Rapporto Confidenziale - n°18 - ott.09

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numero18. ottobre 2009

Rapporto ConFidenziale rivista digitale di cultura cinematografica

numero18. ottobre 2009

IN QUESTO NUMERO: Silly Symphonies, Colpo di Stato, Luciano Salce, Baarìa, Lake Pulgasari, Augusto Tretti, Bikesploitation, “Theme de Yo-Yo”, Madden 12x a Second. Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

Tahoe, 1


numero18. ottobre 2009

Rapporto ConFidenziale

rivista digitale di cultura cinematografica

numero*DICIOTTO*OTTOBRE*2009 www.rapportoconfidenziale.org info@rapportoconfidenziale.org da un’esigenza di Alessio Galbiati e Roberto Rippa. DIRETTORI EDITORIALI Alessio Galbiati Roberto Rippa

alessio.galbiati@rapportoconfidenzale.org roberto.rippa@rapportoconfidenzale.org

GRAFICA E IMPAGINAZIONE ilcanediPavlov! ilcanedipavlov@gmail.com

Rapporto Confidenziale - rivista digitale di cultura cinematografica non è un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7 marzo 2001 e non persegue alcuna finalità di lucro. La rivista vuole essere una voce libera ed indipendente di critica cinematografica: libera da ogni condizionamento ed indipendente nell’espressione del proprio senso critico. Le immagini utilizzate provengono dalla rete e sono pertanto da considerarsi di dominio pubblico. Per ogni possibile controversia ci rendiamo disponibili ai dovuti chiarimenti. Licenza: la rivista è rilasciata con licenza Creative Commons - Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia. Ogni volta che usi o distribuisci quest’opera, devi farlo secondo i termini di questa licenza, che va comunicata con chiarezza. In ogni caso, puoi concordare col titolare dei diritti utilizzi di quest’opera non consentiti da questa licenza. Questa licenza lascia impregiudicati i diritti morali. h t t p : / / c r e a t i v e c o m m o n s . o r g / l i c e n s e s / b y - n c - n d / 2 . 5 / i t

EDITING Alessio Galbiati, Roberto Rippa HANNO SCRITTO SU QUESTO NUMERO Stefano Andreoli, Alessio Galbiati, Ugo Perri, Roberto Rippa, Romeo Sandri, Ivan Talarico.

Distribuzione: “Rapporto Confidenziale” è distribuito in formato PDF. Può essere letto con Acrobat e Adobe Reader 5.0 (e versioni successive); può essere stampato a colori in formato A4 orizzontale, con rilegatura al margine sinistro.

COPERTINA Delrey (Central Illinois) di Kevin Dooley. Tutte le immagini utilizzate provengono dalla rete e pertanto sono da considerarsi di dominio pubblico (ci rendiamo altresì disponibili a sanare ogni possibile controversia in merito), fatta eccezione per le seguenti: Delrey (Central Illinois) (p.1,3) by Kevin Dooley published under Creative Commons license (http://snipurl.com/scitx), Romana Klee (p.5), ANSA (p.16).

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pubblicato martedì 6 ottobre 2009.

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La copertina

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Editoriale

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Brevi appunti sparsi di immagini in movimento

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Narciso rovesciato, Narciso liberato.

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Colpo di Stato. Capolavoro dimenticato

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Luciano Salce: la bocca storta del cinema italiano

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LINGUA DI CELLULOIDE

di Kevin Dooley

di Alessio Galbiati di Alessio Galbiati e Roberto Rippa

Immagine di sé e diversità nelle Silly Symphonies di Stefano Andreoli di Alessio Galbiati di Alessio Galbiati

19 20 20 21 22 22 23 24

Paparìa

cineparole di Ugo Perri

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Baarìa. Cattedrale nel deserto di Ivan Talarico

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RC SPECIALE. TERZA PARTE

AUGUSTO TRETTI, o dell’anarchica innocenza di un irregolare del cinema italiano

a cura di Alessio Galbiati e Roberto Rippa • Alcool di Alessio Galbiati e Roberto Rippa • Alcool (la critica ufficiale) • Alcool è il più spiritoso film di Augusto Tretti di g. d.; La Repubblica, 22 marzo 1980 • E dallo schermo l’eroe grottesco disse: «Prosit!» Tempo Medico n. 181, aprile 1980 • La casalinga solitaria e il suo «goccetto» di Anna Del Bo Boffino; Amica, aprile 1980 • «Alcool» di Tretti a Controcampo e contro tutti di Alberto Crespi; L’Unità, 27 agosto 1980 • Filmografia. sintetica

SECONDI POSTI IN PIEDI. Il cinema popolare dalla B alla Z Bikesploitation. Moto, violenza, sesso e... lupi mannari nelle opere di Michael Levesque e Herschell Gordon Lewis Con le recensioni di: “Werewolves on Wheels” e “She-Devils on Wheels”. a cura di Roberto Rippa

27

Pulgasari. L’incredibile storia di un film assurdo

29

Lake Tahoe

30

LE RELAZIONI PERICOLOSE. Connessioni tra suoni e immagini

di Alessio Galbiati di Roberto Rippa

Around “Theme de Yo-Yo” a cura di Romeo Sandri

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Madden 12x a Second. L’occhio che trema in mostra a Milano di Alessio Galbiati

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Kevin Dooley

Delrey (Central Illinois) (p.1,3) by Kevin Dooley published under Creative Commons license. http://snipurl.com/scitx I like to experiment and rely on random outcomes. My images are of landscapes; plants, trees, and flora; architecture; toys; macros; abstracts; clouds; family; humor; and urban drive-bys. I like both digital and film, the very clear and the very fuzzy. I prefer to induce interesting effects in the camera itself, by (e.g.) cross processing, using toy cameras, shooting into the sun or while moving. My most common post-processing would be hitting the «Enhance» button in iPhoto. Other than the LTR shots, most of my shots are just cropped. My photos are from here: Chandler and the Phoenix metropolitan area, Bisbee, Arizona, Chicago, Los Angeles, Squaw Valley, California, Philadelphia, Washington DC, Amsterdam, and Beijing. I’m a Professor of Supply Chain Management at the W.P. Carey School of Business, Arizona State University and also CEO of a small business, Crawdad Technologies, which provides market research software and services. My research interests are in applying complexity science to organizations. My hobbies, besides photos, are music, politics, my family, and my cats. [http://www.flickr.com/people/pagedooley]

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e l a i r o t edi i Galbiat o i s s e l di A

Con il numero di ottobre 2009, arriviamo alla ventesima pubblicazione di Rapporto Confidenziale (diciotto numeri ai quali vanno aggiunti il numerozero e lo speciale Locarno 2008)… Non male tenendo conto delle risorse sulle quali possiamo fare affidamento, le stesse che concorrono a farci compiere ogni mese, da quasi due anni, il miracolo di offrirci ai vostri occhi ed alle vostre teste. Su questo numero trovate (al solito) molte cose differenti l’una dall’altra, c’è un omaggio a Luciano Salce ed al suo capolavoro dimenticato Colpo di Stato (immagino che nelle prossime settimane sarà uno dei termini più abusati dall’isterica, e sull’orlo di una crisi di nervi, (o)scena politica italiana); c’è uno squarcio sul cinema di regime nord coreano (Pulgasari) e su quello italico (Baarìa). Ci sono le Silly Simphonies disneiane e gli incredibili film Bikesploitation, c'è la recensione di un interessante film argentino che vaga in qualche sparuta sala cinematografica fra l’Italia e la Svizzera (Lake Tahoe), ci sono

le relazioni pericolose di suoni ed immagini da leggersi come fossero un cd, ed il resoconto di una rassegna milanese dedicata all’effetto flickering. Ma soprattutto c’è la terza parte dello speciale dedicato al genio dimenticato di Augusto Tretti che, sul finire di settembre, abbiamo avuto il piacere di conoscere di persona e con il quale abbiamo registrato oltre due ore di materiale audiovideo (che contiamo di presentarvi prossimamente). Dunque non vi resta che leggerci e magari fare una donazione… va bene che siamo liberi, va bene che siamo indipendenti, ma un aiuto economico sarebbe in questo momento particolarmente ben accetto. Buona visione.

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brevi

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a cura di Alessio Galbiati e Roberto Rippa

appunti sparsi di immagini in movimento

CINEMA CINESE INDIPENDENTE E CENSURA Nel corso di sei anni, il regista indipendente cinese Zhao Dayong ha trascorso diversi mesi tra gli abitanti di Zhiziluo, un villaggio povero e dimenticato sulle montagne che segnano il confine con il Myanmar. Usando un’attrezzatura semplice e finanziandosi da solo, li ha filmati per quello che poì è diventato “Ghost Town”, documentario di tre ore che rappresenta uno straordinario, ipnotico e intimo ritratto della vita in Cina. Come tutti i registi indipendenti, Zhao Dayong ha lavorato senza la certezza che il suo film avrebbe poi trovato un suo pubblico o addirittura un luogo dove essere proiettato. Poche migliaia di persone lo hanno potuto vedere in Cina, da quando il film è stato terminato lo scorso anno, alcune centinaia ne avranno avuta l’ocasione quando il film è stato presentato al New York Film Festival lo scorso 29 settembre. Ma ciò che rende il film degno di nota anche per chi non l’ha ancora visto, è il fatto che si tratta di un progetto apparentemente illegale. Infatti, il governo cinese ha stabilito che tutti i film prodotti nel Paese devono essere sottoposti alla censura prima di essere presentati al pubblico, compreso il caso di proiezioni in Paesi stranieri. Zhao ha efficacemente sintetizzato il provvedimento spiegando di non avere sottoposto il suo film alla censura in quanto “sarebbe come chiedere di essere violentato”. “Il governo ha certamente un suo ordine del giorno e questo comprende il fermarci” - ha continuato - “Ma allo stesso tempo noi sappiamo che stiamo facendo qualcosa che è denso di significato”. Si tratta questo di uno tra i tanti esempi di giovane cineasta indipendente che sfida le leggi del Paese con l’intento di perseguire i suoi intenti artistici. Mentre il governo ha sempre avuto il controllo sul cinema - dalla produzione alla distribuzione - si fa strada una nuova generazione di registi che è spesso priva di istruzione formale nel cinema e che lavora con mezzi minimi grazie anche alle nuove tecnologie che permettono un allontanamento del cinema dalle restrittive maglie del governo (uno tra i tanti esempi, quello di Ying Liang, il cui primo film Bei yazi de nanhai - Taking Father Home, girato con una videocamera presa in prestito, ha avuto modo di farsi notare in numerosi festival occidentali). Il fenomeno, quantificabile in circa 200 film ogni anno, rappresenta un’occasione di assistere a un ritratto fedele e disincantato della Cina comtemporanea che spesso è introvabile nelle opere di richiamo accettate dalla censura governativa. Con la televisione territorio totalmente inaccessibile alle opere indipendenti, in Cina qualcosa sta pero cambiando: almeno quattro festival dedicati al cinema indipendente e due sale - piccole - in tutto il Paese sembrano dimostrare che il governo preferisce lasciare che questo cinema si muova in un area grigia e indefinita che rimane comunque lontanissima dal grande pubblico. Un modo, forse, per allontanare le accuse di operare una censura politica rigida lasciando che questo cinema rimanga comunque inedito agli occhi del grande pubblico. Che questo possa essere davvero considerato un pur minimo cambiamento appare però dubbio: minacce, messe al bando e inimidazioni sono all’ordine del giorno, soprattutto per coloro che osano fare attraversare le frontiere ai loro film. L’articolo di Kirk Semple “Indie Filmmakers: China’s New Guerrillas” è pubblicato integralmente sul sito del New York Times all’indirizzo: http://www.nytimes.com/2009/09/27/movies/27semp.html Una sintesi è pubblicata su Internazionale (n. 815, 2/8 ottobre 2009).

