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Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it

n. 89 APRILE 2014

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RAVENNA n. 89 aprile

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APRILE

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contenuti

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casa bella casa

città e quartieri

abitare le culture

di Pietro Barberini

Tesori gnomonici nascosti alla Biblioteca Classense di Ravenna di Mario Arnaldi

Fra via Cavour e San Vitale a passeggio con la grande storia

progettare il territorio

stato dell’arte

di Paolo Bolzani

Ponte Nuovo, monumento alla diversione di Ronco e Montone

topografia e storia

città e tempo

Podere del Tiglio un “buen retiro” in alta Val Senio

di Chiara Bissi

Il destino dei luoghi: centri del commercio di Enrico Gaudenzi

Metodo e Ricostruzione: da Casavecchia/Muratoria a Montini e Zoli di Domenico Mollura

In Palestina, privati del bene primario dell’acqua di Marina Mannucci

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APRILE

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Colophon TC 1404:Layout 1 15/04/14 19:37 Pagina 1

edizione di Ravenna

Controcopertina Gli architetti Nadia Angeli e Matteo Brucoli sono gli ideatori di un puntuale intervento di “rigenerazione” edilizia di un vecchio casolare nell'alta Val Senio. I nuovi proprietari, «animati da una grande sensibilità verso il paesaggio e il territorio si orientarono verso un recupero “rispettoso” della tipologia delle tradizioni costruttive e dei materiali dell'edilizia rurale della zona...».

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Enrico Gaudenzi, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Marina Mannucci, Luca Manservisi, Domenico Mollura, Guido Sani, Serena Simoni. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani, Redazione: tel. 0544.271068 redazione@trovacasa.ra.it

Editore: Reclam Edizioni e Comunicazione srl viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini - Imola - www.grafichebaroncini.it

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Il selvaggio contesto naturale in cui si inserisce il Podere del Tiglio fra le montagne dell’alta Val Senio

CASA BELLA CASA


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Alta Valsenio

Il buen retiro di una famiglia con la passione dell’equitazione e il contatto con la natura

Il casolare nei boschi dell’Appenino rigenerato da Angeli e Brucoli, architetti in Faenza di Paolo Bolzani Complice il ciclo di conferenze sull’architettura contemporanea alle Cantine di Palazzo Rava, ed anche per il buon umore suscitato dall’arrivo di una mite primavera, questa rubrica indugia nuovamente sulla riscoperta del territorio, confermando una scelta non recente che privilegia l’alternanza in base al ciclo delle stagioni. Rispetto alle primavere precedenti, questa volta il nostro sguardo però si innalza oltre i confini della piatta pianura ravennate per spingersi, per la prima volta, fino ai crinali dell'Appennino tosco-romagnolo, là dove l’alta collina lascia il posto a quella che già si chiama montagna. Risaliamo dunque la valle del Senio per immergerci nei boschi che ornano il territorio di Palazzuolo, per raggiungere la nostra meta, vale a dire un casolare campeggiante in un “solatio” pendio erboso, sito al centro del Podere del tiglio. Qualche tempo fa una famiglia di cinque persone con la passione per l'equitazione e la vita a contatto con la natura decise di acquistare il casolare, in origine adibito ad uso abitativo/agricolo, con il desiderio di trasformarlo nella propria casa per le vacanze. Ai tempi di questa decisione alla loro vista si offriva un corpo di fabbrica prostrato dall’incuria del tempo e ridotto alle spoglie vesti di rudere, come mostra un’immagine qui allegata. Le fondazioni di quella che era stata una casa colonica di tipo rurale incastonata a mezza costa su un versante boscoso in forte pendenza «poggiavano su una lingua di roccia affiorante dagli strati argillosi e si mostrava suddiviso in due livelli, di cui quello inferiore, interrato per tre lati, era stato adibito a ricovero animali». Così spiegano gli architetti Nadia Angeli e Matteo Brucoli, ideatori di un puntuale intervento di “rigenerazione” edilizia del casolare. I nuovi proprietari, «animati da una grande sensibilità verso il paesaggio e il territorio dove avevano intenzione di insediarsi – come spiegano i due giovani progettisti - si orientarono fin dal primo momento verso un recupero “rispettoso” della tipologia delle tradizioni costruttive e dei materiali dell'edilizia rurale della zona e perciò ci chiesero espressamente di costruire la loro casa con il lavoro di maestranze e artigiani locali». In virtù dell’impegno dello Studio Angeli e Brucoli, il desiderio della famiglia si avvera. Il forte timbro locale della

Nell’alta Valle del Senio il casolare Podere del Tiglio viene riutilizzato da una famiglia di cinque persone con la passione per l'equitazione e la vita a contatto con la natura per trasformarlo nella propria casa per le vacanze.

struttura di montagna, esibito nella muratura in sasso conformata “a sacco”, nei solai in legno e nel manto di copertura in lastre di pietra viene declinato all’interno di un progetto che, «data la tipologia costruttiva e lo stato di conservazione dell'edificio» ha previsto la sua «demolizione e ricostruzione necessarie per l'adeguamento alla normativa sismica vigente», effettuata sul medesimo sedime edilizio e con la medesima sagoma volumetrica. Perciò opportunamente Angeli e Brucoli parlano di «nuovo “Podere del tiglio”». Si tratta di «un corpo di fabbrica allungato, orientato con i lati maggiori a sud e a nord; il forte dislivello del crinale su cui è poggiato fa sì che il lato nord abbia un solo livello fuori terra, mentre il lato sud due. In tal modo sono minimizzate le dispersioni invernali e sono invece massimizzati gli apporti solari passivi». Si decide di aumentare ulteriormente l'inerzia termica delle murature perimetrali, «accoppiando i sassi del vecchio edificio ad un blocco pesante in laterizio rettificato montato a colla, finito internamente con intonaci a base calce. In tal modo si è ottenuta una parete che abbina ad un'ottima inerzia termica assicurata dalla massa un eccellente potere isolante e di traspirazione» ed inoltre assicura uno sfasamento termico sufficientemente confortevole anche alle alte temperature della stagione estiva. Per ottimizzare le prestazioni energetiche del fabbricato a comportamento termico passivo e per «aprire i locali interni verso

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Alla vista dei nuovi padroni di casa dopo l’acquisto si offriva un corpo di fabbrica prostrato dall’incuria del tempo e ridotto alle spoglie vesti di rudere. Le fondazioni di quella che era stata una casa colonica di tipo rurale incastonata a mezza costa su un versante in forte pendenza «poggiavano su una lingua di roccia affiorante dagli strati argillosi e si mostrava suddiviso in due livelli, di cui quello inferiore, interrato per tre lati, era stato adibito a ricovero animali».

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La facciata del casale di montagna

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le viste migliori si è deciso di non aprire alcuna finestra sulla facciata nord e di concentrare invece tutte le aperture sulla facciata sud, lasciando sui lati est e ovest solo le bucature strettamente necessarie». Oltre a queste precauzioni si è installato un impianto di riscaldamento costituito da una pompa di calore aria-acqua collegata a pannelli radianti a pavimento negli ambienti della casa e di coprire con una serie di pannelli fotovoltaici la sua falda esposta a valle e orientata a sud. In questo modo, assicurano i progettisti, il 'Podere del tiglio' si caratterizza come un intervento a bilancio energetico nullo, in quanto durante l'inverno la pompa di calore «viene alimentata tramite l'allaccio alla rete, mentre nelle altre stagioni l'elettricità prodotta dai pannelli fotovoltaici viene immessa in rete». Alle scelte rivolte a premiare sistemi di energia rinnovabile si associa anche quella di minimizzare il consumo idrico «convogliando tutti i pluviali di raccolta delle acque piovane in un serbatoio di accumulo interrato che concorre anche al sistema di irrigazione dell'ampio giardino circostante e dell'orto coltivato dai proprietari». Veniamo ora all’impatto nel paesaggio e alla vivibilità delle scelte. All’ospite in visita al nuovo 'Podere del tiglio' si propone la vista di un edificio composito, con manto di copertura in tegole di cemento e rivestimento a lastre in pietra serena provenienti dal paramento del fabbricato originario.

Immagini degli spazi living del casale con il soggiorno e un classico caminetto.

CASA BELLA CASA


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All’ospite in visita al nuovo Podere del Tiglio si propone la vista di un edificio composito, con manto di copertura in tegole di cemento e rivestimento a lastre in pietra serena provenienti dal paramento del corpo di fabbrica originario. Si trova articolato in un fabbricato principale cui si annettono tre corpi minori: loggia di ingresso a nord, lavanderia a ovest, e centrale termica con funzione anche di cantina collocata sud, il cui tetto diviene la base per una bella terrazza rivolta alla valle, pavimentata e attrezzata con un forno a legna, che funge da espansione della zona giorno della sala situata nel fabbricato principale attraverso una serie di porte finestre rivolte a sud.

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Alcuni scorci della zona notte della casa di montagna.

CASA BELLA CASA

Si trova articolato in un fabbricato principale cui si annettono tre corpi minori: loggia di ingresso a nord, lavanderia a ovest, e centrale termica con funzione anche di cantina collocata sud, il cui tetto diviene la base per una bella terrazza rivolta alla valle, pavimentata e attrezzata con un forno a legna, che funge da espansione della zona giorno della sala situata nel fabbricato principale attraverso una serie di porte finestre rivolte a sud. Ritroviamo la pietra locale nella versione con lastre a spacco anche nelle pavimentazioni esterne ed anche all’interno, nella zona giorno e nei disimpegni con lastre in pietra serena tagliata a sega e levigata in opera, mentre le stanze da letto sono omaggiate da doghe di massello di castagno naturale levigato in opera; viceversa i bagni sono rivestiti a terra e in parete con pastina di cemento e inerti di marmo bardiglio. Porte e finestre sono montate a filo interno, per enfatizzare il grande spessore delle murature perimetrali, e sono concluse da scuroni in castagno con apertura a libro. Una ringhiera in ferro verniciato dal disegno leggero si incarica di proteggere portefinestre e terrazza. L'ingresso alla casa avviene dalla loggia superiore, posta a nord, che immette in una stanza passante da cui si gode della vista della vallata verso sud. «La pianta interna di entrambi i piani - precisano Angeli e Brucoli - è divisa in tre campate di cui, al piano primo, il salotto occupa la campata centrale mentre le tre stanze da letto e i servizi occupano quelle laterali. Nell'angolo nord-ovest è alloggiata la scala interna che collega i due livelli. La rigorosa divisione in campate viene mitigata percettivamente allineando le aperture di passaggio nelle tramezzature e mettendo così in relazione visiva i diversi ambienti». All’interno, come spiegano i progettisti, «la scelta dei materiali è stata volta alla massima naturalità e alla ricerca di un'interazione forte tra la luce naturale e le superfici dei materiali». La tradizione viene rideclinata con solai in legno di castagno ad orditura principale e secondaria con essenze rinvenute nel territorio di Palazzuolo, e solaio di copertura completato da tavelle in cotto e isolante in fibra di legno ad alta densità. Una scala interna scende nella grande sala da pranzo con camino, servita da cucina, un secondo salotto con camino, lavanderia e un servizio igienico; l’insieme viene caratterizzato «da una marcata fluidità degli spazi, ottenuta con l'allineamento delle grandi aperture che dividono salotto, sala da pranzo e cucina». Una delle idee più interessanti delle scelte degli interni è la ricerca di un effetto plastico nel disegno e nel posizionamento delle pareti divisorie, «trasformandole in pareti attrezzate che alloggiano, di volta in volta, armadi a muro, nicchie, camini o librerie». Porte interne in castagno naturale e intonaci realizzati “ad andamento” con tinte a calce, si rivelano scelte che concorrono «a rendere le superfici più profonde e cangianti alla luce» . trasformazione novecentesca della villa».


CASA DELLA TENDA TC:Layout 1 15/04/14 16:42 Pagina 1

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Ponte Nuovo il monumento alla diversione dei fiumi

Ronco e Montone

Giulio Alberoni, cardinale legato a Ravenna dal 1735 al 1739. In soli quattro anni di lavoro allontanò da Ravenna i fiumi Ronco e Montone che avevano causato numerose alluvioni rovinose. Instancabile e attivissimo promosse i grandi lavori della diversione, dove si recava di persona anche tre volte al giorno.

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Vista del Ponte Nuovo dall’argine sud dopo una recente piena.

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Sopra: vista del Ponte Nuovo dall’argine nord. Al centro: vista del sottarco del Ponte Nuovo dall’argine nord. Sotto: vista del Ponte Nuovo dal ponte pedonale-ciclabile.

Non ci sono soldi né laterizi per costruire l’altro ponte sul tratto deviato del fiume Montone: per far passare la Ravegnana sarà realizzato in legno. Sparite da tempo le rumorose tavole che lo lastricavano, è ancora chiamato “Ponte Assi”.

di Pietro Barberini I grandi lavori condotti fin dal 1733 dal legato pontificio Cardinale Giulio Alberoni, vennero finanziati attraverso una tassa sul sale e i proventi del gioco del lotto, da poco istituito nello Stato pontificio. Le opere principali per condurre a sud della città i fiumi Ronco e Montone, sono la grande chiusa San Marco costruita in laterizio con abbondante uso di angolari in pietra d’Istria e il monumentale ponte “Nuovo” che verrà realizzato prima ancora di ultimare l’escavazione del nuovo letto artificiale per i nuovi “Fiumi Uniti”. Quest’ultimo è il più importante manufatto, solido e utile “monumento” contrassegno della grande opera alberoniana, fatta di imponenti lavori di sterro, innalzamento di argini, escavazione e allargamento di canali, taglio di fiumi: questi segni sono stati conservati dal tempo. Ai nostri occhi appaiono come elementi sovrapposti o addirittura inalterati.

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E il ponte diventa “nuovo” una seconda volta Nonostante sia stato fatto saltare dai tedeschi in ritirata, il “Ponte Nuovo” viene tuttora percorso dai moderni mezzi nei due sensi di marcia nelle condizioni in cui si trovava al momento dell’inaugurazione. Unica variante un tappeto d’asfalto sovrapposto al lastricato. Nei giorni successivi alla liberazione di Ravenna, infatti, furono recuperati quasi tutti i mattoni, angolari in pietra d’Istria e altro materiale tanto da poter riedificare in poco tempo il settecentesco monumento col quale la città ricorda l’intelligente modernità di Giulio Alberoni. Con l’entusiasmo della fine della guerra, le mani di centinaia di muratori e manovali si dedicarono a pacifici strumenti di lavoro: un cantiere brulicante di uomini e attrezzature tanto da riedificare il ponte in poco più di due mesi sui disegni originali, conservati nell’Archivio Storico comunale alla Biblioteca Classense.

