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n. 92 AGOSTO-SETTEMBRE 2014

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contenuti

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casa bella casa

topografia e storia

città e tempo

città e memorie

città e quartieri

idee e progetti stato dell’arte

agosto-settembre 2014

spazi della cultura

Sussieghi provinciali a Lugo per la villa progettata da Takahama di Paolo Bolzani

Sulle tracce di Dante e Carducci le vicende di Francesca e i Da Polenta di Pietro Barberini

Peso el tacon del buso: sui disastrosi interventi di restauro degli orologi solari di Mario Arnaldi

Il porto di Ravenna, dalle vicende della flotta imperiale ai traffici odierni di Don Giovanni Montanari

Fra viale Randi, Alberti, Pertini e Galilei, la città moderna vive qui di Chiara Bissi

Architettura contemporanea: creatività, competenza e regole condivise di Domenico Mollura

Arte nel capannone T: un’esperienza condivisa del recupero urbanistico di Marina Mannucci

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Controcopertina Ecco la storia controversa della progettazione – si potrebbe dire fortunatamente realizzata – di una villa urbana nella cittadina di Lugo di Romagna, che rompe gli schemi dell’edilizia convenzionale e irrompe nell’immaginaginario domestico del luogo. L’autore, l’architetto giapponese Takahama, rivoluziona la disposizione funzionale della casa e l’arrichisce all’esterno all’interno di originali soluzioni estetiche.

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Enrico Gaudenzi, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Marina Mannucci, Luca Manservisi, Domenico Mollura, Guido Sani, Serena Simoni. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani. Redazione: tel. 0544.271068 redazione@trovacasa.ra.it

Editore: Reclam Edizioni e Comunicazione srl viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini - Imola - www.grafichebaroncini.it

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Scandalo a Lugo di fine millennio La sorprendente villa “firmata” da Kazuhide Takahama divide ancora, ma resta pur sempre un pezzo d’autore CASA BELLA CASA


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di Paolo Bolzani

Alla fine del XX secolo Lugo si preparava al nuovo millennio con una sorpresa dal gusto architettonico particolarmente innovativo, soprattutto perché realizzata in pieno centro storico. Sono quelli ancora i tempi del grande Dino Gavina, che negli anni Settanta viene chiamato a rinnovare gli interni dell’Hotel S. Francisco della famiglia Marabini, sito vicino al teatro Rossini. Tramite Gavina, Ornella Marabini incaricherà Carlo Scarpa del progetto di una casa, purtroppo non realizzato a causa della morte nel 1978 del maestro veneziano e forse anche per la burocrazia degli uffici tecnici lughesi. Sempre tramite Gavina, a metà degli anni Novanta la proprietaria dell’Hotel incarica l’architetto Kazuhide Takahama (1930-2010) del restyling del S. Francisco. L’effetto dell’opera compiuta dal designer giapponese è sorprendente. Un amico dei Marabini, ammirato dall’opera di Takahama, lo incarica del progetto della propria villa in viale Miraglia, sita un centinaio di metri dall’Hotel. Con il designer giapponese entrerà nella nuova casa, in particolare nel soggiorno al primo piano, un corollario di splendidi oggetti usciti dalla sua matita, come la consolle Antella e la sedia Jano LG, affiancati da altri pezzi d’autore come il tavolo in acciaio e cristallo Doge di Carlo Scarpa e si accompagneranno a opere pittoriche di Mario Schifano, Giovanni Fattori e anonimi autori del Trecento e Quattrocento. Ma quello che ci interessa è soprattutto il tema dell’inserimento di un oggetto d’architettura decontestualizzato dal suo intorno urbano. In realtà Takahama propone non soltanto un’idea evidentemente non prossima alla tradizione residenziale lughese, per quanto riguarda il linguaggio, ma soprattuto rielabora il concetto stesso di “casa”. La villa infatti “volta le spalle” al viale cittadino, posto a sud-est, per aprirsi nel fronte opposto verso il giardino, posto a nord-ovest, con una loggia vetrata al piano terra e due terrazze ai piani superiori. Viceversa il fronte-strada è muto, quasi privo di finestre e con un’en-

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CASA BELLA CASA


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Quello che qui interessa è il tema dell’inserimento di un oggetto d’architettura decontestualizzato dal suo intorno urbano. In realtà Takahama propone non soltanto un’idea evidentemente non prossima alla tradizione residenziale lughese, per quanto riguarda il linguaggio, ma soprattuto rielabora il concetto stesso di “casa”

In questa pagina, e in apertura, uno schizzo e particolari degli esterni della villa progettata da Takahama a Lugo. In basso, a destra, uno scorcio del living, con le vetrate sul giardino dell’abitazione.

trata che sembra più una porta socchiusa che un ingresso aperto agli ospiti, nonostante lo schizzo di Takahama - che mostriamo - sembri dimostrare un’attenzione per la vista dalla strada. Le soluzioni architettoniche adottate non aiutano a risolvere il comprensibile spaesamento di chi guarda la nuova costruzione, ultimata alla fine degli anni Novanta, complice un tetto a volta in cemento armato, un rivestimento in mattoni smaltati, dal tono bianco e gli infissi metallici grigio naturale. Le reazioni all’opera saranno di entrambi i tenori: rifiuto oppure accettazione del salto culturale imposto da Takahama. Sui giornali locali si alterneranno critiche e plausi. Per quanto riguarda le prime, le definizioni appaiono molto colorite: «bunker, hangar, garage, colombaia». Concedendo all’algida villa “giapponese” di rappresentare «un bell’esempio di architettura orientale», un architettura «post-moderna», «essenziale», nel 1999 ci si chiedeva il motivo della sua “inquietante” presenza in un viale del centro storico di Lugo. Dall’altra parte la domanda poteva essere ribaltata: perché abbandonare la ricerca di

Nelle pagine seguenti, altri particolari degli interni e degli arredi, con notevoli pezzi di design d’autore.

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Concedendo all’algida villa “giapponese” di rappresentare «un bell’esempio di architettura orientale», un’architettura «post-moderna», «essenziale», nel 1999 ci si chiedeva il motivo della sua “inquietante” presenza in un viale del centro storico di Lugo. Dall’altra parte la domanda poteva essere ribaltata: perché abbandonare la ricerca di posizioni d’avanguardia e la voglia di inserire un nuovo oggetto architettonico in un contesto non straordinario, magari per migliorarne il rango artistico?

posizioni d’avanguardia e la voglia di inserire un nuovo oggetto architettonico in un contesto non straordinario, magari per migliorarne il rango artistico? Il dibattito aperto in città sembra a noi stemperarsi allorché si varca il cancello della nuova villa di Takahama. Il progettista gioca con il tema degli accessi leggermente socchiusi sia per l’ingresso nella villa, ma, ancor prima, a partire dal cancello pedonale, come a voler segnalare una selezione degli ospiti quasi fisica, oltre che sociologica. Nel chiuso fronte-strada emerge inoltre un piccolo effetto a brisesoleil, dietro il quale scopriremo esserci il bagno della zona notte al primo piano. Girando attorno al compatto corpo edilizio della villa, ecco il fronte opposto alla strada rivelarsi molto più accogliente e interagente con il giardino antistante, tramite una bella loggia, dalla quale il soggiorno del piano terra si proietta al di fuori con una grande vetrata. Accanto alla log-

CASA BELLA CASA


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Lavori edili in genere Ristrutturazioni Restauri Manutenzioni

gia ha inizio una scala che conduce alla terrazza del soggiorno al primo piano. Ma non corriamo troppo. Nel nostro giro intorno alla casa non possiamo non esserci fermati davanti ad un pluviale a catena dal disegno non casuale, che fuoriesce perentorio dal corpo edilizio. Le forme che stiamo osservando celano un intento visibilmente artistico, basato sulla ricerca di un effetto plastico, mentre l’irrompere del pluviale con doccione, catena e pozzetto ricolmo di sassi di fiume segue quello che appare un intento eminentemente decorativo-totemico. All’interno dell’ingresso si nota subito lo volontà di gerarchizzare i percorsi, semplificandone lo sviluppo, a partire dall’accesso alla grande sala per il living e per il pranzo, dominati dal tavolo in legno rettangolare e le sedie Tulu di Takahama, in tubolare sottile in acciaio cromato, e dallo scaffale Bramante di Takahama, ad ante opache angolari smussate e centrali in cristallo. Dall’ingresso si può inoltre accedere all’ascensore, viceversa ad un corridoio che disimpegna uno studiolo, un bagno, una cantinetta e una cucina rustica, oppure si può salire la scala rivestita in cotto, materiale del piano terra, che ai piani superiori lascerà il posto, al pari di tutte le stenze, al parquet in ciliegio. Una particolare attenzione si rivela nel gioco della luce naturale, che dal soggiorno perviene al disimpegno per mezzo di un’apertura circolare, chiusa da un vetro opalino, il ché conferisce al corridoio un aura sospesa con un luce tenue ed astratta. Ritroveremo un’altra apertura circolare al culmine della salita, in un lucernario-oblò posto nello sbarco in mansarda. Ed ancora, ecco l’attenzione particolare risulta nello studio del colore delle porte, che nelle aree frequentate anche dagli ospiti sono di colore rosso mattone mentre quelle riservate alla famiglia assumono un tono verdeblu che riprende i toni delle sedie dei due soggiorni della casa, apiano terra e al primo e che si trova declinato nella “frase” decorativa che orna il fronte del camino del soggiorno al piano terra. In ogni caso, oltre allo studio dello spazio e dei rapporti con l’esterno del fronte nord-ovest, è il dispiegamento di mobili d’autore in presenza massiccia che lascia l’ospite piacevolmente sorpreso. Anzi, si potrebbe dire artisticamente ben disposto, alla vista del sontuoso tavolo Doge di Carlo Scarpa della zona pranzo del soggiorno al primo piano, cui fanno da corona le sedie Jano LG senza braccioli di Takahama (con una Tulu a ca-

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In ogni caso, oltre allo studio dello spazio e dei rapporti con l’esterno del fronte nord-ovest, è il dispiegamento di mobili d’autore in presenza massiccia che lascia l’ospite piacevolmente sorpreso. Anzi, si potrebbe dire artisticamente ben disposto, alla vista del sontuoso tavolo Doge di Carlo Scarpa della zona pranzo del soggiorno al primo piano, cui fanno da corona le sedie Jano LG senza braccioli di Takahama (con una Tulu a capotavola), in tubolare sottile in acciaio cromato con seduta e schienale imbottiti e tessuto spugnato di tono verde brillante

potavola), in tubolare sottile in acciaio cromato con seduta e schienale imbottiti e tessuto spugnato di tono verde brillante. Siamo in un ambiente articolato su una forma spaziale a “L” attorno ad una terrazza, con pranzo situata a fianco della cucina. Se passiamo alla zona dedicata al living, oltre i divani verdi, nella parete terminale ecco apparire un “quadro naturale” costituito dall’alta e stretta finestra, in asse a chi entra nell’ambiente dal disimpegno della scala. Gli sono accanto, in omaggio ma in dialogo a forte tinte, la consolle Antella Takahama, in laccato rosso arancio, e il tavolino con gambe in bronzo lucidato e il piano ellittico in multistrato finito a foglia d’oro zecchino. E con quest’opera dal timbro surrealista in produzione dal 1939, ci congediamo dal paziente lettore con un saluto alla grande Meret Oppenheim (Charlottenburg, 1913-1985).

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«Agile e solo vien di colle in colle quasi accennando l'ardüo cipresso. Forse Francesca temprò qui li ardenti occhi al sorriso? [...]» Incipit della poesia La chiesa di Polenta composta da Giosuè Carducci nel 1897

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I Da Polenta tornano al loro castello Seguendo le tracce di Dante, di Carducci e il filo della storia d’amore di Francesca da Ravenna di Pietro Barberini Dante Alighieri, per bocca di Francesca Da Polenta, così descrive Ravenna: «... siede la terra dove nata fui / su la marina dove il Po discende / per aver pace co’ seguaci sui...» (Inferno, V canto). Le dolcissime parole di Francesca da Polenta portano Ravenna, appartata ma non isolata, fra le città che vivono il consolidamento del potere signorile. La tradizione vuole che la casa natale di Francesca sia in un vicolo medievale quasi dietro Porta Sisi, a ridosso delle mura meridionali del centro urbano. Andando sposa ad un Malatesta, Francesca viene chiamata “da Rimini” ma nasce e vive la fanciullezza a Ravenna in un angolo tuttora silenzioso. L’edificio conserva, più di altri, l’aria severa e i tratti distintivi dell’architettura del periodo e viene chiamata “casa dei Polentani”. Ritenuta la casa di Francesca, fu visitata da Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio, quando i due celebri personaggi si trattennero in città. All’interno sono evidenti tracce di una lunga storia. Il piano terra è più basso, di un paio di metri, rispetto al livello stradale, al piano superiore fu ricavata un’ampia sala per ospitarvi una biblioteca e la collezione ornitologica “Brandolini” prima del suo trasferimento tempo fa alla Loggetta Lombardesca. Attraversando spazio e tempo, seguendo il filo della poesia, arriviamo ad un luogo sacro, la bella chiesa di San Donato in Polenta. Le due porte, con arco a sesto acuto, sono separate dal verdeggiante colle di Bertinoro, attorno al quale è posta una ghir-

Due vedute della pieve di San Donato a Polenta nei pressi di Bertinoro, sui coli della provincia di Forli-Cesena

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All’interno della chiesa si accede dal cortiletto laterale attraverso una porticina a sesto acuto. Sono visibili innumerevoli iscrizioni e stemmi di vari Comuni d’Italia che attorniano il busto di Carducci.

landa di creste irte di cipressi. La chiesa si staglia appoggiata alla roccia, ben più alta delle pievi “affondate” nella pianura alluvionale. Notizie dell’edificio religioso risalgono all’anno 911, ma alcuni elementi architettonici, come i capitelli, fanno supporre l’utilizzo di materiale lapideo di una precedente costruzione. L’interno è a tre navate, con quella centrale dal tetto non sopraelevato: caratteristica che la differisce da molte pievi romaniche d’area romagnola. L’edificio domina il paesaggio nel territorio collinare e contrassegna l’importanza di Polenta che nel 1371 annovera ben 41 focolari (200 persone) senza contare gli abitanti del Castello che accompagna e segue le sorti della nobile e potente famiglia Da Polenta. Di quest’ultimo presidio si hanno notizie fin dal X sec. e una citazione della prima metà dell’XI sec. in un atto di Corrado II: «Unum

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Nella pagina a fianco, in alto: la casa detta “dei Polentani” e il particolare della tipica porta d’accesso con arco a sesto acuto. In basso a sinistra e qui sopra: elementi decorativi della facciata con particolari del cornicione, della canna fumaria e di quanto resta di una finestra (ora murata).