APERITIVO TARANTINO Quentin Tarantino ha da sempre piegato alle sue esigenze cinematografiche le citazioni di film altrui, spesso trasformando intere scene delle sue opere in omaggi veri e propri. Inglorious Basterds, attualmente sui nostri schermi e di cui scriveremo nel prossimo numero, rappresenta una vera e propria antologia di riferimenti. Ve ne proponiamo alcuni, presi da diversi siti stranieri e da IMDb.com (non solo i più ovvi e dichiarati come The Dirty Dozen di Robert Aldrich, Cross of Iron di Sam Peckinpah o il titolo, storpiatura del titolo inglese di Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari), e vi invitamo a segnalarcene altri. Les vampires (Louis Feuillade, 1915) / The Kid (Charles Chaplin, 1921) / Bronenosets Potyomkin (Sergei M. Eisenstein, 1925) / Die weiße Hölle vom Piz Palü (Arnold Fanck e Georg Wilhelm Pabst, 1929) / Triumph des Willens (Leni Riefenstahl, 1935) / Glückskinder (Paul Martin, 1936) / Cinderella (Pierre Caron, 1937) / Sergeant York (Howard Hawks, 1941) / Die große Liebe (Rolf Hansen, 1942) / L’assassin habite... au 21 (Henri-Georges Clouzot, 1942) / Domino (Roger Richebé, 1943) / Le corbeau (Henri-Georges Clouzot, 1943) / Un chapeau de paille d’Italie (Maurice Cammage, 1944) / The Searchers ( John Ford, 1956) / The Alamo ( John Wayne, 1960) / Paris - When It Sizzles (Richard Quine, 1964) / Un dollaro bucato (Giorgio Ferroni, 1965) / Il ritorno di Ringo (Duccio Tessari, 1965) / La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966) / La resa dei conti (Sergio Sollima, 1966) / Da uomo a uomo (Giulio Petroni, 1967) / Devil’s Angels (Daniel Haller, 1967) / The Dirty Dozen (Robert Aldrich, 1967) / Al di là della legge (Giorgio Stegani, 1968) / Il mercenario (Sergio Corbucci, 1968) / The Wild Bunch (Sam Peckinpah, 1969) / Slaughter ( Jack Starrett, 1972) / White Lightning ( Joseph Sargent, 1973) / Revolver (Sergio Sollima, 1973) / Allonsanfàn (Paolo e Vittorio Taviani, 1974) / Quel maledetto treno blindato (Enz G. Castellari, 1978) / Zulu Dawn (Douglas Hickox, 1979) / Die Sehnsucht der Veronika Voss (Rainer W. Fassbinder, 1982) / Scarface (Brian De Palma, 1983) / Mein Führer - Die wirklich wahrste Wahrheit über Adolf Hitler (Dani Levy, 2007).

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Compiono dai settanta agli ottant’anni ma non li dimostrano. Le Silly Symphonies, a lungo dimenticate dalla critica e riscoperte da meno di vent’anni, rappresentano una delle parti più interessanti dell’intera filmografia disneiana. Si tratta di 73 cortometraggi d’animazione usciti dal 1929 al 1939, nei quali la musica (le “sinfonie pazzerelle”) e la ricerca formale grafico – pittorica non sono più al servizio esclusivo dei personaggi, ma diventano il perno attorno al quale far ruotare la storia.

Narciso rovesciato, Narciso liberato. Immagine di sé e diversità nelle Silly Symphonies di Stefano Andreoli

Le Silly Symphonies rappresentavano per Walt Disney una sorta di compensazione “culturale” ai cartoons delle “stelle di carta” Topolino, Minnie, Paperino, Pluto, Gambadilegno, incentrati esclusivamente sulle gag, sull’azione, cioè sul puro divertimento. Egli voleva, rimanendo saldamente ancorato all’idea di un prodotto fatto per il grande pubblico, riscattare il cartone animato da quel complesso d’inferiorità nei confronti non solo del cinema dal vero, ma in generale delle arti figurative. Intendeva insomma dimostrare che anche i cartoons, al pari di un classico della pittura, sono altrettanto capaci di infondere in un pubblico di massa l’emozione per la bella forma e l’edificazione morale. Si può dire anzi che lo “stile Disney”, in cui la cura maniacale della verosimiglianza al mondo naturale si fonde con la natura antropomorfa degli animali, trovi a livello contenutistico il proprio corrispettivo oggettivo nell’apologo, nel racconto morale, al quale si rifanno quasi tutte le Silly Symphonies. Non a caso i temi più ricorrenti dell’intera serie sono il rapporto tra l’individuo e il gruppo, il concetto di appartenenza/integrazione, l’accettazione della propria immagine e la scoperta di sé, l’handicap e lo svantaggio. Varianti, alla fin fine, di un unico tema, quello della diversità, uno dei tòpoi più ricorrenti del cinema disneiano, che cercheremo di analizzare in questa sede con l’aiuto di anatroccoli, elefanti e tori. Cominciamo mettendo a confronto le due versioni del Brutto anatroccolo, quella in bianco e nero del 1931 e quella in technicolor del 1939, la Silly Symphonies che ha chiuso definitivamente la serie. The Ugly Duckling (1931) Nel pollaio si schiudono le uova della covata: nascono sei pulcini e da ultimo, un anatroccolo nero e spennacchiato al quale la chioccia impedisce da subito di integrarsi con i pulcini. L’azione si sposta poi nel prato per il primo pasto: l’anatroccolo scova un vermicello, ma i pulcini se ne appropriano senza nemmeno condividere il cibo con lui. Poi la chioccia credendo che l’anatroccolo abbia malmenato i pulcini, lo caccerà con un ceffone. Anche gli altri animali si dimostrano nient’affatto solidali: una mucca e un cane lo respingono, una rana appena lo vede si tuffa dentro lo stagno. Disperato comincia a piangere e a questo punto, avviene la svolta. Una tromba d’aria risucchia i pulcini e li scarica nel fiume; l’anatroccolo si tuffa a salvarli. La forte corrente sta trascinando tutti verso la cascata e quando non sembra esserci più scampo, ecco il colpo di fortuna: un piccolo mantice finito nel fiume consentirà all’anatroccolo di vincere la corrente e di restituire i pulcini alla chioccia, che felice, abbraccerà e riconoscerà l’anatroccolo al pari degli altri figlio.

The Ugly Duckling (1939) Vicino allo stagno si schiudono le uova covate da mamma anatra: dal nido usciranno quattro anatroccoli gialli. Mamma e papà anatra si baciano, quand’ecco uscire da un quinto uovo un’altra creatura, che però ha le piume bianche, è più grosso e non starnazza “delicatamente” come gli altri anatroccoli. Scoppia un litigio tra i genitori con accuse reciproche: il padre finisce per andarsene, la madre comincia a occuparsi degli anatroccoli. Il presunto anatroccolo li segue, ma mamma anatra e gli altri anatroccoli lo cacciano. Mentre se va fra gli sterpi, degli uccellini lo invitano a salire nel loro nido, ma la mamma giunta col cibo, lo manderà via credendolo un ladruncolo. Poi nello stagno trova un’altra anatra, che però è di legno e ondeggiando lo picchierà col becco nella testa. Il piccolo è dunque respinto da tutti e si dispera. Ma proprio quando tutto sembra perduto, ecco apparire la sua vera famiglia: dei piccoli cigni con la mamma che lo accoglierà sotto le sue grandi ali. Felice di aver scoperto la sua vera identità, nell’ultima scena si mostra orgogliosamente agli anatroccoli che lo salutano anch’essi felici.

Tralasciamo pure il confronto con la favola di Andersen e concentriamoci sui due protagonisti, il “brutto anatroccolo” (quello del 1931, testa nera con becco lungo, corpo spennacchiato somigliante ad un pollo arrosto) e il “presunto anatroccolo” (quello del 1939, piumaggio bianco, tratti del corpo rotondi e graziosi, becco più corto e maggiormente proporzionato rispetto alla testa). Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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In entrambi l’esclusione (lo “stigma” come direbbe Erving Goffman) si fonda sulla non appartenenza; nel primo caso l’anatroccolo non fa parte dell’ordine dei galliformi, nel secondo caso la discriminazione è addirittura su base familiare, dato che cigni e anatroccoli costituiscono due diverse famiglie dell’ordine degli anseriformi. Comunque, al di là delle distinzioni tassonomiche, il dato di partenza comune ai protagonisti delle due versioni è la negazione dell’identità, proprio nel senso letterale di escludere qualcuno per il semplice fatto di non ritenerlo somaticamente identico agli altri elementi del gruppo di nascita. Altro dato comune – che ritroveremo anche con riferimento al personaggio di Elmer – è la reazione nell’attimo in cui si rispecchiano nel laghetto: come in un Narciso a rovescio, i due anatroccoli anziché innamorarsene inorridiscono di fronte alla propria immagine, non deforme in sé ma resa deforme dalle increspature dell’acqua. C’è però – ed è ciò che li unisce al mito greco – l’attribuire uno statuto di realtà ad un riflesso, che inevitabilmente conduce ad una scissione interiore. L’impossibilità per Narciso di congiungersi, per gli anatroccoli di separarsi, da una copia immateriale scambiata per l’originale “sé stessi”. Diverso invece è il carattere che dimostrano i due anseriformi nell’affrontare il destino avverso. Nella prima versione la svolta è rappresentata da una calamità naturale, grazie alla quale l’anatroccolo ha l’occasione di dimostrare al gruppo: a) di essere coraggioso e disinteressato (senza pensarci due volte e soprattutto dimentico dei torti subiti, si tuffa immediatamente nel fiume per salvare i pulcini) e b) di avere un livello di astuzia e di intelligenza superiori, in grado di risolvere una situazione di emergenza in tempi rapidissimi (l’intuizione di utilizzare il mantice per vincere la corrente e come scialuppa di salvataggio). Il premio sarà la trionfale riammissione, da parte della chioccia, nel gruppo da cui lei stessa lo aveva escluso. Ma quale modello di integrazione sottende la Silly Symphonies del 1931? Non certo un’integrazione su base “identitaria”, poiché come si è visto, l’anatroccolo, oltre a rimanere brutto, rimane anatroccolo: non svela alcuna natura galliforme. Ciò che avviene è il riconoscimento di un ruolo e di una qualità morale: l’anatroccolo viene accolto per acclamazione come un leader, un “uomo della provvidenza” (senza dubbio più Roosevelt che Mussolini), fatto di decisionismo e di nobiltà d’animo. Potremmo definirla un’integrazione di tipo “meritocratico”: ti riconosco un’identità sociale perché te la sei guadagnata sul campo, perché hai dimostrato di avere gli “attributi”! Nella versione del 1939 il presunto anatroccolo è invece un rassegnato, senza particolari slanci. Si sente una vittima senza credere in una possibilità di riscatto sociale. Non è certo un’“uomo della provvidenza”, caso mai al contrario, sembra confidare nella provvidenza, che (può non essere così?) lo ripagherà di tutte le sue sofferenze facendogli incontrare i suoi veri simili (i cigni). Nella sequenza finale gli anatroccoli lo guardano contenti, lui si