In questa pagina, dall’alto: Vista dall’argine nord del ponte pedonale-ciclabile. Uno dei quattro pilastri di ingresso al ponte (ingresso nord lato destro) con l’epigrafe: INCHOATVM DIE XXII / JULII ANNI MDCCXXXV / ABSOLVTVM DIE XXII / DECEMBRIS MDCCXXXVI [Iniziato il 22 luglio 1735 terminato il 22 dicembre 1736]. Pagina a destra: - J.J. Grandville, “Le pont des planètes”, 1844 (da Un autre mond).

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Gran parte dei materiali proveniva dalla Rocca Brancaleone Anche all’epoca delle diversioni, per mancanza di fondi o scarsa produzione di laterizi, il ponte fu edificato demolendo l’ultimo piano delle cinta murarie e dei torrioni della Rocca Brancaleone, nonché edifici e la chiesetta interna della “cittadella” dove erano stati utilizzati parte dei marmi provenienti da Sant’Andrea dei Goti, demolita in epoca veneziana. L’ingente quantità di mattoni impiegata nell’opera, a detta di un cronista dell’epoca, servì «al vantaggio notabile e al celere mirabile compimento di sì gran ponte». Mattoni e pietra d’Istria della Rocca “parteciparono” anche alla costruzione della “chiusa” San Marco. È curioso notare come marmi romani, probabilmente trasportati al porto di Ravenna nel corso del I secolo d.C., siano stati utilizzati per erigere monumenti teodoriciani, passando a costruzioni veneziane (quanta pietra d’Istria nei balconi delle palazzine del XV secolo…) per poi arrivare ad un grande ponte settecentesco a cinque luci, vera apoteosi delle diversioni fluviali alberoniane. In questo gigantesco domino di laterizi e materiale lapideo non sono escluse le mura cittadine, il palazzetto veneziano, edifici religiosi e civili, porte e monumenti cittadini. Nel riuso di materiali antichi il “Ponte Nuovo” è un esempio straordinariamente forte, tanto che i quattro poderosi piloni che si alleggeriscono verso l’alto si reggono su fondamenta di trachiti dell’antica via romana. I parapetti laterali sono in muratura abbinata ad angolari in pietra d’Istria, il ponte sorretto da cinque archi risultà così di elegante fattura. Anche ora permette il collegamento di Ravenna verso Roma e la direttrice adriatica.

Il passaggio sui Fiumi uniti determinò un nuovo assetto urbano A metà del Settecento rappresentava il passaggio fondamentale sull’asse urbano di via del Corso, (non a caso ora via di Roma) passando attraverso porta Nuova. Un tratto, quest’ultimo, che segna la storia, ricalcando canali portuali d’epoca augustea, il sobborgo militare di Cesarea fra la città e il porto classicano e il canale Panfilio della seconda metà del XVII secolo. Proprio quest’ultimo fu protagonista delle diversioni fluviali: alla “voltazza”, poco a valle del nostro ponte, i Fiumi Uniti furono inalveati nel vecchio canale portuale. È ben evidente come i Fiumi Uniti abbiano determinato un nuovo assetto urbano, progredendo rapidamente verso il mare e conquistando nuove terre per l’agricoltura. Intanto si stava già predisponendo un nuovo canale Naviglio a nord-est della città collegando il porto della Fossina con una darsena a ridosso delle mura orientali di Ravenna. Unica opera infrastrutturale, il “Ponte Nuovo” è ancora al suo posto ad assolvere compiti inimmaginabili anche ad una mente moderna e visionaria come quella di Giulio Alberoni.

Tutte le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

Il ponte come “simbolo” di Alberto Giorgio Cassani «Invero, generalmente si pensa che il ponte sia anzitutto e propriamente solo un ponte». L’aforistica sentenza di Martin Heidegger (Costruire, abitare, pensare, 1951) coglie in pieno il carattere prettamente “simbolico” di una figura – «forse la più nobile fra quelle create dall’uomo» (Giulio Pizzetti, Alcune considerazioni sulla evoluzione del ponte, in «Casabella», XLV, n. 469, maggio 1981) – che ha, da sempre, accompagnato l’uomo, come imago e come struttura. Il ponte non è soltanto quell’oggetto che permette di superare un ostacolo. Il ponte è molto altro. Mai figura architettonica è stata, nella storia, tanto carica di significati metaforici. Uno straordinario racconto di Kipling, I costruttori di ponti (1893), mette sul tavolo tutti i temi principali che fanno della figura del ponte un vero e proprio “simbolo”, cioè una figura ancipite, doppia, dissós. Per poter parlare di simbolo, è necessaria quest’ambivalenza, questa compresenza di opposti, secondo l’originaria etimologia greca: simbolo era una tavoletta che veniva spezzata in due e consegnata a due persone che si sarebbero riconosciute, ricongiungendola. Dunque: una sola e, al tempo stesso, due. Questa la ricchezza e l’ambiguità del simbolo, che non mostra mai, semplicemente, una sola faccia, ma è come una medaglia che ha un recto e un verso. Il ponte “riunisce” in sé molti aspetti contrastanti: “unisce” e, al tempo stesso, “divide”, come ha compreso benissimo, un secolo fa, Georg Simmel (Ponte e porta, 1909); è stabile, apparentemente, ma anche fragile, pericoloso, come ci hanno raccontato Nietzsche (Così parlò Zarathustra) e Kafka (Il ponte, 1916) – e questo elemento di pericolosità rimane anche e soprattutto nell’età della Tecnica; è “sospeso” tra due mondi, può essere “isolato” e “abitato”, può “crollare” e persino “muoversi”. È strumento della conquista del mondo da parte dell’uomo e, al tempo stesso, l’opera più sacrilega di tutte, perché intacca, oltre la terra, anche l’acqua, l’elemento sacro per eccellenza in tutte le culture antiche, come ci ha ricordato, magistralmente, Anita Seppilli (Sacralità delle acque e sacrilegio dei ponti, Palermo, Sellerio, 1977). Tutte le culture antiche hanno compreso il carattere simbolico e perturbante del ponte e ne hanno fatto una delle figure ricorrenti nei loro racconti mitici e nelle leggende e favole che quei miti hanno sostituito, apparentemente normalizzandoli. Ma la “secolarizzazione” non ha cancellato del tutto quell’aspetto “numinoso” che ha aleggiato per secoli intorno all’immagine del ponte. Questo lato oscuro emerge a volte, inaspettatamente, anche nell’età dei Lumi e nel secolo breve o lungo che dir si voglia. C’è da aspettarsi che lo faccia anche nell’attuale terzo Millennio.

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Tesori gnomonici nascosti Piccole e pregiate collezioni di valore storico e scientifico in Romagna: la Biblioteca Classense

Il “notturnale” sulla faccia recta dello strumento costruito da Girolamo della Volpaia nel 1575, un tempo appartenuto a Morigia Camillo e ora custodito presso la Biblioteca Classense di Ravenna (per gentile concessione della Biblioteca Classense di Ravenna).

CITTÀ E TEMPO


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di Mario Arnaldi

Il 16 gennaio del 1795 morì a Ravenna il conte-architetto Morigia Camillo, importante esponente di quel piccolo gruppo di nobili attivi, che sentì su di sé la responsabilità del suo status, operando in favore dello sviluppo culturale e istituzionale della società del suo tempo. Un ruolo, questo, assai diverso da quello ozioso e salottiero della nobiltà di quel tempo. Per sua disposizione testamentaria, tutti gli strumenti di lavoro e di studio, oltre alla vasta biblioteca di famiglia, passarono in eredità alla Biblioteca Classense di Ravenna. I volumi erano già stati catalogati da molto tempo, ma gli oggetti che completavano il lascito furono riscoperti poco più di un decennio fa durante le operazioni di riordino dei magazzini. Nella cassa che li conteneva, furono trovati vari strumenti di misurazione, sei orologi solari e alcune parti separate di apparati compositi, dalla non chiara destinazione d'uso. Ebbi già modo di descrivere tutti gli strumenti gnomonici della collezione morigiana in due articoli apparsi nel 2002 sulla neonata rivista scientifica specializzata “Gnomonica Italiana” e da cui traggo parte di questo mio nuovo scritto; Erano ancora inediti e assolutamente interessanti per la loro antichità, unicità, rarità e fattura. La collezione gnomonica comprende: un orologio solare da tavolo, un anello astronomico, un orologio notturno ( detto “notturnale”) con orologio solare sul dorso, un astrolabio, un orologio solare tascabile con “notturnale” e un quadrante di legno, forse incompleto. Quasi tutti gli strumenti furono calcolati con il calendario giuliano, quindi costruiti o in un periodo antecedente la riforma gregoriana (1582) o prima della sua adozione (non tutti gli stati, infatti, aderirono immediatamente alla riforma del calendario). Alcuni, inoltre sono stati costruiti per latitudini diverse da Ravenna. Molti strumenti, quindi, non potevano essere usati quotidianamente del Morigia, se non con continui aggiustamenti, ne consegue che essi, probabilmente, fossero parte della sua collezione privata. Tutti gli strumenti lasciati dal Morigia meritano attenzione, ma questo breve articolo non mi consente d’illustrarli tutti. Mi limiterò a descriverne solo tre. Fra tutti gli strumenti che Camillo Morigia lasciò alla Biblioteca Classense, il posto d’onore spetta certa-

In alto: L’orologio solare portatile sulla faccia versa dello strumento costruito da Girolamo della Volpaia nel 1575, un tempo appartenuto a Morigia Camillo e ora custodito presso la Biblioteca Classense di Ravenna (per gentile concessione della Biblioteca Classense di Ravenna). In basso: orologio solare da tavolo costruito a Roma da Carlo Plato nel 1584. Nella foto si vede l’orologio solare a ore “babiloniche” inciso su una delle due facce della lastra d’ottone (per gentile concessione della Biblioteca Classense di Ravenna).

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Orologio solare da tavolo costruito a Roma da Carlo Plato nel 1584. Nella foto si vede l’orologio solare a ore “italiane” inciso su una delle due facce della lastra d’ottone (per gentile concessione della Biblioteca Classense di Ravenna). In basso: L’orologio solare da tavolo costruito a Roma da Carlo Plato nel 1584 visto di profilo (per gentile concessione della Biblioteca Classense di Ravenna).

CITTÀ E E TEMPO TEMPO CITTÀ


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mente al “notturnale” costruito da Girolamo della Volpaia (Hyeronimus Vulparie, ca. 1530-1614) nel 1575 per Laurentius Nicolai de Sirigatus (Lorenzo Niccolini Sirigatti), avvocato e figlio di Piero di Matteo, della famiglia fiorentina dei Niccolini. Girolamo della Volpaia fu l’ultimo discendente della notissima famiglia fiorentina dei che nel '500 si dedicò tutta alla costruzione di strumentazione scientifica. Il notturnale in questione ha fatto parte dei numerosi pezzi esposti alla grande mostra tematica “Le Temp Vite”, prima a Parigi, poi a Roma, e infine a Barcellona; si tratta di un oggetto raro e di fine lavorazione, forse il più bello fra quelli che conosciamo costruiti da quest’autore. Lo strumento si sviluppa su due facce: una che chiameremo recta e l’altra che diremo versa. Nella faccia recta, è montato un orologio notturno (horologium nocturnum), composto di tre dischi di diversa grandezza e un indice mobile, imperniati su un cilindro forato. Il disco maggiore (fisso) è suddiviso in quattro cerchi concentrici assegnati alle notazioni calendariali. Nella sua circonferenza maggiore si leggono i giorni dell'anno composti in tre decadi per ogni mese, poi procedendo verso quello minore, i nomi latini dei mesi, i gradi percorsi dal Sole in ogni segno dello zodiaco, i nomi latini dei relativi segni zodiacali. Il disco mediano (mobile) è munito d’indice con la scritta MEDIA NOX, sulla sua circonferenza sono state incise le ore uguali equinoziali da 1 a 24, e ogni ora si compone di sei particelle. Il disco minore - mobile anch’esso - è munito d’indice e denti di sega per contare, con l’aiuto del solo tatto, le ore al buio della notte. Nella porzione centrale del disco la scritta MEDIA NOX PER TOTUM ANNUM ci illumina sul significato dei dati riportati sui tre cerchi concentrici, divisi in ventiquattro settori uguali, che troviamo disegnati sulla sua superficie. In ogni cerchio, dal maggiore al minore, si leggono: le ore che separano il tramonto dalla mezzanotte, i minuti da aggiungere alle ore del primo cerchio, e il nome dei mesi sulla circonferenza minore. Il bordo esterno di questo disco è segnato da ventiquattro denti, ma solo i primi dieci sono numerati. Lo strumento intero è sorretto in alto da un’estensione traforata della piastra d’ottone, su cui è intagliato lo stemma del committente, e inserito un anello per la sospensione. Per leggere le ore della notte si poneva lo strumento sospeso di fronte all'osservatore mirando la stella polare all'interno del perno forato centrale. Sistemati gli indici

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Strumento gnomonico tascabile costruito per una latitudine vicina a Ravenna (forse Venezia). La faccia mostrata nella foto mostra un orologio solare di altezza (per gentile concessione della Biblioteca Classense di Ravenna).