Castellum qui vocatur Pulenta». Con la signoria ravennate, 1275–1341, anche il Castello gode di grande prestigio, ma con l’esilio dei Da Polenta viene ceduto ai Malatesta e nei secoli successivi perde d’importanza fino a cadere in rovina. Come si legge in una targa, la chiesa fu salvata da Aurelio Saffi, uno dei fondatori della Repubblica Romana del 1849, che quarant’anni dopo, durante una seduta del consiglio provinciale di Forlì, terminò il suo discorso a favore dei restauri, esclamando: «Quale italiano non vorrà conservata e onorata una chiesa dove Dante pregò?». Alighieri, ospite di Guido Novello ha, quasi certamente, soggiornato nel Castello godendo delle bellezze di quella dolce alternanza di poggi segnati da cipressi e siepi di bosso. Il Poeta avrà conosciuto, in quella dimora, la triste vicenda di Francesca, tanto da raccontarla con benigna pietas e commovente partecipazione emotiva? È probabile che Dante sia entrato inginocchiandosi davanti all’altare, nella chiesa di San Donato di Polenta, non credo però abbia appreso la tragica storia d’amore in quel luogo,

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Altri particolari della facciata dell’antico edificio ravennate, tra cui lo stemma, ora deturpato dalla presenza di grondaia e cavi elettrici.

ospite dello zio di Francesca. I legami poetici e letterari sono tanti e pieni di suggestione, per trovare, sul filo della commozione, intrecci di vario genere. Dal colle di Polenta si gode di un panorama meraviglioso, dove la terra di Francesca appare schiacciata sul bordo azzurro della “marina”: molti ravennati arrivano lassù a cavallo della loro bicicletta da corsa, un omaggio spesso inconsapevole alla struggente e malinconica dannazione della bella ravennate, resa immortale anche dai versi carducciani. Giosuè Carducci si appassionò alla vicenda, immaginando

i sospiri della giovane sposa infelice all’ombra dei cipressi e resi vivi dalla poesia La chiesa di Polenta. La Commedia dantesca riesce così ad avvicinare un “mangiapreti” come Carducci alla religiosità del luogo, al quale il poeta di Pietrasanta si lega elargendo cifre significative per i restauri di cui necessitava la malandata pieve... I luoghi della memoria collettiva sono sempre accessibili al pensiero: qualsiasi strada seguiate, ritroverete passaggi (e paesaggi) comuni. Tutte le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

Giosuè Carducci, La chiesa di Polenta Agile e solo vien di colle in colle/quasi accennando l'ardüo cipresso./Forse Francesca temprò qui li ardenti/occhi al sorriso? Sta l'erta rupe, e non minaccia:/in alto guarda, e ripensa, il barcaiol, torcendo/l'ala de' remi in fretta dal notturno/Adrïa: sopra fuma il comignol del villan, che giallo/mesce frumento nel fervente rame/là dove torva I'aquila del vecchio/Guido covava. Ombra d'un fiore è la beltà, su cui/bianca farfalla poesia volteggia:/eco di tromba che si perde a valle/è la potenza. Fuga di tempi e barbari silenzi/vince e dal flutto de le cose emerge/sola, di luce a' secoli affluenti/faro, I'idea./Ecco la chiesa. E surse ella che ignoti/servi morian tra la romana plebe/quei che fûr poscia i Polentani e Dante/fecegli eterni./Forse qui Dante inginocchiossi?/L'alta fronte che Dio mirò da presso chiusa/entro le palme, ei lacrimava il suo/bel San Giovanni;/e folgorante il sol rompea da' vasti/boschi su 'I mar. Del profugo a la mente/ospiti batton lucidi fantasmi/dal paradiso:/mentre, dal giro de' brevi archi l'ala/candida schiusa verso l'orïente,/giubila il salmo In exitu cantando/Israel de Aegypto./Itala gente da le molte vite,/dove che albeggi la tua notte e un'ombra/vagoli spersa de' vecchi anni, vedi/ivi il poeta./Ma su' dischiusi tumuli per quelle/chiese prostesi in grigio sago i padri,/sparsi di turpe cenere le chiome/nere fluenti,/al bizantino crocefisso, atroce/ne gli occhi bianchi livida magrezza,/chieser mercé de l'alta stirpe e de la/gloria di Roma./Da i capitelli orride forme intruse/a le memorie di scalpelli argivi,/sogni efferati e spasimi del bieco/settentrïone,/imbestïati degeneramenti/de l'oriente, al guizzo de la fioca/lampada, in turpe abbracciamento attorti,/zolfo ed inferno/goffi sputavan su la prosternata/gregge: di dietro al battistero un fulvo/picciol cornuto diavolo guardava/e subsannava./Fuori stridea per monti e piani il verno/de la barbarie. Rapido saetta/nero vascello, con i venti e un dio/ch'ulula a poppa,/fuoco saetta ed il furor d'Odino/su le arridenti di due mari a specchio/moli e cittadi a Enogiseo le braccia/bianche porgenti./Ahi, ahi! Procella d'ispide polledre/àvare ed unne e cavalier tremendi/sfilano: dietro spigolando allegra /ride la morte./Gesú, Gesú! Spalancano la tetra/bocca i sepolcri: a' venti a' nembi al sole/piangono rese anch'esse de' beati/màrtiri l'ossa./E quel che avanza il Vínilo barbuto,/ridiscendendo da i castelli immuni,/sparte – reliquie, cenere, deserto – /con l'alabarda./Schiavi percossi e dispogliati, a voi/oggi la chiesa, patria, casa, tomba,/unica avanza: qui dimenticate,/qui non vedete./E qui percossi e dispogliati anch'essi /i percussori e spogliatori un giorno/vengano. Come ne la spumeggiante/vendemmia il tino/ferve, e de' colli italici la bianca/uva e la nera calpestata e franta/sé disfacendo il forte e redolente/vino matura;/qui, nel conspetto a Dio vendicatore/e perdonante, vincitori e vinti,/quei che al Signor pacificò, pregando,/Teodolinda,/quei che Gregorio invidïava a' servi/ceppi tonando nel tuo verbo, o Roma,/memore forza e amor novo spiranti/fanno il Comune./Salve, affacciata al tuo balcon di poggi/tra Bertinoro alto ridente e il dolce/pian cui sovrasta fino al mar Cesena/donna di prodi,/salve, chiesetta del mio canto! A questa/madre vegliarda, o tu rinnovellata/itala gente da le molte vite,/rendi la voce/de la preghiera: la campana squilli/ammonitrice: il campanil risorto/canti di clivo in clivo a la campagna/Ave Maria./Ave Maria! Quando su l'aure corre/I'umil saluto, i piccioli mortali/scovrono il capo, curvano la fronte/Dante ed Aroldo./Una di flauti lenta melodia/passa invisibil fra la terra e il cielo:/spiriti forse che furon, che sono/e che saranno?/Un oblio lene de la faticosa/vita, un pensoso sospirar quïete,/una soave volontà di pianto/I'anime invade./Taccion le fiere e gli uomini e le cose,/roseo 'I tramonto ne l'azzurro sfuma,/mormoran gli alti vertici ondeggianti/Ave Maria. (luglio 1897)

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Peso el tacon del buso Orologi solari: le tristi vicende di “restauri” mal fatti e improponibili. di Mario Arnaldi

San Mauro Pascoli, Villa Torlonia. Sopra, la villa prima del restauro. I due orologi solari gemelli si trovavano a destra e a sinistra del portone d’ingresso, impietosamente attraversati dai tubi di calata delle grondaie, che ne hanno nel tempo decretato la totale sparizione. In basso a sinistra: la traccia dell’orologio solare definita da rimanenze di intonaco subito sotto il marcapiano (lo stilo orizzontale ancora presente ci rivela l’antica esistenza di un orologio solare ad ore italiane). In basso a destra: la presenza di un vecchio orologio solare è tradita dai resti di intonaco visibili subito sotto il marcapiano; per regola degli orologi solari gemelli, doveva essere ad ore francesi ovvero moderne.

CITTÀ E TEMPO

Dalla Liguria venni a Ravenna, nell’ormai lontano 1974, perché fui ipnotizzato dal manifesto dell’Accademia di Belle Arti di questa città. Stavo finendo l’ultimo anno del Liceo Artistico a Savona e le Accademie di mezza Italia inviavano i loro programmi per facilitare i diplomandi nella scelta degli studi futuri. Io, che avevo sempre voluto insegnare, lessi la parola “restauro” sul manifesto e ne rimasi folgorato. Non so perché ma da quell’istante volli fare il restauratore. Con non poche difficoltà (mio padre “scagliolista” e mia madre casalinga) riuscii a studiare qui a Ravenna. L’insegnamento di allora non si discostava molto dalla tradizione del Secco Suardo ma, a dire il vero, dopo tanti anni mi accorgo che nel campo pratico le innovazioni tecniche di questo mestiere non sono molte e si distinguono da quelle insegnate da quel pioniere quasi sempre per i materiali e le sostanze usate, salvo poi scoprire dopo un po’ di anni di utilizzo che erano cancerogene o che avevano difetti riscontrati nel tempo. È inutile aggiungere che ogni Soprintendenza ha approcci diversi su questo tema, perché spesso, alla parte puramente tecnica è aggiunta anche una visione “filosofica” e filolo-


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gica del restauro che non è sempre è interpretata in modo univoco e inopinabile. Pur sapendo di scandalizzare qualcuno, ritengo che sia il “buon senso”, abbinato ad una forte dose di rispetto storico e artistico delle opere su cui si lavora, il primo elemento da prendere in considerazione quando ci si appresta ad una operazione di questo tipo. Ed eccomi qui, quindi, a parlare di Restauro in una rivista che tratta prevalentemente di Architettura e nella quale da diversi numeri sto cercando di fare entrare anche la Gnomonica come parte, per nulla minore, della decorazione artistica di case e palazzi, dell’urbanistica e della progettazione del paesaggio. Parliamo di restauro perché anche gli orologi solari e le meridiane si restaurano esattamente come se fossero normali dipinti o sculture (se realizzati con materia lapidea); perché gli orologi solari, come ho cercato di dimostrare in questa serie di articoli, sono testimoni storici dei mutamenti culturali della società; perché si tratta di strumenti scientifici oltre che di manufatti pittorici, e quindi, degni di attenzione da parte delle Soprintendenze, anche quando sono privi di aspetti artistici di grande pregio. In ambito gnomonico il restauro di un orologio solare assume diversi valori interpretativi a seconda di chi sta effettivamente svolgendo il lavoro. Al di là di ogni principio teorico generale, se escludiamo le operazioni basilari di conservazione del manufatto che devono essere eseguite con notevole capacità professionale, il restauro di un’opera d’arte presenta sempre una cospicua valenza soggettiva: due restauratori non procedono quasi mai allo stesso modo. Questo non significa che si possano usare due pesi e due misure indiscriminatamente, ma che ci sono più strade percorribili e ognuna, secondo il caso, può portare a buoni risultati se condotta con criterio e competenza. Per quanto riguarda il recupero e la conservazione dei quadranti solari la questione sembra divenire ancor più complessa e controversa per diverse ragioni. Il primo motivo è collegato alle vicissitudini storiche della gnomonica negli ultimi due secoli. Dopo l’auge barocca e neo-classica, a partire dalla metà dell’800, il progresso scientifico e tecnologico ha soverchiato il livello dei quadranti solari nelle loro applicazioni tradizionali astronomiche e cronometriche. Ciò ha provocato un fenomeno di decadenza di quest’arte, culminato nella sua assoluta impopolarità nel corso del XX secolo: le meridiane sono state praticamente del tutto trascurate, dimenticate per 150 anni, e una particolare contingenza correlata a questa circostanza è stata la scomparsa della professionalità in questo settore. Un patrimonio ingentissimo di orologi solari si ritrova assolutamente devastato dall’incuria, dalle manomissioni arbitrarie (per lo più irrecuperabili) e dalle avventate demolizioni (purtroppo assai frequenti come è avvenuto per i due orologi solari (uno a ore italiane e l’altro a ore francesi) sulla facciata della Villa Torlonia a San Mauro Pascoli – sebbene li avessi fatti notare). Ora, se teniamo in conto che il grande sviluppo del restauro è un fenomeno piuttosto recente, cioè del ‘900, il restauro degli orologi solari, in senso specialistico, finora non è mai espressamente esistito e oggi, questo problema inizia a porsi improrogabilmente. Le istituzioni preposte alla tutela del patrimonio artistico non dispongono, purtroppo, di precedenti significativi, di una casistica apprezzabile che consenta di elaborare dei criteri specifici. Gli operatori, d’altro canto, devono rispondere a richieste concrete pur in mancanza di organismi effettivi che li orientino, che li convalidino, che li garantiscano, che li rappresentino, che li formino… La seconda ragione è intrinseca alla natura stessa dei

In alto: Taggia (IM), il grande orologio solare sulla chiesa parrocchiale, purtroppo mal ricostruito. Al centro: l’orologio solare sulle ex scuderie del parco pubblico di Villa Sorra, presso Castelfranco Emilia (MO). È evidente che lo stilo sia stato forzato a giacere lungo la linea delle ore 12; la traccia bianca ne mostra la posizione originale (foto Gianni. Ferrari). In basso: l’incomprensibile disegno sulla chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano (SI).

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quadranti solari: essi sono innanzi tutto degli strumenti astronomici, la cui fattura costituisce, talora, un’opera d’arte eventualmente di valore storico. Già questa valenza strumentale implicherebbe sempre, per qualsiasi intervento, un contributo tecnico scientifico. Inoltre la gnomonica è singolarmente eclettica e per operare professionalmente in questo settore, oggi più che mai, è indispensabile una certa versatilità: è necessario conoscere la matematica, avere nozioni di astronomia, saper elaborare progetti artistici ed esecutivi, conoscere tecniche di realizzazione, procedure, accorgimenti costruttivi e l’uso di materiali (in particolare pittorici e murari), conoscere gli stili ornamentali ed architettonici, e soprattutto specificamente le tipologie gnomoniche e la loro storia con il relativo repertorio di soluzioni grafiche (sulla base della diretta osservazione del maggior numero di impianti), saper condurre ricerche storiche e di archivio – auspicabile la conoscenza del latino – e, non ultimo, essere in grado di lavorare sui ponteggi. Non si sta descrivendo un “superuomo”, ma un professionista serio della gnomonica. Per quanto elencato poc’anzi non si può ridurre la vasta problematica del restauro degli orologi solari ad una mera faccenda di conservazione materiale di manufatti pittorici, sculturali, o architettonici. Essa comporta un aspetto interpretativo specifico ed una competenza di ripristino funzionale per i quali è assolutamente imprescindibile il contributo di uno specialista. Non è sufficiente conoscere le tecniche per fare un buon restauro che – così vuole il suo etimo – ci restituisca l’opera nella sua forma originale o quanto mai più vicina possibile; l’applicazione corretta delle tecniche e dei prodotti per restauro ci consente solo di non fare danni o di salvare il salvabile, niente di più. In molti casi questa seconda opzione si rende auspicabile e necessaria, ma di scarsa utilità in altri. Pensiamo, per esempio, al restauro di un orologio meccanico da torre: che senso avrebbe restaurare l’antica macchina lasciando il quadrante a frammenti? o riconsegnare il quadrante integro di tutte le sue parti senza rimettere in moto la macchina? O, ancora, ripristinare tutto senza mettere le campane? La mancata ricostruzione delle parti scomparse non è di per sé un problema nel restauro degli orologi solari (importante è salvare ciò che di originale c’è, la ricostruzione può sempre avvenire in un secondo momento, se ritenuta necessaria), il vero problema risiede nel mancato controllo degli addetti ai lavori e dell’assenza di esperti nelle eventuali fasi di ricostruzione. In questi casi, accanto al restauratore, è quanto mai auspicabile la presenza di un esperto; di un vero esperto. Il connubio fra queste due figure non potrà che produrre un lavoro perfetto; diversamente, sarà più facile cadere in errori, anche banali, nei quali non cadrebbe nemmeno un apprendista della gnomonica. Direi che gli errori più comuni e sciocchi siano sostanzialmente tre: 1. quello di ritenere che le linee orarie si aprano secondo lo scandire del tempo mostrato da un comune orologio da polso (l’ora mostrata da un orologio solare o da una meridiana non è quella convenzionale degli orologi meccanici). Un orologio solare tracciato guardando l’orologio al polso funzionerà correttamente una sola volta l’anno: il giorno della ricorrenza del suo restauro o della sua costruzione; 2. quello di ritenere che lo stilo debba essere ripristinato pie-

In alto: Ravenna, via Rondinelli, chiostro dell’ex convento degli Agostiniani: L’orologio solare con tutti i suoi errori di restauro. In basso: Ferrara, piazzetta del municipio: la meridiana come appariva prima del recente e definitivo restauro: i nomi dei mesi sono posti in modo totalmente impreciso e alcuni numeri senza alcun significato. Anche la curva del tempo medio è assolutamente sbagliata.

