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CULTURA& RUBRICHE

giovedì 8 novembre 2012 | RAVENNA& DINTORNI

Fulmini&Saette di Adriano Zanni

TUTTA UN’ALTRA MUSICA

Cronache e visioni dal Deserto rosso - tutti i giorni su www.ravennaedintorni.it

Una veloce guida per scoprire l’elettronica di

I migliori anni della nostra vita, Ravenna - 31 ottobre 2012 VISIBILI & INVISIBILI di

FRANCESCO DELLA TORRE

Promosso il nuovo Oliver Stone, sulle orme del Trafficdi Soderbergh

Le belve, di Oliver Stone (2012) Il film è narrato dalla bellissima e ambigua O., che fin dall'inizio non ci chiarisce quanto la sua visione sia frutto di sogno, di realtà “vera” o della sua realtà, fatta di due uomini, Ben e Chon, così amici da condividere O. e da essere diventati dannatamente ricchi coltivando e commerciando la miglior marijuana della California del Sud. Il passaggio che fa il redivivo Stone tra tre tipi di fotografia è emblematico, visto che passa dal bianco e nero, al normale colore, fino ad arrivare al colore saturo per sottolineare proprio i diversi piani della narrazione: dal flashback, all'immaginazione ispirata dalle droghe, fino alla storia vera e propria. La vicenda vede i due protagonisti imbattersi in un potente, violento e pericoloso cartello messicano che propone un affare che, volenti e nolenti, dovranno accettare. Come nei migliori film del genere, la polizia non è certo limpida: un ottimo, redivivo e magro John Travolta si conquisterà col passare dei minuti un ruolo sempre più cruciale in questa intricatissima ragnatela tra gangster crudeli ed ex surfisti apparentemente solo strafatti, dotati però di grande intelligenza. In ben 130 minuti di film si mescolano abilmente azione, dialoghi e una massiccia dose di violenza (c'è chi giustamente ha parlato di un Oliver Stone dei tempi di Natural Born Killers), per uno spettacolo cinematografico che mantiene le sue promesse, tiene sempre alto il ritmo e riesce anche a trovare una sua soddisfacente dose di originalità nell'ambiguo finale. L'ambizione però di diventare cult movie non sembra alla portata di un film a cui manca l'ironia tarantiniana, una certa profondità dei personaggi e tende troppo a voler sorprendere e a, diciamolo, sballare lo spetta-

tore, che alla fine della visione si trova però come risvegliatosi dall'effetto del viaggio di due ore e tende a dimenticarsi in fretta il film, riducendolo probabilmente a un prodotto di intrattenimento. A un giovane trio di protagonisti si affianca un altro trio di veterani, specialista di genere: oltre a Travolta, abbiamo l'ambigua coppia formata da Salma Hayek e Benicio Del Toro, che pur senza strafare (e strafarsi) mette la ciliegina su questo dolce gustoso anche se non indimenticabile. E sul finale, così contestato, ci sarebbe da parlarne, ma non vogliamo rovinare la visione a nessuno. Promosso, quindi, con un sette pieno: Le belve è un film la cui visione risulta assai piacevole, naturalmente per un pubblico che non ha paura di vedere scorrere sangue, sesso e che strizzi più di un occhio... all’antiproibizionismo, che poi, tutta questa violenza, non ci sarebbe. Numerosi i paragoni con altri film: scomodati inutilmente Tarantino, Sergio Leone, e lo stesso Oliver Stone, la pellicola con più analogie è sicuramente il bellissimo Traffic di Steven Soderbergh, anche qui con Benicio Del Toro (e Dennis Quaid e... Tomas Milian!), che parla ancora una volta di cartelli di spaccio al confine Messico-Stati Uniti. Anche in questo film la fotografia la fa da padrone, con un particolare accento su tutte le sfumature di giallo; anche in questo film la vicenda prende man mano una piega sempre più complicata e sorprendente. Gli ingredienti della vicenda sono simili, lo svolgimento (12 anni fa) è davvero eccellente, così da costituire una visione comparativa con Le belve. Non si tratta di un invisibile, Traffic è tranquillamente reperibile in Dvd.