CITTĂ€ E TEMPO


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delle ruote sulla data e sull'istante della mezzanotte secondo il periodo dell'anno, si ruotava l'indicatore grande fino ad incontrare sulla sua linea “della fiducia” le stelle corrispondenti alle due ruote posteriori della costellazione del grande carro, a questo punto, contando i denti liberi, era possibile leggere l'ora della notte. Il dorso dello strumento, invece, mostra un orologio solare d'altezza a ore italiche (ab occasu) per la latitudine di 43° e 30'. Due cartigli incisi recano il nome dell’autore con l’anno di costruzione e il nome del committente. Un terzo cartiglio informa il committente sul modo di leggere l'orologio senza errore, dichiara, cioè, che le linee puntinate si riferiscono alle ore pomeridiane. Un quarto cartiglio, all'estrema destra dello strumento, ci informa per quale latitudine lavora l'orologio. Nella porzione alta, ai lati del cartiglio con il nome del committente, sono saldate le due pinnule forate per mirare il Sole, e nella porzione centrale è disegnato l'orologio solare d'altezza. Oltre alle ore, grazie ad alcuni artifici grafici, lo strumento permette di conoscere l'altezza solare sull'orizzonte, l’elevazione di edifici e monti o la profondità di pozzi e valli e la posizione giornaliera del Sole nello Zodiaco. Il secondo strumento di una certa importanza è un doppio orologio solare orizzontale da tavolo, d’ottone e legno, costruito per la latitudine di 45 gradi (probabilmente Venezia). L’autore non ha posto la sua firma sull’oggetto, che reca la data (18 agosto 1584) e il luogo di fabbricazione (Roma), ma è certo che, per la sua fattura inconfondibile, sia opera di Carlo Plato, un abile costruttore di strumenti scientifici che fu attivo nella capitale nella seconda metà del Cinquecento. I due orologi solari sono tracciati sulle sue due facce di una lamina tonda d’ottone munita di una bussola basculante (oggi mancante) che serviva per orientare lo strumento. Un orologio solare è ad ore babiloniche (cioè le ore contate dalla levata del Sole), l’altro ad ore italiche (con le ore contate dal tramonto del Sole). L'uso di questo doppio sistema orario era assai comune nel Rinascimento, soprattutto a Norimberga, dove l'unione dei due ne generò un terzo, ibrido, detto appunto Horæ Norimbergenses. La lastra trova alloggio dentro una scatola di legno tornito. Il terzo strumento che voglio descrivere è un piccolo oggetto tascabile composto di due dischi ruotanti imperniati nel centro con un rivetto forato. Su un lato si vede un orologio solare d'altezza ad ore italiche mentre su quello opposto c’è un orologio notturno.

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L’autore è ignoto, ma l'oggetto è ben descritto, soprattutto nella sua parte notturna, nel volume Armonia astronomica di Teofilo Bruni veronese, pubblicato nel 1622. Una faccia funziona per le ore diurne (con il sole), l'altra per le notturne (con le stelle). Il disegno delle linee mensili, e le conseguenti aperture angolari dello zodiaco obliquo nella parte notturna, ci permette di conoscere, seppur con una certa approssimazione, viste le dimensioni esigue dello strumento, la latitudine per cui fu progettato e costruito. Fatti i dovuti calcoli e raffronti, questo valore dovrebbe essere pressappoco la latitudine di Ravenna: 44.5°, ma la sua lettura può essere accettabile entro le latitudini comprese fra 44° e 45°.

Strumento gnomonico tascabile costruito per una latitudine vicina a Ravenna (forse Venezia). La faccia mostrata nella foto mostra un “notturnale” descritto per la prima volta da Teofilo Bruni di Verona nel 1622 (per gentile concessione della Biblioteca Classense di Ravenna).

CITTÀ E TEMPO

Lo strumento non è datato, ma la posizione dello zodiaco inciso sul bordo di questo disco corrisponde ancora al calendario giuliano e ci consente di datare facilmente l'oggetto ad un periodo che precede la riforma gregoriana del calendario. Ringrazio la Dott.ssa Claudia Giuliani, direttrice della Biblioteca Classense di Ravenna, per avermi gentilmente concesso la pubblicazione delle immagini. Per una descrizione degli altri strumenti gnomonici collezionati da Camillo Morigia rimando il lettore ai due articoli apparsi sulla rivista “Gnomonica Italiana” n. 2 e n. 3, anno 2002. marnaldi@libero.it


ROSSOCORSA TC:Layout 1 16/04/14 10:57 Pagina 1

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Fra via Cavour e San Vitale a passeggio con la grande storia di Chiara Bissi Per chi ama il centro storico cittadino esiste un quadrilatero di irresistibile fascino, per tutti, per chi c’è nato e per chi la città ha imparato a conoscerla e viverla più tardi. Non lontano da piazza del Popolo le strade non sono altro che reminiscenze di antichi corsi d’acqua, il più delle volte considerati pericolosi per la salute pubblica. Allora dopo secoli all’asciutto è più facile raccontare l’odierna meta della ricognizione urbana, partendo da via Cavour, la strada del passeggio e dello shopping. Lo sguardo quindi si concentra verso l’area che va dall’incrocio con via Salara, raggiunge via Traversari e da lì raggiunge via Don Minzoni. Una sorta di quadrilatero che custodisce il tesoro più pregiato della città, il complesso di San Vitale, con la basilica, il mausoleo di Galla Placidia e il museo nazionale, non lontano dalla domus dei Tappeti di pietra. La vicinanza all’irresistibile fonte di attrazione per studiosi, viaggiatori e turisti fa di via Cavour una naturale direttrice di transito dall’aspetto quieto, senza sfarzi nel più pieno stile ravennate. Gli edifici, nella maggior parte riqualificati con sobrietà, nascondo interni signorili e ambienti abitati nel tempo dalla solida borghesia. La dedica allo statista piemontese avvenne nel 1861 a pochi mesi dalla morte di quest’ultimo. Dapprima la dicitura riportava un generico Strada Cavour per poi divenire nel 1881 via Camillo Cavour. Il tracciato come lo conosciamo oggi, ricorda Giuseppe Morini nello Stradario storico, era suddi-

CITTÀ E QUARTIERI

Monumenti, arte, moda e shopping a portata di mano fra palazzi nobiliari e complessi riqualificati

viso in due parti: Strada di porta Adriana e Strada di San Domenico, in onore dell’omonima chiesa che si affaccia sulla via. Ma nel 1873 e fino agli anni Trenta, per via Cavour si intendeva l’intero tragitto da porta Adriana a piazza del Popolo, comprese quindi le attuali via Matteotti e via Santi Muratori. La strada fu abitata da famiglie come i Corradini Pignatta, i Rota e i Guiccioli. Nel palazzo che porta il nome di questi ultimi, oggi si trovano 27 alloggi per studenti universitari gestiti dalla fondazione Flaminia, grazie a una convenzione con il Comune. Dall’impegno dei ragazzi di oggi allo sfarzo della nobiltà di ieri. La bella Teresa Gamba, sposa del vecchio conte Alessandro Guiccioli, volle con sé, ospite del palazzo, il poeta inglese George Byron, che con Pietro Gamba, fratello di Teresa, ebbe un ruolo di primo piano nei moti del 1821. Si dice che lord Byron, amante della giovane con-


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tessa, prese alloggio nel palazzo accompagnato da sette domestici, nove cavalli, un bulldog, un mastino, due gatti, tre pavoni e un'oca. Palazzo Guiccioli, acquisito dalla fondazione Cassa di Risparmio è in procinto di diventare il museo Byron e del Risorgimento, e di accogliere attività culturali e commerciali dopo i lavori di restauro, consolidamento e risanamento grazie a un investimento di 11 milioni di euro. Lasciata la storia è il passato recente a raccontare la trasformazione della strada, attraversata da una rete commerciale ricca nella tipologia, via Cavour fu oggetto, all’inizio degli anni Settanta da una violenta polemica, dovuta alla decisione, allora di forte impatto, di vietare l’accesso alle auto. Annunci funebri ad hoc, diatribe di ogni tipo accompagnarono la decisione. Nessuna eco rimane dei contendenti di allora, via Cavour pedonalizzata divenne in pochi anni la passeggiata elegante della città, sottraendo di fatto il primato a via Diaz. La successiva riqualificazione con una pavimentazione di pregio decretarono la supremazia della strada su tutto il centro storico. Della varietà commerciale di un tempo non rimane nulla, oggi tutto si gioca su grandi catene internazionali, marchi di qualità legati all’abbigliamento, agli accessori, alla tec-

nologia e ai beni di lusso. Dalla tranquillità della passeggiata serale, alla frenesia del sabato pomeriggio, via Cavour, segnata dal glamour delle proposte della moda, rimane una meta imprescindibile per i forzati dello shopping, ma anche per coloro che semplicemente apprezzano la città e la piacevolezza di un incontro casuale, fra amici o conoscenti. A pochi passi pulsa il cuore monumentale della città, quell’area che si apre da via Mura San Vitale, prosegue con via San Vitale, via Fanti, piazzetta Esarcato, via Argentario, via Galla Placidia e via Traversari. Una piccola porzione urbana che conserva al suo interno una delle basiliche più note e

Nella pagina a sinistra, due vedute di via Cavour. In alto (a sinistra) Casa Traversari, sede universitaria; e una prospettiva di via Galla Placidia a fianco della basilica di San Vitale: in basso a sinistra, via Argentario vista dall’ingresso di San Vitale; case affaccite sul retro degli scavi e dei ruderi dell’antica chiesa di Santa Croce.

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Nel reticolo delle vie Pier Traversari, San Vittore e Pietro Alighieri (nei pressi del complesso di San Vitale) furono girate nel 1964 alcune scene del capolavoro di Michelangelo Antonioni, “Il deserto rosso”. Nelle foto due scorci attuali, con al centro un fotogramma del celebre film. Cinquant’anni dopo sono appena cambiati i colori e l’acciolotato in pesarese resta lo stesso.

CITTÀ E QUARTIERI

amate al mondo. Ancora una volta sono gli antichi tracciati delle vie d’acqua a fornire indicazioni e a svelare le trame di una storia dimenticata. Occorre partire da porta Adriana, emergenza monumentale, citata dalle fonti già nel 950 e costruita sulla riva destra di un affluente del Padenna, che entrava in città, fra via Cavour e via San Vitale. Le vicine mura dovrebbero conservare tracce della porta Teguriense, per parecchi secoli infatti, almeno fino al 1232, il Lamone, col nome di fiume Teguriense, percorreva il tracciato della via Faentina attuale raggiungendo le mura, e Andrea Agnello, storico del IX secolo, menziona una porta Teguriense a poca distanza da porta Adriana. L’affluente raggiungeva poi il Padenna in piazza Costa. In breve l’idrografia lascia spazio alla storia cittadina, che riporta l’agguato al cardinale legato Francesco Alidosio, compiuto il 24 maggio 1511 mentre si recava con il proprio seguito dal papa Giulio II, alloggiato nel monastero di San Vitale. Un assassinio senza giallo, visto che l’aggressore si rivelò essere il nipote del papa, Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino, precipitosamente in fuga verso i propri possedimenti. Un episodio di matrice politica che scosse la città, mentre oggi in via Mura San Vitale, un ristorante, punto di ristoro bio e un B&b sono le attrazioni della strada costeggiata da case di pregio. Su via San Vitale si affacciano ancora da un lato il monastero di San Vitale e dall’altro l’intervento progettato da Antonio Farini verso la fine del XVIII secolo, nato come foresteria per il monastero. Proseguendo su questa via si trova casa Traversari, sede dell’Istituto di antichità ravennati e bizantine e ora del dipartimento di Archeologia dell’università di Bologna nel quale gli studenti trovano il centro di ricerche Archeobotaniche, quello per le tecnologie multimediali applicate all'archeologia e il centro studi per l’archeologia dell’Adriatico. Di recente l’accesso alla vicina basilica bizantina di San Vitale, consacrata nel 548, è tornato ad quello attraverso l’arco monumentale, posto davanti a via Argentario. Così come l’ingresso alla soprintendenza ai beni architettonici e del paesaggio e al museo nazionale, oggetto un progetto di riallestimento per sezioni, ultima in ordine di tempo la sala delle erme e delle antichità. Del grande monastero si sa che nel 999 l’imperatore Ottone III concede all’abate Giovanni lo spazio di terra accanto all'atrio della basilica, per costruire un primo chiostro, fondando così la


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prima comunità di monaci secondo la regola benedettina. Comunità che ebbe grande importanza nella vita cittadina fino al 27 agosto 1798 quando il monastero fu soppresso. Dopo alterne vicende in un'ala del complesso demaniale di San Vitale su piazzetta dell’Esarcato si apre dal novembre del 2008 la nuova sede dell'archivio di Stato. Qui un patrimonio composto da oltre 70mila unità archivistiche cartacee, dal secolo XIII ai giorni nostri, che si sviluppa per più di sette chilometri di scaffalature, nonché 7.055 pergamene risalenti al X secolo, provenienti dagli antichi monasteri e abbazie di San Vitale, Classe, Santa Maria in Porto e Sant’Andrea. Se via Manfredo Fanti, un tempo Strada del Portone di San Vitale, traversa di via Cavour, conserva la memoria di una figura del Risorgimento, Fanti fu carbonaro, e promotore con Cavour dell’accademia militare di Modena, è via Galla Placidia la più amata dai ravennati e dai turisti. L’andamento sinuoso permette una perfetta visione della basilica, del grande platano che veglia il mausoleo dell’imperatrice e di Santa Maria Maggiore. Un angolo di pace assoluta e di pura contemplazione, reso scenografico da una sapiente illuminazione notturna. Impreziosiscono via Argentario l’atelier della stilista ravennate Cristina Rocca e la bottega del mosaico contemporaneo di Anna Fietta, un luogo creativo affacciato sui tesori di luce di San Vitale. Via Salara è uno dei confini ideali scelto per la ricognizione, capace per il livello dell’offerta commerciale di tenere il passo con la più nota via Cavour. Sotto il piano stradale nascondo le vestigia di un ponte romano in pietra bianca di età augustea. L’albergo Bisanzio e il B&b Marmarica, ovvero palazzo Rivalta trasformata in casa degli Artisti, rendono ospitale la zona che contempla ristoranti come l’Osteria del Tempo Perso di via Gamba, o i locali della vicina via Ponte Marino, la bottega di Felice o il recente e polivalente luogo di ritrovo Mariani Life Style. Per preservare la compostezza e il decoro della zona le strade indicate rientrano nel programma di raccolta porta a porta dei rifiuti, attivato da Hera in centro storico, per incrementare la raccolta differenziata mettendo così assieme virtù e bellezza. In alto, una veduta di via Salara dall’incrocio con via Ponte marino

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Lo “spazio ritrovato” della

corte di palazzo Corradini e dei Congressi La “ricucitura” di due edifici centrali dell’universita ravennate fra passato, presente e futuro di Domenico Mollura

L’Università di Bologna, oltre a guardare al futuro sviluppo di Ravenna con una concreta proposta di studentato nella Darsena di Città (vedi Un Campus universitario nella darsena di città, Trovacasa Premium, n. 85, Ottobre 2013), continua a rivolgere una costante attenzione al patrimonio architettonico che ne ospita le sedi principali in centro storico, migliorandone la generale qualità degli spazi destinati allo studio. Su questa scia Palazzo Corradini si arricchisce con uno “spazio ritrovato”; si tratta della corte dell’edificio, sede universitaria, recentemente riqualificata su progetto (datato 2009) dell’architetto Federico Foschi (Responsabile Area Logistica e edilizia dell’ateneo bolognese, per il Campus universitario di Ravenna e Rimini); i lavori per la “Nuova Corte di Palazzo Corradini e dei Congressi” si sono svolti nel periodo 2012-2013 e l’inaugurazione ufficiale si è tenuta nello scorso mese di ottobre. Il progetto ha contemperato i criteri, e le esigenze, della riqualificazione di uno spazio (in questo caso originariamente a “volume zero”) con la ricucitura tra due edifici che, esprimendo linguaggi fortemente diversi, ne definiscono i limiti architettonici. La diversa epoca di realizzazione dei due edifici, “uniti” dalla stessa corte, ha realiz-