gira voltando loro le spalle come se dicesse: “Avete visto?! Ce l’ho fatta anch’io a trovare il mio posto”. Lui è fiero di aver trovato la sua vera famiglia, ma anche gli anatroccoli, dopo averlo trattato in malo modo, sono felici che l’abbia trovata: l’importante – questa sembra essere in controluce la morale del remake del 1939 – è che ognuno stia nel proprio recinto sociale. Contrariamente all’anatroccolo 1931, l’inclusione tra i cigni avviene su base paritaria, senza condizioni, a prescindere dall’aver dimostrato doti particolari. Ma non vi è alcuna forma di integrazione, dato che gli anatroccoli devono stare con gli anatroccoli, i cigni con i cigni. Insomma, la garanzia della pace sociale è la separazione di ogni gruppo/famiglia di animali all’interno della comunità. In altre parole, il brutto anatroccolo ha diritto di cittadinanza per ciò che fa, per aver dimostrato, in quanto diverso, di essere migliore degli altri; potremmo dire: anziché diversamente abile ha dimostrato di essere maggiormente abile. Nel presunto anatroccolo il diritto di cittadinanza gli è concesso per ciò che è, cioè su base identitaria, ed è concesso dai cigni, non dagli anatroccoli: guai infatti, a nascere nel posto sbagliato! In entrambi i casi ne esce sconfitta l’idea di persona, la concezione del cittadino nata dalla Rivoluzione Francese, quale titolare di diritti per il semplice fatto di esistere, indipendentemente dal luogo di nascita e/o dalle proprie abilità. Prendiamo ora in esame un altro aspetto dell’esclusione, quella fondata sul corpo e sull’aspetto fisico: diversità più di tipo freak. Passiamo dagli anseriformi ai pachidermi e mettiamo anche in questo caso a confronto due piccoli elefanti: Elmer (Elmer Elephant, 1936) e Dumbo (Dumbo, 1941), che pur non facendo parte del ciclo delle Silly Symphonies, costituisce una filiazione/evoluzione del personaggio di Elmer. Elmer Elephant (1936) Durante la festa di compleanno della tigrotta Tillie, Elmer riscuote le simpatie della festeggiata per averle regalato dei fiori. Gli altri animali però non gradiscono: sbeffeggiandolo per la lunghezza della proboscide, lo cacciano a calci e spintoni. Affranto, Elmer cerca in tutti i modi di nascondere la proboscide, quando un’anziana giraffa gli fa notare che anche lei viene presa in giro a causa del collo. E anche i pellicani a causa del loro becco. Poi la giraffa nota lo scoppio di un incendio nella casa di Tillie. Elmer si precipita, e con l’aiuto della giraffa e dei pellicani, riuscirà con la tanto vituperata proboscide a spegnere l’incendio e a trarre in salvo la tigrotta, conquistandosi sia l’amata che l’ammirazione degli animali che l’avevano emarginato.

Dumbo (1941) Atteso da tanto tempo, Dumbo l’elefantino dalle orecchie ipertrofiche sulle quali continua a scivolare, rovina involontariamente uno spettacolo mandando all’aria il circo. Riceverà una doppia punizione: l’organizzazione lo declassa al rango di clown, mentre la propria specie lo ripudia per indegnità. Il povero Dumbo, già privato della mamma rinchiusa in gabbia come pazza, fugge dal circo e dopo un lungo sogno, si risveglia sopra il ramo di un albero in compagnia di un gruppo scanzonato di corvi. Con il loro aiuto e del fido topo Timothy, imparerà a volare scoprendo la potenzialità nascosta proprio in quelle orecchie che da fenomeno da baraccone lo faranno diventare la massima attrazione del circo.

La proboscide di Elmer, più che una vera e propria deformità fisica, è il pretesto da parte degli altri animali per attaccare, prima con la derisione poi con la violenza bullistica da branco, l’adolescente timido e provinciale che ha ricevuto un’attenzione in più dalla ragazzina contesa un po’ da

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tutti. L’umiliazione spinge Elmer a tentare di nascondere la proboscide, se potesse la taglierebbe. Poi la prova, è il caso di dirlo, del fuoco che gli farà scoprire in modo pieno il proprio corpo e le proprie potenzialità ridandogli l’autostima perduta. La scoperta di sé è per Elmer semplicemente la scoperta di quello che tutti gli elefanti sanno fare, cioè usare la proboscide. E’ la metafora dello sviluppo della personalità di un adolescente proiettato verso l’età adulta. Come l’anatroccolo del 1931, egli si conquista per via meritocratica il proprio posto nella società (ben inteso per entrambi, senza metterne minimamente in discussione le regole!). Diversamente però dal “collega” anseriforme Elmer scopre, nel mettersi alla prova, di essere semplicemente come gli altri pachidermi, capace cioè di saper sfruttare la proboscide per aspirare e gettare acqua. Dimostra coraggio ma non un acume particolare, è insomma un piccolo-borghese in nuce. Il suo lo potremmo definire il passaggio dalla disabilità alla (passatemi il termine) normabilità.

di Dumbo è innanzitutto prendere coscienza di essere “altro”, di essere dotato di un’irriducibilità sia ai pachidermi che ai volatili. E’ il passaggio dalla disabilità al senso di una diversa abilità. Dumbo si emancipa ma non si omologa, ritorna nel “sistema circo” ma con spirito indipendente. Diventa sì una “star”, ma non l’“uomo della provvidenza”. Al contrario di Elmer e degli anatroccoli – che in ciò li avevamo accomunati a Narciso – Dumbo non crede ad alcuna immagine riflessa, non scopre con orrore di avere delle orecchie grandi da una pozza d’acqua: lo sa già fin dalla nascita e lo sperimenta quotidianamente inciampandovi. La scoperta del proprio potenziale è rivelazione di una soggettività che, in quanto unica e irriducibile, non necessariamente ha bisogno di relazionarsi con gli altri. Dumbo riprende da Narciso il piacere di una soggettività beata, autonoma, non bisognosa d’altro. Un Narciso liberato, però, non più schiavo di quella logica del rispecchiamento che condurrà alla morte il bellissimo giovane per essersi riconosciuto come mero riflesso, riflesso di nessun’altra realtà. Qual è dunque il segno distintivo di Dumbo rispetto agli altri personaggi fin qui esaminati? Per tutti e quattro nascere “diversi” non equivale al percepirsi “diversi”, ognuno istintivamente si sente parte del gruppo in cui è nato; è il gruppo, o chi ne ha la tutela, che li fa sentire “diversi”. In Dumbo però il processo di liberazione è totale perché avviene nel segno sia di una radicale discontinuità/ rottura con la propria specie, sia col “sistema-circo”. Certo vi ritornerà a farne parte, ma d’altra parte Dumbo non è un personaggio che segue un’ideologia, non ha “sovrastrutture”: è semmai, come don Andrea Gallo ha detto di sé stesso, un essere “angelicamente anarchico”.

Il viaggio di formazione sentimentale di Dumbo invece, è più complesso. Innanzitutto egli appartiene ad una “classe” subalterna, nel senso che gli elefanti, come gli altri animali del circo, sono degli sfruttati. Purtroppo però la condizione di sfruttamento non sempre fa nascere in chi vi soggiace, una mentalità libera da pregiudizi nel nome della solidarietà tra esclusi: la falsa coscienza di chi è oppresso senza averlo realizzato porta l’individuo a incanalare la propria rabbia nella direzione non di combattere, ma di riprodurre il sistema oppressivo su qualcun altro più svantaggiato. Come per Elmer, il punto di partenza è rappresentato dall’equazione deformità = disabilità, essere cioè ritenuto dai propri simili non-abile a esibirsi, in un modo considerato in fin dei conti innaturale e umiliante anche dagli stessi elefanti, ma da essi subìto senza contestazioni. Quando Dumbo inciampando sulle orecchie, che pur aveva tentato di nascondere, franerà su tutti gli elefanti provocando con un effetto domino la distruzione del circo, verrà doppiamente punito. La prima sanzione gli deriva dall’“istituzione” circo, che declassa il piccolo pachiderma al rango di clown. Nella gerarchia del circo i clown ricoprono il gradino più basso, poiché far ridere è considerata un’azione deprecabile, roba da bassi istinti, tollerata solo perché funzionale allo spettacolo. Gli stessi clown, privi della facciata di dignità degli elefanti, sono rappresentati come gente senza troppi scrupoli, capaci per denaro di utilizzare Dumbo, che non ha ancora scoperto di saper volare, in un numero molto pericoloso e che in più lo ridicolizza. Da qui deriva la seconda e più bruciante sanzione inflittagli dalla sua stessa “classe”. Gli elefanti anziché cogliere la portata rivoluzionaria del gesto di Dumbo – certamente involontario e non premeditato, ma che aveva comunque colpito al cuore il “sistema” – decidono di disconoscerlo, giudicandolo dopo il numero con i clown, indegno di appartenere agli elefanti: un atteggiamento di totale subalternità ai “padroni del tendone”. Ed ecco la seconda nascita di Dumbo. Dopo la notte in cui è nato, un’altra notte segna il passaggio ad una nuova vita: al termine del sogno (la meravigliosa sequenza a cui pare abbia collaborato Salvador Dalì) si ritrova sopra un ramo e con l’aiuto dei corvi e di Timothy imparerà a volare. A differenza di Elmer, la scoperta di sé non è solo un’“ordinaria” acquisizione di autostima: la “metamorfosi”

Anche il disegno animato con il quale si conclude questo breve viaggio nell’età dell’oro del “mago di Burbank”, ha come protagonista un altro “angelo anarchico”: si tratta del toro Ferdinando (Ferdinand The Bull, 1938). A essere precisi il cortometraggio va annoverato tra gli “Special”, il primo di una serie che la Disney produsse con relativa regolarità fino agli anni Sessanta e poi sempre più saltuariamente fino agli anni Ottanta. Di fatto però Ferdinand The Bull è assimilabile al ciclo delle Silly Symphony e come tale qui lo considereremo senza far troppo caso alle etichette. Nella campagna vicino Madrid, il piccolo Ferdinando anziché giocare alla lotta con gli altri torelli, preferisce starsene seduto ad annusare fiori all’ombra di una vecchia quercia da sughero. Passano gli anni e Ferdinando, cresciuto, conserva inalterata la sua passione. Un giorno arriva un gruppo di impresari decisi a scegliere un toro per la corrida: i coetanei di Ferdinando fanno di tutto per mettersi in mostra ed essere scelti, lui no. Sennonché punto da un’ape, comincia a correre e a saltare come un indemoniato, facendo entusiasmare i cinque uomini. Suo malgrado sarà proprio lui a essere scelto per la corrida nell’arena di Madrid. Presentato come “el toro ferocio”, Ferdinando raggiunge il centro dell’arena e senza la benché minima intenzione di combattere, odora soavemente i fiori lanciati dal pubblico, facendo disperare fino alla pazzia il matador. Ferdinando verrà riportato a casa e all’ombra della sua amata quercia continuerà felice ad annusare i fiori.

