai problemi sociali sentiti sui territori, attivare percorsi creativi e di ripensamento della funzione e del significato dei luoghi, sviluppare azioni concrete ed interventi fisici di sistemazione degli spazi anche attraverso il riuso e il riciclo di materiali (anche di scarto), sviluppare percorsi di studio ed approfondimento sugli edifici dismessi e sulle aree abbandonate (ma anche di elaborazione di mappature, ecc.), capacità di

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intessere relazioni tra i territori circostanti ed i luoghi di interesse, capacità di affrontare i problemi economici. In alcuni casi, si potrebbe pensare che tali realtà possano procedere in autonomia nel riuso e nel riciclo degli spazi della città. Ciò nonostante il ruolo del progettista più “tecnico” non è meno rilevante. Il timore che spesso emerge, infatti, nel mondo dell’architettura e dell’ingegneria è che da queste esperienze ne venga sminuito il proprio ruolo. In realtà questo non è affatto vero, anzi è assolutamente proficua la collaborazione con architetti e ingegneri, come spesso auspicato dagli stessi abitanti, che hanno bisogno di un più specifico supporto tecnico. Si tratta piuttosto di un lavoro e di una creatività che devono essere più fini, devono essere cioè in grado di intercettare, con opportuna intelligenza, il mondo di significati, di idee e di relazioni che i processi sociali producono, e di valorizzare le energie sociali emergenti. Tali processi, infatti, possono essere allo stesso tempo un vincolo creativo ed una grande opportunità per il riuso ed il riciclo della città.

Note 1

Si noti che i processi e le pratiche di appropriazione e riappropriazione della città non sono necessariamente (tutti) positivi, ma possono sollevare problemi e ambiguità.

Per un’ampia discussione su questi temi si rimanda a Cellamare, Cognetti (2014).

2

È ad esempio l’esperienza di S.Cu.P. – Scuola di Cultura Popolare nella zona della stazione Tuscolana all’Appio Latino.

3

Il MAAM, le opere e i suoi spazi, possono essere visti online su:

https://www.facebook.com/museoMAAM/,

https://fotografiaerrante.wordpress.com/maam-museo-dellaltro-e-dellaltrove-di-metropoliz_citta-meticcia/ e numerosi altri siti.

4

È in corso di svolgimento un progetto di mappatura (Mapping Roma Est) di tutte le aree e gli edifici dismessi che possono essere riutilizzati e destinati alle esigenze sociali di quei territori.

5

Molte informazioni su: http://lagoexsnia.wordpress.com/.

6

Non sono pochi i casi in cui sono coinvolte le stesse Università.

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Bibliografia Cellamare C., Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane, Carocci, Roma 2011. Cellamare C. (a cura di), Roma, “Città fai-da-te” / Rome, “Self-Made Urbanism”, Quaderno n. 2, UrbanisticaTre, maggio-agosto 2013, Università Roma Tre, Roma 2013. Cellamare C., Cognetti F. (eds), Practices of Reappropriation, Planum Publisher, Milano 2014. Cottino P., Competenze possibili, Jaca Book, Milano 2009. Crosta P. L., Pratiche. Il territorio “è l’uso che se ne fa”, Franco Angeli, Milano 2010. Crosta P. L. (a cura di), Casi di politiche urbane. La pratica delle pratiche d’uso del territorio, Franco Angeli, Milano 2009. Decandia L., Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica, Meltemi, Roma 2008. S.M.U.R. – Self Made Urbanism Rome, Roma città autoprodotta. Ricerca urbana e linguaggi artistici, a cura di C. Cellamare, manifestolibri, Roma 2014.