CITTÀ SPAZIEURBANI TEMPO

zato una successione di quinte architettoniche che avvolgono lo spazio alternando il colore caldo di Palazzo Corradini (XVII sec.) al rivestimento più temperato delle lastre lapidee e delle tinte chiare del Palazzo dei Congressi (XX sec.); alle piccole finestre del primo i grandi passaggi e le ampie finestrature con telai a scacchiera del secondo. Questo “spazio di mezzo”, con una superficie di circa 500 mq, era destinato a usi disomogenei, come dotazioni impiantistiche e di sicurezza o parcheggio auto, che ne disincentivavano l’uso – come scrive il progettista. Il progetto di riqualificazione è stato impostato – prosegue l’architetto Federico Foschi – secondo i principi dell’Architettura Associativa che nel caso della corte ha evidenziato nel gruppo di lavoro una successione di immagini legate al concetto di orto, in quanto l’area era occupata da un orto urbano. La corte viene in primo luogo liberata dalle destinazioni incoerenti: la scala di emergenza viene sostituita con una nuova rampa in tralicci che occupa meno spazio; inoltre vengono rifatte le reti impiantistiche con lo spostamento o la mimetizzazione dei relativi organi di gestione. La corte, estensione degli spazi di studio esistenti (come la biblioteca di palazzo Corradini) allora può animarsi, pur mantenendo il carattere intimo dello spazio racchiuso,


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con nuovi piani rialzati sulla quota della pavimentazione. Anche quest’ultima, in pietra di Luserna, contribuisce all’arricchimento della qualità complessiva con il richiamo al rivestimento verticale del Palazzo dei Congressi. Gli elementi posati a correre sono alternati a ricorsi paralleli in ciottoli di fiume annegati nel cemento chiaro, che proseguono a tonalità invertire (ciottoli bianchi su terriccio scuro) anche all’interno del rettangolo destinato al verde suddividendolo in quattro campi che ospitano piante aromatiche e vite (richiamo ai filari e alla vegetazione dell’orto, in questo caso conclusus). I piani sfalsati, destinati alla sosta e allo studio all’aperto, sono rappresentati da pedane rialzate su gradonate in listelli di legno composito e struttura in cemento levocel. L’omaggio alla storia della città (e all’associazione di immagini ad essa legate), prosegue anche con il posizionamento di pigne (in pietra d’Istria) ad ornamento degli angoli di alcune delle nuove pedane. Gli elementi d’arredo strutturano e qualificano la nuova immagine della corte; gli esili velari bianchi in PVC, a copertura di alcune isole funzionali (di passaggio o di sosta) sono sorretti da montanti cilindrici in acciaio inox, inclinati quasi a manifestare il loro ruolo di elementi tiranti; le balaustre in vetro stratificato definiscono in modo leggero precisi funzioni connettive; le solide panchine in marmo, dal semplice disegno con raccordo smussato tra le superfici di seduta e di sostegno suggeriscono l’idea della sosta. Questo episodio elegante di architettura, che pare radunare insieme passato (palazzo storico), presente (il palazzo contemporaneo per l’arte e la cultura) e il futuro (la ricerca e la formazione), vuole diventare uno spazio polifunzionale aperto alla città e capace di ospitare eventi culturali e ricreativi.

Nelle foto, gli esiti della riqualificazione e gli arredi urbani ideati per la corte interna che collega gli spazi universitari e culturali di Palazzo Corradini e del Centro Congressi di Largo Firenze.

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Il destino dei luoghi

Spazi e funzioni del commercio

Dalle piazze secolari degli ambulanti e dei moderni mercati coperti ai contemporanei centri commerciali, multisale e outlet, assunti al ruolo paradossale – secondo il sociologo Marc Augé – di “non luoghi” di Enrico Gaudenzi

Nelle foto di queste pagine, alcune immagini, di strutture pionieristiche, fra 800 e 900, per nuovi spazi del commercio, dagli empori ai supermarket alle gallerie di negozi, in Europa, Italia e naturalmente negli Usa.

PROGETTARE IL TERRITORIO

Il precedente articolo di questa sezione sul “destino dei luoghi” si è chiuso con una citazione dell’architetto Walter Gropius (uno dei massimi esponenti del Movimento Moderno), tratta da “Discussione sulle piazze italiane” del 1954, in cui afferma che la piazza è il centro vitale della città, il luogo in cui la gente è sempre lì a comprar nelle botteghe, a pettegolare, mentre i giovani fanno la corte alle ragazze. Riprendiamo quindi il nostro viaggio da queste parole, provando ad analizzare quanto profondi siano stati gli effetti delle nuove modalità del consumo e della corsa all'acquisto sulla forma e sulla cultura della città contemporanea. In Europa, fino a metà ‘800, i principali luoghi del commercio, oltre le vie centrali con le botteghe, erano i mercati coperti e le piazze dedicate ai mercati ambulanti. Le prime forme di distribuzione organizzata si ebbero in Inghilterra e nel nord Italia grazie alla nascita delle cooperative di consumo e più precisamente a Rochdale, sobborgo di Manchester, nel 1844 e a Torino nel 1854 con il Magazzino di Previdenza (Società degli Operai di Torino). In questi primi periodi gli ambienti dedicati alla vendita seguono ancora il modello delle botteghe e le ampie vetrate denotano un rapporto di dipendenza con la strada. Le più significative evoluzioni per gli spazi dedicati al commercio avvennero nella seconda metà dell’800, con la nascita della galleria commerciale e del grande magazzino, i cui primi esempi sono rappresentati dalla Galleria Vittorio Emanuele II di Milano e dal Bon Marché di Parigi. Questi edifici, in posizioni centrali, sono caratterizzati da una forte identità architettonica, da ampie superfici e da una variegata proposta merceologica. Anche in virtù delle trasformazioni subite dalle città nella seconda metà dell’Ottocento, in funzione della circolazione veicolare, che portava all’ampliamento delle carreggiate e alla realizzazione di grandi viali e nel contempo indeboliva il ruolo dei luoghi deputati al contatto sociale, gli antesignani degli shopping centre, assunsero da subito il ruolo di nuovi spazi della socialità. Il grande magazzino in particolare rappresentò una vera e propria rivoluzione grazie ad alcune importanti innovazioni: grande varietà di prodotti esposti e rapida rotazione della merce, in virtù di prezzi contenuti che consentivano vendite più frequenti


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(bassi margini, ma maggiori ricavi); prezzo fisso esposto, eliminando la prassi della contrattazione; libero ingresso senza obbligo all’acquisto. Negli anni trenta del ‘900 a New York si introduce la vendita self-service per i prodotti alimentari e nascono così i primi supermercati che in Italia vedranno uno sviluppo solo a partire dagli anni ’70. Nel 1954 nei sobborghi di Detroit fu realizzato il Northland Center, considerato il primo shopping centre al mondo; il concetto di questo tipo di edificio nasce con lo scopo di fornire al cittadino americano un luogo che soddisfi ogni esigenza di acquisto e che nel contempo funga da spazio di aggregazione sociale. Inizialmente il modello proposto nega qualsiasi rapporto con il contesto urbano, in quanto essendo una meta di destinazione, la sua collocazione risulta fine a se stessa, ma a seguito del grande successo riscontrato, gli immobiliaristi iniziarono ad utilizzare il centro commerciale come motore di sviluppo delle nuove lottizzazioni. In Italia le cose sono andate diversamente, in quanto l’introduzione di questi nuovi modelli di commercio al dettaglio, furono introdotti a distanza di decenni e seguirono logiche di sviluppo completamente differenti. Durante la ricostruzione, l’espansione delle periferie fu caratterizzata dalla carenza di servizi e le strade e le piazze dei nuovi quartieri sembravano più dei luoghi di risulta che delle centralità. Tale situazione determinò i cosiddetti quartieri dormitorio, in cui il commercio, come le altre funzioni, veniva zonizzato e contingentato, sprecando l’occasione di poter sfruttare i servizi come elemento di vitalità e di presidio dello spazio pubblico. A partire dalla metà degli anni ’60, la rinascita economica del paese portò dei cambiamenti a livello sociale, che incentivarono alcune attività commerciali a cambiare volto adeguandosi ai tempi e alla maggiore capacità di spesa delle famiglie; vennero così aperti i supermercati, il primo dei quali fù il Supermarket (oggi Esselunga) a Milano, inaugurato nel 1957. L’avvento del supermercato avviò l’approccio periodico alla spesa, anche in conseguenza di alcune novità come: l’introduzione del frigorifero nelle case, l’accesso crescente delle donne al lavoro e l’uso dell’automobile che consentiva di affrontare le distanze trasportando pesi maggiori. C’è da dire però, che in Italia l’abitudine di recarsi al supermercato cominciò ad affermarsi in modo decisivo a partire dagli anni ’80, forse anche grazie all’introduzione della TV commerciale, che consentì alle aziende alimentari di utilizzare una pubblicità capace di influenzare le vendite nelle reti della grande distribuzione. L'inserimento nel tessuto urbano di questi nuovi contenitori avvenne spesso "a cose fatte", cioè occupando le poche aree rimaste libere nelle periferie o riconvertendo al nuovo uso spazi esistenti nelle zone più prossime ai centri cittadini. Come si può intuire l'aver introdotto nuove funzioni a forte attrazione, in contesti già consolidati, contribuì a sconvolgere gli equilibri urbani e ad alimentare i problemi di viabilità e di reperimento di parcheggi. Sul finire degli anni ’80, nel nord Italia iniziarono a diffondersi nelle aree extraurbane i primi centri commerciali (il nostro vecchio ESP per intenderci), che sarebbero poi diventati la base di sviluppo degli attuali ipermercati. Questi luoghi del commercio, progenie del modello statunitense, cercano la

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Dall’alto, un centro commerciale degli anni ‘50 in America. Immagini analoghe dello stesso modello a Ravenna, realizzate nei primi anni 2000 nella periferia ovest della città. Qui sopra una vista dal satellite dell’area del centro ESP, di cui si sta preparando il “raddoppio”.

PROGETTARE IL TERRITORIO

collocazione più prossima agli snodi stradali, spesso su aree agricole assoggettate a varianti di piano (il ricorso a variante è stato adottato in quasi il 60% dei casi). Lo sviluppo massiccio dei centri commerciali italiani prende avvio sul finire degli anni ’90, ma assumendo una connotazione diversa da quella dello shopping centre americano, la cui differenza risiede nel tipo di rapporto che le struttura instaura con il territorio in cui si trova. Negli Stati Uniti, questi luoghi si sono evoluti nella logica di supplire alla mancanza di spazi urbani di relazione, cercando di ricreare ambienti intimi con situazioni ispirate ai centri delle città europee. A differenza delle strutture americane, i nostri centri commerciali, nascono e si sviluppano intorno alla presenza dell’ipermercato, che con la sua vasta offerta alimentare e le continue promozioni, costituisce il vero attrattore, facendo vivere di riflesso l’adiacente galleria di negozi. Il sociologo francese Marc Augè nel 1992 introdusse per la prima volta in un suo saggio il termine nonluogo, per definire tutti quegli spazi di transito, privi d’identità, la cui ragione di esistere è collegata alla funzione. Nonostante l'omogeneizzazione, i non luoghi sono spesso vissuti con una valenza positiva. Gli utenti godono della sicurezza prodotta dal poter trovare in qualsiasi angolo del globo la stessa catena di ristoranti o la medesima disposizione degli spazi all'interno di un multisala. In questa categoria rientrano a pieno titolo i nuovi luoghi del commercio che popolano le nostre città e che possiamo raggruppare sotto il termine generico di centri commerciali, ma che nello specifico si distinguono per le funzioni prevalenti che svolgono: gli ipermercati per la spesa alimentare, i parchi commerciali per le catene di elettronica, sport e bricolage, gli outlet pensati per consumatori in cerca di distinzione e di sconti con i negozi monomarca e infine i multisala diventati dei poli d’intrattenimento con bar, ristoranti, sale bowling, negozi e naturalmente sale cinema. Negli anni sembra che le città si siano trasformate in immense e sfavillanti vetrine, dove esporre merci, sogni e stili di vita per attrarre consumatori, stimolandone continuamente i bisogni. I negozi delle strade centrali, i grandi centri commerciali delle periferie, gli shopping mall della città diffusa sono ormai elementi centrali del nuovo paesaggio metropolitano. Se pensiamo alla nostra città e ai luoghi sopra citati, possiamo renderci conto di quanto profondi siano stati i loro effetti sull’assetto urbano e sul nostro modo di vivere il territorio. Negli ultimi vent’anni, la crescita della grande distribuzione organizzata (GDO) è diventato uno dei fattori principali dello sviluppo urbanistico e i grandi contenitori dedicati alla vendita hanno ridisegnato i paesaggi di periferia, diventando le nuove porte della nostra città. Il lungo periodo di crisi che stiamo vivendo, vede come protagonisti della vita economica italiana i grandi gruppi nazionali e stranieri lanciati nell’irrefrenabile corsa allo sviluppo commerciale, quasi come se non ci fosse limite alla saturazione del mercato e all’esigenza dell’utente di dover comprare; è una guerra che si gioca a suon di aperture per conquistare territori ancora vergini e la cui ultima frontiera è il profondo sud... chi si ferma è perduto. AtelierTerritorio srl - Ravenna www.atelierterritorio.com


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In attesa dei lavori, il

progetto SigarOne vince un premio nazionale di Guido Sani

Al Salone del Restauro di Ferrara di fine marzo, il progetto SigarOne per la riconversione del Magazzino ex Sir in Darsena di città, firmato dai progettisti Emilio Rambelli e Gianluca Bonini di Nuovostudio di Ravenna, è risultato vincitore del primo premio del concorso nazionale IQU 2013 (nona edizione) per la qualifica "Rigenerazione e recupero urbano - sezione nuovi utilizzi e progettazioni". Il Premio, promosso da Paesaggio Urbano e dal dal sito www.architetti.com del gruppo Maggioli è uno dei più importanti riconoscimenti italiani dedicati alle strategie di innovazione in diverse aree tematiche della progettazione e, in particolare nel recupero, rigenerazione e riqualificazione architettonica e urbana. Dedicato al recupero funzionale dell'edificio di archeologia industriale denominato “sigarone", il progetto SigarOne è stato presentato al pubblico nel settembre del 2012 e prevede la salvaguardia dell'infrastruttura portante dell'edificio per la realizzazione di una piazza ad uso pubblico, spazi polivalenti per esposizioni e spettacoli (di oltre 3mila mq), un'area verde e, a fianco, l'integrazione di un palazzo di sei piani a vocazione