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Il soggetto è tratto dal racconto per bambini The Story of Ferdinand (1936), scritto da Munro Leaf e illustrato da Robert Lawson. Ne è anzi una trasposizione così fedele, che se confrontiamo il testo e i disegni in bianconero del libro con il film viene quasi da dire che gli autori della Disney si siano limitati ad aggiungere solo i colori! Il libro esce nove mesi prima dello scoppio della guerra civile spagnola: bollato per il messaggio pacifista, è ferocemente attaccato e poi bandito dai franchisti in Spagna e dai regimi nazifascisti europei. E’ invece uno dei pochi libri, scritti da un non-comunista, ad essere diffuso dai sovietici durante l’occupazione della Polonia. Negli Usa venne anche utilizzato dai sostenitori anti interventisti quando all’indomani dell’attacco di Pearl Harbor, il governo americano decise di entrare in guerra. Rivisto oggi decontestualizzato dalle vicende storiche, Ferdinand The Bull mantiene un’impronta libertaria alquanto inusuale e inusitata nel mondo disneiano. Oltre al messaggio pacifista, è una satira contro il “macho”, l’uomo forte e l’omofobia che molto probabilmente non sarebbe stata prodotta in epoca maccartista, ma che sembra anticipare di trent’anni gli hippie. C’è addirittura una gag che sembra direttamente ispirata da Tex Avery. Dopo la sequenza introduttiva, viene inquadrata la mamma di Ferdinando; la voce off del narratore recita: “… a volte sua madre, che era una vacca, si preoccupava per lui…”. Alla frase “che era una vacca” la mucca si gira, guarda in camera e scampanellando, strabuzza gli occhi; poi senza prendersela troppo si reca dal figlioletto. Audace doppio senso, più unico che raro nella sterminata filmografia disneiana! Tuttavia ciò che colpisce di più in questo corto del ’38 è la filosofia di vita di Ferdinando: rispetto ai personaggi precedenti, egli nasce e cresce senza alcun complesso di inferiorità, anche grazie a una madre che non cerca di cambiarlo, ma vedendolo sereno, lo accetta così com’è. Non cerca un gruppo a cui integrarsi, non cerca occasioni per riscattarsi. E’ come gli piace essere. La sua scelta di felicità è un fatto congenito, istintivo, così naturale che non rinuncerà ad essere sé stesso neanche quando si troverà al centro della corrida. Un Narciso liberato fin dalla nascita, che diversamente da Dumbo non ha neanche più bisogno di una liberazione. *** Bibliografia: • Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, Bompiani, 2005 • Oreste De Fornari, Walt Disney, Editrice Il Castoro, 1995 • Umberto Curi, Il mito di Narciso, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. http://www.emsf.rai.it

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di Alessio Galbiati Luciano Salce nel 1969 da alla luce un’opera bizzarra e sorprendente, un capolavoro maledetto finito nell’oblio della memoria collettiva. Il film si apre con l’espediente (letterario) del documento ritrovato (un prologo della durata complessiva di 4 minuti, che anticipa i titoli di testa e l’inizio del film vero e proprio), come Eco ne Il nome della rosa o Manzoni ne I promessi sposi, il film pone in essere una narrazione incasellata – non è il regista in prima persona a raccontarci una storia, ma sono coloro i quali, venuti in possesso del film, hanno deciso di mostrarcelo. Una voce fuori campo racconta: «Fu nella primavera del 1972, proprio alla vigilia delle grandi elezioni politiche, che si verificarono alcuni misteriosi fenomeni che, collegati tra loro, misero in allarme i servizi segreti di tutto l’occidente», cioè il rapimento di quaranta attori teatrali ed un anomalo furto nella casa del Signor Luciano Salce, «come se fosse gente che si voglia documentare su di me…», dirà egli stesso. «Questo finché la CIA in collaborazione con l’FBI e l’Interpol riuscì a mettere le mani sulla chiave di volta di tutti questi misteriosi avvenimenti», prosegue e chiarisce la voce fuori campo, «Il gioco era ormai chiaro: una grande potenza, infida e lontana, aveva girato un film – realizzato, bisogna ammetterlo, con eccezionale talento – che avrebbe diffuso nel mondo intero un immagine falsa, tendenziosa e qualunquistica, delle nostre elezioni del 1972. Lo scopo? Ma era evidente! Descrivere il caos e la crisi del mondo occidentale di fronte a un ipotetico, quanto assurdo, colpo di stato». Ed il tutto è chiarito senza possibilità di fraintendimenti con una didascalia conclusiva, che proietta la pellicola, e la sua stessa visione, in un tempo futuro rispetto alla sua reale realizzazione: «Questa fantastica, assurda storia realizzata nell’ormai lontano 1972, viene solo ora proiettata in pubblico (in forza di provvedimento n° 751 del 23 febbraio 1979) affinché, in un mondo ormai rasserenato, tutti possano bonariamente e democraticamente sorriderne...».

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Dunque Salce presagiva lucidamente le difficoltà e l’oblio al quale il suo film più maledetto sarà destinato. La storia è la seguente: alle elezioni politiche del 1972 il Partito Comunista Italiano raggiunge la maggioranza assoluta dei voti. Durante la (solita) lunga notte elettorale tutti i gruppi di potere (politico, vaticano, industriale e militare) cercano di muoversi di conseguenza e le due superpotenze che governano il mondo (USA ed URSS) manovrano per gestire la situazione, non prima di aver – entrambi – puntato il proprio arsenale atomico sulla penisola italiana. Sarà un colpo di stato a risolvere la questione, a riportare il paese nel solco del Patto Atlantico, con buona pace dei Sovietici e dei dirigenti del PCI, impreparati ad affrontare il cambiamento ed incapaci di immaginarsi al governo. Sceneggiato dallo stesso Salce con Ennio De Concini (1), Colpo di Stato è senz’altro un divertissement (sia per i realizzatori che per il pubblico), una commedia sperimentale a sfondo politico che racconta di un paese fomentato ad esprimere con il voto la propria volontà democratica che potrà essere assecondata solo ed unicamente se orientata verso il partito di governo, una commedia in cui l’opposizione (comunista) non intende assumersi responsabilità di governo né tanto meno il suo referente sovietico ha la minima voglia di alterare gli equilibri esistenti. Dunque i comunisti vincono le elezioni ma nessuno vuole questo cambiamento ed il voto null’altro è che un rituale, un gioco per un popolo minorenne. Sperimentale dicevo poc’anzi, perché Salce in questa pellicola esplora la giustapposizione di elementi fra loro eterogenei, facendoli esplodere e deflagrare: all’inizio utilizza il linguaggio dell’inchiesta televisiva (è lui stesso il giornalista che interroga varie personalità sulle imminenti elezioni e lui in persona ad essere intervistato dalla tv pubblica, nel prologo, in seguito ad un misterioso furto avvenuto nel suo appartamento), per poi divenire una specie di commedia (atipicamente all’italiana). Al suo interno vi sono passaggi televisivi tout court, immagini di repertorio, imitazioni (De Lorenzo, Saragat, il presidente americano Johnson, Claudio Villa), c’è un coro d’Opera che punteggia la vicenda come fosse un coro della tragedia greca, c’è pure una stanza dei bottoni in pieno stile Stranamore – l’opera kubrickiana era del ’64 – e molto altro ancora. Colpo di Stato è un film sorprendete per tecnica e stile (pur essendo assai povero di mezzi), molto libero e selvaggio sia tecnicamente che per i contenuti espressi dalla sua feroce satira. Lo stile di Salce graffia e si fa beffe in primis del PCI, memorabile la parte conclusiva nella quale i vertici del partito accusano l’establishment di volergli appioppare il governo del Paese per rimediare ad anni di ruberie; poi c’è la critica al conformismo della Rai Tv che, nel mentre affluiscono i risultati elettorali decisamente orientati verso il partito di opposizione, decide da prima di dare spazio ad una sconosciuta ugola d’oro e poi addirittura sceglie di mandare in diretta una sua esibizione fiume con tanto di canti militanti di protesta, inneggianti alle mondine ed alle bandiere rosse. Il conformismo e l’appiattimento sui valori del vincitore di turno, due caratteri persistenti dello spirito italico, sono un bersaglio contro il quale Salce non risparmia alcuna stoccata; inutile dar conto del bersaglio democristiano-vaticano, ampiamente sfruttato dal cinema italiano (e della commedia in particolar modo), qui

assolutamente massacrato senza riserva alcuna (ci sono suore che accompagnano in cabina elettorale anziani talmente malconci da essere praticamente morti da tre giorni!). Sono comunque due i temi fondamentali affrontati dal film: l’inutilità del voto in Italia entro l’assetto bipolare voluto dalle due superpotenze uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale, e la natura invariabilmente d’opposizione del PCI e dei suoi dirigenti (non certo dei suoi militanti). A distanza di 40 anni dalla sua uscita, il film perde inevitabilmente per strada molti dei riferimenti all’attualità: il “bagno di sangue” che i cardinali paventano non appena il PCI avrà raggiunto il potere era una di quelle formule propagandistiche delle forze governative volte ad impaurire i cittadini italiani di fronte all’eventualità di una guida rossa del Paese, come pure la somiglianza di molti dei protagonisti della vicenda con i loro corrispettivi nel mondo reale, ma mantiene immutata la sua godibilità ed arguzia. Il film evidentemente diede fastidio a molti, tanto che rimase nelle sale per due soli giorni, e questo nonostante il fatto che proprio nello stesso anno Salce sbancava il botteghino (due miliardi dell’epoca, che oggi sarebbero – secondo le tabelle ISTAT del valore monetario – una cosa tipo 17 milioni e mezzo di euro!) con Il prof. Dott. Guido Tersilli, primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue; un ottimo esempio del fatto che quando un film urta la suscettibilità del potere (è il caso di Augusto Tretti, ampiamente analizzato sulle pagine di Rapporto Confidenziale) al

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suo autore non viene perdonato nulla, neanche se proprio negli stessi mesi sta facendo incassare palate di soldi ad un produttore (Tersilli fu prodotto da Dino De Laurentiis, mentre il film in questione dalla coraggiosa Vides Cinematografica, autrice di un gran numero di capolavori del cinema italiano) ed il destino del suo lavoro sarà il prendere polvere negli anfratti di un qualche archivio (in questo caso la romana Cineteca Nazionale). Colpo di Stato fu il capostipite di una (micro) serie di commedie “politiche” all’italiana dedicate all’eversione, Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli (1973) ed Attenti a quei P2 di Pier Francesco Pingitore (1983). Il film dopo anni di oblio è tornato a far parlare di sé grazie alla controversa ed epocale rassegna veneziana curata da Marco Giusti e Luca Rea Italian Kings of the B’s - Storia segreta del cinema italiano (2), ma pur non trovando la via del restauro e dall’edizione in DVD, la pellicola da quel momento ha ripreso a vagare per la rete – vera cineteca dell’epoca contemporanea – diventando un assoluto oggetto di (stra)culto (3). «Anche Vogliamo i colonnelli incassò poco, pare che il grande pubblico non ne volesse sapere di questi film, che li sentisse suonar falsi: la vera commedia politica all’italiana già si svolge quotidianamente a Montecitorio, a spese dello Stato (cioè a nostre spese), e la trasmettono tutte le sere in televisione». (4)

Colpo di Stato (Italia/1969)

Regia: Luciano Salce; soggetto: Ennio De Concini; sceneggiatura: Ennio De Concini, Luciano Salce; fotografia: Luciano Trasatti; montaggio: Sergio Montanari; musiche: Gianni Marchetti; art directions: Giulio Cabras; Interpreti: Steffen Zacharias (George Bradis), Amedeo Merli (Giordano), Dimitri Tamarov (il fotografo alla moda), Anna Casalino (Anna Ferretti), Raffaele Triggia (Segretario PCI), James E. Misheler (ambasciatore USA), Alberto Plebani (Presidente della Repubblica), Leo Talamonti (Presidente del Consiglio), Maria Capparelli (compagna di Giordano), Silvano Spadaccino, Luciano Trasatti, Lucio Ardenzi, Gianni Rommi, Attilio Zingarelli, Vlado Stegar, Luciano Salce, Bébert Marboutie, Walter Barnes, Luisa Baratto, Gianni Di Loreto, Giuseppe Ravenna, Giancarlo Tocchi, Riccardo Satta, Orchidea de Santis, Vittorio Ripamonti, Loris Gizzi, Brunello Rondi; produttore: Franco Cristaldi; casa di produzione: Vides Cinematografica; data prima proiezione: 15 marzo 1969; paese: Italia; durata: 105’. Colpo di Stato - naz.: Italia - regia: Luciano Salce - v.c. n. 52918 del 19.12.68 - m. 2769 - ppp: 15/03/69 - c. pr.: Vides Cinematografica di Franco Cristaldi.In Germania Occidentale: Staatsstreich (03.01.75 101’).