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GLI SCHELETRI DELLA MAGLIANA


Scurcola Marsicana, immobili confiscati alla Banda della Magliana, marzo 2013


GLI “SCHELETRI” DELLA MAGLIANA IPOTESI DI RIUSO E RISIGNIFICAZIONE SIMBOLICA DI DUE IMMOBILI INCOMPIUTI CONFISCATI ALLE MAFIE NELL’ “EX” ABRUZZO FELIX Piero Rovigatti

Riciclare i beni delle Mafie? Quale genere di riuso è ammesso, in senso ecologico, ma anche in senso etico, per due opere edilizie incompiute, appartenute, e dunque segnate in forma forse indelebile, a una delle maggiori organizzazioni criminali italiane, la banda della Magliana, protagonista di stragi e delitti per buona parte degli anni ’70 e ’80, e forse ancora attiva, sia pure in altre vesti, nei territori italiani? La domanda, solo apparentemente retorica, ammette naturalmente diverse risposte, rispetto a un tema che riguarda, ormai da tempo, e senza reali

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differenze tra le regioni italiane1, un insieme crescente di tali beni2, sottoposti a confisca, e spesso assegnati per il loro corretto riuso agli enti locali o alle amministrazioni dello Stato, pur nei vincoli di un quadro legislativo che ha partire dalla prima legge Rognoni La Torre, e successivamente ai suoi sviluppi, ha già provveduto a indicare la strada dell’utilizzo a scopo sociale di tali beni, dando risponda ad una legittima e ampiamente condivisibile posizione etica che lascia, tuttavia, ancora molti problemi inevasi3. Il caso di studio Il caso è quello di Scurcola Marsica, cittadina marsicana nel cuore dell’Abruzzo apparentemente libero dalla penetrazione delle organizzazioni criminali italiane4, dove sono localizzate due costruzioni – due scheletri in cemento armato destinati, inizialmente, ad attività zootecniche – confiscati alla Banda della Magliana5, organizzazione criminale particolarmente attiva in Italia negli anni ’80, di cui si trovano tracce anche nelle più recenti vicende criminali romane6, e assegnati dal 2010 alla gestione comunale. Da allora, ogni anno, presso questo sito, il comune di Scurcola Marsicana organizza un campo di lavoro, dove, assieme ad attività di lavoro agricolo o attività di pulizia e di risistemazione del bene, si tengono incontri e attività formative coerenti con l’obiettivo generale dell’associazione Libera!7, fondata da Don Luigi Ciotti, di “diffondere una cultura fondata sulla legalità e giustizia sociale che possa efficacemente contrapporsi alla cultura della violenza, del privilegio e del ricatto”. Il problema principale dell’Amministrazione comunale, comune a quello di tanti Comuni assegnatari di beni confiscati, è ora quello di trovare una destinazione e un progetto d’uso dell’intera proprietà sottratta alla mafia, che sia socialmente utile, in conformità alle norme che regolano la gestione dei beni confiscati (L. 109/1996), e coerente con la straordinaria qualità ambientale e paesaggistica del territorio in cui è contenuto. Il sito è collocato, infatti, sulle pendici collinari che portano al Parco regionale del Velino Silente, a poca distanza dal centro storico di Scurcola Marsicana e dal suo castello, e si trova al centro di un vasto elenco di luoghi e percorsi di notevole valore archeologico, storico, culturale e ambientale. Come Santa Maria della Vittoria, l’abbazia benedettina eretta da Carlo d’Angiò per celebrare la battaglia contro Corradino di Svevia del 1268; il monumento di Perseo, lungo il tracciato dell’antica strada consolare romana della Tiburtina Valeria, e, soprattutto, come Alba Fucens, forse il