IDEE E PROGETTI

commerciale, direzionale e abitativa, per una superfiicie complessiva di circa 10mila mq. Il valore complessivo dell'investimento è stimato a oggi in 15 milioni di euro. Il progetto è stato inserito nel dossier di candidatura di Ravenna Capitale Europea della Cultura 2019, che è finalista per l'assegnazione del titolo. Del riconoscimento ne parliamo con l’architetto Emilio Rambelli. Allora soddisfatti? Anche rispetto a qualche detrattore del vostro progetto… «Lasciamo stare i detrattori, tanto ci sarà sempre qualcuno che è “contro”, magari per partito preso… Preferisco condividere questa soddisfazione con il mio socio Emilio Bonini e i colleghi architetti di Nuovostudio, Stefania Bertozzi e Giovanni Mecozzi, ma desidero ringraziare anche la proprietà, il dottor Baldini e il dottor Panzavolta, in rappresentanza dell’Immobiliare Corsini srl, la soprintendente Antonella Ranaldi e Francesca Proni dell'Ufficio Progettazione del Co-


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Il riconoscimento Iqu 2013 per la riconversione dell'ex Magazzino Sir in Darsena di città, firmato Nuovostudio

molare la sistemazione definitiva di altri comparti, almeno attorno in quell’area. Penso alla vasta area Cmc, oggetto di un importate piano di riqualificazione. Assieme abbiamo studiando come fare interagire al meglio i due grandi comparti confinanti ed elaborato osservazioni comuni al Poc. Spero che anche i loro progetti si evolvano nella fase esecutiva. Ma non mancano le preoccupazione per certe lungaggini burocratiche e incertezze normative che rischiano di frenare e deprimere chi vuol fare, e magari fare bene, con propri investimenti».

mune di Ravenna, che hanno fin da subito creduto nel nostro progetto di riconversione del complesso edilizio». A che punto è la fase di progettazione? Ci sono delle variazioni rispetto a quanto presentato a fine 2012? «Nessuna variazione sostanziale, solo qualche dettaglio tecnico. Ora stiamo verificando l'elaborato definitivo del manufatto, e predisponendo la variante al Pua propedeutica all'approvazione del progetto edilizio. Recentemente abbiamo rilevato, dopo un’accurata perizia, che gli archi della struttura sono in buono stato e quindi si potrebbe ipotizzare per una porzione del manufatto anche una copertura “leggera” e trasparente, che consentirebbe un’utilizzo più ampio e confortevole anche in inverno, degli spazi ideati per eventi pubblici».

In alto, a sinistra un rendering notturno del progetto del SigarOne di Nuovostudio. A destra, un plastico del nuovo edificio.

Il vostro è l’unico progetto in fase avanzata che potrebbe dare un contributo fattivo all’annoso piano di riqualificazione della Darsena… «Certo il SigarOne ha un ruolo anche simbolico per la rinascita della Darsena di città. Se riusciremo, come sono convinto, a realizzare il progetto, potrebbe essere un “magnete”, un apripista per sti-

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I Sedici L'architettura in Italia dal ’68 ad oggi secondo Nuovo confronto generazionale per la serie di incontri alle Cantine di Palazzo Rava sul ruolo della progettazione contemporanea, curati da Emilio Rambelli e promossi dalla nostra rivista e dal Gruppo Ravimm

Rava e Piersanti. In mostra i progetti di

Burroni&Dapporto Nuovo appuntamento il 17 aprile alle Cantine di palazzo Rava con "I 16 - Il ruolo dell'architettura contemporanea", la serie di conferenze promosse e organizzate dal Gruppo Ravimm e dalla rivista dell’abitare Trovacasa Premium, curate da Emilio Rambelli. Protagonisti del terzo incontro in calendario, i giovani progettisti dello studio ravennate Burroni&Dapporto esporrà i propri progetti, mentre gli architetti senior Rita Rava e Claudio Piersanti di Faenza, racconteranno, dal loro punta di vista e per la loro lunga esperienza, le trasformazioni che si sono succedute, in architettura, nell’Italia degli ultimi decenni, dal ’68 ad oggi.

Rava e Piersanti, architetti con studio a Faenza, operano prevalentemente nel settore pubblico con progetti per strutture museali, scolastiche, sanitarie, restauro di edifici monumentali, progetti di arredo ur-

IDEE CITTÀ E PROGETTI E TEMPO


48 49 Idee prog TC1404:Layout 1 15/04/14 17:02 Pagina 49

bano. Nel 1986 partecipano alla XVII Triennale di Milano “Il luogo del lavoro”, nella sezione “Architettura sotterranea a illuminazione naturale”, con proposte innovative che prevedono l’utilizzo di fibre ottiche e captatori solari. Nel 1991 ricevono un premio In/Arch per il Museo internazionale delle ceramiche di Faenza. Le loro opere sono state pubblicate in riviste specializzate e volumi monografici; si segnalano: Un sogno, un progetto, un museo (Electa 1998); La rocca ritrovata. Il restauro del complesso fortificato di Riolo Terme (Skira 2000); Architettura e gusto, (Electa 2007); Lo spazio della Ceramica (Allemandi 2011). Una selezione ristretta di progetti scelti secondo gusti personali e limitata alle nuove costruzioni (tralasciando i più diffusi ambiti di intervento sull’esistente) faranno da filo conduttore dell’intervento, per raccontare le trasformazioni che si sono succedute in Italia negli ultimi decenni. Saranno anche l’occasione per parlare di normative e vincoli progettuali, budget economici, durabilità nel tempo delle opere, mode e luoghi comuni che spesso accompagnano l’architettura, partendo dal favoloso e lontano ’68, con i suoi sogni di rivoluzione, per arrivare alla ben diversa realtà attuale.

alla progettazione esecutiva, alla ricerca e all’ utilizzo di nuovi materiali e alla cura del dettaglio in fase realizzativa. Lo studio ha all’attivo diverse realizzazioni in ambito residenziale e commerciale e partecipazioni a concorsi di architettura nazionali e internazionali con alcune pubblicazioni sul web e su riviste locali e nazionali. In mostra alle Cantine di Palazzo Rava porteranno: il restyling della Palazzina Marchesini, in piazza Caduti a Ravenna; il progetto per una casa al mare; il progetto per temporary shops, messo in produzione e a catalogo da Metalco Spa. Va ricordato che la serie di conferenze è resa possibile grazie al fondamentale sostegno del gruppo bancario Banca Mediolanum e delle aziende Artigiana Legno, Edilpiù, Tavar, Kartell e Nadep-Ovest. Gli appuntamenti proseguiranno giovedì 15 maggio, sempre dalle 20 alle Cantine di Palazzo Rava, con Paolo Rava (Comune di Forlì) e i giovani architetti Pambianco e Pretolani (Forlì).

Massimo Burroni e Arturo C. Dapporto frequentano la stessa Facoltà di Architettura a Ferrara e fondano lo studio Burroni&Dapporto architetti nel 2008 a Ravenna dopo alcune esperienze professionali in altre città. Partendo dalla convinzione che l’architettura debba essere un processo progettuale che attinge e dialoga anche con altri ambiti delle arti e della tecnica, obiettivo dello studio è perseguire la qualità architettonica in senso lato: formale, funzionale e costruttiva. Particolare attenzione è dedicata

Nella pagina a sinistra tre progetti realizzati dallo studio degli architetti Rita Rava e Claudio Piersanti di Faenza. In questa pagina altrettanti lavori dello studio ravennate Burroni&Dapporto.

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Questioni di metodo Fra “analisi” e “sintesi” l’esperienza progettuale di e dello

Massimiliano Casavecchia studio Muratoria di Domenico Mollura

Ad accompagnare l’esordio dell’edizione 2014 della rassegna – e dei primi giovani architetti sotto i riflettori delle Cantine di Palazzo Rava – è stato invitato un progettista di grande esperienza che nel suo lavoro unisce l’attività professionale a quella culturale e didattica, intesa nell’ottica della formazione specialistica e della divulgazione, sfera quest’ultima tra le più vicine ai giovani e a chi si è appena avvicinato al mondo del progetto. Si tratta dell’architetto Massimiliano Casavecchia il cui intervento ha avuto come protagonista il metodo. Il sostantivo che definisce l’idea – metodo è una parola composta, derivante dai termini greci “in cerca di” e “cammino” – riempie da solo intere pagine di dizionari e enciclopedie, sfumando dal campo delle scienze applicate a quello del pensiero filosofico. Il campo dell’Architettura, che può ben definirsi compreso tra questi due estremi, non può esimersi dall’adoperare procedimenti che del Metodo sono strumenti irrinunciabili come ad esempio l’analisi (del contesto,

STATO DELLʼARTE

Excursus su sei progetti ideati e realizzati nella città di Ravenna

In questa pagina, in alto, la facciata e l’interno di una delle sale del cinema Mariani, realizzato assieme ad altri spazi di un complesso edilizio in centro storico, come (in alto a destra) l’attico che si affaccia su via Matteucci. Sempre nella pagina a destra, il Polisportivo Lama e il Centro Servizi Artigianali di via Faentina.


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della storia di un luogo, dello spazio, del carattere di un edifico) e la sintesi (delle istanze compositive con gli obblighi normativi, con i vincoli ambientali, con i requisiti prestazionali e strutturali). Il professore Casavecchia dà una chiara dimostrazione del metodo in Architettura attraverso il racconto di alcuni dei progetti firmati da Muratoria in Italia e all’estero e dei quali se ne propone una selezione tra quelli ideati nella città di Ravenna. Il Centro diagnosi e riabilitazione (2008-2012) trae spunto dall’architettura industriale (il riferimento è la Fabbrica Alta del Lanificio Francesco Rossi di Schio, Vicenza, 1862), infatti il progetto ripropone la compattezza dei volumi, la solidità formale, la “grana” materica e l’impaginato rigoroso dei fronti tradotto nella serialità delle bucature, contrappuntate da finestrature più ampie che sembrano protendersi in avanti per far partecipare un elemento, genericamente piano come il prospetto, alla spazialità esterna. Gli interni si distribuiscono in modo articolato secondo le diverse destinazioni e prevalgono netti scarti cromatici nelle finiture. Quest’ultima caratteristica risalta anche nel Centro Polisportivo Lama (2005-2006) dove le superfici continue e le incorniciature di colore rosso acceso manifestano senza intermediazione la presenza di due corpi di fabbrica destinati agli impianti e ai servizi. La tessitura delle superfici richiama volutamente quella dei container. L’impianto sportivo è poi completato da una tribuna coperta, sopraelevata e realizzata in elementi metallici. Il richiamo alle costruzioni industriali ritorna nel progetto per il Centro Servizi Artigianali (20012007 – progetto selezionato nel 2012 tra le opere “meritevoli di entrare a far parte del Repertorio dell’architettura di qualità dell’Emilia-Romagna”, curato dall’Istituto regionale per i Beni Culturali). Ne sono testimonianza la configurazione a shed delle coperture degli stalli giustapposti e la successione di capriate in calcestruzzo interne. Tuttavia la tradizionale conformazione “dente di sega” dei fronti viene ricondotta, su un lato, alla griglia ortogonale non solo nel disegno ma anche nell’elemento metallico che fa da contro-facciata dietro cui si “celano” i disimpegni esterni verticali e orizzontali, che evocano le passerelle tecniche dei fabbricati industriali; sul fronte opposto e su quello interno alla galleria si conferma il richiamo ai Maestri dell’architettura Moderna attraverso vetrate, sfalsate su due livelli e costituite da specchiature compenetranti, con colori primari quando non trasparenti, suddivise da netti profili neri come nelle composizioni De Stjil. L’Edificio residenziale in classe A (2006-2012), data l’ubicazione del lotto, gode di ampia libertà di visuale sui quattro fronti. Lo studio della planimetria compone due rettangoli che si deformano, comprenetrandosi, per seguire gli allineamenti dell’area e instaurare un dialogo formale con il contesto, completato con l’articolazione del volume. Questo segue le linee planimetriche con gli aggetti dei balconi e dei cornicioni, mentre il coronamento a linee di colmo con altezze diverse (come la cresta di un gallo) e il disallineamento di alcune bucature di fac-

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ciata attenuano la “severità” complessiva della composizione. Le scelte tecnologiche e impiantistiche hanno valso all’edifico la certificazione Casa Clima nella categoria energetica A. La storia viene utilizzata come telaio sul quale tessere il fronte del Cinema Multisala Mariani (1997-2001), edificio edificato negli anni ’50 del ‘900 tra due corpi di fabbrica esistenti nel cuore consolidato della città. Il Palazzo di Teodorico, per proporzioni e carattere, fornisce lo spunto per risolvere l’inserimento del nuovo fronte in un contesto che, pur multiforme, rimane delicato. Il volto urbano del Cinema Mariani, con il suo laterizio, reintepreta la storia senza rinunciare a dichiarare la propria contemporaneità; questa si manifestata discretamente con il taglio orizzontale degli accessi che “toglie” massa dove invece la tradizione la imporrebbe. Le Residenze nel centro storico di Ravenna (1998-2005) completano un intervento edilizio esteso trasversalmente all’isolato urbano comprendente anche il Multisala Mariani. Il progetto interviene strutturando un edifico a corte che sporge con uno stretto fronte sulla strada. Questo, come nel caso del Cinema mantiene una decisa “continuità culturale” con il contesto storico presentandosi con tessitura in laterizio con delle eleganti varianti sul tema (come ad esempio la tessitura a spina di pesce in fianco alla finestra del quarto livello fuori terra e un abaco ricercato di incorniciature delle stese finestre: per quelle singole al primo e quarto livello si ha la cornice in intonaco bianco; per quella al terzo si ha il semplice architrave in mattoni a coltello). Le finestre accoppiate sono unificate invece da un alto architrave in cemento armato a vista, richiamato nel medesimo elemento che unifica l’accesso pedonale e carrabile al piano terra. Il fronte sulla corte – finito ad intonaco e tinteggiato - è più libero potendo contare su balconi con parapetti in ferro, coperture curve metalliche adornate da oblò circolari. Tutte le opere presentate manifestano un’attenzione rispettosa alla storia, vista come materiale del progetto. «L’idea di una forma trovata piuttosto che inventata ha, evidentemente, una lunga storia nella cultura formale dell’architettura e non meno nell’arte novecentesca e rappresenta una tensione di fondo, sempre presente e oggi estremamente attuale, verso la rinuncia della moderna dimensione soggettiva dell’architettura a favore di una profonda, e per certi versi irrinunciabile, oggettività del fare architettura» (Giovanni Leoni, Di fronte al Maestro, in Gianni Braghieri. Architettura, Rappresentazione, Fotografia, Edizioni Clueb, 2007).