Note: (1) Ennio De Concini (1923-2008) è stato fra i più prolifici sceneggiatori del cinema italiano, vinse nel 1963 – insieme a Giannetti e Germi – l’Oscar per la sceneggiatura di Divorzio all’italiana. Autore di oltre centosettanta sceneggiature, sia per il cinema che per la televisione, da L’ebreo errante di Goffredo Alessandrini (1948) a Operazione Appia Antica di Carlo Lizzani (2003), ha firmato alcune delle più celebri pellicole del cinema italiano, oltre al già citato Divorzio all’italiana: Il ferrovie di Pietro Germi (1956), War and Peace di King Vidor (1956), Il grido di Michelangelo Antonioni (1957), Un maledetto imbroglio di Pietro Germi (1959), La maschera del demonio di Mario Bava (1960), Gli ultimi giorni di Pompei di Mario Bonnard (1959), La lunga notte del ‘43 di Florestano Vancini (1960), solo per citarne alcuni. Nello stesso anno di Colpo di Stato, De Concini firma la sceneggiatura di una coproduzione colossal italianasovietica: Krasnaya palatka (La tenda rossa) di Mikhail Kalatozov con Sean Connery, Claudia Cardinale, Hardy Krüger, Peter Finch, Massimo Girotti, il grandissimo Mario Adorf e Nikita Mikhalkov. (2) Italian Kings of the B’s - Storia segreta del cinema italiano, a cura di Marco Giusti e Luca Rea (Venezia 61, 2004), filmografia: I fratelli dinamite di Nino e Toni Pagot (1949), Colpo di Stato di Luciano Salce (1969), W la forca di Nando Cicero (1982), Blindman di Ferdinando Baldi (1972), Orgasmo e Spasmo di Umberto Lenzi (1969), L’aldilà... e tu vivrai nel terrore (1981), Sette note in nero (1977) e Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci (1972), Col cuore in gola di Tinto Brass (1967), Lo strano vizio della signora Wardh di Sergio Martino (1970), La vendetta di Ercole (1960) e I cento cavalieri di Vittorio Cottafavi (1961), Quien sabe? di Damiano Damiani (1967), Estratto dagli archivi segreti della polizia di una capitale europea di Riccardo Freda (1972), Danza Macabra di Antonio Margheriti (1964), La resa dei conti di Sergio Sollima (1966), La guerra di Troia di Giorgio Ferroni (1961), Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari (1977), Colpo rovente di Piero Zuffi (1969), Il dio serpente di Pietro Vivarelli (1970), I ragazzi del massacro (1969), Milano Calibro 9 (1972), La mala ordina (1972), Il boss (1973), I padroni della città (1976) e Avere vent’anni (1979), questi ultimi tutti diretti dal Maestro Fernando Di Leo. Per una più approfondita comprensione della retrospettiva rimando alla bella intervista realizzata da Pierpaolo De Sanctis per CinemAvvenire a Giusti e Rea [http://snipurl.com/s8e25]. (3) Colpo di Stato è stato trasmesso due sole volte in televisione (entrambe nel 1989), in tempi dunque oramai assai remoti: il 13 aprile su Oden TV ed il 17 giugno su Canale5; la sola proiezione “postuma” della copia 35mm custodita presso la Cineteca Nazionale avvenne nel 1996 ad Udine Incontri (“sola” fino all’edizione 61 di Venezia, vedi nota 2). Si veda Pierpaolo De Sanctis, Colpo di Stato. Le elezioni nascoste, CinemaAvvenire (28/8/2004). [http://snipurl.com/s8ica] (4) Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana, Gremese Editore, II edizione, Roma 1995 (pag.85).

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Luciano Salce: la bocca storta del cinema italiano. di Alessio Galbiati

Luciano Salce (Roma, 25 settembre 1922 – Roma, 17 dicembre 1989) aveva la bocca storta (1) e l’aria strafottente, a Roma si direbbe che avesse la fàtta da “fio de ‘na mignotta”, frase bonaria, quasi un complimento espresso con il cinismo tipico di quella romanità ch’egli stesso possedeva, che sottende una sottile intelligenza capace di piegare il conformismo della medietas, dotata di una furbizia animale. La sua era un’arguzia sottile che si è plasmata nell’avanspettacolo italiano e poggiata su solide basi culturali. Nella sua vita è stato regista e sceneggiatore, attore, autore teatrale e di testi di musica leggera. Abbandonò la facoltà di giurisprudenza per seguire la propria passione per il mondo dello spettacolo, diplomandosi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Fece parte della compagnia Teatro dei Gobbi, insieme ad Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, con il quale dal ’45 entrò in RAI, occupandosi di varietà sia televisivi che radiofonici. Il suo esordio dietro la macchina da presa (come attore avvenne nel ’46 con Un americano in vacanza diretto da Luigi Zampa) rende con chiarezza il tipo umano di cui scrivo, Uma Pulga na Balança e Floradas na Serra, furono realizzati al 100% in Brasile, lontano dalla Roma del primo dopoguerra, un esordio atipico e sconosciuto (2). Col primo film italiano, compie immediatamente il capolavoro. Affida, fu il primo, un ruolo drammatico ad Ugo Tognazzi, quello di uno scalcagnato graduato delle Brigate Nere e lo mette su un sidecar, dando alla luce una delle pellicole più sorprendenti del cinema italiano, una delle vette di quel cinema di impegno civile che utilizzavano il linguaggio della commedia entro un contesto neorealista, un film che illumina ancora oggi quegli aspetti più foschi della fine della seconda guerra mondiale. Primo Arcovazzi è un fascista, ma la sua adesione al regime è talmente becera ed cialtronesca da risultare dolcemente terribile e l’ultima sequenza della pellicola, il tentativo di linciaggio del poveretto da parte della folla, il suo sfilarsi la divisa e scivolare fra il popolo rabbioso, rimane indelebilmente impresso nella memoria di chiunque si trovi a vedere quel capolavoro che è Il federale (1961). Esordio felice sia artisticamente che economicamente, fu infatti il primo incasso della stagione ’61-’62 (per capire la distanza che corre fra quell’epoca e la contemporanea è bene ricordare il fatto che nella stagione precedente i film campioni di incassi furono La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli, mica Boldi e De Sica). Nei venti anni successivi firmerà 26 pellicole e 4 film a episodi (oltre all’instancabile attività teatrale e televisiva), commedie campioni di incassi come Vieni avanti cretino, Il prof. Dott. Guido Tersilli, i due primi ed epocali Fantozzi, L’anatra all’arancia, ma pure opere particolarissime come Colpo di Stato, il bellissimo Basta guardarla (forse il miglior film sull’avanspettacolo, di certo il più trasognato), la cupa commedia Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, La pecora nera e La voglia matta (memorabile la battuta «Mussolini? Chi? Il padre del pianista?»). Salce non ha mai goduto della stima dichiarata della critica italiana, il suo cinema fu sempre considerato “di cassetta”, troppo facile, attento soprattutto alla pancia dello spettatore, poco incline al massimalismo tanto di moda all’epoca, ma i suoi film meno facilmente reperibili e senz’altro meno popolari rivelano con la giusta distanza degli anni una forza forse ancora accresciuta; Colpo di Stato e Basta guardarla sono senz’altro opere da (ri)scoprire, per provare a ricollocare un autore nelle memorie collettive degli spettatori. Perché, come ha scritto Andrea Bruni sul suo popolare blog, «non può essere relegato nella fossa comune degli “onesti mestieranti”». «Dopo Il federale, La voglia matta e Le ore dell’amore Salce ha ottenuto la patente d’autore, anche se non ha poi goduto di troppi riconoscimenti critici. La sua è sempre stata una posizione un po’ appartata rispetto agli altri autori della commedia e la sua satira, fatta di osservazioni eleganti e in apparenza svagate non è mai sembrata caricarsi di grandi ambizioni. Eppure Salce possiede un tocco leggero e boulevardier più simile a quello di certi autori francesi e americani che hai suoi compagni di viaggio italiani e una capacità di osservazione dei comportamenti con una lente deformata che richiama le influenze del surrealismo. Tra le sue opere successive da ricordare almeno Ti ho sposato per allegria, La pecora, Colpo di Stato e i due primi film dedicati alla tragica epopea di Fantozzi. A cavallo degli anni settanta i suoi film, come del resto quelli di quasi tutti gli autori della commedia, fanno ricorso a battute grevi e ad assecondare la richiesta di una caduta di tono per rispondere alla domanda di un pubblico dai gusti più facili». Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano (vol.2), Editori Laterza, RomaBari, 2003 (pag. 321). Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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Note: (1) L’uomo dalla bocca storta di Emanuele Salce e Andrea Pergolari (Italia/2009) è un documentario che verrà presentato in anteprima, come evento speciale, alla prossima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma; un dovuto omaggio ad un autore dimenticato, prodotto dalla Baires Produzioni.

- Secondo voi cos’è la libertà? - La libertà è venire da me che sono, mettiamo, capo del governo e dire: “Bonafé è un fetente!”. Lei può fare questo, adesso? - Ma certo. Vado da Mussolini, apro la porta e dico: “Bonafé è un fetente!” Ugo Tognazzi (Primo Arcovazzi) e Georges Wilson (Prof. Bonafé) ne Il federale (1961).

(2) Uma Pulga na Balança è riemerso al pubblico nell’ottobre 2008 all’interno della rassegna dedicata ad Adolfo Celi dalla Fondazione Ente dello Spettacolo nell’ambito del Festival di Roma “L’uomo di Rio: Adolfo Celi e i ragazzi tornati dal Brasile”. Salce condivise la sua parentesi brasiliana col grandissimo Adolfo Celi, amico fidato e sodale di una vita. Sul documentario (che doveva essere una monografia), ma non solo, segnalo la bella intervista a cura di Alessandro Ticozzi, Luciano Salce, un umorista poliedrico e anarchico pubblicata sul mensile Le reti di Dedalus, rivista online del Sindacato Nazionale Scrittori (febbraio 2009). [http://snipurl.com/saf01] *** FILMOGRAFIA CINEMATOGRAFICA: Quelli del casco (1987) > Vediamoci chiaro (1984) > Vieni avanti cretino (1982) > Rag. Arturo De Fanti, bancario - precario (1980) > Riavanti... Marsch! (1979) > episodio Sì buana di Dove vai in vacanza? (1978) > Professor Kranz tedesco di Germania (1978) > Il ...Belpaese (1977) > La presidentessa (1977) > Il secondo tragico Fantozzi (1976) > Fantozzi (1975) > L’anatra all’arancia (1975) > Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno (1974) > Io e lui (1973) > Il sindacalista (1972) > Il provinciale (1971) > Basta guardarla (1970) > Il prof. Dott. Guido Tersilli, primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue (1969) > Colpo di Stato (1969) > La pecora nera (1968) > Ti ho sposato per allegria (1967) > Das gewisse Etwas der Frauen (1966) > El Greco (1966) > episodio Fata Sabina di Le Fate (1966) > Slalom (1965) > episodio La moglie bionda di Oggi, domani, dopodomani (1965) > episodio La Sospirosa di Alta infedeltà (1964) > Le ore dell’amore (1963) > Le monachine (1963) > Le pillole di Ercole (1962) > La cuccagna (1962) > La voglia matta (1962) > Il federale (1961) > Floradas na Serra (1954) > Uma Pulga na Balança (1953). Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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Paparìa lingua di celluloide

cineparole di Ugo Perri

Peppino, poverino, piccolo pastore prescialuro, produceva piccioli poppando pecore per provincia Palermo. Peppino, prestigioso, produceva pellicole politicamente puerili, popolate promuovendo personaggi prestigiosi, prodotte profondendo pecunie pubbliche, proiettate per pregio populista. Praticamente puttanate. Pragmatica posizione paracula presentare popoli periferici politicizzando, parafrasando, prendendo plausi per presunta prestazione professionale poco passabile. Poco passando per pezzi permane prezioso. Peppino procede ponderando, passano periodi pensosi, poche possibilità. Politica professata prende piede privandolo possibilità produrre, prostrandolo, prolificandogli parole palato provvido. Piaciuta Peppina, prende possesso producendo prole. Panza piena, poca produzione portano Peppino partenza per Pirenei. Poco passa Peppino presentasi panzuto, pagato, pronto panciolla, pigiama, poltrona, producendo più prole. Perde politicamente, panza prominente pregiudica postura. Piace poco pellicola pacchiana prodotta probabilmente per placitare pessime passioni, per prendere premi prestigiosi, per prendere perculo pubblico poco preparato, preda passioni plateali, piccoli pagliericci polverizzati. Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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Baarìa.