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sito archeologico più importante e meglio conservato d’Abruzzo, assieme al borgo diruto medievale di Albe, e alle vestigia del suo castello Orsini, luogo di episodi storici importanti, anche della seconda guerra mondiale. Le soluzioni adottate dall’amministrazione locale Da qualche tempo, diverse proposte di riutilizzo e riuso di tali beni sono state sviluppate attraverso concorsi di idee e iniziative pubbliche, senza tuttavia pervenire ad una scelta definitiva da parte della pubblica amministrazione. Che cosa fare, e come, anche in ragione della fattibilità economica e della sostenibilità ambientale e sociale delle proposte, è il tema del workshop “Progettare ... Libera!”, ideato e organizzato attraverso la collaborazione di alcune Università italiane e straniere, e condotto nella cittadina abruzzese di Scurcola Marsicana all’inizio dello scorso luglio (2013). Caratteristica specifica di questa iniziativa, è stata quella di accompagnare alle tradizionali attività di studio, analisi e ricerca progettuale di un workshop, svolte in forma seminariale e di laboratorio, anche momenti formativi sui temi generali tipici dei campi estivi di Libera, come occasione di educazione e formazione. In seguito a tale iniziativa, oggetto di una pubblicazione, il tema del recupero e del riciclo del bene è stato motivo di un seminario svolto nell’ambito della giornata Recycle svolta dalle unità di ricerca della sede pescarese nello scorso 9 ottobre 20138. Lo sviluppo in chiave progettuale e di ricerca delle prime ipotesi di recupero e rifunzionalizzazione dei due immobili oggetto di caso di studio è stato poi affrontato dalla tesi di laurea che illustra in parte questo articolo, che ha cercato di inserire il progetto del sito all’interno di una più generale strategia di valorizzazione e rigenerazione territoriale del vasto insieme di “beni comuni” e di paesaggio che caratterizzano il contesto. Recuperare o demolire? In tutte le esperienze progettuali svolte si è sempre posto l’interrogativo sovrano relativo all’ipotesi di demolizione contrapposta a quella del recupero, anche solo parziale, dei due manufatti. Ragioni anche di ordine economico, legate alle condizioni materiali degli stessi manufatti – si tratta di due scheletri in cemento armato, mai ultimati, da tempo ormai esposti ai fattori naturali di degrado – orientano infatti ad un intervento di totale demolizione, che di fatto cancellerebbe anche la traccia di tale presenza e della loro storia. Da questo punto di vista, l’investimento anche in chiave

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simbolica che la stessa comunità locale ha prodotto sul bene – attraverso le attività promosse dall’amministrazione locale e in particolare dai “campi delle legalità” organizzati da Libera! – andrebbe probabilmente perso, se non legato a un’azione di recupero e di “riciclo” almeno del sito su cui sorgono i due manufatti, che ne preservino almeno il carattere di testimonianza storica, sia pure recente. Dare nuovo senso a una cattiva storia Forse è proprio questo il compito che andrebbe assegnato al sito in questione, e forse agli stessi manufatti, il cui recupero acquisterebbe dunque senso non tanto – o non soltanto – in una prospettiva economica di valorizzazione del bene, ancora tutta da dimostrare – quanto appunto nella capacità di un progetto del sito e dei suoi contenuti in grado di dare senso attivo e positivo ad una cattiva storia, densa in passato di lutti e di tragedia. Esplorazioni progettuali svolte Da questo punto di vista, già le prime ipotesi di recupero del sito avanzate nel worskshop svolto nel giugno-luglio del 2013 avevano già avanzato ipotesi coraggiose, tutte adeguate al difficile tema di elaborare la memoria di un luogo, legata, suo malgrado, ad una storia criminale, che i diversi progetti propongono. E attraverso strategie di intervento sul luogo e sui manufatti di partenza che alternano strategie di distruzione creativa, riuso saprofita, riduzione progressiva a rudere. Ma sempre all’interno di una logica di progetto territoriale tesa ad attribuire usi consapevoli a luoghi densi di significato, lungo una green ways che ricalca, pressoché per intero, l’antico, dissepolto tracciato dell’antica Tiburtina Valeria. Che diventa così via di riconquista e di riorganizzazione di un vasto sistema di beni comuni – ambientali, archeologici, paesaggistici – ancora in attesa di recupero e di valorizzazione. Un più recente lavoro di tesi di laurea9, prova a sviluppare questa ipotesi di integrazione del bene recuperato come sede di un possibile Osservatorio della legalità e del Paesaggio della Marsica, assumendo ancora l’ipotesi che il bene possa trovare opportuna valorizzazione e recupero solo all’interno di una visione territoriale di più completa integrazione del sito all’interno di un Parco culturale integrato fondato sulla linea fondante dell’antico tracciato della Tiburtina Valeria, l’antica via consolare, ancora in parte in funzione, che collegava Roma con la città di Alba Fucens.