Dall’alto, gli interni con piscina e un particolare della facciata del Centro Diagnosi e Riabilitazione di viale Allende. Una palazzina residenziale che ha ottenuto la classe A di merito per il risparmio energetico di Casa Clima

STATO DELLʼARTE


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Comune di Ravenna

I Sedici

Il ruolo dell’Architettura contemporanea Ciclo di conferenze organizzate e promosse dal Gruppo Ravimm - Le Cantine di Palazzo Rava e dalla rivista dell’abitare TrovaCasa Premium (edizioni Reclam), con il patrocinio del Comune di Ravenna e Ravenna 2019 Coordinatore: Emilio Rambelli - Nuovostudio

Tutti gli incontri si terranno presso Le Cantine di Palazzo Rava - Via di Roma 117 - Ravenna Apertura mostra ore 20, inizio conferenza ore 21

Calendario 2014

Intervengono

Espongono

27 febbraio

Giovedì Casavecchia e Muratoria

Montini e Zoli

Ravenna

Faenza

Giovedì

20 marzo

Gabriele Montanari

Angeli e Brucoli

Unione Comuni Bassa Romagna

Studio Rava Piersanti

Faenza

Giovedì

17 aprile

Burroni e Dapporto

Faenza

Ravenna

Giovedì

Paolo Rava

15 maggio

Panbianco e Pretolani

Comune di Forlì

Forlì

Giovedì

Davide Cristofani

19 giugno

Faenza

Francesca Proni

Lazzarini e Pinoni Faenza

Giovedì

18 settembre

Studio Ellevuelle

Comune di Ravenna

Teprin Associati

Forlì

Giovedì

6 novembre

Ravenna

Emilio Agostinelli Soprintendenza di Ravenna

Inout Architettura Ferrara

Giovedì

4 dicembre

Piraccini e Baldacci Cesena

Info Ilaria Siboni - siboni.ilaria@gmail.com - cell. 338 1584910

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Le ex cucine di un edifico medievale a Cesena destinate a Centro Estetico

Idee di ricostruzione Nei progetti realizzati di Montini e Zoli la felice coabitazione di esistente e nuovo di Domenico Mollura L’edizione 2014 degli incontri sull’architettura contemporanea curati da Emilio Rambelli e promossi da questa rivista in collaborazione con il gruppo Ravimm si presenta con una formula rinnovata con la presenza di due interventi che accostano una giovane realtà del progetto con l’esperienza di esponenti senior della professione. Gli incontri pertanto diventano osservatorio sui giovani architetti del territorio e spazio di confronto generazionale con un orizzonte ben delineato, anche nell’edizione precedente, sul “fare architettura”. La serie è stata aperta, a fine febbraio, dallo Studio Montini e Zoli Architetti di Faenza. I due giovani progettisti faentini delineando la loro attività professionale parlano di occasioni di lavoro intendendo con tale definizione l’opportunità rara – rarissima in Italia,

STATO DELLʼARTE

come evidenzia il curatore della rassegna – di trasformare un’idea in concreta architettura. I progetti presentati coniugano felicemente l’esistente con il nuovo, manifestando un grande interesse verso il recupero del costruito, tema di grande rilevanza se si considerano i dati sempre più preoccupanti sul progressivo consumo di suolo nel nostro Paese. Il rapporto tra l’antico (o comunque storicizzato) e il contemporaneo è declinato da Montini e Zoli attraverso sottili rimandi e attenzione rispettosa – ma apertamente dialogante – con il passato; la sana dialettica tra epoche diverse messa in atto nei progetti, esposti con grafici e plastici nelle Cantine di Palazzo Rave, è il frutto dell’esperienza svolta nell’ambito degli studi universitari (Montini ha svolto attività di collaboratore ai corsi di pro-


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Dall’alto: ristrutturazione di una casa unifamiliare a Cotignola; struttura socio-assistenziale per persone con disagi psichici a Faenza: ristrutturazione di casa unifamiliare a Faenza; progetto di riqualificazione di un tabacchificio in Austria (primo premio al concorso Europan 11).

gettazione presso lo Iuav con l’architetto Marco Carmassi). A ciò si aggiungono anche contaminazioni in realtà culturali parallele a quella del progetto di architettura (esperienze nell’ambito della regia e della scenografia dell’arch. Zoli) trasformate, infine, in personale ricerca nell’attività dello studio fondato nel 2005. Nel corso del loro intervento Zoli e Montini hanno presentato una selezione di otto progetti significativi che hanno riscosso consensi e riconoscimenti fin dagli inizi della loro collaborazione. Il racconto architettonico dei diversi interventi si colora con alcune incursioni che mostrano come l’idea possa spesso nascere da un’intuizione, da un oggetto apparentemente estraneo che diventa, alla fine del processo creativo, elemento di valore del nuovo progetto. I due architetti faentini, infatti, “misurano” i loro progetti anche al di fuori dalla ricerca accademica (e dai riferimenti all’architettura contemporanea) traendo spunti creativi attraverso l’osservazione interessata e riconoscente della “tradizione edilizia, soprattutto popolare” del territorio in cui operano, come loro stessi specificano. Il primo intervento presentato è quello sulle ex cucine poste al piano terra di un edificio di origini medievali sottoposto a tutela; lo spazio ampio circa 160 mq era destinato a trasformarsi in Centro Estetico (Cesena, 2006). Il principale obiettivo del progetto era quello di definire – e suddividere in modo coerente e univoco – gli spazi interni. Data la presenza di originali volte ad ombrello i nuovi divisori sono stati realizzati con pareti curvilinee che separano senza ricorrere alla “massa”. Infatti la “leggerezza” delle volte non viene intaccata dalla presenza di queste superfici, la raschiatura dei diversi strati di tinteggiatura e la stesura di resina per la finitura del pavimento con una tonalità che richiama quella delle volte genera uno spazio continuo arredato infine con complementi su disegno in noce. Il secondo progetto nasce da una “incursione”. La visita al cantiere di restauro presso gli stabilimenti Provianda di Verona (progetto dell’architetto Carmassi) evidenzia la presenza di alcuni esemplari di forni per la produzione di pane infine demoliti. Un modello di forno molto simile è presente all’interno di un complesso di fabbricati che i due architetti faentini sono chiamati a rivedere. Il programma funzionale prevede la demolizione quasi totale (e senza completa ricostruzione) del complesso edilizio. Tuttavia la presenza del forno a legna diventa un’invariante del progetto sull’esistente trasformandosi da traccia ormai sbiadita di un recente passato in elemento che dà carattere alla distribuzione su due livelli del nuovo edificio. La casa unifamiliare a Cotignola (….) si presenta sull’orizzonte della campagna romagnola come una tipica casa colonica – ad eccezione dello svuotamento dell’angolo che diventa vetrata aperta verso l’esterno – con copertura a quattro falde e infissi a filo unifor-

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Recupero e ristrutturazione di una casa unifamiliare nella campagna faentina.

STATO DELLʼARTE

memente ripartiti al primo piano e configurazione a gelosia dei mattoni in vista del piano terra. Il forno, posto alla confluenza delle linee di flusso interne, ha la sua propaggine esterna con la riproposizione, nel paesaggio “agreste”, dell’immagine storicizzata delle canne fumarie in cotto. La “matrice contemporanea” rimane volutamente celata all’interno nei dettagli, nella spazialità fatta di “leggeri dislivelli e compenetrazione di spazi”. Il richiamo alla tradizione rurale si trasferisce anche sul progetto di casa unifamiliare a Faenza (2009) frutto di una demolizione e ricostruzione con ridisegno degli annessi incoerenti. In questo caso, in cui si ripropone la tessitura a gelosia nel corpo annesso a Nord con funzione di filtro per il periodo invernale, l’incursione creativa si sofferma sulla reinterpretazione del solaio a voltine in cotto su travi metalliche del piano terra, rispettando sugli esterni la finitura con intonaco a calce e serramenti a filo. Dopo le due residenze viene presentato il progetto per uno spazio collettivo. La struttura socio-assistenziale per persone con disturbi psichici di Faenza (2009) recupera una corte rurale (comprendente la casa colonica, il fienile e un basso comodo). Il centro dell’intervento è rappresentato dal giardino, primo in regione ad essere utilizzato per l’orto-terapia, delimitato dei tre fabbricati dominati del portico a doppia altezza giustapposto al corpo principale. Una grande vetrata, posta sullo spazio di soggiorno, apre lo stesso corpo principale sulla corte e “al mutare del tempo e delle stagioni”. Il muro di ingresso alla struttura viene “eroso” da una colorata composizione artistica realizzata con mattoni smaltati. L’attenzione alla ricerca si manifesta in due competizioni concorsuali. Nella prima, promossa dall’Associazione Italiana Progettisti di Interni, l’intento era quello di progettare la Nuova Casa per la Mia Terza Età. La risposta si è concentrata di moduli abitativi in legno (camera con servizio) che si aggregano “liberamente” all’interno di un piano sottotetto esistente creando spazi di percorrenza e disimpegno articolati e multifunzionali lontani dalla tradizionale configurazione a corridoio; la copertura diventa tetto giardino. Il secondo concorso, Europan 11, che vale il primo premio ex-aequo, viene sviluppato con l’obiettivo di “ripensare” un tabacchificio a Linz in Austria progettato nel 1929-35 da Peter Beherens; il confronto con un maestro dell’architettura Moderna suggerisce da un lato la conservazione dei volumi architettonici e dall’altro conduce ad evidenziare la contemporaneità dell’idea di progetto con una vasca d’acqua che occupa tutti gli spazi interstiziali tra i numerosi fabbricati e l’introduzione di un nuovo volume che si stacca dall’immagine complessiva del costruito per la sua configurazione di scheggia inclinata sull’orizzontale, destinato a spazio museale. Nel restauro di una villa unifamiliare di inizio ‘900 a Faenza (20072008) l’intervento sulla spazialità risulta minimale, mentre il progetto si riversa maggiormente sul disegno dei serramenti e dell’arredo realizzato da artigiani locali e “ispirato” ancora dalle suggestioni della tradizione in particolare dalle cucine in muratura con cappa inclinata sospesa per l’allontanamento dei fumi di cottura. Nell’ultimo progetto il rapporto tra nuovo ed esistente si svolge nel dialogo tra edifici diversi; la casa unifamiliare a Faenza (2008-2009) sorge ex novo su tre livelli in vicinanza di un corpo di fabbrica esistente. Uno dei principali vincoli ha imposto un fronte strada pari a 3,5 metri e un dislivello di circa 3 metri tra questo e il retro. Il salto di quota è stato mutuato in principio progettuale divenendo basamento con piano seminterrato in cemento a vista. Il volume principale invece è finito ad intonaco a calce ad andamento curvo, ritmato in campi verticali definiti da elementi in ceramica simili nella forma a quelli dell’edificio limitrofo. Tale richiamo, unitamente allo spazio a corte che invece separa i due fabbricati risolve il lotto e «il suo rapporto con quanto c’è attorno per quanto chiassoso e dissonante».


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This Land is my Land

Sequenza di “Shoot. The Film. Documentario sulla resistenza palestinese”, regia di Samantha Comizzoli (2013).

di Marina Mannucci

Nel mese di gennaio, presso la Sala Pier Paolo D’Attorre di Casa Melandri, ho avuto l’opportunità di assistere alla presentazione del film Shoot, realizzato da Samantha Comizzoli, attivista per i diritti umani con l’International Solidarity Movement. Ospite e relatrice dell’incontro Hakima Hasan Motlaq, fondatrice e presidentessa del Retaj Women Center, un centro per Donne ad Asira al-Qiblya in Cisgiordania. Presso il Retaj Centre si svolgono workshop, seminari, corsi e le donne producono anche artigianato palestinese; Hakima ne ha portato in Italia ed io ne ho apperofittato per acquistare una bellissima kefiah. Sempre presso il Retaj si svolgono corsi e workshop anche per i bambini. Alcune riprese del film-documentario sono state girate dal fotoreporter Odai Qaddumi, anch’egli presente all’incontro a Casa Melandri. Gli scatti di Odai oltre ad essere un’importante documentazione sono anche un potente mezzo espressivo immediato, semplice e comprensibile. Nel suo intervento, Hakima Hasan Motlaq ha raccontato degli attacchi che il suo villaggio subisce quotidianamente da parte dei coloni e dell’esercito israeliano ed anche del sequestro di sorgenti e pozzi utilizzati da palestinesi per l’agricoltura e per uso domestico, sempre ad opera dei militari. Anche il villaggio di Odai Qaddomi, Kuffr Qaddum è sotto occupazione israeliana da dieci anni, da quando Israele ha chiuso la strada principale per costruirvi un insediamento illegale di coloni. Ocha, Agenzia per gli Affari Umanitari Onu, ha divulgato un rapporto sulla situazione delle fonti d’acqua dei palestinesi derubate dai coloni israeliani partendo da uno studio commissionato all’esperto Dror Etkes. Nel testo, viene riportato il numero impres-

ABITARE CITTÀ LE E TEMPO CULTURE

Abitare in Palestina, privati del bene primario dell’acqua. Intervista a Hakima Hasan Motlaq sionante di sorgenti sulle quali i coloni impongono il totale divieto d’accesso ai palestinesi. Nell’accedere alle restanti sorgenti, i palestinesi incontrano ostacoli materiali fatti di recinzioni e barriere perché le sorgenti sono state annesse a colonie e ad aree militari. Parecchie di queste fonti si trovano nelle aree dove i coloni effettuano con regolarità sopralluoghi di massa, oltre ad aver avviato lavori per la costruzione di piscine e di altre strutture verdi, alle quali assegnano nomi in lingua ebraica. Per l’avvio di questi lavori non esistono i permessi dei pubblici uffici (area C), ma lo Stato di Israele non fa nulla per vietarne l’avanzamento che avviene con espropri coatti e violenza ai danni dei palestinesi. In Israele l’acqua è stata dichiarata bene strategico e la distribuzione dell’acqua è gestita da una società privata israeliana sotto controllo dell’esercito. I coloni ebrei sono autorizzati a pompare