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Cattedrale nel deserto. di Ivan Talarico.

Più che un film Baaria è un’ignobile piazzata. Sono andato a vederlo già disamorato, ma certo non mi aspettavo di uscire con un tale fastidio. Il film vorrebbe raccontare attraverso tre generazioni della famiglia di Peppino, una parte di storia italiana, fingendo di interessarsi alla politica e alle tradizioni della terra siciliana, di Baaria (antico nome fenicio della città di Bagheria). Ma - in maniera sorprendente e imbarazzante - non c’è nulla. Un deserto desolante di idee, una vetrina rococò di volti famosi, un’estetica da spot pubblicitario ipersatura e mai rilassata, che non si concede mai al racconto ma vuole solo dimostrare presunte abilità. Cosa si vede nel film? Attori e comparse, a centinaia, sovrapporsi come formiche sullo schermo e nella traccia audio disordinata e caotica, fatti ed eventi trattati senza gravità: abbozzati, fluttuanti e vani, nessun interesse storico o antropologico. Non c’è sapore di antico: Bagheria è finta (infatti, tralaltro, è Tunisia), gli attori sono finti, il racconto è finto. Per quanto riguarda la trama, la storia è sviluppata con ardite tecniche narrative che inanellano una serie di buchi nell’acqua clamorosi. Dai salti temporali improvvisi (Peppino cresce e vive senza motivo, non ci sono vicende notevoli alla base di questo percorso) alla trovata di racchiudere tutta la scena in un “sogno-viaggio che al risveglio lascia in un presente caotico incrociato al passato ancora non esaurito nel racconto, residuale di scaglie di eventi mai esistiti” (descrivendolo a parole sembra complesso, ma vedendo il film diventa magicamente superficiale). Sembra che raccontare sia l’occasione di mostrare qualcosa. Ma cosa? “La Società Cooperativa Attori Rinomati Statali Italiani, chiede, a fronte di una stretta delle Cinghie Statali, al promettente Peppino Tornatore di girare un colossal che dia ben lustro a tali facciazze belle nostre, per essere presentabili all’Oscar e ricevere scritture e dinari dallo zio d’America”. Mi diceva il mio amico Salvo, attore catanese in cerca di scritture: “minchia, sulu a mia non mi chiamaru”. E infatti solo lui non è stato chiamato. Tutti gli altri ci sono. Le interpretazioni sono spesso inutili camei, sui quali però la regia indugia con aria di compiacimento (“guarda un po’ chi c’è, guardalo bene, soffermati un po’, hai capito chi è..?”. Fiore all’occhiello un Beppe Fiorello che va oltre l’inutile: “Tornatore, anche se non hai un ruolo piazzalo dove ti pare”. Più che tormentone la sua figura di venditore di dollari diventa un tormento in piena regola. Imbarazza che questo film rappresenti l’Italia. E’ un film di macchiette, stereotipi, cliché, che non riesce ad approfondire nulla e rimane su una traccia di vaga farsa napoletana anche nei momenti più drammatici, trattando con sciatteria (e non leggerezza o umorismo) guerra, morti, mafia, politica etc. etc. E non riesce a dimostrare neppure (se questa fosse stata l’intenzione) che l’Italia è un paese sciatto, vittima di macchiette, stereotipi e cliché. Semplicemente racconta una storia, per quanto inutile possa

essere sia la storia che raccontarla. Non c’è un vero percorso ideologico o politico. La politica è men che un teatrino di pupi, i cui personaggi sono luoghi comuni: il fascista, il comunista, il bracciante, la lotta, il comizio... La storia del comunista Peppino non esiste realmente. Non c’è comunismo, non c’è Peppino. C’è solo Francesco Scianna (il protagonista) che si atteggia a uomo di sinistra. Tutto nel film sembra venire da pensieri superficiali, non da qualcosa di profondo. Non è una ricerca lucida che vuole evitare il pathos, sembra proprio incapacità nello stabilire un punto di contatto o di interesse tra chi racconta e chi guarda. Spero sia stata una mia perversione il voler leggere un accenno a C’era una volta in America nel momento del ritorno di Peppino da un non determinabile periodo in Francia: il ritorno non sa di ritorno e nonostante la musica languida non si avverte che il protagonista è mancato nel film. Si ha l’impressione che fosse in pausa sigaretta nelle due scene precedenti. La fotografia è poco profonda e carica di proiettori gialli finti e fastidiosi, Ennio Morricone si atteggia a copista annacquato del suo passato (non c’è un attimo senza musica e il respiro dello spettatore diventa affanno) il doppiaggio senza labiale rende tutto più finto, l’audio (forse dove l’ho visto io, al Barberini di Roma) è piatto, confuso e irrimediabilmente poco realistico. Per finire grandemente: gli effetti speciali... L’ipotesi è che a Tornatore piaccia il digitale in quanto finto, d’altronde è finto tutto il film, perché proprio l’effettista speciale dovrebbe rincorrere la verità? Partendo dalla scena iniziale in cui il bambino (evidentemente vittima del chroma key) corre staccandosi dal suolo e inizia a volare sulla città (scena retorica oltre ogni limite) si arriva con sgomento al brillìo di una bigiotteria poco prima della fine, con una stella di luce stampata sull’anello palesemente finta e senza imbarazzi. Vedere questo film è brutto, analizzarlo tecnicamente non lo aiuta. Fare un bilancio finale, considerando anche i costi mastodontici (25 milioni circa d’euro) annichilisce e svilisce qualsiasi desiderio di torna(to)re al cinema in breve tempo. Ivan Talarico è co-fondatore e lavora nella produzione indipendente DoppioSenso Unico http://www.doppiosensouni.com

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Terza parte dello speciale che Rapporto Confidenziale dedica ad Augusto Tretti. RCSPECIALE

AUGUSTO TRETTI

o dell’anarchica innocenza di un irregolare del cinema italiano a cura di Alessio Galbiati e Roberto Rippa

PRIMA PARTE [numero16, luglio/agosto 2009] pag. 14

• Augusto Tretti di Stefano Andreoli pag.15 • Il potere di Samuele Lanzarotti pag.20 • Il potere. La critica (ufficiale). Con le recensioni di Ugo Casiraghi, Ennio Flaiano

Augusto Tretti

o dell’anarchica innocenza di un irregolare del cinema italiano.

e Alberto Moravia pag.22 • Filmografia pag.24

SECONDA PARTE [numero17, settembre 2009] pag. 14

• La legge della tromba di Alessio Galbiati. pag. 17 • Alcuni giudizi sul film La legge della tromba. pag.21 • Filmografia sintetica . pag.23 • Resistenza e cinema: Augusto Tretti racconta di Lorisa Andreoli. pag.24

a cura di Alessio Galbiati e Roberto Rippa

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Uno psichiatra, un sociologo, un antropologo ed uno psicologo dissertano fra loro per un’inchiesta televisiva dedicata al problema della alcolismo. Ci vengono così mostrare una serie di storie esemplari che illustrano l’ampiezza del problema. Francesco è un giovane della provincia veneta che vive un’esistenza ordinaria, cambia spesso professione, prima trasportatore di bibite, poi di gas ed infine muratore. All’inizio beve in maniera innocente, alza il gomito spesso ma è convinto che “faccia sangue” ma in breve precipita nell’alcolismo, finirà in preda al delirium tremens. Una casalinga frustrata beve per perché sedotta dalle incessanti campagne pubblicitarie, i camionisti lo fanno perché questi spot gli spiegano che “bere tiene svegli”, un attore sul viale del tramonto beve per non sentire il peso del suo declino, i preti perché lo impone il sacramento, i giovani borghesi lo fanno per noia, gli alpini per ricordare i vecchi tempi andati ed onorare le tradizioni del proprio corpo militare. Francesco alla fine morirà di cirrosi epatica perché il suo capocantiere ritiene che se gli operai bevono, lavorano di più. Mentre la troupe smobilita, il regista viene avvicinato da un malfermo ubriaco: «Con tutti i problemi che ci sono in Italia, la crisi economica, la bilancia dei pagamenti, tu te la prendi con un bicchiere di vino e ci fai sopra un film. Un venduto sei, alla coca-cola e al chinotto.» regia, soggetto, sceneggiatura: Augusto Tretti fotografia (colore e b/n): Ubaldo Marelli montaggio: Iolanda Adamo musica: Eugenia Tretti Manzoni consulenza: Prof. Dario De Martis (Direttore dell’Istituto Psichiatrico di Pavia) interpreti: Mario Grazioni (Francesco) e attori non professionisti produzione: Augusto Tretti per l’Amministrazione Provinciale di Milano anteprima: 20 marzo 1980, Sala congressi di via Corridoni a Milano anno: 1980 35mm durata: 100’ Naz.: Italia - v.c. n. 75483 del 19.09.80 - m. 2698 - ppp: 05/10/80 - c. pr.: Augusto Tretti Produzioni Cinematografiche, Lazise (VR) - contributo: Provincia di Milano. È possibile vedere via YouTube quattro estratti del film: Spacciatori http://www.youtube.com/watch?v=zf2BwEEwGnw Delirium Tremens http://www.youtube.com/watch?v=n6L72qOEma4 Il vino http://www.youtube.com/watch?v=Mwo1CVMK0ZQ Una droga chiamata alcool http://www.youtube.com/watch?v=9kuE28xe4sM