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Prospettive di ricerca e di azione civica L’inserimento del tema del “riciclo” dei beni sottratti alle mafie all’interno del programma di ricerca nazionale “Recycling”, in collaborazione con numerose università italiane, consapevoli della rilevanza di tale questione ormai per l’intero territorio nazionale, come la stessa mappa degli immobili confiscati alle organizzazioni criminali italiane dimostra ormai in maniera inequivocabile, ha prodotto fino ad oggi uno specifico seminario all’interno della tappa pescarese della ricerca10, e alcune pubblicazioni riportate in bibliografia al presente articolo. Si tratta, in breve di una prospettiva di ricerca progettuale che aspetta ora di essere fatta propria dalle amministrazioni comunali coinvolte, ma che può provare a trovare attuazione anche attraverso un inedito programma di azione civica, aperto alla collaborazione di associazioni, gruppi di interesse locale, singoli cittadini. L’idea è di accompagnare la ormai tradizione attività estiva che oggi anno si svolge attorno al bene confiscato nella forma dei “campi della legalità” promossi da Libera! anche da primi interventi promossi in accordo con portatori di interesse amministrazioni e associazioni di difesa dei beni comuni che indirizzino prime misure – in termini di opere ma ancora prima di azioni di manutenzione attiva dei luoghi – tese a promuovere, sia pure per gradi il progetto della Green Way Tiburtina Valeria nelle sue diverse componenti. Su questo genere di azioni, pesa l’attesa di risposte che devono confrontarsi con l’urgenza, aggravata – per incuria e abbandono – dalla condizione attuale dei beni, assieme alla difficoltà che oggi incontrano pratiche sperimentate nell’adoperare partecipazione e volontariato come risorsa per supplire all’incapacità finanziaria e di gestione dei soggetti pubblici. Mettere in gioco nuove occasioni di partecipazione, che alludano anche a forme di economia, non profit, ma comunque sostenibili, è forse la domanda essenziale con cui il progetto stesso è obbligato a confrontarsi, sia pure nelle forme a esso consone, che attengono alla dimensione fisica, funzionale e organizzativa delle scelte. È espressiva, in tal senso la proposta avanzata dalla tesi di laurea di Roberta Fraticelli, che conclude il suo escursus analitico e progettuale con una sorta di agenda strategica, per le amministrazioni e per tutto il parterre dei soggetti locali di interesse, articolata rispetto a tre diversi scenari procedurali e di fattibilità. Il primo, cosiddetto “autarchico”, composto da opere e azioni di gestione tutte imputabili al volontariato e alla autopro-

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mozione dei portatori di interesse; il secondo, che fa leva sulle risorse ordinarie dei comuni interessati, chiamati a riconoscere l’interesse comune, strategico, del progetto proposto; fino al terzo, dove l’insieme delle azioni di maggior significato e valore economico finanziario complessivo costituiscono la base per una progettazione in grado di competere a livello regionale ed europeo nelle sedi opportune. In attesa che nuove risorse vengano messe a disposizione, a scala nazionale, per il recupero e la valorizzazione dei patrimoni confiscati alle mafie comprensiva dell’enorme valore politico e simbolico che tale azione assumerebbe, a livello nazionale e internazionale11. Il progetto dell’Osservatorio Paesaggi e Legalità nella Marsica Un’ultima considerazione riguarda un’ulteriore evoluzione del progetto, avviata già in occasione del workshop Recycle svolto nella sede di Pescara nell’ottobre del 2014, verso la costituzione di un Osservatorio stabile, attraverso il WEB, delle trasformazioni del paesaggio locale come occasione per leggere i rapporto tra territori e legalità12. È un’ipotesi per ora affidata ad uno strumento del WEB, ma che potrebbe presto anche trovare attuazione in forma fisica proprio nella realizzazione, all’interno degli “scheletri della Magliana” di alcune funzioni di tale struttura, come già anticipato da uno dei progetti prodotti al termine del workshop internazionale del 2013: “L’idea è di investire sul territorio, non sul singolo edificio presente o su altri futuri, giocando sulla capacità di un rudere contemporaneo di ribaltarele sorti dei processi degradanti che l’hanno inizialmente coinvolto, osservatorio nuovo, e partecipe, del paesaggio e della sua ritrovata legalità”13.