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da 60 27anni gandolo verso il basso tanto quanto basti finché la sua ombra non giaccia lungo la linea dell’ora indicata (ovviamente sempre misurata con l’orologio da polso). Lo stilo, infatti, non è inclinato ad libitum ma secondo precisi parametri astronomici e geometrici che lo collochino sempre parallelo all’asse terrestre; 3. quello di non saper riconoscere un “ortostilo” da un “assostilo” ovvero uno stilo perpendicolare (o ortogonale) alla parete da uno inclinato e parallelo all’asse dei poli. Mi è capitato di vedere “assostili” raddrizzati e “ortostili” ostinatamente piegati (per rimarcare quest’ostinazione dei “restauratori” a raddrizzare stili pendenti, in Inghilterra, fu anche composta una significativa “Ode al Viagra”). Il primo errore è assai frequente nei nuovi (pseudo) orologi solari, dipinti senza la dovuta competenza, ma neppure i “restauri” ne sono immuni; il grande orologio solare sulla chiesa parrocchiale di Taggia (IM), fu restaurato molti anni fa proprio con questo metodo. Il secondo è abbastanza comune nei “restauri” senza competenze specifiche di gnomonica. Fra questi c’è la variante del semplice spostamento senza agire sull’inclinazione, ma sulla rotazione. È ciò che deve essere accaduto al povero orologio solare sulle ex scuderie del parco pubblico di Villa Sorra, presso Castelfranco Emilia (MO). Lo stilo fu certamente ricollocato in modo erroneo nel 2007, durante l’ultimo restauro (da una vecchia foto lo stilo appare ancora correttamente istallato). La ricostruzione senza senso di motti e sentenze dipende solo da una scarsa ricerca o, peggio, da un’insipiente sufficienza che vieta all’operatore di porsi domande di fronte a parole sconosciute o prive di significato. È il caso dell’orologio solare che a Ravenna si trova dipinto nel chiostro dell’ex convento degli Agostiniani in via Rondinelli, oggi sede dell’intendenza di finanza e ingresso alla mostra permanente Tamo. L’orologio solare fu fatto probabilmente nel 1828 (così dice la data, ma visti i numerosi errori non ne sono certo) da un certo Saporetti di Ravenna (forse un parente nel noto matematico e astronomo Antonio Saporetti, nato a Ravenna nel 1821, direttore dell’osservatorio dell’Università di Bologna fino alla morte avvenuta nel 1900? Anche lui scrisse un volume di gnonomica. Oppure è opera dello stesso Antonio e la data sull’orologio solare è stata mal ricostruita?). La scritta con la firma e la data è stata ricostruita nell’ultimo restauro in modo assolutamente arbitrario. In essa leggiamo: “M. PROV. HOMAF MLCCCXXVIII SAPORETTI RAV. D.” dove “HOMAF” sta certamente per “ROMAE” e la data “MLCCCXXVIII” mostra un evidente errore nell’anteposizione di un L (50) al CCC (300). Va da sé che doveva esserci una D (500). Anche i pochi segni zodiacali furono ricostruiti con estrema libertà; non ci sono tutti e neppure sono precisi. La stessa sorte toccò alla sfortunata meridiana della piazza municipale di Ferrara. La meridiana, che fu costruita dal nostro Giovanni Zaffi-Gardella, alla fine del secolo XIX mostrò problemi già molto presto, tant’è che fu lo stesso Zaffi-Gardella a restaurarla per primo; evidentemente la meridiana nacque male e si ammalorò subito, forse a causa di prodotti pittorici non adatti o di problemi strutturali dell’intonaco. Con il tempo lo strumento subì altri restauri che lo ridussero ad un livello di inesattezza tale che sia i nomi dei mesi lungo la curva del tempo medio sia la curva stessa pian piano furono cancellati o alterati a tal punto che si svuotarono di significato “restauro” dopo “restauro” perpetrando gli errori che si generavano ad ogni nuova operazione. Fortunatamente, la meridiana è stata recentemente restaurata e riportata alla sua perfetta impostazione, sotto la direzione scientifica di Renzo Righi, capace gnomonista di Correggio. Ma gli errori più grandi e “tragici”, ahimè, si incontrano quando gli operatori si sentono legittimati a ricostruire totalmente l’orologio solare senza tenere conto delle tracce ancora

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Il complesso gnomonico dell’antica sede municipale di Saluzzo (CN), così come ci è stato restituito dal recente restauro: una parete interamente bianca con le linee orarie delle ore italiane (con evidenti dimenticanze) e nulla più.

L’orologio solare sulla parrocchia di Cadero, nel comune di Maccagno con Pino e Veddasca (VA), prima del recente “restauro” (foto Roberto Baggio). Oggi appare totalmente rosa (prima era evidente che questo colore si trovava solo nei risvolti e nelle ombre, mentre il campo dell’orologio era bianco) e con un impatto totalmente irrispettoso dell’antichità dell’orologio.

evidenti, quando cioè il pennello prende il sopravvento sull’intelletto che vorrebbe un assoluto rispetto scientifico e filologico. Mirabilmente assurdo è il disegno – non saprei in quale altro modo definirlo – sulla chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano (SI). Incomprensibile è stato anche il restauro (a quanto pare benedetto dalla Soprintendenza locale) del bel complesso gnomonico sette-ottocentesco sulla facciata dell’antico palazzo comunale a Saluzzo (CN). Il gruppo (una superficie totale di circa 25 metri quadri ) era composto di due orologi solari: uno (il più grande e più antico) ad ore italiane e l’altro, subito sopra) a ore francesi scandite in frazioni di cinque minuti (una rarità). I restauratori hanno inspiegabilmente ignorato i segni incisi nell’intonaco e le tracce di colore ancora visibili. L’orologio ad ore italiche è stato completamente alterato: persi i colori originali, ridipinto arbitrariamente, non completato, alterato nella struttura delle demarcazioni, cancellata quasi completamente la linea meridiana, e ancor peggio è andata al bel tracciato ad ore francesi; non ce n’è praticamente più traccia! Una pulitura totale ha sbiancato tutto, lasciando ben pochi segni dei colori originali (prima ben visibili). Si è perso, quindi, il manto azzurro con lambrecchini e pennacchi, scomparse totalmente le linee dell’orologio a ore francesi e svanita la corona marchionale, simbolo della comunità saluzzese. Orripilanti (non solo dal punto di vista gnomonico) sono i restauri eseguiti nel 2004 sui due orologi solari di palazzo Pagliotti in piazza Pinelli a Cuorgné (TO). I due orologi solari (uno a ore italiane e l’altro ad ore francesi) erano molto degradati ma la tracciatura delle linee orarie e parte dell’apparato

decorativo erano ancora ben visibili; il “restauro” non solo ha eliminato ogni traccia del disegno originale, ma lo ha stravolto anche dal punto di vista scientifico, inventando linee inesistenti, tracciati assurdi e orari assolutamente non congruenti. Uno dei due gnomoni è stato lasciato curvo immaginando chissà quale segreto astronomico si celasse dietro a quella stortura (causata, probabilmente, da una manomissione degli operai che posero le vecchie grondaie passando proprio sopra gli orologi solari). Sulla parete della parrocchia di Cadero, nel comune di Maccagno con Pino e Veddasca (VA), un recente “restauro” ha rovinato un altro orologio solare di grande valore storico. Su questo ennesimo pseudo-recupero si sono pubblicate pagine di critica e di inutili rivalse sui giornali locali (vd. http://www3.varesenews.it/comuni/veddasca/articolo.php? id=281721; http://www3.varesenews.it/varese/meridianadi-cadero-il-restauratore-risponde-all-esperto-283558.html; http://www3.varesenews.it/comuni/veddasca/articolo.php? id=284100). Dalle fotografie scattate prima del cosiddetto “restauro” si vede perfettamente con quale disinvoltura l’operatore si sia mosso nel ridare nuovo lustro all’orologio solare. Il campo è oggi tutto rosa, re-intonacato con intonachino pigmentato (già questo è assurdo solo ammetterlo) che oggi fa apparire le linee orarie come se fossero scavate, mentre appare evidente che in origine fosse bianco (o rosa molto chiaro) lasciando il rosa solo nei risvolti dei cartigli. Le moderne punte di freccia triangolari hanno preso il posto di quelle che prima erano aggraziate da due semplici pennellate arcuate, la meticolosa suddivisione delle ore francesi pre-

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sente nel semicerchio in alto è scomparsa, e che cosa mai rappresenterebbero i numeri 9-10-11 e 12? Non sono presenti nell’orologio originale e, tuttalpiù, dovrebbero essere 13-1415 e 16 che è la vera sequenza numerica delle ore italiane a cui le linee orarie vicine (quelle rosse) sono associate; che l’odierno 10 fosse in realtà un 14 è dimostrato anche dalla xxxxxxxxxxxxxx foto ravvicinata che vediamo a corredo di questo articolo. Le ore da 20 a 24 sono corrette, ma non rispettano né la grafia né la loro posizione originale. Per fortuna (ma è una magra consolazione) non è stato toccato il secondo orologio subito sotto. Questi non sono altro che pochissimi esempi del problema relativo ai restauri “liberi” di orologi solari. Purtroppo la lista sarebbe assai più lunga, basterebbe vedere la ricostruzione (perché non si tratta certo di restauro) dell’orologio solare sul palazzo Farnese a Caprarola (VT) fatta nel 197374, dove, come ha correttamente scritto Mario Catamo in un articolo del 1999, «Gli errori commessi documentano la persistente riluttanza a sentire il parere di esperti prima di eseguire il restauro di meridiane o a ricercare, quantomeno, il disegno originario nelle fonti iconografiche». E che cosa dovremmo dire della nuova tinteggiatura del chiostro cinquecentesco del Bramante nella chiesa di Santa Maria della Pace, a Roma, che ha ridotto il povero orologio solare (per fortuna ancora recuperabile) ad uno “scheletro” quasi privo di significato? E del “restauro” del castello di Masino, presso Caravino (TO), con ben sedici orologi solari (lavoro a cui è stato dedicato addirittura un volume a stampa nel 2006) cosa dovremmo pensare? Gli orologi solari furono restaurati durante i lavori effettuati dal 2005 al 2008; solo tredici di loro furono oggetto di recupero perché gli altri tre non presentavano elementi che potessero, se non altro, garantirne almeno il solo restauro “conservativo”. Sicuramente dal punto di vista tecnico i lavori furono condotti bene – lo dimostrerebbero le belle cornici degli orologi solari, nonché la grande sfera armillare dipinta sulla parete che si affaccia verso il “terrazzo degli oleandri” – ma dal punto di vista gnomonico-scientifico, non si può certo dire la stessa cosa. Dei tredici orologi solari del castello forse (ma occorrerebbe una migliore analisi) solo due furono recuperati correttamente, gli altri no: gli gnomoni mal collocati, linee errate o di semplice costruzione ridipinte (?) e linee orarie ancora incise nell’intonaco (quasi tutte) lasciate invisibili. Quale senso dare ad una operazione di questa portata, gnomonicamente così ingenua e leggera? Insomma, alla fine di tutto questo lungo pezzo, devo ammettere amaramente che, se in molti casi le committenze e le Soprintendenze appaiono illuminate e aperte al dialogo fra esperti gnomonisti e preparati restauratori, in tanti altri – e come s’è visto non sono pochi - ci si trova palesemente di fronte ad un totale, inammissibile, disinteresse per quello che un orologio solare è nella sua essenza: uno strumento astronomico che talvolta è arricchito da elementi più o meno artistici e decorativi. Tutto questo è disarmante, e non voglio entrare nel merito dei restauri di edifici medievali, a me tanto cari, condotti spesso nella totale noncuranza dei graffiti presenti sui loro muri (occorrerebbe un altro articolo, ma questo mi pare sia già sufficiente rilevare il problema). Alla fine del 2008, la Regione Piemonte varò una legge (ne trascrivo il testo qui di seguito) per la tutela e la valorizzazione del patrimonio gnomonico del territorio, intitolata “Valorizzazione dei quadranti solari” (“quadranti” è un francesismo – cadran solaire – ma siamo in Piemonte e ci può stare). Una buona legge a cui sarebbe bene ispirarsi, ma pare che (ahimè) ancora attenda di essere applicata seriamente. marnaldi@libero.it

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Legge regionale 3 dicembre 2008, n. 33.

"Valorizzazione dei quadranti solari". (B.U. 11 dicembre 2008, n. 50) Il Consiglio regionale ha approvato. LA PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE promulga la seguente legge: Art. 1. (Finalità) 1. La Regione, ai sensi dell'articolo 7 dello Statuto e dell'articolo 1 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), persegue la valorizzazione dei quadranti solari aventi interesse paesaggistico, storico-culturale, scientifico ed artistico, attraverso la promozione dell'attività di censimento degli esemplari di particolare rilievo, nonché delle attività volte alla loro conservazione. Art. 2. (Ambito di applicazione) 1. La presente legge si applica ai quadranti solari: a) che per età o dimensioni possono essere considerati patrimonio paesaggistico; b) che hanno importanza dal punto di vista storico-culturale e scientifico; c) di pregio artistico. 2. La presente legge si applica anche ai quadranti solari già sottoposti a vincolo di tutela ai sensi della normativa vigente in materia. Art. 3. (Censimento ed elenco regionale dei quadranti solari) 1. I comuni avviano il censimento dei quadranti solari esistenti di particolare rilievo entro sei mesi dall'entrata in vigore del regolamento di cui al comma 2. 2. La Giunta regionale, entro novanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, adotta un regolamento di attuazione contenente la metodologia di rilevazione e le caratteristiche di una scheda di identificazione allo scopo di predisporre il censimento di cui al comma 1. 3. Le schede di identificazione del censimento sono raccolte in un elenco regionale dei quadranti solari. 4. Il censimento raccoglie dati e informazioni relativi a: a) localizzazione; b) proprietà; c) caratteristiche; d) autore e datazione del quadrante solare; e) descrizione dei motivi di inclusione nel censimento; f) condizione al momento del censimento ed eventuali opere di restauro eseguite o da eseguire. 5. Chiunque può segnalare ai comuni l'esistenza di quadranti solari aventi le caratteristiche di cui all'articolo 2, comma 1. Art. 4. (Commissione tecnica regionale per la conservazione e la valorizzazione dei quadranti solari) 1. È istituita la Commissione tecnica regionale per la conservazione e la valorizzazione dei quadranti solari di seguito denominata Commissione. 2. La Commissione è composta da: a) l'assessore regionale ai beni culturali o suo delegato; b) l'assessore regionale ai beni ambientali e paesaggistici o suo delegato; c) un rappresentante designato dalle associazioni di gnomonica. 3. Possono altresì far parte della Commissione due esperti in materia designati, rispettivamente, dalla competente soprintendenza regionale e dalle Accademie delle belle arti operanti in Piemonte. 4. La Commissione esprime parere alla Giunta regionale in merito all'inclusione nell'elenco regionale, di cui all'articolo 3, comma 3, dei quadranti solari censiti. La Giunta regionale, acquisito il