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l’acqua dal sottosuolo in grande quantità ed il conseguente abbassamento della falda prosciuga i pozzi dei palestinesi che, oltre a rimanere senz’acqua, sono impossibilitati a irrigare le loro terre mentre nei centri turistici israeliani vengono alimentati piscine e laghetti artificiali. Lo stato d’Israele ha inoltre costruito una rete di tubature che drena l’acqua dai territori occupati (Cisgiordania e Golan) e la convoglia nel lago Tiberiade. Ai coloni israeliani viene erogata pro capite una quantità di acqua circa otto volte maggiore di quella per i palestinesi; inoltre ai palestinesi l’acqua viene fatturata tre volte più cara che agli israeliani. Per le sue risorse idriche Israele dipende per il 60% dai territori occupati, fatto che rappresenta uno dei motivi per cui Israele non vuole restituirli e che smentisce l’affermazione che la Palestina è un territorio arido. Al viaggiatore non può sfuggire la differenza tra il territorio israeliano verdeggiante e ben irrigato e quello palestinese arido e senz’acqua. Continuando nelle mie ricerche, leggo che l’ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari denuncia che il numero degli attacchi dei coloni con conseguenti vittime palestinesi e danni alla proprietà, negli ultimi anni, è aumentato del 32%. Nel 2011, circa 10.000 alberi di proprietà Palestinese, alberi di olivo in primo luogo, sono stati danneggiati o distrutti da coloni israeliani, compromettendo in modo significativo le condizioni di vita di centinaia di famiglie. Oltre il 90% delle denunce di violenze subite dai coloni presentate alla polizia israeliana sono state chiuse senza accusa. Violenze che includono aggressioni fisiche, molestie, impossessamento e danneggiamento della proprietà privata, impedimento di pascoli e attività agricole, attacchi contro terreni agricoli e al bestiame. Molti di questi attacchi sono avvenuti negli insediamenti chiamati “Avamposti”, costruiti senza autorizzazione ufficiale, molti su terreni privati di proprietà palestinese. Recenti iniziative ufficiali legalizzano retroattivamente l’impossessamento da parte dei coloni delle terre private di proprietà palestinese e promuovono attivamente una cultura di impunità che contribuisce al ripetersi di violenze. Le forze israeliane spesso non fermano questi attacchi e le indagini, troppo spesso, sono inadeguate. Decido di costruire un reportage per dare testimonianza di questa realtà e chiedo ad Hakima Hasan Motlaq se accetta di svolgere il ruolo di corrispondente in locu. Accetta. Cominciamo a scriverci; le faccio delle domande e le sue risposte oltre a fornire una serie di notizie, ben descrivono ambiente, contesto e retroterra degli avvenimenti. Un insieme d’informazioni per meglio cogliere il complesso di elementi che circonda la storia di questo territorio e del suo popolo. L’intervista ad Hakima inizia con il racconto della giornata tipo delle donne del suo villaggio La donna palestinese moglie e madre comincia la sua giornata alzandosi presto, per cucinare la colazione ai figli e aiutarli nei preparativi per andare a scuola. Dopo iniziano le pulizie di casa. Finite tutte queste attività, la donna ha un po’ di tempo per far visita ai vicini di casa o ai parenti. Nello specifico del nostro villaggio le donne in queste ore della giornata vengono al nostro centro per svolgere delle attività o per parlare. Più tardi tornano a casa per preparare il pranzo per la famiglia e nel pomeriggio aiutano i figli nello svolgimento dei compiti scolastici. Verso sera iniziano a preparare la cena. Quando arriva il marito si cena e dopo si sta con parenti o amici. Purtroppo sia il pranzo che la cena non hanno orari fissi perché bambini e mariti vengono spesso fermati ai checkpoint volanti saltuari o, comunque, devono passare i checkpoint fissi e a volte vengono fermati. Se i figli si ammalano, il compito di seguirli di giorno e di notte è della donna, ed anche in caso di ricovero all’ospedale le cure spettano alla madre. Vi sono poi le donne che, oltre ad avere una famiglia, lavorano; queste, per poter svolgere mansioni relative alla casa, preparare i bambini e lavorare, devono alzarsi ancora prima. Uscite di casa, devono anch’esse tutti i giorni affrontare la trafila dei checkpoint. Per sopportare questa vita, le donne palestinesi devono essere molto forti ed in ogni caso per loro è importante lavorare sia per

In alto: Hakima Hasan Motlaq e un’amica nel villaggio di Asira al-Qiblya in Cisgiordania. Al centro: Hakima Hasan Motlaq fra i soldati israeliani. In basso: Sequenza di “Shoot”, con un’immagine di un check-point.

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La locandina di “Shoot”.

aiutare la famiglia, sia per la loro autonomia. Le ragazze che studiano devono percorrere molta strada, le università sono distanti dai villaggi; al loro rientro a casa (sempre dopo aver passato i checkpoint) aiutano le madri. Nelle giornate di riposo dalla scuola le ragazze non hanno nessun luogo dove poter andare, quindi le passano su internet o guardando la televisione. Per una donna, invece, che, come me, è impegnata anche nel sociale o nella politica, la situazione è ancora più complessa. La società palestinese non ama le donne impegnate nelle attività sociali e politiche. Gli uomini, specialmente nei villaggi, preferiscono che le donne stiano in casa perché non gradiscono che abbiano più successo o visibilità di loro. Nel mio caso, io lavoravo per l’unione delle donne a Ramallah fino a che io ed Abdullah (mio marito) abbiamo deciso di sposarci. Abdullah mi disse però che avrei dovuto smettere di lavorare perché sarei diventata sua moglie: non la moglie di tutti. Ci siamo sposati, ma dopo un anno trascorso in casa non ce l’ho fatta più e ho detto a mio marito: «Abdullah mi dispiace, ma non ce la faccio. Io non posso stare con il cervello fermo, devo lavorare. Voglio aprire il Retaj Center per le donne qui ad Asirà» ed alla fine lui ha accettato. Una donna qui può muoversi, ma non è così semplice. Alcune di noi devono avere molta forza di volontà per superare gli stereotipi di genere che vorrebbero vederle confinate nei muri domestici; per altre non ci sono problemi, ma tutto dipende molto dal villaggio in cui si vive. Ad ogni modo, se una donna si muove in continuazione da sola senza aver un motivo ufficiale, il villaggio ne parla e iniziano i problemi. Per quanto riguarda lo sport non posso dire nulla: noi non possiamo praticare sport, nemmeno andare in bicicletta. Anche nel vostro villaggio c’è un contenzioso idrico? Nel passato non abbiamo mai avuto problemi di approvvigionamento idrico, abbiamo una sorgente naturale, ma i coloni, dal 1999, ce l’hanno tolta. Da allora siamo costretti a comprarla in taniche ed ogni famiglia ha un contenitore dove raccogliere l’acqua piovana. Una tanica costa 140 shekel ed ha una capienza di un metro cubo; per due persone dura un mese, per una famiglia basta

CITTÀ LE E TEMPO ABITARE CULTURE

solo per qualche giorno. Da un anno stiamo costruendo un nuovo impianto idrico per il villaggio con l’aiuto di USAID (United States Agency for International Development), ma il governo di Israele non vuole lasciarci lavorare nel cantiere: continuano ad attaccare il cantiere, i lavoratori e le case vicine. Quindi, al momento, siamo ancora senz’acqua. Il racconto di Hakima induce a riflettere sull’inutile crudeltà dei checkpoint, “non luoghi” per eccellenza di pessima architettura che trasmettono apatia; non delineano una frontiera ma rendono impossibile la vita all’interno dei territori controllati. In Palestina ci sono più checkpoint che in qualunque altro posto sulla terra e con il tempo sono divenuti una specie di cartina di tornasole che misura il tempo e la distanza. Quanti checkpoint occorrono per arrivare a destinazione? Quanti checkpoint dista una città da un’altra? Anche il concetto d’attesa è radicalmente mutato. Dalle parole di Hakima ci si rende conto che una persona ferma a un checkpoint è un essere sospeso, la sua giornata può andare avanti o tornare indietro, tutto dipende da molti fattori senza nessuna logica. Ci sono donne palestinesi che hanno partorito ai checkpoint, per fortuna ci sono però anche donne israeliane che hanno fondato un movimento, Machsom watch, per presidiare i checkpoint, monitorando il comportamento dei soldati e cercando di aiutare la popolazione palestinese a passare senza troppe umiliazioni. I checkpoint creano in realtà barriere di odio e di sospetto che potranno solo e sempre più separare palestinesi e israeliani. Ma credo che le molte persone che godono della libertà fisica e mentale di muoversi, di viaggiare chilometri e chilometri senza dover essere fermati e perquisiti in continuazione, di poter passare da una città all’altra, come se niente fosse, senza frontiere continuino a non porsi in questo stato d’animo e quindi a non comprendere una parte di storia. È invece importante sapere che la situazione di questo villaggio rappresenta ciò che accade in tutta la Palestina e che: • L’occupazione israeliana è condannata dalla risoluzione 242 delle Nazioni Unite e dalla Corte internazionale di giustizia. • La colonizzazione è stata condannata anch’essa dalle risoluzioni 242 e 338. • La costruzione del muro, l’annessione delle terre per farne zone militari, sono condannate dall’Onu e dalla Corte Internazionale di Giustizia. • La presenza armata in territorio straniero è una situazione ritenuta illecita dall’Onu, punibile con un intervento armato internazionale, oltre che una violazione della quarta Convenzione di Ginevra. • Le repressioni armate durante le manifestazioni sono vietate da tutte le Corti e le procedure internazionali in quanto violano i diritti umani. • Tutte le forme di punizioni collettive sono perseguibili secondo la Quarta Convenzione di Ginevra e considerate crimini di guerra dall’Onu. Definire la nonviolenza richiede una definizione di violenza, che potremmo considerare come l’utilizzo della forza fisica per provocare danni fisici e/o psicologici, fino alla morte. Un’“azione nonviolenta” non è solamente un’azione che non risponde a questi criteri, ma va inquadrata in un contesto di violenza reale o potenziale. Potremmo quindi giudicarla come «un sostituto diretto del comportamento violento, di fronte a una violenza attesa in un contesto di disputa».1 È necessario perciò tenere presente che per i palestinesi parlare di fermare le violenze ha senso nella misura in cui si parla della totalità delle violenze, comprese l’occupazione militare e civile. Tali discussioni hanno valore per i palestinesi se si riferiscono alla ricerca del modo più efficace per il soddisfacimento dei loro diritti. Nel febbraio 2006 si è svolta nel villaggio palestinese di Bil’in la prima “Conferenza internazionale per una resistenza popolare e nonviolenta”. Questo luogo non è stato scelto a caso. Bil’in è un villaggio in cui è nato, nel gennaio 2005, un “Comitato popolare” che organizza con cadenza settimanale delle manifestazioni pacifiche contro la costruzione del Muro di separazione, il cui tracciato ricade largamente entro i limiti municipali del villaggio. Bil’in è rapidamente diventato un simbolo e


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numerosi militanti pacifisti stranieri, compresi gli israeliani, partecipano alle manifestazioni settimanali. Gli abitanti di Bil’in hanno inoltre depositato dei ricorsi presso l’Alta Corte israeliana, che ha ordinato di fare delle modifiche al tracciato del Muro. Gli organizzatori della Conferenza hanno dovuto tener conto anche delle critiche suscitate nei territori palestinesi per l’uso del concetto di «resistenza nonviolenta»: a partire dal 2008 il termine è scomparso dal titolo dell’iniziativa, rimpiazzato (in inglese) da «grassroots resistance», tradotto con «resistenza organizzata alla base». Questa sostituzione non è un dettaglio semantico, ma traduce la presa di posizione di numerose organizzazioni palestinesi che hanno condizionato il loro sostegno all’iniziativa alla ritrattazione della condanna globale e a priori della resistenza armata. A partire dal 2008, la Conferenza si è in parte delocalizzata in altri villaggi, ed escursioni sono previste per i partecipanti in modo che possano misurare la realtà dell’occupazione israeliana nelle sue varie espressioni. La lotta del villaggio disarmato contro il Muro ha rotto in parte l’isolamento internazionale di cui i palestinesi erano vittime dal 2001 ed ha permesso di ricostruire dei legami israelo-palestinesi attraverso lo sviluppo di collaborazioni con l’International Solidarity Movement (ISM) o gli Anarchici contro il Muro. L’eco internazionale di Bil’in obbliga tutta la comunità mondiale ad interrogarsi e a porsi delle domande. Non si tratta di sovrastimare il fenomeno, ma è certo che Bil’in ha funzionato, in modo diretto o indiretto, come catalizzatore, come punto d’appoggio per altre iniziative anche diverse dalle manifestazioni pacifiche contro il Muro. Molti attori del movimento di solidarietà, che avevano un approccio filosofico alla nonviolenza, hanno potuto comprendere che il ricorso alla lotta armata era anche causato dall’isolamento internazionale dei palestinesi e che l’esigenza della rinuncia a priori a ogni forma di violenza era irricevibile e controproducente. L’opposizione violenza/nonviolenza è largamente imposta dall’esterno ed è solo attraverso il rigetto di questa opposizione e attraverso il sostegno senza ingiunzioni alle rivendicazioni palestinesi che si può provare a contribuire al nuovo sviluppo della resistenza popolare e a una riduzione drastica dell’utilizzo delle armi. La quasi egemonia ideologica del paradigma del “ciclo della violenza”, combinato con l’occultazione, volontaria o meno, della violenza quotidiana dell’occupazione israeliana, ha nascosto l’essenziale della resistenza palestinese. L’iniziativa di Bil’in è stata anche molto criticata per i suoi aspetti rituali, per gli incontri obbligati degli “internazionali” e per la sopravvalutazione in rapporto ad altri lotte locali. Per affrontare in modo serio ed inclusivo la storia di questi territori bisogna fare i conti con il concetto di normalizzazione, che include spesso progetti che non riconoscono gli inalienabili diritti dei palestinesi sanciti dal diritto internazionale e le condizioni per l’affermazione della giustizia. Progetti che prevedono uguaglianza tra i palestinesi e gli israeliani per quanto riguarda le responsabilità del conflitto o che dichiarano che la pace si raggiunga attraverso il dialogo, la comprensione e una maggiore cooperazione tra le controparti, senza il raggiungimento della giustizia; progetti che ignorano o ritengono poco importante il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione o il diritto al ritorno come sancito dalla risoluzione ONU 194. Si rischia spesso di ridurre i problemi a una campagna di relazioni pubbliche che svia il dibattito dal cuore della questione, individuando nel rifiuto palestinese nei confronti di ogni tentativo di stabilire delle relazioni normali con Israele la causa per un futuro fallimento nel processo di pace. Per comprendere le difficoltà reali di questa situazione non si può prescindere dal conoscere qual è la situazione particolare degli israeliani che vivono in Israele, quando tutto dipende da Israele: le strutture, i prodotti, le relazioni sociali e accademiche e quali invece le peculiarità della condizione dei palestinesi della Cisgiordania e Gaza. 1. Véronique Dudouet, Nonviolent Resistance and Conflict Transformation in Power Asymmetries, Berghof Resarch Center for Constructive Conflict Management, settembre 2008. http://www.berghof-handbook.net/.