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Note 1

Beni confiscati alle organizzazioni criminali italiane sono presenti in quasi tutte le regioni italiane, con una vistosa, e per certi versi inattesa presenza anche nelle regioni del Nord. Sono diversi i soggetti che hanno sviluppato forme di attenzione a questo genere di indicatore indiretto delle nuove geografie del crimine in Italia. L’Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati (ANBSC) è l’ente istituzionale che si occupa, per statuto, anche del monitoraggio, anche se non riporta da tempo dati sufficientemente aggiornati. Un quadro di riferimento aggiornato sulla geografia e l’economia di tale fenomeno è fornito, per alcune regioni, dal geoblog dell’associazione Libera!, alla pagina

http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/167.

La stessa questione è tema di indagine sperimentale e di ricerca del progetto “Confiscati bene”, ideato da Andrea Borruso, Chiara Ciociola e Andrea Nelson Mauro, in collaborazione con il gruppo editoriale Espresso, visitabile alla pagina: http://www.confiscatibene.it/it :

“Confiscati Bene è un progetto partecipativo per favorire la trasparenza, il riuso e la valorizzazione dei beni confiscati alle mafie, attraverso la raccolta, l’analisi dei dati e il monitoraggio dei beni stessi. Alla sua costruzione e implementazione partecipano giornalisti, attivisti e tecnologi: ognuno di noi mette a disposizione la propria specifica competenza per rispondere ad alcune domande sullo stato e sulla gestione dei beni confiscati in Italia alla criminalità organizzata: Quanti sono? Dove sono? Quanto valgono? Come vengono riutilizzati?”.

2

“Esistono tre diverse categorie di beni confiscati, ognuna con una precisa disciplina:

- beni mobili: denaro contante e assegni, liquidità e titoli, crediti personali (cambiali, libretti al portatore, altre obbligazioni), oppure autoveicoli, natanti e beni mobili non facenti parte di patrimoni aziendali. Di norma, le somme di denaro confiscate o quelle ricavate dalla vendita di altri beni mobili sono finalizzate alla gestione attiva di altri beni confiscati.

- beni immobili: appartamenti, ville, terreni edificabili o agricoli. Hanno un alto valore simbolico, perché rappresentano in modo concreto il potere che il boss può esercitare sul territorio che lo circonda, e sono spesso i luoghi prescelti per gli incontri tra le diverse famiglie mafiose. Lo Stato può decidere di utilizzarli per “finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile” come recita la normativa, ovvero trasferirli al patrimonio del comune nel quale insistono. L’ente locale potrà poi amministrarli direttamente o assegnarli a titolo gratuito ad associazioni, comunità e organizzazioni di volontariato. Un caso particolare è rappresentato da quei luoghi confiscati per il reato di agevolazione dell’uso di sostanze stupefacenti: il bene sarà assegnato preferibilmente ad associazioni e centri di recupero per persone tossicodipendenti.