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parere della Commissione, predispone ed aggiorna periodicamente l'elenco regionale dei quadranti solari, che viene pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione. 5. La Commissione esprime parere in ordine al finanziamento di interventi di conservazione e di valorizzazione di cui agli articoli 5 e 6. 6. In deroga alla legge regionale 2 luglio 1976, n. 33 (Compensi ai componenti Commissioni, Consigli, Comitati e Collegi operanti presso l'Amministrazione regionale), ai componenti della Commissione non sono riconosciuti compensi per la partecipazione alle sedute. Art. 5. (Contributi per interventi di conservazione) 1. La Regione eroga contributi per il restauro e per la manutenzione ordinaria e straordinaria dei quadranti solari inclusi nell'elenco regionale di cui all'articolo 3, comma 3. 2. I contributi di cui al comma 1 sono erogati in conto capitale nella misura non superiore al 50 per cento della spesa ritenuta ammissibile. 3. Gli interventi di cui al comma 1 sono eseguiti dai proprietari degli immobili sulle cui facciate sono ubicati i quadranti solari a seguito di parere vincolante sul progetto espresso dalla Commissione. 4. La Giunta regionale con il regolamento di cui all'articolo 3, comma 2, disciplina le modalità e le procedure per la concessione dei contributi ai proprietari che ne abbiano fatto richiesta. 5. I proprietari beneficiari dei contributi di cui al comma 1 sono tenuti a mantenere in buono stato i quadranti solari oggetto di interventi di conservazione per un periodo di almeno dieci anni a decorrere dalla concessione del contributo. Art. 6. (Iniziative di valorizzazione) 1. La Giunta regionale, anche su istanza dei proprietari degli immobili sulle cui facciate sono ubicati i quadranti solari, può promuovere iniziative volte alla valorizzazione dei quadranti solari inclusi nell'elenco regionale di cui all'articolo 3, comma 3, al fine di divulgare la conoscenza ed il significato della conservazione dei quadranti solari. Art. 7. (Norma finanziaria) 1. Gli oneri per il censimento di cui all'articolo 3 sono iscritti e trovano copertura finanziaria nell'esercizio finanziario 2008 nella misura di euro 200.000,00, in termini di competenza e di cassa, nell'unità previsionale di base (UPB) DA18032 del bilancio di previsione per l'anno finanziario 2008, che presenta la necessaria capienza. 2. Agli oneri derivanti dall'attuazione degli articoli 3, 5 e 6 per il biennio 2009-2010, pari a euro 500.000,00 annui ricompresi nell'ambito dell'UPB DA18032, in termini di competenza, si fa fronte con le risorse finanziarie individuate secondo le modalità previste dall'articolo 8 della legge regionale 11 aprile 2001, n. 7 (Ordinamento contabile della Regione Piemonte) e dall'articolo 30 della legge regionale 4 marzo 2003, n. 2 (Legge finanziaria per l'anno 2003). La presente legge regionale sarà pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge della Regione Piemonte. Data a Torino, addì 3 dicembre 2008 Mercedes Bresso


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Il Porto di Ravenna attualità della storia

di Don Giovanni Montanari [Presidente Archivio Arcivescovile di Ravenna]

Le notizie che, quasi quotidianamente, incontriamo nella stampa concernenti il porto di Ravenna informano su un volume di intraprese industriali commerciali, finanziarie di crescente importanza. Terre ed acque di Ravenna: terre dei prodotti agricoli, acque per trasporti da porto a porto. Queste notizie incitano la riflessione a considerare la sostanza della storia del porto di Ravenna come la materia capitale della storia della stessa città da quando con l’imperatore Augusto viene associata al Porto di Miseno nel golfo di Napoli, anche sotto comune Prefetto Lucilio Basso. Scrive Monsignor Mario Mazzotti nel capitolo I del volume della sua tesi di laurea al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana La Basilica di Sant’Apollinare in Classe, Città del Vaticano, 1954, p. 14: «Pompeo, Cesare furono gli iniziatori del porto? C’è chi ha amato ed ama ancora crederlo. Di positivo abbiamo la testimonianza di Svetonio, che ci dice come Ottaviano “con la prima flotta di Miseno e la flotta di Ravenna fondò la tutela del mare supero, [il Tirreno) e del-

CITTÀ E MEMORIE

l’infero [l’Adriatico]”». «La Classe – flotta ravennate – continua Mons. Mazzotti – con navigazione organizzata in continuità comprendeva l’Epiro [interessa fissare l’Illirico evangelizzato da Paolo, Ai Romani, 15,19: «ho percorso il circuito da Gerusalemme fino all’Illirico, quindi i porti da Cesarea, ad Antiochia, Efeso, Mileto, Tessalonica, Corinto»] la Macedonia, l’Acaia, il Ponto, l’Oriente, Creta, Cipro». «E questa flotta – continua l’archivista Mons. Mazzotti: meglio di altri per fare archeologia in archivio – divisa in 10 legioni, il cui contingente importava diecimila uomini, dovette portare un cambiamento tale negli indigeni ravennati da sopraffarne il numero e da trasformarne radicalmente il sistema di vita [...]. Dirigenti romani, ma soprattutto classiari scelti tra la gente di mare della penisola balcanica, Egitto, Siria, Asia Minore, Sardegna, Corsica [...] non dovette mancare l’elemento israelita. Di ebrei a Ravenna abbiamo notizia nei tempi teodoriciani dell’Anonimo Valesiano [...] numerosi nomi della Pannonia e della Dalmazia» (ivi, p. 5). Mons. Mazzotti tesoreggia il


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passo del Liber Pontificalis (IX secolo): «dal tempo di Apollinare [in realtà da fine II sec. d.C.] fino a Pietro Crisologo (426-451) tutti i predecessori di questo “Syrie fuerunt”, furono Siri, sostanzialmente Orientali. Fanno testo per questo Mediterraneo Orientale, per l’Asia Romana, le lettere dell’Apostolo Paolo (da Corinto nell’estate del 50 scrive la Iettera ai Tessalonicesi) era salito a Gerusalemme nell’anno 37; all’inizio degli anni 40 annunzia il Vangelo a Cipro, in Panfilia, Pisidia e Licaonia, queste due province unite politicamente alla Galazia dal 36-25 a.C. Le lettere ai Galati e ai Romani imparentate organicamente nella “Dottrina” sono inserite in una geografia imperiale di I-II secolo cioè nell’età di lancio del Porto di Ravenna governato sotto Vespasiano dallo stesso prefetto del Miseno Lucilio Basso. La sostanza di storia per tutti questi porti del “circuitus-chichlos” va integrata con le informazioni che si hanno sugli arsenali, in sinergia con fabbriche di armi e suppellettili militari dalle tende, alle vele, agli stendardi, alle calzature e alle borse, alle tovaglie d’altare che vediamo nei mosaici. Per il conio di monete, medaglie, collane, sigilli c’è un’industria all’apparenza minore, ma nei mosaici è emergente. Li chiamiamo beni suntuari per la relazione col “lusso-sumptus”, ma sono un’industria. Il Porto di Ravenna (di oggi), con le sue attrezzature, cioè con le enormi gru di ultima generazione entrate in funzione nei mesi scorsi (cfr. “Corriere di Romagna”, sulla cronaca di Ravenna, venerdì 16 luglio 2014, p. 5) e col progetto di arruolare Micoperi per recupero e “salvezza” della nave Concordia – per quanto si può salvare –, “concorda” con le sorprendenti fotografie dei transatlantici di “crociera” che sbarcano centinaia o migliaia di turisti che riempiono le nostre basiliche e danno conforto al personale della Diocesi che Mons. Marchetti allerta per la visita alle Chiese come guide-custodi. Sul “Corriere di Romagna” (giovedì 22 maggio 2014), però, si legge: «Accade che molti operatori per fare arrivare le merci a Milano preferiscano i porti di Rotterdam e Amburgo», dice Guido Ottolenghi (presidente di Confindustria). «Eppure il porto è per il nostro territorio la prima industria e il primo datore di lavoro [...]. Ci sono voluti molti anni perché l’Autorità portuale e la città arrivassero a dare priorità a questo tema». Ma ora con la bella fotografia di Galliano Di Marco, presidente dell’Autorità Portuale di Ravenna, il “Corriere di Romagna” (venerdì 18 luglio 2014, p.5) mostra, in serie, una sequela di dette grandi gru con accanto interminabili file di containers che suscitano il problema delle Piallasse della Baiona e dei Piomboni. Teoderico, che si servì del porto per far arrivare il monolite di copertura del suo Mausoleo (300 mila chilogrammi in Corrado Ricci, Guida di Ravenna, Bologna, Zanichelli, 1923, p. 211), e che aveva ordinato che si abbattessero e sfruttassero i tronchi degli alberi d’alto fusto crescenti lungo il Po (Giuliano Argentario può essere visto nella figura di præpositus fabricis; cfr. Codex pontificalis ecclesiæ Ravennatis. Vol. 1: Agnelli Liber pontificalis, a cura di Alessandro Teti Rasponi, Bologna, N. Zanichelli, 1924, p. 165 nota) e che si costruissero fabbriche di armi (Cassiodoro, Variæ, VII, 18-19, III 31), imponeva la costruzione di fabbriche di calce per costruzioni in muratura (ivi, VII, 17). Pare che Teoderico sor-

vegli lavori nei dintorni di Cervia, nelle saline e lagune quando fa scrivere: «per fare aratri e falciatrici avete voluto cylindros, tenete restaurate le navi che, come si fa con gli animali, tenete legate ai muri delle vostre case» (manca che dica come a Venezia fanno i veneziani, ma siamo a Ravenna in laguna) (Variæ, XII, 24). «Il grano pubblico doveva arrivare a Ravenna dai porti della Calabria e delle Puglie» (ivi, I, 35). Eccellente testo è tutta la Variæ, V, 17 con cui Teoderico comanda ad Abundanzio Prefetto del Pretorio che «lungo i lidi d’Italia vi siano imprese di navi, così che i dromoni che l’industria potesse fabbricare fossero selva di flotte, caseggiati in acqua, le vele fossero ali ai navigli, legni volatili, propaganda di merci, silenziosi motori dei naviganti più veloci degli uccelli: per queste fabbriche di navi si procuri il legname da tutte e due le sponde del Po. Metta il nostro Po indigene navi in mare e l’abete che nuoti nelle onde impari a superare i cumuli ondosi delle acque marine». Salviamo i Piomboni, salviamo la Baiona. Il Porto antico di duemila anni deve essere sempre nuova attualità.

A sinistra: foto storica della Darsena di Ravenna Sopra: la Civitas Classis, mosaico parietale di sinistra della chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna Sotto: immagine della piallassa Baiona

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Molto importante è più di un tratto di Mario Pierpaoli in Storia di Ravenna. Dalle origini all’anno Mille, Ravenna, Longo, 1990, a p. 49: «L’età augustea, a prescindere dal porto e dall’arsenale marittimo-militare, ha lasciato il centro urbano con impianto palafitticolo praticabile per via di ponti e traghetti (Strabone), provvisto di mura almeno a nord-est (Vitruvio), con indicazione generica di edifici pubblici e privati poggianti su palificazioni in ontano (Vitruvio) e con la sola specificazione di una scuola di gladiatori (Strabone e Svetonio) che certamente sorge fuori città». Ma più ancor notevole il cap. VI: “La base navale al centro della storia romana e cristiana”, pp. 53-63. A più riprese Santo Mazzarino ha trattato del Porto di Ravenna: si potrà cfr. in Il basso impero. Antico, tardoantico ed èra costantiniana, vol. II, Bari, Edizioni Dedalo, 1980, pp. 300-335, XXXII: Per l’interpretazione della storia di Ravenna: da Filisto e Iordanes (con bibliografia). Il passo di S. Mazza-

rino da considerare elegantemente conclusivo è come segue: «Possiamo notare, nella storia della marina ravennate nell’antichità (quasi un millennio), grosso modo tre fasi principali. Una prima: il Messanicus: fase greca, del IV secolo, a.C. Una seconda: la Classis Rauennas, divenuta Classis prætoria Rauennas, del principato. Terza fase: il basso impero, con la fine della pars occidentale, con l’uccisione di Paulus, nella Pineta, e la caratteristica di Ravenna nell’età di F(l)avius, cioè Cassiodoro, fonte di Iordane e del suo passo sul Porto di Ravenna, e oltre questa età, fino al VII secolo, in cui il latifondo ecclesiastico prevale, a Ravenna, sul privato. Lo spostamento della storia dell’Europa occidentale dal Sud al Nord – il grave problema agitato da Pirenne – ha così i suoi presupposti, e la sua spiegazione, nella storia antica, e tra l’altro, in non piccola misura, nella storia antica di Ravenna» (S. Mazzarino, Il basso impero, cit., II, p. 312).

Sopra: l’ultima gru sopravvissuta della Darsena di Città. (foto di Alberto Giorgio Cassani) A fianco: Immagine notturna di una delle grandi gru del porto di Ravenna

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Viale Randi, viale Alberti, via della Lirica, viale Pertini e viale Galilei

La città moderna abita qui di Chiara Bissi Non ha niente del fascino composto della città storica, dell’uniforme qualità architettonica, del ricercato gusto apprezzabile nei negozi del centro, ma rimane uno dei punti nevralgici dell’espansione moderna della città, forse il segno urbanistico più forte dal dopoguerra a oggi. Così verrà ricordata quella porzione di città che si snoda da viale Randi, via della Lirica e viale Pertini e si espande su viale Alberti, via Brunelleschi. A questo si aggiunge a pochi anni di distanza l’apertura di viale Galilei, asse commerciale in fregio alla Lama. Convivono in questa zona usi direzionali, commerciali e destinazioni residenziali, dai condomini alle villette a schiera, alle abitazioni bi e quadrifamiliari.

CITTÀ E QUARTIERI

Lungo questi assi viari emerge il segno urbanistico più forte dal dopoguerra a oggi. La pluralità di vocazioni, dal commerciale al direzionale al residenziale ne fanno una quartiere dinamico e ben servito


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Una pluralità di vocazioni che ha garantito vivacità, riconoscibilità e ora anche un’identità, tanto che ha celebrato il decennale il 20 e 21 settembre, la festa del quartiere Alberti, promossa dai commercianti come una vera occasione di incontro per i residenti fra svago, intrattenimento e sport. Non sfugge che la concentrazione di servizi e la natura degli assi viari, pensati come circonvallazioni esterne ad uso della città, dotate di sottostrade per i residenti e per il commercio, hanno garantito, fin dalla nascita, dinamicità e vigore. A compensare la mancanza di ricercatezza negli edifici tranne poche eccezioni, poco dialoganti fra loro, e la modesta resa estetica c’è l’indubbio valore insito nella quantità e nella varietà degli insediamenti: a cominciare dagli uffici direzionali, si veda la sede della Cna, di Confesercenti, gli assessorati provinciali, le sedi di associazioni di categoria, di sindacati, di partiti, per non parlare dell’articolata offerta commerciale in grado di coprire le esigenze di tutti, in tutte le fasi della vita. Nel racconto di questa epocale espansione non è possibile ignorare la portata di viale Randi, asse di penetrazione realizzato fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta sulle tracce del vecchio canale del Molino. Viale Randi assolve da tempo la funzione di collegamento fra città storica e quello che si può definire il nuovo centro direzionale cittadino, per arrivare all’ipermercato Esp e alla Classicana. E proprio l’ipermercato segnerà nuovamente il territorio con un’espansione che porterà la struttura commerciale dagli attuali 29 mila metri quadrati a quasi 50 mila mq, e garantirà la realizzazione di nuove uscite sulla Classicana, la sistemazione della rotonda Austria e la costruzione di una pista ciclabile fino a Borgo Montone. Oggi la rotonda Lussemburgo orienta e distribuisce il traffico veicolare diretto nella zona. Se sul lato di viale Alberti dal 1992 si erge l’edificio della Cna, ampliato nel 2001 e modificato nel colore nel 1998 abbandonando l’elettrico azzurro originale per un più rassicurante carta da zucchero, sul lato opposto, viale Pertini si avvale di via della Lirica come sottostrada, asse capace di servire le numerose attività direzionali e commerciali e una vasta lottizzazione residenziale, con un’ampia zona verde retrostante. La fine del millennio ha visto la definizione di una serie di edifici in acciaio e cemento, il primo, con affaccio su viale Randi e via della Lirica, firmato da Lorenzo Pezzele, aprirà nel 1996 la serie di fabbricati di grandi dimensioni che riproducono il modello originario tutto proteso alla massima ad accogliere la massima varietà commerciali e a favorire l’insediamento di uffici direzionali. Una sorta di contagio che chiama altri ad esserci con la propria attività, le proprie idee innovative. Ricca si diceva l’offerta commerciale che offre servizi di ogni genere; non mancano studi pro-