Alcool

di Alessio Galbiati e Roberto Rippa

Alcool è un film girato su commissione ma non per questo Augusto Tretti ne è insoddisfatto: «Certo, avessi potuto avrei girato altro, non film commerciali che mi ripugnano, ma altro». Il film venne girato quando già Tretti era inattivo da tempo a causa dell’impossibilità di trovare un produttore pronto a finanziare un suo progetto, e ciò nonostante le numerose e prestigiose attestazioni di colleghi e non, alcuni tra i quali si erano addirittura prodigati nel tentare di convincere i produttori a finanziare un suo progetto (ad esempio l’amico Fellini si prodigò con Rizzoli, ma nemmeno la parole del più grande regista italiano riuscì a scalfire il muro di gomma dentro il quale Tretti rimane imprigionato). «Non avrei mai immaginato che una Provincia mi chiedesse di girare un film, ma l’assessore era una donna di sinistra- una sinistra aperta e democratica – e, si sa, le donne fanno sempre la differenza, tanto che questa mi aveva invitato a non farmi alcuno scrupolo nell’attaccare il Partito Comunista». Alle prese con un progetto lontano dalle sue corde, Tretti afferma di non avere affrontato il progetto in modo sereno: «All’inizio ero preoccupato, io funziono meglio con il grottesco, con la comicità, ma alla fine il film mi ha dato diverse soddisfazioni». Non ultima, quella di essere apprezzato dal fondatore della psicoanalisi italiana: «Musatti vide il film per ben due volte a Milano, se non ricordo male, e poi organizzò una proiezione a Sirmione erano i primi anni ’80 - alla presenza di cinquecento e più medici, che apprezzarono da par loro il film». Tretti non aveva voluto conoscere veri alcolisti per scrivere il suo film, basò la sua ricerca su libri e consulenze scientifiche; rifuggì il cinema-inchiesta a tal punto da fargli ricostruire interamente in studio l’ospedale che si vede nel film. In tal modo, pur essendo un progetto su “commissione”, Alcool mantiene libera la creatività di Tretti e si configura come un episodio bizzarro, sia per la sua filmografia che per il cinema italiano (fu infatti il primo film finanziato da un ente locale), ma non per questo minore e impersonale; Alcool contiene molte delle marche autorali che contraddistinguono il cinema di Augusto Tretti, quelle stesse che lo rendono unico ed irripetibile. (I virgolettati provengono da una conversazione telefonica con Augusto Tretti, realizzata in data 17 settembre 2009) «Nell’Italia del Nord i ricoverati in ospedali psichiatrici per causa dell’alcol sfiorano il 50 per cento. Eppure, si continua a parlare di droga e ad ignorare quasi l’alcolismo che è la droga più diffusa e letale. […] L’alcolismo è un fenomeno terribile, che non appare nelle statiche nella sua reale dimensione, e le sue vittime appartengono tutte, tranne qualche eccezione, alle classi subalterne; è gente che non è legittimata a superare nulla, che dalla vita non ha soddisfazioni e che dal futuro non può aspettarsi un’esistenza che lo riscatti. In questo senso il mio è un film politico, perché informa, senza ricorrere a una qualsiasi ideologia che ridurrebbe il problema, che anche questa piaga sta nel conto del rapporto di forza fra chi ha il potere e chi non l’ha, fra chi usa lo droga e chi, invece, ne viene usato». Augusto Tretti, Corriere d’informazione, 22 marzo 1980.

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MILANO finanziato e prodotto un lungometraggio per prevenire gli abusi nel bere

Alcool è il più spiritoso film di Augusto Tretti. Finalmente l’ente locale si accorge di poter essere un

produttore alternativo: l’unico cinema che vale, oggi, è fatto fuori Roma. di g. d.

La Repubblica, 22 marzo 1980

la critica (ufficiale)

Alcool

(Italia/1980)

Augusto Tretti, di Lazise (Verone), professione allevatore, cineasta per hobby nel 1961 (La legge della tromba), e nel 1970 (Il potere), temperamento caustico e beffardo, più burlesco che satirico, osservatore della realtà compunto, rispettoso e ossequiente fino al momento in cui, messosi ben dentro una situazione realistica, la riespone con il sarcasmo del subalterno insofferente, del moralista accanito e del galantuomo offeso, si è visto affidare dalla Provincia di Milano più o meno un anno fa, la realizzazione di un film che metta in guardia gli italiani contro l’eccessivo consumo di bevande alcoliche. Un’idea civile e civica alla Alberto Bertuzzi, almeno sulla carta. Ne è uscito un film di poco meno di due ore presentato l’altra sera nella Sala dei congressi in via Corridoni. Il miglior film di Tretti, finora indeciso fra la sua clownerie dilettantesca del suo primo approccio col cinema e la satira politica sospesa fra Longanesi e Maccari, del secondo. Alcool è un vero film a soggetto un intersecarsi di alcuni episodi tenuti assieme da brevi dialoghi di raccordo di un gruppo di tecnici che dissertano sulla sociologia dell’alcol e conclusi o da brevi didascalie statistiche riassuntive che generalizzano una situazione di per sé casuale, o dal brusco arresto dell’inquadratura su altre situazioni, eloquenti in se stesse. Quel che conta è il rivelarsi di Tretti come un tenace e puntiglioso osservatore di una vita quotidiana che invano da anni, anzi da decenni, cerchiamo nei film fatti da quelli di Roma. Dalla giornata di una casalinga ossessionata dalla solitudine elettrodomestica a quella di un padre di famiglia che porta a casa il salario consegnando e installando bombole a gas, a una festa contadina che vede la campagna come un mondo grottesco e lugubre di sfruttati, ignoranti, vinti, a un raduno di reduci che si trasforma in sbronza collettiva; a uno scorcio breve ma impagabile d’un cinema d’essai, Tretti inonda lo schermo di descrizioni, ritrattini, schizzi, allusioni, con una vitalità e comprensione umana perfino inedita in lui, finora dilettante spiritoso più incline al gioca scettico che al ragionare prendendo sul serio la società e i suoi problemi. Certamente, è un uomo non più giovanissimo che ha fatto soltanto tre film, e la sua ispirazione è eclettica per natura, non sempre paziente nel rifinire, a volte indulgente alla battuta, qua e la un po’ lenta e apatica nel costruire. Ma forse è meglio così, nel cinema italiano d’oggi, ridotto a discutere seriamente, sulle terze pagine dei quotidiani, un’ignobile patacca come La terrazza di Ettore Scola, non c’è bisogno di tecnica quanto di vitalità e diversità, di Ratataplan e di Alcool, di Olmi e Bellocchio, insomma, di vento del nord. Tretti, poi l’occasione di dare il suo talento comico la trova negli sketches dedicati alla pubblicità televisiva: autentiche perle. Alle quali va aggiunta la tirata finale, in veneto, autoironica, verso l’autore e i suoi committenti, che finisce per dare anche più senso didascalico al film e alle sue intenzioni: far conoscere come e perché, spesso, nella vita si finisce per bere troppo. La Provincia di Milano ha fatto decisamente una buona cosa, che va al di là, si vuol sperare, di questo episodio. C’è tutto un discorso aperto sul cinema degli enti locali che riguarda produzione, distribuzione, acquisto o affitto di sale. Se non si vuole andare a fondo, qui conviene far presto. La distensione di un paese che si sta spaccando in due passa per il decentramento, un decentramento reale e fattivo, di uomini e opere.

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Alcolismo

E dallo schermo l’eroe grottesco disse: «Prosit!». Tempo Medico n. 181, aprile 1980 Una casalinga si aggira per camere e servizi, facendo neghittosamente le pulizie. Il marito è sempre via, l’unico affetto è il canarino Lillì. Ogni tanto va in cucina e manda giù un cicchetto: un amaro, un po’ di marsala all’uovo, un po’ di vino rosso. Tre camionisti al tavolo della trattoria. Discutono. Qual è il miglior modo per non farsi cogliere dal sonno durante le lunghe sgroppate notturne sulle strade e autostrade d’Italia? Tracannare un bel po’ di grappa, che diamine. La grappa è pura, fa bene. Anche se talvolta ha un odore un po’ fastidioso. Un attore sente il peso degli anni e delle rughe. Perde terreno. Per darsi un tono e per darsi il coraggio si gingilla fra le mani il bicchiere di whisky. Servirà a ridargli il successo? Macché. Solo a negargli la virilità e ad aumentare la sua tendenza alle scenate di gelosia. Sono tre momenti del film Alcool, diretto dal regista Augusto Tretti e prodotto dalla Provincia di Milano. La piaga dell’alcolismo è grave, in Italia, e pochi fino a oggi erano stati i tecnici, i politici e gli addetti alle comunicazioni di massa che si fossero presi la briga di denunciarla. È noto quali resistenze di ordine culturale (un bicchiere di vino è sempre ben visto, nella cultura mediterranea, almeno da tremila anni a questa parte) e soprattutto di ordine economico ostacolino una denuncia vigorosa dei rischi dell’alcolismo e una campagna che tenda a combatterlo. Oggi le cose vanno forse un po’ meglio, la coscienza del problema pare si diffonda, ed ecco un ente pubblico, appunto la Provincia di Milano, ha avuto la sensibilità di parlare dell’alcolismo per mezzo di uno strumento efficace come è il film. Motivo conduttore della trama è la vicenda di Francesco, un giovanotto che sbarca il lunario per sé e per i tre figli (la moglie fa il lavoro nero) trasportando bibite, sia a privati sia a baristi. Francesco ha il vizio del bere. Non si dà ai liquori: preferisce il vinello bianco, «quello che disseta». Non ha il sospetto di avviarsi sulla strada dell’etilismo, e si convince che il «vino è un alimento, e chi lavora deve sostentarsi». Invece accade che la sua ubriachezza diventi cronica, e che gli faccia perdere un posto dopo l’altro, fino a ridurlo in un letto d’ospedale in preda al delirium tremens. Ma attorno alla vicenda di Francesco se ne intersecano altre: quelle già descritte dalla casalinga, dell’attore e dei camionisti, e quella di alcuni giovani della borghesia-bene che a una festicciola «fanno il pieno» (e uno finisce per schiantarsi con la macchina). Né manca la descrizione di alcuni dei luoghi canonici di una buona bevuta: una festa campagnola per la prima comunione di una bambinella (e scorrono fiumi di Recioto), e un raduno di alpini ex combattenti (e arrivano le mogli per recuperare gli sbronzi con la carriola). A collegare gli episodi, e a commentarli dal punto di vista della scienza e della sociologia, sono chiamati quattro personaggi che incarnano gli intellettuali, gli studiosi. Questi passeggiano su e giù per un molo battuto dalle onde, e discorrono l’un con l’altro spiegando quello che dell’alcolismo non poteva essere detto con le immagini. Come si vede, il regista ha intelligentemente strutturato il film sulle situazioni tipiche e sui luoghi comuni, ottenendo lo scopo di demistificarli grazie alla carica corrosiva con la quali li ha messi in scena. Peraltro va detto che i personaggi non sono mai visti con occhio impietoso e accusatorio, anzi. A differenza di quanto fa l’uomo della strada, che tende virtuosamente a scansare e a disprezzare, l’ «ubriacone», il regista descrive i suoi personaggi come vittime di una situazione sociale e storica, come esseri umani che proprio in quanto tali si dimostrano degni di comprensione e di aiuto. Al punto che taluno ha anche avanzato il dubbio se il film, dal punto di vista della propaganda dissuasiva nei confronti della dipsomania, sia un’arma davvero affilata. Ma certo il dubbio, di per se legittimo, va respinto: il film ha infatti il prestigio di lasciare aperta la discussione, di non essere insomma manicheo: di fungere da stimolo e da «sasso nello stagno», evitando le approssimazioni e la ristrettezza mentale di una presa di posizione esclusivamente accusatoria.