- beni aziendali: fonti principali di riciclaggio del denaro proveniente da affari illeciti. I se-

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questri e le confische coprono una vasta gamma di settori di investimento: industrie attive nel settore edilizio; aziende agroalimentari (come l’immenso allevamento bufalino con annesso caseificio sequestrato e confiscato alla camorra nella zona di Castel Volturno); ristoranti e pizzerie praticamente ovunque, dalla Calabria fino a Lecco, e noti locali della vita notturna come lo storico Cafè de Paris, punto nevralgico della Dolce Vita romana, finito nelle mani di un prestanome della ‘ndrangheta calabrese; interi centri commerciali, sorti dal nulla come cattedrali nel deserto”. Fonte: http://www.libera.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/8825. 3

Come è noto, “all’inizio degli anni ottanta, l’esigenza di contrastare efficacemente l’evoluzione della criminalità organizzata di tipo mafioso, resasi protagonista di reati sempre più efferati, anche contro esponenti delle Istituzioni, ha indotto il legislatore ad estendere il novero degli strumenti di contrasto a tale tipo di criminalità ad aspetti di natura patrimoniale. Per la prima volta, dunque, è stata prevista la possibilità di aggredire i patrimoni accumulati dalle organizzazioni con la l. 13 settembre 1982, n. 646 (c.d. Rognoni-La Torre), che ha introdotto le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca dei beni illecitamente acquisiti dai soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali previste dalla l. 31 maggio 1965, n. 575, recante “Disposizioni contro la mafia”. Successivamente, nella medesima ottica, il decreto legge 20 giugno 1994, n. 399, convertito nella legge 8 agosto 1994, n. 501 ha introdotto l’art. 12-sexies, rubricato “Ipotesi particolari di confisca”, nell’ambito del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356. In forza di tale norma i beni di valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività svolta, di cui il condannato non può giustificare la provenienza, sono sottoposti prima a sequestro ex art. 321 c.p.p.” poi a confisca in conseguenza della condanna (o anche all’applicazione di pena ex art. 444 c.p.p.) per il delitto previsto dall’articolo 416-bis nonché per altri gravi reati, progressivamente ampliati nel tempo (fra i quali rapina, estorsione, cessione e traffico di stupefacenti, alcuni reati contro la pubblica amministrazione, etc.). In questi anni, nei quali si sono registrati ulteriori interventi normativi1 diretti a potenziare i mezzi di aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati dai mafiosi, si è pertanto costituito un significativo nucleo di beni confiscati, sottratti alle mafie, da destinare al soddisfacimento di finalità di interesse pubblico.

Sulla spinta delle sollecitazioni delle associazioni contro le mafie (ed in particolare di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, sorta nel 1995), promotrici della regolazione normativa di tali obiettivi, è stata approvata la legge 7 marzo 1996, n. 109, recante “Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati”, che ha disciplinato la fase successiva alla confisca dei beni e previsto il riutilizzo

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per fini sociali degli stessi, per riaffermare i principi di legalità nei luoghi maggiormente contaminati dalla cultura mafiosa. Ciò per perseguire l’obiettivo di indebolire il potere criminale e di assicurare un’opportunità di sviluppo e di crescita per il territorio. In seguito, dopo ulteriori interventi legislativi2, diretti a rendere più efficace l’azione di sottrazione dei patrimoni alle organizzazioni mafiose, con il d.l. 4 febbraio 2010, n. 4, convertito dalla legge 31 marzo 2010, n. 50, è stata istituita l’Agenzia Nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (di seguito anche Agenzia). 4

Su questo si veda: Venti A., Le mani sull’Abruzzo interno. La colonizzazione discreta dell’Isola Felice, in SITE, n. 12 , dicembre 2007, rivista on line, http://www.site.it.

5

Le vicende criminali della Banda della Magliana, organizzazione legata all’eversione nera hanno riempito le cronache nere e giudiziare di uno dei periodi più foschi della storia contemporanea italiana. Numerosi sono gli immobili confiscati a tale organizzazione, nell’area romana, ma anche fuori della regione Lazio, a testimonianza di una ramificazione vasta e diffusa anche in buona parte del territorio nazionale.