A sinistra, la Festa del quartiere Alberti, come sempre molto affollata, che quest’anno ha celebrato il decennale. In questa pagina, dall’alto, una foto aerea del cuore del quartiere con, al centro, la rotonda Lussemburgo che raccorda viale Alberti, viale Randi e viale Pertini

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fessionali, società immobiliari, imprese editoriali, si veda Reclam, assicurazioni e studi di consulenza. La pressione del traffico veicolare si spegne alle spalle di viale della Lirica. All’interno via della Carmen, dell’Otello, del Rigoletto e dell’Aida definiscono isolati di recente costruzione, composti da palazzine dai colori pastello a bassa densità abitativa. La toponomastica poi rivela l’intenzione di garantire omogeneità all’insediamento sorto dopo il 2000. Se la prevalenza va i capolavori verdiani è via della Carmen, in onore alla maestria di Bizet, a fungere da spina dorsale del piccolo quartiere, premiato da un’ampia area verde. Se viale Randi detiene il primato degli edifici pubblici con il nuovo ingresso dell’ospedale, il comando dei vigili del fuoco e il palazzo di giustizia, viale Pertini risponde con la caserma dei Carabinieri imponente struttura in mattoni faccia a vista, anch’essa realizzata nell’ultimo decennio. Gli edifici presenti sull’asse viale Alberti, sorti con le prime lottizzazioni, in molti casi sono sottoposti ai vincoli dell’edilizia convenzionata: prezzi calmierati all’acquisto, con limiti nell’eventuale successiva vendita che può avvenire solo dopo un certo numero di anni. Si tratta di una zona abitata in prevalenza da famiglie a ricambio lento, mai privilegiata dagli acquirenti interessati a un investimento, ma individuata come scelta di vita. Per tutte le caratteristiche descritte il trasporto pubblico locale serve il quartiere in modo capillare costante e ovviamente l’uscita dalla città è immediata e semplice. A fine di viale Alberti si incrocia la Ravegnana, e si raggiunge viale Galilei aperto a metà degli anni Novanta. ll collegamento stradale tra viale Alberti – attraverso il sottopasso della Ravegnana – e via Galilei, rappresenta l'ultimo atto, grazie al quale

è stata completata nel 2005 l'ampia circonvallazione già esistente nella zona sud-est della città. Una rotatoria circa a metà di viale Galilei garantisce il passaggio verso viale Alberti alleggerendo i flussi diretti in via Ravegnana. Un tempo via Falconieri era il lembo estremo della città urbanizzata prima della barriera dei Fiumi Uniti, oggi viale Galilei con il collegamento alla circonvallazione assolve a un compito preciso. Un sistema di sottostrade, si veda viale Newton, via Keplero, via Flammarion, via Copernico garantiscono la compresenza di numerosi complessi residenziali e di diverse attività commerciali. Procedendo dalla rotatoria di via Romea sud verso la salita di via Ravegnana, lo scolo Lama e la pista ciclabile a destra, e una quinta di condomini a sinistra definiscono il disegno del lungo viale. Un asse, che non dichiara un’edilizia di pregio ma è dotato di volumetrie omogenee, lontano dall’effetto ondivago, alto basso, di viale Alberti. La presenza di una rete commerciale sulla retrostante viale Newton, con un supermercato, servizi diversificati, negozi e uffici sono la forza dell’intera zona, che è in grado di sopportare un intenso flusso di traffico. Altro elemento che conferisce curiosamente omogeneità alla zona è la toponomastica. Il grande Galilei, perseguitato dall’inquisizione fino all’abiura è in buona compagnia: ai già citati Copernico e Newton si aggiungono nelle traverse le dediche all’astronomo francese Camille Flammarion, anticipatore della fantascienza a cavallo fra Otto e Novecento; ad Alessandro Volta, Cartesio, Cassini, Halley, Fibonacci, Cardano e Cusano. Una vera e propria galleria di illustri personaggi, una cittadella della scienza, della filosofia e dell’astronomia. Ed è in queste traverse che si è sviluppata un’edilizia tutta residenziale di tono diverso dal fronte di viale Galilei. Villette uni o bifamiliare dai colori tenui, palazzine curate, che rimandano a linee della tradizione, o con rare eccezioni dalla forte impronta moderna. Il reticolo di strade ad alta densità, è attraversato solo da traffico locale. La presenza dei Fiumi Uniti delimita l’espansione residenziale e rappresenta il limite fisico della città, e in qualche modo sembra influenzare anche l’aspetto delle nuove case che dichiarano uno stile nei materiali, nei colori e nella ripetuta presenza di portici facilmente riferibile ai casolari e ai rustici sparsi nella campagna romagnola.

In alto a sinistra, un’opera di street art realizzata sul muro di un condominio popolare su viale Randi in occasione del festival “Subsidenze”. Sotto, la fontana e i giardini di piazza Bernini,

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INFOPROM

Solida

Capannoni industriali e commerciali costruiti su misura Costruire capannoni industriali e commerciali dalle caratteristiche tecniche avanzate a livello “sartoriale”, ossia su misura delle esigenze del cliente. È questo il punto di forza di Solida Srl, ditta ravennate specializzata nella costruzione di capannoni industriali ed edifici industriali e civili che vanta la rappresentanza esclusiva del prefabbricatore TesiSystem. Le costruzioni prefabbricate vengono consegnate allo stato grezzo o chiavi in mano, prevedendo quindi un lavoro completo dalle fondazioni alle rifiniture finali. Solida srl è in grado di collaborare al fianco dei tecnici dell’azienda - cliente, al fine di trovare le soluzioni migliori per un risultato finale ottimale. D’altra parte è puntando sull’alta qualità e idee innovative che si vince la concorrenza spietata del settore. Titolare della ditta ravennate è Francesco Montanari, la cui “passione” per i capannoni parte da molto lontano. «Sin da bambino – ricorda -, rimanevo affascinato ogni volta che entravo nel capannone di mio padre. Quell’ambiente così grande, era un universo da scoprire. Mi sono portato dietro quella piacevole sensazione sin da adulto e oggi sono contento che mi abbia ispirato un nuovo lavoro». Inizialmente infatti, Francesco porta avanti esclusivamente la ben avviata attività del padre Guglielmo – leader nel campo delle opere di tinteggiatura, verniciatura, cartongessi e capotti – che oggi porta il suo nome: Francesco Montanari. Un giorno però, l’azienda deve cambiare sede e Francesco decide di occuparsi personalmente della realizzazione di un bel capannone di 1.500 metri quadrati, dieci volte più grande di quello che lo aveva così affascinato nell’infanzia. Le sue ottime capacità costruttive non passano inos-

MARABOU BEACH CLUB

Consegna al “grezzo” o “chiavi in mano”, dalle fondazioni alle finiture. Massima funzionalità, efficienza e sicurezza delle strutture con prefabbricati TesiSystem


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servate e nel 2004 inizia questo nuovo percorso che lo porta – con le proprie forze – a realizzare ben diciotto capannoni in zona Bassette in due anni. Da questa esperienza, nasce Solida Srl che ha saputo superare indenne la crisi, se si considera che nel biennio 2011/2012 ha costruito capannoni per un valore complessivo di otto milioni di euro. «Ci sono tante aziende che ricercano capannoni – spiega Montanari –. Se è vero che da un lato il mercato offre molti edifici vecchi a un prezzo apparentemente allettante, dall’altro c’è un’esigenza crescente di fabbricati in regola con le recenti norme di sicurezza del lavoro e rispettosi dei nuovi coefficienti termici, antisismici e acustici che sono analoghi a quelli delle abitazioni. Capita spesso che ristrutturare o apportare varanti a un vecchio capannone sia più impegnativo che non costruirne uno nuovo. Le esigenze delle aziende sono diverse: c’è chi si ridimensiona e ha bisogno di uno spazio più piccolo e chi, al contrario, vuole allargarsi e costruire una nuova parte. Sempre, comunque, si tratta di investimento ben ponderati». Se una volta c’erano molte richieste da parte di piccoli artigiani alla ricerca di pezzature di 150-300 metri quadrati, oggi prevalgono quelle di aziende più strutturate operanti con l’estero, nel settore alimentare o del petrolio, che hanno bisogno di 500-3.000-10.000 metri quadrati. Per costruire un capannone si impiegano in media dai sei mesi a dodici mesi e il costo è strettamente correlato al variare della grandezza di questi tre elementi: piazzale, uffici e capannone. Considerando però la propensione delle grandi multinazionali a preferire l’affitto all’acquisto, Montanari ha saputo diversificare la sua attività anche come immobiliarista del settore, con la ditta Minna srl che per l’appunto si occupa di vendita e affitto capannoni ed edifici di civile abitazione.

Alcune immagini di interni, esterni e soluzioni costruttive delle strutture per usi industriali, artigianali e commerciali, realizzate da Solida srl e commercializzate da Minna srl.

Fornace Zarattini - Ravenna Via Faentina 228/A tel. 0544 450913 - cell. 392 3725963 www.solidasrl.com - info@solidasrl.com www.minnasrl.com - info@minnasrl.com

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I Sedici

Francesca Proni fra piani e progetti: segni e architetture sul territorio In mostra le realizzazioni degli architetti

Ellevuelle Sono l'architetto Francesca Proni, coordinatrice dell'Ufficio di Piano del Comune di Ravenna, e lo studio di architettura Ellevuelle di Forli, i protagonisti del sesto appuntamento – in programma il 29 settembre nelle Cantine di Palazzo Rava a Ravenna – della serie di conferenze promosse e organizzate dal Gruppo Ravimm e dalla rivista dell’abitare Trovacasa Premium, con il patrocinio del Comune, di Ravenna 2019 e curate dall’architetto Emilio Rambelli di Nuovostudio. Continua così nell'ambito della rassegna "I sedici - il ruolo dell’architettura contemporanea", il confronto e scambio di idee fra due diverse generazioni di progettisti in campo architettonico e urbanistico: Ellevuelle presenterà in mostra i propri progetti mentre, a seguire, Francesca Proni parlerà di «Piani e progetti: segni e architetture sul territorio». L'architetto Francesca Proni lavora come coordinatrice all'Ufficio di piano (Servizio di Progettazione Urbanistica) del Comune di Ravenna ed ha partecipato all'ideazione, stesura e realizzazione di importati progetti pubblici degli ultimi decenni fra cui: Piano del Parco del Delta del Po, PRG '83, PRG '93, PRG 2003 (PSC/RUE/POC 2010-2015 e POC Darsena), assi viari "Corso Nord" e "Corso Sud", riqualificazione Piazza del Popolo, riqualificazione Piazzetta Antiche Carceri (ora Unità d'Italia), riqualificazione Piazza Kennedy. È stata, inoltre, componente della Commissione Edilizia Comune di Alfonsine (dal 2000 al 2009); docente di lezioni di pianificazione territoriale al corso di laurea in ingegneria (facoltà di Bologna – sede di Ravenna); commissario in commissioni di concorso di idee o progettazione in tema urbanistico-architettonico; coordinatrice di incontri di urbanistica partecipata (in particolare con scuole e circoscrizioni) e del percorso partecipato “la Darsena che vorrei”, relatrice a convegni e seminari (in particolare su PRG e progetti speciali del Comune di Ravenna). Nel suo intervento illustrerà l'attività dell'Ufficio di piano comunale, di cui è coordinatrice, e quindi piani urbanistici e progetti definiti “speciali”, raccontati in quattro diverse sezioni tematiche, per ognuna delle quali verranno evidenziati aspetti noti (com’è) e meno noti (come poteva essere). Si tratta di piani urbanistici di Ravenna che hanno lasciato alcuni segni sul territorio che ben conosciamo ma dei quali non sempre è nota la provenienza (dalla costa alla zona portuale alla cintura verde fino ai corsi urbani); di architetture sul territorio moderne e non, meritevoli di salvaguardia (prevista dai piani); dei principali progetti che hanno modificato

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o modificheranno il volto di alcune parti strategiche della città (dalle nuove pavimentazioni in centro storico a Piazza del Popolo al giardino delle erbe dimenticate, alla Corte delle Antiche Carceri, fino a piazza Kennedy); della Darsena di città (POC Darsena) con uno scorcio prioritario sulle archeologie industriali.

Ellevuelle architetti è un collettivo di architetti formato nel 2009 da Giorgio Liverani (Modigliana), Michele Vasumini (Forlì), Luca Landi (Predappio) con Matteo Cavina (Faenza) dal 2013. Laureati alla Facoltà di Architettura “Aldo Rossi” di Cesena, indagano l’architettura d‘oggi, interrogandosi sulle declinazioni e finalità della stessa. Nel dicembre 2013 sono stati pubblicati sulla rivista "Casabella" n° 832 nella selezione internazionale di giovani progettisti under30. Nel 2014 sono selezionati tra i 10 finalisti del premio nazionale "NIB - New Italian Blood" e sono risultati vincitori del premio internazionale "Next Landmark 2014" promosso da Floornature. Ellevuelle architetti formano un pensiero che intreccia l’unione di aspetti consolidati con l’innovazione offerta dalle recenti tecniche costruttive. La loro ricerca ha come filo conduttore una sostenuta sperimentazione legata alla lettura del territorio, all’utilizzo sapido dei materiali e, ovviamente, alle necessità della committenza. L’idea generatrice è l’individuazione di un logo o schizzo, sintesi formale dell’architettura stessa, ed il tentativo di una sua (infinita) moltiplicazione, ogni volta analoga e differente dalle precedenti. Gli architetti di Ellevuelle porteranno in mostra e descriveranno 5 progetti: casa ESSE (Forlì), casa EFFE (Modigliana), Filandone (Modigliana), casa BUCHE (Forlì), casa BIPI (Forlì). Particolari e approfondimenti sul sito www.ellevuelle.it

Nella pagina a sinistra e in alto a sinistra, tre progetti (Corso Nord, POC Darsena- Parco delle Arti, riqualificazione di Piazza del Popolo) dell’Ufficiodi piano del Comune di Ravenna, coordinati dall’architetto Francesca Proni. In questa pagina, dall’alto, tre realizzazioni dello studio Ellevuelle (nell’ordine: Filandone, Casa BiPi, Casa Esse)

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L'architettura contemporanea fra creatività, competenza e regole condivise di Domenico Mollura

L’architettura è spesso fatta di immaginazione, arte, intuizione, di rimandi al passato e proiezione nel futuro. Tuttavia a differenza di altri prodotti artistici l’opera di architettura deve sottoporsi preventivamente alla verifica di rispondenza ad una norma, urbanistica o edilizia. Per tale motivo quella che, nelle intenzioni, nasce come architettura rivoluzionaria, contemporanea e allo stesso tempo rispettosa della natura storicizzata del proprio contesto, finisce davanti ad una porta oltre la quale ci sono due possibili strade: rimanere un’Architettura di carta o essere snaturata per somigliare più alla norma che non alla volontà creatrice del progettista. Tale elemento di vulnerabilità del fare Architettura è stato al centro della conferenza tenuta dall’Architetto Gabriele Montanari tenuta nell’ambito della rassegna I Sedici – Il ruolo dell’architettura contemporanea, organizzata da questa rivista e curata, con il contributo del Gruppo Ravimm, da Emilio Rambelli. L’architetto Gabriele Montanari, dopo l’esperienza presso il Dipartimento di Analisi Economica e Sociale della Facoltà di Architettura di Venezia, svolge la propria attività presso la Pubblica Amministrazione. In particolare si occupa di pianificazione e di edilizia, presso l’Unione dei Comuni della Bassa Romagna seguendo anche gli iter autorizzativi di progetti ubicati nei centri storici o relativi ai beni culturali e paesaggistici del territorio.