La politica israeliana della cosiddetta “apartheid dell’acqua”, portata avanti ai danni dei palestinesi nei territori occupati, ha fatto una rara apparizione tra i temi trattati dai media mainstream nelle ultime settimane. Un rapporto pubblicato lo scorso anno dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, ha dichiarato che, mentre un colono israeliano medio ha la possibilità di consumare fino a 400 litri d’acqua al giorno, un palestinese in Cisgiordania può, al massimo, avere a che fare con un quantitativo di 73 litri che, nel caso di molte popolazioni nomadi nell’area, possono scendere fino a 10 litri a persona. Sebbene l’evidenza dimostrata da tale rapporto sia stata ritenuta attendibile, le autorità italiane sono state ugualmente propense a sostenere la Mekorot, la compagnia idrica nazionale israeliana, responsabile della deviazione della maggior parte dell’acqua estratta dalle sorgenti palestinesi, agli insediamenti israeliani. Infatti, al vertice Italia-Israele, tenutosi a Roma nel dicembre 2013, è stato firmato un accordo di cooperazione proprio tra la Mekorot e l’Acea, la multiservizi più grande d’Italia, attiva nella gestione e nello sviluppo di reti e servizi nei business dell'acqua, dell’energia e dell’ambiente. Con la firma di tale accordo, entrambe le compagnie idriche si sarebbero teoricamente impegnate ad esaminare in che modo le nuove tecnologie d’avanguardia per la gestione delle risorse idriche potranno essere migliorate e/o modificate in futuro. Dalla documentazione presentata da Amnesty International in risposta alla sigla di tale accordo, si è invece evinto come i palestinesi siano costretti ad affrontare il grave razionamento di acqua, in particolare durante i mesi estivi, mentre i coloni israeliani possono godere della presenza di piscine e di rigogliose colture. Dopo la sigla del trattato Acea-Mekorot, le proteste da parte dei sostenitori dei diritti del popolo palestinese unitamente a quelle dei sostenitori di campagne per l’acqua pubblica hanno preso piede in Italia, sostenendo come l’acqua stia rappresentando uno strumento di guerra utilizzato dalle aziende di Stato israeliane, come la Mekorot, per aumentare l’oppressione nei confronti nel popolo palestinese. Gran parte dell’attenzione mediatica, in questo contesto, si è concentrata sulla città di Roma in quanto detentrice di una quota azionaria di maggioranza nel CDA dell’Acea. In una lettera firmata da gruppi di oppositori all’accordo AceaMekorot, che rappresentano simbolicamente la volontà dei contadini palestinesi, dei cittadini e degli ambientalisti, si è fortemente sostenuto che tale collaborazione della multiservizi italiana con la Mekorot, non rispetta «l’obbligo legale di non fornire riconoscimento né assistenza alle violazioni israeliane del diritto internazionale». Nel gennaio di quest’anno, tre giorni di protesta si sono svolti a Roma per chiedere l’immediata cessazione della partnership di Acea con Mekorot. Al di là del supporto internazionale, però, anche le organizzazioni della società civile palestinese hanno invitato le autorità italiane a seguire la posizione di principio adottata dall’Olanda (la quale ha rifiutato di siglare un accordo di collaborazione con la Mekorot), per garantire che Acea non abbia alcuna intenzione di contribuire all’ennesima violazione dei diritti umani commessa da Israele ai danni dei palestinesi («il Levante on line», 3 marzo 2014, www.levanteonline.net).

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CITTÀ SOSTENIBILE

Social housing, l’abitare è di tutti La casa come diritto ma di qualità: il ruolo degli alloggi a basso costo in Italia

L’housing sociale, è un settore che fa parte della cosiddetta economia etica e che intende dare risposte a chi non ha la possibilità di “rispondere” ai prezzi di mercato. Praticamente la maggior parte degli italiani. L’housing sociale diventa così una strada su cui si potrebbero avviare in tanti, strada che permetterebbe di calmierare i prezzi delle locazioni, di aumentare in maniera esponenziale il confort abitativo, di ridurre drasticamente i costi di riscaldamento e di raffrescamento delle abitazione e, infine, di ridurre sensibilmente le emissioni di CO2. Il tema è sociale e riguarda non solo chi ha bisogno di casa, ma anche e soprattutto i proprietari, proprio per la necessità di recuperare il patrimonio esistente. Il Piano Casa elaborato recentemente dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti prevede interventi per 1 miliardo e 741 euro. Le misure, sintetizzate dal Mit prevedono tre linee di azione: - il sostegno all’affitto a canone concordato; - l’ampliamento dell’offerta di alloggi popolari; - lo sviluppo dell’edilizia residenziale sociale. In particolare, sulle misure per l’ampliamento dell’offerta di edilizia residenziale pubblica si prevede un Piano di recupero di Edilizia residenziale pubblica (ex IACP) che beneficerà dello stanziamento di 400 milioni con il quale finanziare la ristrutturazione con adeguamento energetico, impiantistico e antisismico di 12.000 alloggi. Inoltre, è previsto un ulteriore finanziamento di 67,9 milioni per recuperare ulteriori 2.300 alloggi destinati alle categorie sociali disagiate. Siamo convinti che tutte le proposte comprese nel Decreto Casa che puntano al riuso del patrimonio edilizio esistente pubblico e privato, al sostegno di strumenti come l’Agenzia per l’Affitto e alla riqualificazione energetica e sismica del patrimonio pubblico anche sfitto, siano iniziative molto importanti di cui va sostenuta la continuità. Infatti, l’efficacia delle misure previste si misurerà soltanto se vi sarà continuità di applicazione da sostenere anche attraverso altri strumenti, come gli incentivi per l’efficienza energetica degli edifici. Il tema dell’abitare necessita quindi di provvedimenti struttu-

ABITARE LʼHABITAT

rali che affrontino interamente la complessità e, talvolta, la gravità delle situazioni contingenti. Pertanto, oltre alla necessità di provvedere con misure urgenti per affrontare l’emergenza, occorre programmare una serie di interventi in grado di rispondere stabilmente alla richiesta abitativa prevista in costante aumento anche nei prossimi anni. Al tempo stesso è necessario avviare un programma di riqualificazione del patrimonio abitativo pubblico e privato, affinché risponda ai nuovi bisogni delle persone e ai requisiti di qualità e di contenimento dei costi della casa. Il tema dell’abitare è il grande tema sociale che riguarda non solo chi ha bisogno di casa, ma anche i proprietari perché l’Italia in generale, si trova ad avere un patrimonio edilizio molto vecchio. Per cui è necessario rimettere al centro dell’attenzione politica obiettivi prioritari come la riqualificazione degli edifici in merito all’efficienza energetica, all’abbattimento delle barriere architettoniche, al comfort abitativo e alla sicurezza, a partire da quella antisismica, puntando alla realizzazione di complessi programmi di rigenerazione urbana e alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. Il Social Housing oggi riveste un ruolo importantissimo perché, purtroppo, si è allargato il fronte delle persone che subiscono le conseguenze della crisi strutturale che ci ha investito. Una parte di popolazione, sempre più numerosa, è caduta in fascia di povertà o vive in condizioni al limite della povertà. Su queste persone è necessario intervenire presto mettendo a disposizione alloggi a canone sociale e calmierato. Alle famiglie in difficoltà si aggiunge la grave situazione dei giovani precari o disoccupati a cui è preclusa ogni possibilità di emancipazione. L’attuale sistema di mercato dell’affitto rappresenta anche un elemento di freno rispetto alla necessità di mobilità delle persone per motivi di lavoro. In generale è necessario ricordare che nella sostenibilità economica della casa rientrano i costi dell’affitto e di gestione condominiale e le spese energetiche, tenendo conto che nelle zone climatiche più fredde la bolletta energetica incide più gravemente sul bilancio famigliare. Oltre ai costi di affitto sostenibili, la casa deve offrire alte prestazioni energetiche, deve essere realizzata in modo da contenere i costi di gestione (es. spesa ascensore) e non deve ri-


chiedere grandi interventi di manutenzione nel tempo. È altrettanto fondamentale utilizzare parametri per la misurazione del comfort abitativo di cui è accertata la forte implicazione sulla salute delle persone. Anche i materiali di costruzione oggi puntano alla qualità: devono essere naturali e non impattare negativamente sull’ambiente e sulla salute delle persone e seguendo il concetto secondo il quale anche la qualità della costruzione e delle tecnologie contribuiscono a migliorare la qualità di vita delle persone. La casa deve essere un ambiente sano, dove non si formino muffe, non ci siano elementi nocivi alla salute né campi elettromagnetici: deve essere pienamente sostenibile. In questa nuova fase, quindi, è necessario cominciare a coniugare i temi del risparmio energetico con i temi della vivibilità e della sostenibilità ambientale degli edifici, garantendo non solo risparmio, ma anche comfort, salute e sostenibilità in relazione alle diverse fasce d’utenza. La Casa Mediterranea, ideale per il nostro Paese, si basa su priorità basilari come il raggiungimento del rapporto ideale basso consumo-alto comfort attraverso tecniche e materiali naturali, e il razionale utilizzo di sistemi impiantistici per la ventilazione. La corretta valutazione dei fattori climatici locali è fondamentale per costruire un modello di sistema abitativo in grado di adattarsi alle condizioni climatiche invernali (riscaldamento) e a quelle estive (raffrescamento), contenendo a monte il fabbisogno di dispositivi tecnologici per il riscaldamento, il raffrescamento e la ventilazione. L’obiettivo del consumo quasi zero si raggiunge ponendo attenzione all’orientamento, all’impiego di materiali naturali e locali e studiando un giusto mix di soluzioni passive bioclimatiche e soluzioni attive, anche attraverso lo sfruttamento dell’inerzia termica dei materiali e della ventilazione naturale, e l’uso più efficace delle energie rinnovabili. Elemento chiave per il successo delle iniziative di contenimento dei consumi è sicuramente il coinvolgimento degli abitanti nelle scelte dei sistemi abitativi che devono essere adatti ai rispettivi stili di vita e al livello di consapevolezza, evitando possibilmente soluzioni che richiedano un intervento diretto troppo complesso da parte degli abitanti. Fissati gli obiettivi principali della casa a consumo quasi zero, è necessario pensare a modelli abitativi differenti che tengano conto degli aspetti climatici, ambientali, paesaggistici, culturali e all’inserimento nel contesto sociale locale. Per tutti questi motivi è necessario creare un sistema aperto a tutti gli operatori per diffondere la cultura e promuovere i principi e i criteri della casa mediterranea, coinvolgendo professionisti, operatori, decisori ed utenti e sensibilizzandoli al tema con particolare attenzione alla formazione dei bambini, veicoli privilegiati di una spontanea cultura eco-sensibile nelle famiglie.

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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE

Primavera di disgelo sul fronte delle compravendite, soprattutto nel comparto turistico. Per chi compra e affita è una stagione di prezzi favorevoli. Ce ne parla il presidente Fimaa di Ravenna Pierluigi Fabbri.

Dopo un inverno grigio, questo inizio di primavera segna un risveglio dei contatti nel mercato immobiliare ravennate, in particolare per il comparto turistico. «La speranza è che questo rinnovato interesse dia il via alle compravendite – afferma il presidente provinciale Fimaa, Pierluigi Fabbri -. Il cambio di governo può aver dato impulso, ma di certo dalla politica ci si aspetta ben altri risultati e soprattutto un clima di maggiori certezze che tuttora manca. In ogni caso, è positivo il fatto che si stia interrompendo il trend negativo che ha portato, dal 2008 in avanti, al calo dei prezzi degli immobili. Se in genere ci si è assestati su una perdita di valore del 10-15 per cento, si registrano però punte di calo anche del 20-25 per cento, soprattutto per le case più vecchie che necessitano di una ristrutturazione importante». Un clima di maggiore fiducia favorisce dunque non solo chi è alla ricerca della prima casa, ma anche chi è riuscito a mettere da parte qualcosa per investire sul mattone. Magari sulla tanto sognata seconda casa, da godere insieme ai propri familiari e amici. E malgrado l’incognita della tassazione che di certo non agevola. Com’è la situazione delle località di mare ravennati? «I nostri nove lidi – aggiunge Fabbri – sono tutti diversi fra loro e in grado ciascuno di attirare un certo tipo di investitori. C’è chi privilegia l’ambiente naturale, chi la movida notturna, chi l’uno e l’altro. Proprio questa varietà ha consentito al mercato turistico di tenere di più soprattutto nei momenti di crisi. Un po’ di calo c’è stato ma in misura minore che in città, poi molto dipende da un ventaglio di fattori quali vicinanza della casa al mare o alle vie di maggiore passeggio, disponibilità di pezzi sul mercato, etc.». I prezzi migliori si trovano a Lido Adriano, dato che

MERCATO IMMOBILIARE

sotto i 100 mila euro si trovano molte soluzioni abitative. La località che ha conosciuto anche un alto numero di sofferenze bancarie e di vendite all’asta, riserva anche angoli pregevoli a prezzi abbordabili da tutti. Soprattutto se si considera che altrove bisogna invece mettere in conto almeno il doppio, per togliersi lo sfizio della casa di vacanza. L’estate si prospetta buona anche sul fronte degli affitti: i tanti emiliani che sono soliti scegliere il mare Adriatico, avranno la piacevole sorpresa di canoni molto interessanti anche per case di qualità. Una buona notizia per chi deve stare attento alle spese. Il consiglio, in tutti i casi, è quello di rivolgersi a un buon professionista, in grado di dare tutte quelle informazioni utili per arrivare all’acquisto che sia veramente quello giusto per il cliente.

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RAVENNA n. 89 aprile

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