6

Se ne parla, ad esempio, nelle recenti inchieste sulla cosiddetta mafia romana di Roma Capitale.

7

“Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, è nata il 25 marzo 1995 con l’intento di sollecitare lasocietà civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1600 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. La legge sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l’educazione alla legalità democratica, l’impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura sono solo alcuni dei suoi impegni concreti. Libera è riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della Solidarietà Sociale. Nel 2008 è stata inserita dall’Eurispes tra le eccellenze italiane. Nel 2012 è stata inserita dalla rivista The Global Journal nella classifica delle cento migliori Ong del mondo: è l’unica organizzazione italiana di “community empowerment” che figuri in questa lista, la prima dedicata all’universo del noprofit.”

Fonte: http://liberaterra.it/it/mondo-libera-terra/. 8

Cfr.: Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture di città e paesaggio, Progetto di ricerca dell’unità locale n. 4, Dipartimento di Architettura di Pescara: Territori e legalità. Strategie di difesa e risposta civile alle Mafie attraverso il riuso sostenibile ed eticamente responsabile degli immobili a gestione pubblica confiscati alle organizzazioni criminali italiane, per la legalità e la giustizia sociale, Pescara, 9 ottobre 2009, (responsabile Unità di ricerca locale n. 4: Prof. Piero Rovigatti; componenti unità di ricerca: Arch. P. Branciaroli, Arch. E. Ciccozzi, Arch. G. De Benedittis, Arch. M. D’Amico, Arch. R. Fraticelli,

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con V. Grippo). Un resoconto di tale attività è stato pubblicato nel volume di Rovigatti P., Progettare … Libera!, Sala Editore, Pescara 2014. 9

Fraticelli R., Strategie di riuso sostenibile ed eticamente responsabile degli immobili a gestione pubblica confiscati alle Mafie. Il caso di Scurcola Marsicana, Tesi di laurea in Urbanistica, Corso di laurea magistrale in Architettura, Dipartimento di Architettura di Pescara, UNICH, a.a. 2013-2014, relatore: prof. Piero Rovigatti, correlatore: Arch. Michele D’Amico.

10

Vedi nota n. 8.

11

Un impegno in tal senso, di cui ancora di aspetta conferma, era stato preso dal neo Presidente del Consiglio Matteo Renzi, come testimoniato da buona parte della stampa nazionale, cfr.: La Repubblica, 2 marzo 2014.

12

“Indagare sulla distribuzione territoriale e l’uso, attuale e potenziale, di tali beni, è, peraltro, anche un modo per riflettere sulle trasformazioni territoriali più recenti, all’interno delle quali il disegno e la strategia territoriale delle organizzazioni criminali italiane (spesso legate alle “zone d’ombra” del sommerso italiano) giocano, da tempo, un ruolo rilevante, quasi mai indagato nelle ricerche sulla città e i territori.”, Cfr.: Rovigatti P., Riciclare frutti del dolore….Un programma di ricerca nel progetto PRIN Recycle, in. Rovigatti P., op. cit., p. 161.

13

Di Capua M., Leone A., Levante F., Violano N., Pisa E., Osservatorio del paesaggio e della legalità, in: Rovigatti P., op. cit. p. 148.

Bibliografia Braghero M., Fisichella A., La Mafia restituisce il maltolto: guida all’applicazione della Legge 109/96 sull’uso sociale dei beni confiscati ai mafiosi, EGA, Torino 1998. Della Libera O., Tredici casi per una gente speciale, Fabbri editori, 2004. Frigerio L. e Pati D., L’uso sociale dei beni confiscati. Programma di formazione sull’utilizzazione e la gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, Roma, Libera, 2007. Lampertico S., Tolte alla mafia: cose nostre!, in Scarp de’ tenis: il mensile della strada, n. 138, 2010. Lentini R., Beni senza destino – Calabria ritardi nell’assegnazione degli immobili confiscati, in Narcomafie, XVII, n. 3, 2010. Giannone T., Dal bene confiscato al bene comune, Quaderni della Fondazione Tertio MillennioOnlus, Ecra, 2012.