L’esperienza di Gabriele Montanari a Lugo e nei comuni della Bassa Romagna

I portici del Pavaglione

Una panoramica del Pavaglione

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Comune di Ravenna

I Sedici

Il ruolo dell’Architettura contemporanea Ciclo di conferenze organizzate e promosse dal Gruppo Ravimm - Le Cantine di Palazzo Rava e dalla rivista dell’abitare TrovaCasa Premium (edizioni Reclam), con il patrocinio del Comune di Ravenna e Ravenna 2019 Coordinatore: Emilio Rambelli - Nuovostudio

Tutti gli incontri si terranno presso Le Cantine di Palazzo Rava - Via di Roma 117 - Ravenna Apertura mostra ore 20, inizio conferenza ore 21

Calendario 2014

Intervengono

Espongono

27 febbraio

Giovedì Casavecchia e Muratoria

Montini e Zoli

Ravenna

Faenza

Giovedì

20 marzo

Gabriele Montanari

Angeli e Brucoli

Unione Comuni Bassa Romagna

Studio Rava Piersanti

Faenza

Giovedì

17 aprile

Burroni e Dapporto

Faenza

Ravenna

Giovedì

Paolo Rava

22 maggio

Panbianco e Pretolani

Comune di Forlì

Forlì

Giovedì

Davide Cristofani

19 giugno

Faenza

Francesca Proni

Lazzarini e Pinoni Faenza

Giovedì

29 settembre

Studio Ellevuelle

Comune di Ravenna

Teprin Associati

Forlì

Giovedì

6 novembre

Ravenna

Emilio Agostinelli Soprintendenza di Ravenna

Inout Architettura Ferrara

Giovedì

4 dicembre

Piraccini e Baldacci Cesena

Info Ilaria Siboni - siboni.ilaria@gmail.com - cell. 338 1584910

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Panoramica di Piazza Baracca a Lugo

Dall’unione di queste due esperienze nasce l’attenzione di Montanari verso la storia dell’urbanistica e dell’architettura del territorio, riletta con l’occhio attento del verificatore, consapevole tuttavia, che un buon progetto è sempre il frutto di un buon compromesso tra arte e norma; la sintesi di tale idea risiede nel sottotitolo della conferenza: Capacità, immaginazione, volontà personali e regole per realizzare un risultato architettonico di rilievo. Il titolo invece ripropone una data, 09/10/1978, corrispondente ad una seduta della Commissione Edilizia del Comune di Lugo, chiamata ad esprimersi su un progetto che aveva tra i firmatari uno dei Maestri italiani dell’architettura contemporanea e riconosciuto come tale in tutto il mondo: Carlo Scarpa. Prima di raccontare il progetto, per il quale l’attività di ricerca e ricostruzione filologica è solo all’inizio promettendo interessantissimi sviluppi, Gabriele Montanari traccia un ritratto di Lugo, soffermandosi sull’imma-

gine di città “poliedrica”. Il carattere eclettico si manifesta apertamente nella forma urbana, in particolare del centro storico, e nel grande palinsesto di simboli civili costituito da Piazza Baracca e delle arterie stradali che vi confluiscono. In un unico colpo d’occhio è possibile ricomprendere l’intera storia dell’architettura cittadina e la sua genesi, strutturata sul reticolo degli spazi del commercio, concretizzato nel Pavaglione. Si ergono qui la Rocca, gli edifici per il culto, quelli più contemporanei che definiscono con i loro portici il perimetro della stessa piazza, l’edifico progettato dall’architetto Giuseppe Mengoni, che firma anche il progetto della Galleria Vittorio Emanuele di Milano e che a Lugo interviene sul fabbricato in angolo tra via Matteotti e Piazza Baracca. E poi il Monumento a Francesco Baracca (1936) – opera dello scultore faentino Domenico Rambelli, recentemente oggetto di un attento intervento di Restauro – con l’alta ala in travertino e la statua bronzea in contra-

La Meridiana di Popoli

Piazza Baracca e Rocca

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Il monumento a Francesco Baracca


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Un bozzetto di Carlo Scarpa per la Casa Marabini di Lugo

sto. Ultima in ordine di apparizione la Meridiana dei Popoli, che col monumento a Baracca cerca un dialogo a distanza, sempre nell’ottica di un’unica e coerente immagine urbana. L’arrivo di Carlo Scarpa a Lugo ha una premessa. La famiglia Marabini possiede lo storico Hotel San Francisco e negli anni ’70 decide di rinnovarne gli interni. L’obiettivo è quello, pioneristico, di imporre un nuovo stile per gli spazi ricettivi; uno stile che non ha ancora paragoni e che manifesta tutta la lungimiranza dell’imprenditore lughese che con almeno 40 anni di anticipo, immagina il desing hotel. Si affida per questo al meglio che l’Italia potesse offrire in quel momento nel campo del disegno industriale coinvolgendo Dino Gavina e la sua azienda che ha già tra le proprie firme i fratelli Castiglioni, Ignazio Gardella, Marcel Breuer e, appunto Carlo Scarpa che della Società di San Lazzaro di Savena è anche Presidente. L’immagine dell’Hotel San Francisco, verrà in seguito affidata al giapponese Kazuhide Takahama, altro importante designer e amico di Gavina, che rileggerà gli spazi impreziosendoli con opere d’arte e di design unici. L’architetto Montanari colora il proprio racconto con un aneddoto relativo ad Alberto Sordi il quale, esigentissimo e diffidente degli alberghi delle piccole città di provincia, soggiornò al San Francisco con grande piacere, per i mesi necessari alle riprese del film Il Presidente del Borgorosso Football Club (1970) di cui era protagonista e girato a Lugo e Bagnacavallo. Il sodalizio tra la famiglia Marabini, in particolare la signora Ornella e Gavina, continua anche oltre l’esperienza dell’Hotel San Francisco. Data la volontà di Ornella Marabini di edificare una casa pluriplano nella centrale via Tellarini, viene contattato Carlo Scarpa all’epoca al culmine della sua carriera. Siamo nel 1977 e Scarpa inizia a studiare la città camminando

per le strade vicine al lotto di progetto e, sulla stessa via Tellarini, si imbatte nell’attuale Istituto Manfredi, in passato scuola elementare Vittorio Emanuele III, edificata su progetto dell’ingegnere Tarroni nel 1914 e subito destinata a diventare ospedale militare durante il primo conflitto mondiale. L’edificio a corte chiusa, occupa per intero la testata di un grande lotto urbano e risolve i due angoli con una gradevole soluzione smussata in cui trovano spazio altrettanti ingressi. L’immagine colpisce immediatamente la creatività di Scarpa che fin dai suoi primi bozzetti dichiara il suo intento di replicare, in un lotto vicino e similare ma più piccolo, la soluzione d’angolo come vero principio generatore della composizione. Questo prevede due appartamenti in un’area parzialmente occupata da capannoni e su cui c’è progetto già approvato, ma Ornella Marabini che vuole costruire una casa per se e per la figlia Emanuela, decide di rivedere la consistenza del progetto. Il programma funzionale di Scarpa viene sintetizzato in una nota autografa: «… grande cucina dove mangiare, Soggiorno grande/2 camere con bagno/uguali se possibile/Servizio elegante». La fase di studio preliminare si fa intensa, come per tutti i lavori del Maestro veneziano, elaborando soluzioni sempre più affinate, dal volume di massima fino alle finiture e ai dettagli; l’Archivio Scarpa – racconta Montanari – raccoglie 58 elaborati grafici, 6 fotografie e 1 foglio di appunti. Scarpa, pertanto, vuole sottolineare la soluzione d’angolo al quale contrappone due volumi simmetrici e circolari con la funzione di bowindow. Quattro i livelli previsti, dal seminterrato con le autorimesse e i servizi, ai due piani fuori terra (ognuno con un appartamento), fino alla terrazza solarium. L’immagine complessiva non può che caratterizzarsi per la

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Scorci tridimensionali e piante di Casa Marabini, progettata da Carlo Scarpa e mai realizzata

presenza dei volumi semicilindrici delle verande (che in un primo momento Scarpa pensa di collegare con un ballatoio). Nella composizione generale torna ancora il riferimento all’edifico scolastico poco distante. Infatti al piano terra si ritrovano motivi decorativi circolari, simili a quelli del basamento della scuola, che in realtà rappresentano le cornici di finestre poste al piano seminterrato. Presumibilmente i materiali immaginati sono la pietra per il basamento e i mattoni per l’alzato. Il progetto viene presentato con la firma di un geometra e la “controfirma” di Scarpa, in quanto il Maestro non aveva mai conseguito la laurea, solo nel 1978 infatti lo IUAV gli conferirà il titolo ad honerem. Si arriva così alla data del 9 ottobre 1978. La commissione edilizia verificati i contenuti del progetto boccia la pratica in quanto il fabbricato non rispetta le prescrizioni in termini di cubatura; inoltre i due volumi semicilindrici non convinsero i commissari. Il progetto tornò a Scarpa per essere modificato, ma ironia della sorte, circa un mese dopo quella data, l’architetto del Museo di Castelvecchio muore a Sendai (in Giappone) a seguito di una caduta accidentale. Solo nell’aprile del 1990, dopo la rinuncia della Marabini a costruire la propria abitazione sul lotto di via Tellarini, viene ap-

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provato un nuovo progetto a firma di un architetto lughese, con il rimaneggiamento del volume complessivo, l’eliminazione dei bowindow e il mantenimento di una soluzione d’angolo al piano terra simile a quella del progetto precedente. Questo “fatto” di architettura (mancata) mette di fronte norma e qualità, senza imporre la prevalenza di una sull’altra. Piuttosto – precisa Montanari – la prima non deve essere vista come mera censura, anche se può apparire come un ostacolo alle innovazioni. Il rapporto deve smettere l’abito del conflitto e diventare invece dialettico. La principale strada che Montanari propone, dalla sua posizione “delicata” di osservatore privilegiato della progettazione del territorio, è rivolta principalmente ai giovani architetti. A loro chiede di dare dei contenuti profondi ai loro progetti, evidenziando che quanto viene presentato all’ente pubblico spesso (almeno nella grande maggioranza) risulta privo di motivazioni. Solo una consapevole soluzione architettonica può ambire a farsi strada nella norma e trovare dall’altra parte della porta, sguardi e orecchie sensibili per ritrovare nella stessa norma un elemento su cui lavorare e non un vincolo da subire passivamente.


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Riflessi di tessere di Martina Paparo*

Un progetto di museo nella Darsena di Città

Il progetto nasce e si sviluppa dall’idea di unire il mosaico e l’architettura, progettando una struttura finalizzata a creare uno spazio espositivo di mosaici sia antichi che contemporanei, ma anche di opere che spaziano nel campo delle diverse arti visive. L’idea è nata osservando molte volte la zona Darsena di Ravenna e fotografando le diverse architetture che la caratterizzano. Ho cercato dunque di inserire nel mio progetto elementi che richiamassero l’ambientazione industriale del luogo per creare un collegamento, una continuità e un’armonia con le strutture già presenti. L’edificio di Cino Zucchi e il capannone ex Montecatini mi hanno sicuramente ispirato per la realizzazione del progetto. Entrambi gli edifici richiamano l’idea di un enorme mosaico, cosa che ho ricercato anche nel mio lavoro. La struttura che ho progettato è una grande architettura, una sorta di “U” rovesciata che presenta delle fessure di diverse dimensioni e forme, simili dunque a tessere di mosaico. Tali aperture, grazie ai fenomeni di riflessione e rifrazione della luce, vengono proiettate a terra creando un gioco di ombre e luci. All’interno della struttura ho immaginato una base rialzata su cui inserire le opere artistiche.

* Studentessa del Biennio di Mosaico, Accademia di Belle Arti di Ravenna, elaborato d’esame del corso di Elementi di architettura e urbanistica, prof. Alberto Giorgio Cassani

Alcuni rendering del progetto di Martina Paparo

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Il destino dei luoghi

I porti

Ravenna, memore della propria storia, deve tornare a sentirsi città d’acqua. Darsena urbana, porto commerciale, terminal crociere, approdi turistici, spiaggie: sono l’occasione per un “ricongiungimento” tra la città e il mare

di Enrico Gaudenzi Riprendiamo il nostro appuntamento con il destino dei luoghi parlando del porto, un luogo che ha caratterizzato la storia e lo sviluppo di molte città nel mondo, inclusa Ravenna. Il porto è un luogo che ritroviamo come elemento costante nella storia delle civiltà; è sempre stato il punto di partenza per la conquista di nuovi territori o il luogo di fondazione di importanti città. Ancora oggi questo spazio riveste un ruolo strategico, in quanto per le città che lo ospitano genera una florida economia, mentre consente di affermare la propria egemonia commerciale alle nazioni che ne possiedono. Il porto, per definizione, è un’insenatura naturale o una costruzione artificiale, la cui funzione è quella di proteggere dalle correnti e dalle onde, in modo da permettere un sicuro ancoraggio per lo sbarco di uomini e di mezzi. Nella storia i primi approdi furono sviluppati dai Fenici e dai Greci, i quali percorrevano ampie distanze per rifornire le colonie che via via nascevano lungo il Mediterraneo. L’incremento delle rotte fece crescere la necessità di avere

PROGETTARE IL TERRITORIO

attracchi sicuri ed organizzati portando alla realizzazione di porti artificiali. Con l’Impero Romano si incrementò la costruzione e il potenziamento dei porti marittimi e fluviali. In età imperiale, gli scali maggiori, oltre a quello fluviale di Ostia, erano i porti di Cuma (nei pressi di Pozzuoli), Genova, Ancona, Ravenna e Marsiglia (per i traffici mercantili da e per le Gallie). La caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C. portò una generale contrazione dell’economia e dei traffici mercantili e solo gli scali del Mediterraneo orientale, che rientravano sotto il controllo dell’Impero Bizantino, continuarono a mantenere una solida efficienza. Nell’ XI secolo il generale riavvio degli scambi commerciali, permise ad alcuni centri marittimi di sviluppare flotte mercantili che potevano spingersi agli estremi lembi del Mediterraneo. Queste flotte avevano bisogno di porti ben organizzati per accogliere un numero sempre maggiore di navi, oltre che per depositare le merci; tali esigenze portarono a una nuova concezione del porto, che da semplice attracco

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Nella foto della pagina di apertura, da sinistra, il porto canale di Ravenna e l’insenatura di Hong Kong, che accoglie il più grande porto del mondo. A fianco, gli scali internazionali di San Francisco (Oakland) e, in basso, di Amburgo

per le navi divenne il centro di una rete sempre più fitta di commerci e motore propulsore di sviluppo economico, portando alla nascita delle repubbliche marinare (Venezia, Genova, Amalfi e Pisa le principali, i cui stemmi sono riportati nella bandiera della Marina Militare), che da centri commerciali mutarono rapidamente in centri politici, dove affari e potere si incontravano e si sostenevano a vicenda. La supremazia di Genova e soprattutto di Venezia, come potenze economico-militari, continuò insieme allo sviluppo di altri scali marittimi mediterranei fino alla metà del XVI secolo, quando, dopo la scoperta dell’America, mutarono le rotte navali e il baricentro marittimo si spostò sulle coste atlantiche, più vicine a quelle del Nuovo Continente. Per oltre tre secoli i porti del bacino mediterraneo rivestirono un ruolo secondario, finché nel 1863 grazie all’inaugurazione del Canale di Suez, si aprirono nuove rotte che permettevano di dimezzare i tempi necessari per raggiungere i porti dell’Estremo Oriente, evitando la circumnavigazione dell’Africa. Le ricostruzioni che seguirono dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale, spesso cancellarono il passato per ripartire su basi nuove, portando i porti a specializzarsi in determinati settori commerciali o produttivi. Con la crisi dell'acciaio e del carbone, molti porti europei cedettero alla spietata concorrenza dei porti dell’Estremo Oriente che, ancora oggi, mantengono la leadership mondiale degli scali commerciali (Yokohama e Hongkong in testa). Ad oggi in Europa gli scali maggiori sono quelli di Amburgo, Rotterdam e, più distaccati, quelli di Genova, Venezia, Gioia Tauro e Marsiglia, mentre negli Stati Uniti in vetta agli scali commerciali spiccano New York e San Francisco. Oggi i porti rappresentano risorse economiche fondamentali per tutti i paesi che si affacciano sul mare e le città in cui vi è la presenza di un porto ricavano da questo un forte impulso economico. Attorno alle attività portuali ruota infatti una complessa economia costituita dalle attività commerciali, dal lavoro indotto dalle operazioni di banchina, dall’uso dei rimessaggi e dei cantieri navali e dai trasporti via terra, che portano le merci dalle navi alle mete di destinazione e dai luoghi di produzione alle navi.