LUCA MANSERVISI

Troppo facile parlare sempre di rock e di canzoni, nel senso tradizionale del termine. Anch’io ero come voi, quando ero giovane, tranquilli. Ma arriva un punto nella vita, in cui bisogna cercare di aprire per bene i propri padiglioni auricolari e tentare (perlomeno tentare) di apprezzare anche qualcosa di diverso. L’elettronica, per esempio. Roba molto vaga, me ne rendo conto. Allora proviamo a parlare di techno, quel ramo maggiormente riconducibile al rock – dice Wikipedia – quello nato grossomodo grazie all’eredità di Kraftwerk e affini e che si è sviluppato soprattutto a Detroit e Berlino, chissà poi perché. Spesso viene anche chiamata elettronica intelligente, o qualcosa di simile. Ecco, provo qui a stilare una veloce guida su alcuni dischi fondamentali di questo campo. E metto subito le mani avanti: nella lista ci sono sì delle pietre miliari indiscusse, ma mancano anche molti mostri sacri, un ordine cronologico-storico, termini tecnici adeguati, forse proprio un senso. È molto personale, ma in grado di stimolare a sufficienza la curiosità di qualche bendisposto. La lista ha un ordine: dai dischi più facili a quelli più ostici. - Chemical Brothers, “Dig Your Own Hole” (1997), siamo dalle parti della discoteca, roba per ballare, magari drogarsi, fate voi. Roba bella carica, si diceva una volta. Siamo in Inghilterra e ne approfittiamo allora per segnalare sempre i connazionali Underworld di “Dubnobasswithmyheadman” (1994), anche loro campioni di vendite, grazie anche alla colonna sonora di Trainspotting. - Daft Punk, “Homework” (1997): qui siamo in Francia e restiamo in ambito commerciale, seppur di alta qualità. Anche qui si balla di brutto, ma il tutto è meno fisico e più levigato. Quando uscì, questo disco lo odiai, non lo nego. Sempre dalla Francia, altro disco elettronico da segnarsi in agenda, ma virato molto al pop, molto molto pop, è “Moon Safari” debutto del 1998 degli Air. - Kruder & Dorfmeister, “The K & D Sessions” (1998): si scende in Austria e si inizia a fare sul serio con un doppio album molto sofisticato, che mescola vari stili. Suona anche jazzato e lounge, ma non spaventatevi. - Boards Of Canada, “Geogaddi” (2002): si torna su, in Scozia, per atmosfere che nascono dai documentari e che li dovrebbero tornare. Non è mica una cosa brutta, anzi. - Autechre “Incunabula” (1993): ecco, gli Autechre segnano forse lo scarto decisivo in questo elenco, arriviamo all’ambient-techno, qui bisogna iniziare a impegnarsi un po’ per ascoltare, ma ne varrà la pena. - Matmos “A Chanche To Cut Is A Chance To Cure” (2001): veri e propri cacciatori di suoni, in quest’album ne utilizzano solo di registrati in un ospedale. Non si spiega come possano essere diventati quasi delle star internazionali. Anzi, sì, il merito è di Bjork, una che ci capisce, e che li ha voluti con sé in tour e su disco. - Aphex Twin “Selected Ambient Works 85-92” (1992): eccolo, quello che è considerato il più grande genio della musica elettronica. La scelta dell’album è abbastanza casuale, partite un po’ da dove volete. - Plastikman “Closer” (2003): il progetto glaciale del canadese Richie Hawtin, figura chiave di tutta la scena; il suo è quasi un manifesto della cosiddetta minimal techno (vedi anche i produttori tedeschi Basic Channel). - Shackleton “Three EPs” (2009): qui la techno si fa tribale e si parla anche di dub. Noi ci fermiamo un po’ prima, altrimento dovremmo parlarvi di Burial, che intanto potete segnarvi nell’agenda bello in rosso. - Carl Craig & Moritz Von Oswald “Recomposed”: un disco forse minore, paragonato al resto della lista, ma una vera e propria chicca da scoprire, in cui due mostri sacri della scena ripropongono in chiave techno la musica di Maurice Ravel. - Murcof “Remembranza” (2005): e a proposito di musica classica, l’elettronica spettrale di questo messicano pare quasi classica contemporanea. - Oval “94 Diskont” (1995): qui parliamo soprattutto di glitch. Cosa sono? Ascoltateli. Possono sembrare rumori. Ma il risultato finale è esaltante. - Pan Sonic “Kesto” (2004): dalla Finlandia, questa volta, atmosfere per forza di cose glaciali. Spesso molto ostiche, non sempre. Grandissimi.


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