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Libera Formazione, Dal bene al meglio! Lo sviluppo sociale ed economico di un territorio attraverso il riutilizzo sociale dei beni confiscati, in: Sapere per saper essere. Appunti per percorsi educativi su mafie, diritti, cittadinanza, 2010. AA.VV., La mafia restituisce il maltolto, in E!state Liberi! kit del formatore, Libera, 2012.

Il caso Abruzzo Magro A., Dossier “Mafie e Monti”, Libera Informazioni, disponibile alla pagina: http://www.liberainformazione.org/news.php?newsid=6961 http://www.liberainformazione.org/dossier-abruzzo-mafie-monti/ .

Il caso Marsica Venti A., Le mani sull’Abruzzo interno. La colonizzazione discreta dell’Isola Felice, in SITE, n. 12, dicembre 2007. Interrogazioni parlamentari sul caso Marsica, 2009 Reportage "Giuda si è fermato ad Avezzano", in Left. Rovigatti P., Progettare … Libera! Workshop internazionale di progettazione attiva per il riuso ecologico e sociale di due immobili confiscati alla Mafia, Sala Editore, Pescara, 2014. Rovigatti P., Progettare ... Libera! Workshop internazionale per il recupero sostenibile ed eticamente responsabile di due immobili sequestrati alle Mafie, Scurcola Marsicana, in PPC, Piano Progetto Città, nn. 27-28, LIST editore, 2013. Fraticelli R., Strategie di riuso sostenibile ed eticamente responsabile degli immobili a gestione pubblica confiscati alle Mafie. Il caso di Scurcola Marsicana, Tesi di laurea in Urbanistica, Corso di laurea magistrale in Architettura, Dipartimento di Architettura di Pescara, UNICH, a.a. 2013-2014, relatore: prof. Piero Rovigatti, correlatore: Arch. Michele D’Amico.

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Scurcola Marsicana, immobili confiscati alla Banda della Magliana, marzo 2013

Identificazione del sito. Elaborazione in ambiente Qgis della Ortofoto 2003, fonte: Regione Abruzzo

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Recycle Lab 4, Pescara, 9 ottobre 2013. Obiettivi della ricerca

Recycle Lab 4, Pescara, Mappe cognitive. Territori infetti e vulnerati

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Recycle Lab 4, Pescara, Mappe cognitive. Settori a rischio

Master Plan territoriale, (R. Fraticelli, Strategie di riuso sostenibile ed eticamente responsabile degli immobili a gestione pubblica confiscati alle Mafie. Il caso di Scurcola Marsicana, Tesi di laurea in Urbanistica, Corso di laurea magistrale in Architettura, Dipartimento di Architettura di Pescara, UNICH, a.a. 2013-2014, relatore: prof. Piero Rovigatti, correlatore: Arch. Michele D’Amico)

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Scenari di attuazione (R. Fraticelli, op. cit.)

Osservatorio dei Paesaggi e della LegalitĂ . Prefigurazioni progettuali (M. Di Capua, A. Leone, F. Levante, N. Violano, E. Pisa)

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Visione guida (R. Fraticelli, op. cit.)

Osservatorio dei Paesaggi e della LegalitĂ . Prefigurazioni progettuali (M. Di Capua, A. Leone, F. Levante, N. Violano, E. Pisa)

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Osservatorio dei Paesaggi e della LegalitĂ . Prefigurazioni progettuali (M. Di Capua, A. Leone, F. Levante, N. Violano, E. Pisa)

Geoblog Libera. Casal di Principe, localizzazione e condizione beni confiscati alle Mafie

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Finito di stampare nel mese di febbraio del 2016 dalla tipografia «la Cromografica S.r.l.» 00156 Roma – via Tiburtina, 912 per conto della «Aracne editrice int.le S.r.l.» di Ariccia (RM)




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