Da questo breve excursus, si può intuire come il porto abbia avuto un ruolo di assoluto protagonista nel corso della storia. Anche per la nostra città il porto ha rivestito, nel corso della sua storia, una funzione fondamentale. Ravenna ha visto la sua nascita in virtù dell’acqua che la circondava e in epoca romana ebbe un forte sviluppo grazie ad una posizione geografica strategica e ad una predisposizione naturale per poter realizzare un grande porto. Nella sua storia la città ha sempre visto le sue sorti strettamente legate alla presenza dell’acqua e alla sua prossimità al mare e grazie a questa sua peculiarità ha rivestito più volte nella storia il ruolo di capitale. Nelle epoche più recenti questo legame con l’acqua sembra si sia via via perso, quasi che la città abbia voltato le spalle al mare, forse anche in virtù della storia del tutto particolare che ha caratterizzato lo sviluppo del nostro porto dal dopoguerra ai giorni nostri. Differentemente dai principali porti italiani, l’attuale porto di Ravenna nacque come porto privato e inizialmente spinto da una forte fase di industrializzazione: il suo sviluppo non coinvolgeva un ambito demaniale, né fu assegnato all’iniziativa di un ente pubblico. Il porto nacque, in un comprensorio geografico ben delimitato, all’interno del quale una società a prevalente capitale pubblico (1957

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Nelle foto sopra, attualmente i due più rilevanti approdi italiani per i traffici marittimi internazionali: lo storico porto di Genova (a sinistra) e l’hub portuale di ultima generazione – specializzato nella movimentazione dei container – di Gioia Tauro, in Calabria. In basso: un cargo nella darsena di città di Ravenna, alla fine degli anni ‘50; una veduta dello stesso bacino portuale ai nostri giorni; fra Marina di Ravenna e Porto Corsini, le banchine del porto turistico di Marinara e il terminal delle navi da crociera

con la costituzione della Sapir s.p.a.), aveva il compito di acquisire i terreni agricoli a ridosso del canale Candiano e di venderli, dopo averli urbanizzati, ai privati interessati a realizzare insediamenti portuali. Tali insediamenti produttivi, in una prima fase sorti nei pressi della città ed in seguito, nei settori centrale e settentrionale verso mare, hanno occupato via via l’intero corso del porto canale, cosicché quella caratteristica pressoché unica del porto di Ravenna, di disponibilità naturale di spazi terrestri a vocazione portuale, si è quasi esaurita. Quando agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, con gli strumenti urbanistici, il Comune di Ravenna bloccò l’alienazione delle aree, il porto corresse il suo indirizzo: sarebbe stato costruito un grande porto commerciale, con Sapir s.p.a. come soggetto propulsivo della trasformazione ma anche come operatore commerciale. Analizzando queste vicende, si può affermare che lo sviluppo del porto seguì logiche legate più agli insediamenti produttivi che agli ambiti portuali, progredendo senza sedimentare una cultura portuale e tantomeno marinara. Se pensiamo a città come Genova, Venezia, Trieste, Ancona e Bari (solo per citarne alcune) di rimando pensiamo ai loro porti e al forte legame che queste città vivono con il mare; per Ravenna, questo non accade. La maggior parte di coloro che visitano la nostra città ignorano totalmente che vi sia un porto e per giunta di tali dimensioni, così come la maggior parte dei residenti nel Comune di Ravenna non sanno indicare precisamente la localizzazioe del porto. Il porto ad oggi costituisce un’importante risorsa economica, ma per far sì che questa risorsa continui a crescere occorre che la città cominci a sentire il porto come parte integrante di sé e come risorsa indispensabile per il vasto triangolo della pianura padana, territorio riconosciuto tra i più ricchi del continente europeo. Ravenna, memore della propria storia, deve tornare a sentirsi città d’acqua; occorrono azioni che permettano di sviluppare una cultura portuale, che stimolino la nascita di iniziative ed eccellenze legate al porto e che consentano a Ravenna di rivestire di nuovo un ruolo da protagonista nell’attuale scenario globalizzato. Il ricco contesto attuale costituito da darsena di città, porto, terminal crociere, porto turistico, spiaggia, offre l’occasione nel prossimo futuro per attuare un logico “ricongiungimento” tra la città e il mare.

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PROGETTARE IL TERRITORIO


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CULT IL NUOVO MENSILE DI CULTURA E SPETTACOLO per la Romagna e Dintorni 80mila copie a diffusione gratuita Ravenna - Forlì - Faenza - Cesena - Rimini

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«Pezzi di città abbandonati, negletti, ignorati. Edifici storici murati, giardini monumentali divenuti terra incolta, strutture industriali fatiscenti, luoghi di cultura lasciati morire. Qui il potere, divenuto alterità inconoscibile, ci osserva. Il potere di ignorare o di riqualificare, di cambiare comunque la vita delle comunità. Non siamo noi a guardare tali spazi, sono essi a scrutare noi e ad imbarazzarci, a schiacciarci» Tomaso Montanari, Spazi Docili, in Giovanni Urbani, Per una archeologia del presente, Milano, Skira, 2012

Interno del Capannone “T” con due graffiti di “DissensoCognitivo” e “Moallaseconda”. Foto di Alberto Giorgio Cassani

SPAZI CITTÀ DELLA E SOCIETÀ CULTURA


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Darsena visionaria Rinascita del Capannone T attraverso la cultura del popolo di Marina Mannucci

Fare arte non è un fatto privato ma pubblico e “politico”. L’art. 9 della nostra Costituzione, recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico». Il patrimonio è fucina di formazione, educazione alla cittadinanza, all’eguaglianza e all’integrazione ed inoltre, attraverso la cultura del “popolo”, il patrimonio permette di creare un ponte attraverso il quale avviene la consegna di pratiche e d’idee tra generazioni, «[…] linguaggi artistici per creare nuovo immaginario connesso ai luoghi; per far concepire alle persone modi diversi di vedere ed usare i loro spazi; per far uscire i luoghi dal degrado, che parte sempre, prima di tutto, dalle categorie secondo le quali guardiamo e valutiamo la realtà, a prescindere da essa. Il giudizio è già dentro di noi. E solo l’arte cambia tali forme mentali, e anche nel breve periodo. Così l’arte può cambiare il mondo» (T. Montanari, Spazi Docili, cit.). Nel 2011 la cooperativa sociale Villaggio Globale in collaborazione con il Comune di Ravenna e con altre istituzioni del territorio ha avviato la progettazione partecipata e di cittadinanza attiva “La

Darsena che vorrei”. Tutti i cittadini interessati sono stati chiamati a condividere un percorso di confronto e di pianificazione collettiva, con lo scopo finale di scrivere il POC Darsena di città, ovvero lo strumento urbanistico che individua e disciplina gli interventi di tutela, valorizzazione, organizzazione e trasformazione del territorio. La realizzazione di questo progetto è stata possibile anche grazie a Ivano Mazzani, cittadino che si adopera costantemente in azioni d’impegno socioculturale. Ed è grazie ad Ivano se in un capannone industriale dismesso sito in zona Darsena questa estate due giovani artisti hanno potuto realizzare un’interessante performance. Ne chiedo a Ivano il racconto. «Il Capannone Area T (detto “T”), in fondo a destra di viale Giovanna Bosi Maramotti, è un luogo post industriale di archeologia urbana, dismesso ma ancora in buono stato, sito nella “mitica” darsena che si affaccia sulla via Alaggio. Sono stato tra i promotori della progettazione partecipata della “La Darsena che vorrei” ed ho preso parte al percorso del POC Darsena. Un sogno aperto affinché questo

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In alto, altri graffiti dei due artisti. Foto di Ivano Mazzani Al centro: Le firme (“tags”) dei due artisti. Foto di Ivano Mazzani Sotto: Interno del Capannone “T” con due graffiti. Foto di Alberto Giorgio Cassani

SPAZI DELLA CULTURA

cuore antico della città, custode anche della sua storia moderna, oltre ad essere ponte tra la città e il mare, possa diventare un luogo ricco di creatività, socialità, partecipazione. Nella progettazione partecipata, cittadini come me organizzati in gruppi di lavoro hanno avviato proposte per la Darsena. Tra i miei suggerimenti oltre a quelli legati all’acqua, alle attività economiche e culturali, c’era quello di portare ed ormeggiare, in testata darsena, un battello che avrebbe potuto assolvere alla funzione di ristorante. Questo lavoro di studio e di ricerca mi ha permesso di conoscere il dottor Daniele Baldini, imprenditore e proprietario di Tavar e Immobiliare Platani. Tra di noi, negli anni, è maturato un rapporto di stima reciproca. Oltre le chiavi del capannone, il dottor Baldini mi ha dato una specie di “delega culturale” per provare ad avviare, all’interno di questo spazio dismesso e nel rispetto delle normative, eventuali attività di espressione artistico-culturali. Dal dicembre 2013 ho accompagnato diversi artisti all’interno del capannone, tra questi colui che si firma con lo pseudonimo “DissensoCognitivo”, un writer che è rimasto colpito dall’essenzialità dello spazio e da alcuni monoliti di cemento collocati al suo interno. Ha preso quindi forma l’idea di un intervento di Street Art all’interno del capannone che è stato realizzato nel mese di luglio dagli artisti che si firmano “DissensoCognitivo” e “Moallaseconda”. Sono, questi, segni significativi di arte contemporanea che ci permettono di riflettere sui luoghi, i contesti, i loro usi, la loro rigenerazione, non solo per una Darsena che vorremmo, ma sulle condizioni di realizzazione, di dialogo e di pragmatismo tra pubblico e privato. Stimoli per una trasformazione fattiva e creativa che, pur rispettando le normative vigenti, non le subisce in modo ottuso; un provare a fare cultura cercando di superare l’eccesso di ostacoli amministrativo-burocratici. Non un mero scambio do ut des. La contemporanea complessità dell’esercizio della cosa pubblica necessita, a mio avviso, di un ripensamento per rendere più fluida ed accessibile la gestione degli spazi, il che comporta aver la forza e l’impegno di scelte chiare, precise e pun-


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tuali, con tempi e modalità che non rallentino od addirittura arrestino la partecipazione dei cittadini attivi. I graffiti di “DissensoCognitivo” e “Moallaseconda” sono un ulteriore piccolo tassello di un mosaico viaggiante, un ponte di passaggio e di scambio con il tessuto urbano, una condizione che presuppone la collaborazione ed un dialogo intelligente tra pubblico e privato. Dove l’arte e la sua espressività creano nuove modalità dell’attraversare e riscoprire il genius loci dei luoghi. Credo che ognuno di noi debba superare logiche autocentrate e paure che immobilizzano; dobbiamo essere portatori d’interessi aperti, dialoganti, agenti del cambiamento». Chiedo inoltre ai due writers di spiegarmi le motivazioni artistiche del loro intervento. «Ci siamo lasciati suggestionare dal luogo e dai dettagli che abbiamo assimilato, forme meccaniche e rigide, la struttura a traliccio all’esterno, forme tonde e moduli, i mattoncini, le finestre tonde che davano sull’esterno, le uova cadute a terra dei piccioni. Forme organiche e naturali: il disfacimento di un luogo abbandonato, la forma triangolo come stabilità del luogo. La scelta di lavorare in due al progetto è perché nell’ambito della Street Art sono molto frequenti le collaborazioni tra due o più artisti. Una volontà che è alla base di quest’arte, perché gli incontri di stile e di pensiero nascono dal basso, dalla strada, quasi in maniera spontanea, e si articolano in diverse “murate” in cui il segno dei due artisti si fonde o si scontra. L’occasione delle collaborazioni, in gergo chiamate Combo, è fondamentale per lo scambio d’idee ma è soprattutto l’opportunità di sperimentare e osare soluzioni esecutive o concettuali che altrimenti non si sarebbero potute effettuare. L’atteggiamento e la disponibilità che si riscontrano in due persone che s’incontrano “in strada” per creare qualcosa insieme è lontano dalle formalità e dai meccanismi che invece sorgerebbero in una collaborazione decisa da terzi (galleristi, curatori ecc.). Noi pensiamo, inoltre, che ogni sistema sufficientemente complesso generi forme, indipendentemente dalla volontà individuale. Jung ha teorizzato l’esistenza di archetipi basati su simboli comuni a tutti gli uomini (inconscio collettivo). L’archetipo tende a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur nelle sue variazioni, continua a derivare dal medesimo modello fondamentale. Queste forme non sono modelli statici, esse sono piuttosto fattori dinamici che si manifestano sotto forma di impulsi proprio perché noi non siamo consapevoli di essi. Sono delle costanti, delle possibilità di rappresentazione che si ritrovano simili sempre e ovunque. Le strutture, una volta individuate, possono prestarsi a più livelli di interpretazione, e cioè possono essere comprese in base a diversi codici. È impossibile dare un’interpretazione arbitraria (o univoca) degli archetipi, ma solo introdurre chiavi di lettura. Questo insieme di simboli è riconducibile anche a forme geometriche primarie come il cerchio, il quadrato, il triangolo, e a loro sviluppi, probabilmente all’interno di una conoscenza ereditaria (inconscio collettivo) arrivata intatta fino a noi attraverso una memoria biologica creatasi fin dall’alba dei tempi».

DissensoCognitivo è un progetto di Street Art che indaga un domani remoto e oscuro, dove non c’è più traccia dell’Uomo ma solo dei suoi errori. Un futuro che potrebbe non essere così lontano. I muri scelti sono quelli di zone dismesse, di magazzini in rovina, interni di officine che creano un contesto di distruzione e desolazione. Le figure che appaiono sui muri sono approssimazioni di forme viventi, esseri ormai adattati ad un ambiente ostile dove le barriere tra organico e artificiale sono definitivamente crollate, in un contesto in cui la tecnologia satura l’ambiente e rende malleabile la realtà fino a produrre organismi astratti. Nel 2014 i lavori di DissensoCognitivo sono stati esposti da “Spazio Elastico”, a Bologna, in concomitanza con l’uscita della fanzine “Il futuro finisce ora”, per Gorgo Issues.

Moallaseconda nasce dal nulla, senza un motivo (come sempre), nel 1988, a Prato. Fin dall’inizio ossessionato dalla musica elettronica in generale, ma anche dal disegno e dalla grafica, inizia a disegnare tardi, di notte, spinto dagli ascolti notturni intensi, verso i 17 anni, dopo un’intensa carriera giovanile sportiva agonistica. Subito attratto dalla strada, prova a cimentarsi con murales e graffiti, spesso notturni e illegali come questo mondo impone. La passione per questo mondo aumenta, e inizia a disegnare fuori anche durante il giorno. In seguito, tra lavori illegali, in centri sociali e per strada, e su commissione, in cinema, discoteche e luoghi privati, vince un concorso presso la Gualchiera di Montemurlo (PO). Nel 2012 entra a far parte del collettivo Kirillov, dove si occupa della parte musicale elettronica, nel ruolo di “spippolatore”. Continua il suo percorso iscrivendosi all’Accademia di belle arti di Firenze, nel settore grafica d’arte, dove tuttora studia. La sua evoluzione in strada lo porta a crearsi un suo mondo, abitato da una popolazione che ricorda quella russa di fine ’800 inizio ’900 con barba e colbacchi. “I russi”, però, hanno una particolarità: sono fatti materialmente da cavi elettrici e tralicci, con la barba lunghissima che non è altro che una spina per condurre elettricità, come se la popolazione fosse stata contaminata dal contatto continuo con l’energia elettrica, poi divenuta parte di essi. Il tutto viene sempre accompagnato da geometrie simboliche di colore oro, colore alchemico per eccellenza. Queste rappresentazioni lo portano ad intervenire in molte fabbriche abbandonate della Toscana, dove si misura con grandi superfici, con l’intento di ridare vita ad un luogo ormai morto. Da qui, inizia a collaborare per varie webzine o siti che si occupano di Street Art a livello mondiale. Nel 2013 inaugura la sua prima mostra individuale, “backwords”, nello spazio Qahwa di Prato. In seguito, inizia a specializzarsi in stampa d’arte, come incisione e monotipi, sperimentando varie tecniche e ancora continua a lavorarci, anche se la strada resta il suo habitat naturale. Ispirato dall’espressionismo astratto americano e tedesco, la sua popolazione, “i russi”, subisce delle modifiche, eliminando la parte figurativa e prendendo fisionomie di sole forme materiali, accompagnate sempre da barbe e da altre texture derivate dalla natura. Questo passaggio all’astrattismo lo porta a sperimentare varie tecniche sia nel campo dei murales sia in quello della stampa d’arte coi monotipi. Il suo percorso è ancora in evoluzione, vediamo cosa succederà.

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CITTÀ SOSTENIBILE

Lo sblocca Ravenna Rilancio culturale, sociale ed economico attraverso i GREEN-JOBS. Il prossimo 17 Ottobre finalmente si deciderà se la nostra città avrà conquistato l’agognato titolo di Capitale europea della cultura 2019. È ovvio che tutti siamo in trepidante attesa per questa decisione sulla quale tanto abbiamo investito e in cui tanto speriamo, consapevoli come siamo che questa è, per tutta la città e per l’area vasta romagnola che ha collaborato e sostenuto questa candidatura, una occasione preziosa e importantissima. È proprio in funzione della possibile investitura, ma a maggior ragione anche qualora malauguratamente non dovessimo raggiungere l’obiettivo, che è necessario investire e immaginare il futuro della nostra città puntando soprattutto su un rilancio economico che difficilmente passerà attraverso i settori tradizionali che hanno fatto di questa città un punto di eccellenza per qualità della vita dell’intera nazione. Ciò non significa che dobbiamo abbandonare le nostre tradizionali e migliori risorse economiche come: porto, agro-alimentare, turismo…., ma al contrario che vanno viste e riviste con occhi nuovi, e soprattutto con metodi nuovi. Ora più che mai è necessario alzare un po’ lo sguardo e guardare lontano, in un momento in cui ancora la crisi strangola quotidianamente imprese e dove per un giovane un lavoro sembra un miraggio, si devono individuare metodi e strategie per avvicinare in modo semplice e diretto i giovani, in particolare quelli più svantaggiati, al mondo del lavoro. Dalle nuove energie all’edilizia, la green economy ha fatto nascere nuove professioni o ne ha rivisitato, in chiave ambientale, altre più tradizionali ed è in questi settori che oggi e nel prossimo futuro ci sono le maggiori possibilità occupazionali. Cosa sono i lavori verdi? Perché in Italia l’informazione non ne parla quasi mai, nonostante un’impresa su cinque sia green? Quali sono queste nuove professioni che possono fare la differenza in un momento in cui la disoccupazione è ai massimi storici? Nonostante i lavori verdi siano un fenomeno in ascesa oramai da qualche anno, c’è però ancora un gap tra richiesta e domanda di lavoro. Le imprese faticano a trovare nuovi professionisti della green economy e uno dei motivi è che il mondo della formazione e dell’università non si è ancora pienamente attrezzato. La seconda ragione è che forse non tutti sanno che cosa sia e che cosa faccia un ecoauditor, un mobility manager o un risk manager, come si diventi una guida ambientale o un eco-designer, quali siano le opportunità per uno stilista sostenibile, un green copywriter, un esperto per lo smistamento e il riciclo dei rifiuti. Green economy vuol dire anche turismo (ma solo se sostenibile),

ABITARE LʼHABITAT

vuol dire tutela e valorizzazione del patrimonio artistico, naturale e agroalimentare, che rappresenta il vero petrolio dell’Italia. È un dato certo che chi frequenta corsi o si specializza in “green jobs” è facile trovi occupazione in pochi mesi. Ma cosa servirebbe per dare maggiore spinta alla green economy? Serve ancora più formazione, ma servono soprattutto nuove politiche, che al momento non ci sono. In Italia non esiste un ministero del Turismo, non c’è alcuna strategia-Paese, ogni Regione si muove per conto suo. Tutto ciò fa sì che l’Italia, nonostante sia il Paese con il maggior numero di siti patrimonio dell’umanità, continui a perdere competitività sul mercato turistico internazionale. È una situazione paradossale: chi si prefigge di governare il territorio a partire dall’intero Paese ed arrivare fino al Comune, chiunque sia, oltre a questioni spinose come l’occupazione, deve assolutamente mettere in agenda il turismo e l’ambiente, perché c’è molto da fare e San Vitale o le spiagge di Marina non bastano più per attirare. Più di un’impresa su cinque in Italia è ormai green e queste imprese hanno bisogno di lavoratori, di molti lavoratori. Il 40% dei nuovi impiegati del 2013 sono stati “green worker”. La green economy non è una filosofia o un desiderio: la green economy attualmente in Italia dà lavoro a più di sei milioni di persone, come dire che un italiano su dieci lavora grazie al rispetto per l’ambiente: le professioni più richieste sono quelle tecnico-scientifiche e mancano laureati!. L’evoluzione della green economy è la blue economy ossia si è passati da un’economia che produceva energia verde con pannelli solari, eolico e geotermico, a un’altra di tipo circolare, che valorizza il potenziale dello scarto e dei materiali poveri. Abbiamo tre settori in cui può svilupparsi la blue economy: energetico, agricolo e dei rifiuti. È proprio qui che nel prossimo futuro sarà possibile agganciare i fondi europei, possiamo essere fra le prime Regioni a farlo. Per fare questo ci vorranno nuove professioni a cominciare dagli operatori edili che dovranno utilizzare materiali più innovativi, agli architetti, agli ingegneri che utilizzeranno la domotica per evitare la dispersione energetica. Per quanto riguarda la questione rifiuti si dovrà partire dal packaging per evitare gli scarti inutili e poi si dovrà lavorare anche sugli sprechi alimentari che sono davvero eccessivi: anche queste nuove visioni prevederanno professionalità più specializzate. Infine l’agricoltura, che ormai è diventata altamente specializzata. Anche qui ormai si usano tecnologie di precisione che ottimizzano l’acqua e i nutrimenti, per evitare sprechi e uso eccessivo di fertilizzanti. I contadini del fu-


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turo dovranno essere molto preparati ed essere all’avanguardia con i tempi. La sostenibilità non è solamente nel saper fare, ma anche nel far sapere. Questa è una frase che riassume una conditio sine qua non per le aziende della green economy che innovano. Tutti quanti attraverso le nostre attività sia lavorative che come appartenenti ad associazioni, partiti o movimenti dovremmo cercare di raccontare le best practice delle aziende che hanno deciso di essere parte integrante di quell’inversione di rotta necessaria per il bene del Pianeta. Ce ne sono ormai tantissime e sono imprese che innovano, nella scelta dei materiali, nei processi produttivi, nel presentare prodotti e servizi che rispondono perfettamente a problemi ambientali. Le aziende che a oggi sono riuscite a fare la differenza sono quelle che sono riuscite a spiegare le proprie innovazioni e la differenza dal punto di vista dell’impatto ambientale, a tecnici, pubbliche amministrazioni e a cittadini. Nell’era del web 2.0, quello partecipato e dei netizen (cittadini della rete) in cerca di trasparenza e consapevolezza, un’azienda che sappia aprire le porte e raccontare i perché e i come delle proprie scelte, può riuscire a contrastare la crisi, economica e morale facendo squadra con i consumatori stessi. La sfida per rilanciare l’economia e creare lavoro in Italia passa per la green economy e attraverso azioni politiche come, ad esempio, uno “Sblocca Italia” che dia priorità agli investimenti in edilizia di qualità e messa in sicurezza del territorio. Una prospettiva, quella della green economy, vera in tutto il mondo, ma che in Italia è già realtà. Che incrocia la sfida della qualità, si nutre dei talenti dei territori e dà forza alla missione del nostro Paese. Un’economia diversa e innovativa che punta su ricerca, conoscenza, cultura e bellezza. Nel nostro Paese, già oggi esiste infatti un’Italia green, grazie alla quale sono stati prodotti 100 miliardi di valore aggiunto e vengono impiegati 3 milioni di green workers. Dall’edilizia di qualità e dalla manutenzione del territorio, inoltre, può venire un’ulteriore spinta sui fronti dell’economia, dell’occupazione e dell’ambiente. La nostra è una terra che, sono certo, saprà essere all’altezza delle molteplici sfide che ha davanti. Ciò che c’è di straordinario in questa regione e nella nostra città sono le persone, le risorse umane, le capacità che si esprimono attraverso le relazioni. E possiamo farcela solo attraverso un sano lavoro di squadra con al centro la green economy, dove tutti gli interlocutori (ambiente compreso) traggono giovamento. Quando si capirà, all’interno delle istituzioni, che per la green economy la stessa rilevanza dell’energia la rivestono anche le risorse materiali (leggi efficienza nell’utilizzo delle materie prime, nel risparmio di materia e nell’utilizzo di materiali riciclati all’interno dei processi produttivi) e che queste meritano le stesse attenzioni, allora potremmo davvero guardare con un po’ più di serenità al futuro sostenibile della nostra bellissima Città e del nostro Paese. Questo sì che sarebbe uno Sblocca Ravenna coi fiocchi.

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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE

Come far ripartire il mercato? Le competenze che ci attraggono e che ci spingono. Le riflessioni del presidente regionale Fiaip, Gian Battista Baccarini

“1984” non è solo il titolo di uno dei più celebri romanzi di George Orwell. Quello è anche l’anno in cui la Apple presenta il primo computer della serie Macintosh, il governo Craxi abolisce la scala mobile e Al Bano e Romina vincono il festival di Sanremo con Ci Sarà. Ma il 1984 è anche l’anno in cui si annidano, complici alcune difficoltà congiunturali che ora sono ben note, i primi segnali negativi del mercato immobiliare. Venendo atempi più recenti, nel settore residenziale, il volume delle compravendite è passato dalle 807mila abitazioni del 2007 alle 403mila del 2013. Eppure, nonostante i dati impietosi, sono diversi gli indicatori che fanno pensare a una possibile inversione di tendenza, che potrebbe far sentire i suoi effetti a partire da metà del 2015. Quali sono i fattori positivi in grado di favorire la svolta? Anzitutto, l’incremento nell’erogazione dei mutui che, a luglio, ha riguardato 118 mila famiglie rispetto alle 90 mila dell’anno precedente. Ma anche i provvedimenti di incentivo contenuti nel decreto Sblocca Italia, quali lo sconto Irpef per chi acquista un immobile energeticamente efficiente (in classe energetica A o B) o per affittarlo a canone concordato, a patto che la spesa massima non superi i 300mila euro per l’acquisto di una o due abitazioni, nuove o ristrutturate. Da un punto di vista pratico, l’acquirente – che non potrà essere un parente di primo grado del venditore – potrà dedurre dal proprio reddito complessivo il 20% del prezzo di acquisto dell’immobile in 8 anni (per un massimo di 60 mila euro, ovvero 7.500 euro l’anno), usufruendo di un risparmio annuo quantificabile in circa 2.800-3.000 euro l’anno. Nonostante la potenzialità di un incentivo che ha già sortito effetti positivi all’estero, rimane l’impatto negativo di una tassazione ritenuta confusa ed eccessiva (tra Imu, Tari e Tasi), combinata con la riduzione del reddito disponibile delle famiglie (-9,8% dal 2008). Si tratta di fattori che incidono in modo rilevante sull’entità della domanda, orientandola in parte ai mercati esteri: gli italiani si confermano i primi acquirenti di immobili a Londra, mentre si affacciano all’orizzonte nuove opportunità di investimento nel continente africano, con Kenya e Costa d'Avorio a riscuotere sempre maggiore interesse da parte degli operatori immobiliari internazionali. Per Fiaip, che si è sempre contraddistinta per un approccio estremamente trasparente al mercato, esisterebbero già oggi i presupposti perché il mercato possa ripartire, a dispetto delle criticità: sul fronte dei mutui, al quale abbiamo accennato poc’anzi, il Centro Studi Fiaip rileva come si sia registrata una ripresa delle richieste di finanziamenti da parte delle famiglie (+12%), con una ricaduta positiva sulla quota di mercato sostenuta dal credito immobiliare. Auxilia Finance conferma che i tassi di interesse applicati dalle banche ai prestiti per la

MERCATO IMMOBILIARE

casa sono scesi e questo dovrebbe incoraggiare il mercato immobiliare già nel secondo semestre 2014, traducendosi in una diminuzione dei tassi effettivamente applicati dagli istituti bancari a famiglie e imprese. Queste ultime hanno spesso colto nella crisi uno stimolo a unire le forze, per mantenere – e addirittura aumentare, in non pochi casi – la qualità del servizio offerto al cliente, indipendentemente dalla situazione economica contingente. Il contratto di rete, in particolare, è uno strumento giuridico relativamente nuovo che consente alle aggregazioni di imprese di instaurare tra loro una collaborazione organizzata e duratura, mantenendo la propria autonomia e la propria individualità, nonché di fruire di rilevanti incentivi e di agevolazioni fiscali. Il perseguimento di un interesse comune ha favorito una naturale rimodulazione dei rapporti, e più in generale di certa cultura lavorativa, per consentire a ciascuna realtà di condizionare ed essere condizionata dalle altre, creando uno stimolante mix di competizione e di profonda collaborazione mirato a incontrare, prima di ogni altra cosa, l’esigenza del cliente finale. Fare squadra diventa allora un’esperienza condivisa di arricchimento, aziendale ma anche umano, mirata a favorire un continuo scambio di punti di vista e competenze e forte di un valore che potremmo definire assoluto, perché in grado di trascendere la qualità dei singoli apporti. Sacha Greif, designer e blogger parigino, scrive che quando abbiamo bisogno di aiuto siamo naturalmente predisposti a trovare persone che ci possano attrarre al loro livello, che riteniamo più elevato. Ma anche chi apparentemente possiede meno competenze, sottolinea l’autore, può contribuire alla nostra crescita fornendo comunque un piccolo apporto e stimolando la nostra capacità di diventare – noi stessi, responsabilizzandoci nei suoi confronti – un primo punto di riferimento. Greif ci stimola ad aprirci alle persone che ci stanno attorno e a concentrarci sul rafforzamento di questi legami: se saremo abbastanza costanti nel valorizzarli, se sapremo abbinare ogni giorno curiosità e rispetto nei confronti degli altri, potremo costruire un network così forte che nessuno squilibrio di competenze, e forse nessuna crisi, sarà in grado di spezzare.


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