Regista del film, come si è detto, è Augusto Tretti. Veronese, cinquantaseienne, Tretti è un idolo dei frequentatori dei cineclub, mentre è quasi sconosciuto al pubblico più vasto. Nel 1959 presentò La legge della tromba, nel 1971 Il potere. La sua produzione cinematografica si arresta qui: è un regista talmente geloso della sua indipendenza e della sua libertà creativa da essere guardato con gran sospetto dai produttori. Né i due film citati ebbero incassi tali da farlo accettare comunque, maledetto ma apportatore di guadagno. La legge della tromba era una bislacca e affascinante fantasmagoria comica, in cui venivano messi in ridicolo il militarismo, l’arroganza dei potenti, una classe imprenditoriale dedita ciecamente al solo arricchimento. Protagonista era la vecchia cuoca del regista (!) che sosteneva cinque o sei parti diverse, truccata per lo più da uomo. Il potere fu messo in cantiere subito dopo, ma la casa produttrice fece fallimento e Tretti si trovò a dover terminar il film senza mezzi, solo accompagnato dalle sincere lodi e dalle raccomandazioni dei più bei nomi del cinema italiano, da Antonioni a Fellini. Fu proprio Antonioni a presentare a Tretti il produttore che, dopo otto anni, raggranellò abbastanza soldi da girare le scene finali. Anche Il potere era un film originale: in diversi episodi, ambientati ognuno in un’epoca diversa della storia (fra gli uomini delle caverne, nella Roma dei Gracchi, nel Far West, durante il fascismo, eccetera...) veniva mostrato come il potere si era costituito e come si era imposto ai sudditi. Un tema serio, come si vede, ma narrato con lo stile del teatro dei burattini. Lo stile di Tretti era assai personale, e tale resta anche in Alcool. Maestro del grottesco (un grottesco assai più sulfureo di quello dell’abituale “commedia all’italiana”), Tretti ha sempre lottato contro le strutture condizionanti del consumismo, a cominciare dalla pubblicità, e ha sempre avuto un debole per i popolani, per i contadini, per i poveri. In Alcool vi sono tre o quattro parodie di sketch pubblicitari (per liquori) che sono un vero spasso, fulminanti e scorticanti come le più belle battute di Woody Allen; e si intende bene che la simpatia del regista è tutta dalla parte dei suoi popolani (a cominciare dal protagonista), che s’ingozzano di vino per debolezza, non per vizio. Una caratteristica interessante del film è che i personaggi che compaiono sullo schermo sono interpretati da attori non professionisti, o “presi dalla strada”, come si usa dire. Tretti ha un occhio speciale per scegliere il “tipo” giusto e caratteristico. Coloro poi che devono dare volto agli etilisti, qui sono spesso degli etilisti autentici, e la loro presenza risulta per questo ancora più efficace e sofferta. “Più di una volta - afferma il regista - il protagonista del film, Francesco (che nella realtà si chiama Marino Grazioni) è venuto a dirmi: “Ma ho proprio la faccia dell’ubriacone, vero? Devo cercare di togliermi questo vizio”. Io ho fatto di tutto per aiutarlo, mi raccomandavo con la troupe che non gli dessero mai del vino, ma caffè, spremute d’arancia. Per un po’ andava bene, poi ce lo vedevamo arrivare ubriaco fradicio”. Alcool è stato presentato alla stampa, e la Provincia di Milano si appresta ora a distribuirlo. Dove? Nelle scuole, nelle biblioteche, ma anche nelle normali sale cinematografiche; forse sarà trasmesso anche alla televisione. Non è facile predire quale sarà l’effetto del film sul pubblico. (Sulla correttezza scientifica non vi sono dubbi: ha funto da consulente il professor Dario de Martis, direttore dell’Istituto psichiatrico di Pavia). Tuttavia almeno una cosa è certa: Tretti era senz’altro l’uomo giusto, con quel suo stile e quel suo tono autenticamente popolare, per diffondere ampiamente un messaggio sull’alcolismo anche presso gli strati più poveri della popolazione.

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La casalinga solitaria e il suo «Alcool» di Tretti a «goccetto». Controcampo e contro tutti. Perché l’insolito film del cineasta veronese parteciperà alla Biennale-cinema

di Anna Del Bo Boffino Amica, aprile 1980

«Un goccio di amaro per digerire quel che ho mangiato ieri sera: ce l’ho tutto sullo stomaco» dice la casalinga in faccende, di prima mattina. Poi c’è da passare lo straccio, girare per casa con le «pattine» (è un termine lombardo: si dice così anche nelle altre regioni?), cioè i feltri che lucidano se si cammina con passo strisciato. C’è roba da mettere in lavatrice, la pattumiera da vuotare. Un momento di respiro: si apre la Tv e appare un signore sul bordo di una piscina, circondato da belle ragazze in bikini. Ha ragione lui: che c’è di meglio per tirarsi su, nutrirsi, anche, se si ha un po’ di esaurimento, che un bicchierino di marsala? E la casalinga, costretta a parlare con l’uccellino in gabbia, a dargli la sua lattughina fresca, ad ascoltare il suo gorgheggio, perché non c’è un’anima per tutto il giorno con cui scambiare due parole in quella casa che è tutta da lucidare, si scola un altro bicchierino. Poi c’è da passare lo scopino nella tazza del wc, da spolverare mobili e soprammobili e finalmente suona il campanello: è il postino che porta una raccomandata, e lei fa di tutto per attaccare bottone e lo invita a bersi qualcosa in compagnia. Ma il giovanotto ha da fare, lei è una signora sulla quarantina, con in testa un fazzoletto per non sporcarsi la messainpiega, addosso un vestito-grembiule proprio modesto: che voglia dovrebbe avere di mettersi a chiacchierare con lei? E la casalinga, per dimenticare, si fa un altro bicchierino. Per due minuti seduta sul suo divano nel salotto buono, proprio come una signora, può guardare in Tv un incontro tra un bel giovane e una bella ragazza, e immaginarsi al suo posto. Viene l’uomo delle bombole del gas: quello sì che il goccetto di bianco se lo beve con piacere; e fa anche le due chiacchiere perché di bianchini se n’è già scolati cinque o sei, e gli hanno sciolto la lingua. Lui, l’uomo delle bombole è il filo conduttore di tutto il film Alcool, che il regista Augusto Tretti ha girato per la Provincia di Milano: alla quale bisogna essere grati per l’intelligente iniziativa. L’operaio, che anche nella vita ha vissuto il dramma dell’alcoolismo, va di casa in casa e capita alla festa della prima comunione di una bambina di campagna, dove tutti bevono convinti che il vino fa buon sangue; alla festa degli alpini dove un cavaliere di Vittorio Veneto ricorda la grappa che davano alla truppa prima dell’attacco alla baionetta (c’è tanta differenza fra quella grappa e la droga che davano ai soldati americani in Vietnam?); nella casa dell’attore sul viale del tramonto che beve per reggere; alla «festa» dei ragazzi che, via i genitori, si insediano nel ricco soggiorno e si scolano le bottiglie di superalcoolici del bar di casa. Povero omino. Licenziato perché sempre sbronzo, insolentito dalla moglie e dai figli che non sa mantenere, finisce manovale e beve. Finché lo ricoverano in ospedale, col suo delirium tremens che gli fa vedere scorpioni e bisce nel letto (una vera e propria crisi di astinenza?). Alcool: ovvero la droga a portata di tutti, la droga buona, distillato dei frutti della nostra terra generosa e solatia che fa di quattro milioni di italiani altrettanti alcoolizzati. Le morti per cirrosi epatica sono aumentate del 76 per cento, i ricoveri negli ospedali psichiatrici del Nord per il 50 per cento sono di alcoolisti; le donne di mezza età alcoolizzate sono aumentate del 300 per cento, gli uomini al di sotto dei 29 anni del 297 per cento. L’innocua storia della casalinga che striscia sulle pattine è davvero troppo diffusa dappertutto. Il film: è così vero, con tutti i suoi luoghi comuni così ben piazzati, evidenti, parlanti, che si rimane accecati da tanta capacità di comunicazione. Il quotidiano di ognuno di noi appare segnato dalla maschera del grottesco: le facce della casalinga, del fattorino, del prete, dell’attore, della bella ragazza, dell’alpino, dei ragazzi-bene sono davvero, per una volta, senza cerone sulla pelle e senza lo smalto dei personaggi; nessuno di loro è un attore professionista, e si vede. Così, a parte l’intento pedagogico dell’opera, c’è da rimanere ammirati delle sue qualità cinematografiche.

A colloquio con il regista – Una pellicola didattica – Il problema della distribuzione e la speranza delle «dieci copie» di Alberto Crespi L’Unità, 27 agosto 1980

«È stata una specie di lotta. Sono usciti i programmi su tutti i giornali e del film non si parlava mai Mi stava quasi passando la voglia, ma poi ho pensato che dovevo andarci per la Provincia, che ha fatto così un bel lavoro…». È Augusto Tretti che parla del suo ultimo film, Alcool, prodotto dall’Amministrazione provinciale di Milano, che si sta preparando a partecipare al Festival di Venezia, nella sezione «Controcampo». È un ritorno, perché Tretti era stato a Venezia già nel ’71 con Il potere. Cosa ne pensa, adesso, di questa nuova Biennale, del ritorno dei Leoni e di tutto il resto?... «Ai premi sono contrario, assolutamente. E mi meraviglia che chi contestava i Leoni negli anni 60 ora è felice del loro ritorno. Comunque, a parte l’organizzazione che mi sembra un po’ pachidermica, sono contento di andare alla Mostra soprattutto per la Provincia, e spero che la partecipazione serva a lanciare un poco questo Alcool, che come sai è un film didattico, impegnato…». Certo, Alcool è un film sull’alcoolismo, il primo esempio di film prodotto da un ente pubblico. E Tretti, che ha sempre avuto difficoltà enormi per finire i propri film, come si è trovato a lavorare sotto un «padrone» così particolare? «Guarda, dopo aver concluso Il potere io ho trovato porte chiuse ovunque. Ho proposto il film sull’alcoolismo alla RAI, dove non è stato preso in considerazione. Ne ho parlato all’assessore alla Cultura della Provincia, Novella Sansoni, tanto per dirlo a qualcuno: a lei è piaciuto subito, l’ha proposto in Giunta dove è stato approvato all’unanimità. A quel punto, la lavorazione è proceduta senza intoppi, e la Provincia mi ha ripagato di tutte le grane precedenti. È una via produttiva che va seguita, incoraggiata». Comunque, al di là del contributo pubblico e della collaborazione con il prof. De Martis, dell’Istituto psichiatrico di Pavia, il film ti è venuto molto personale. È un film molto divertente, efficace soprattutto nei momenti grotteschi… «E pensare che mi sono trattenuto. Capirai, un film didattico… i quattro studiosi che commentano la vicenda, per esempio, dicono cose importanti, cose giuste, ma io li avrei voluti diversi, che so?, alla fine li avrei fatti entrare in un bar e li avrei fatti ubriacare… Comunque ci sono anche dei momenti drammatici, ed è giusto che ci siano; il film, ad ogni modo, è stato limato, ho tagliato circa 15 minuti e mi sembra che scorra molto di più». Cosa ti aspetti da Venezia? «Io spero solo che ci sia un po’ di gente. Ci hanno messi in una sala enorme, la Sala La Perla del Lido (domenica 31 agosto alle 22,30, per la cronaca - ndr) che tiene 700 posti, e fare la proiezione per cinquanta persone sarebbe un po’ triste. Qui alla Provincia, sperano di ottenere uno di quei temi speciali per la distribuzione che garantiscono la stampa di dieci copie e l’inserimento nel circuito normale. Per un film “alternativo” come questo sarebbe molto utile». Già, Alcool girerà senza dubbio all’interno di un circuito culturale (è a disposizione di tutti gli enti e le biblioteche che lo vogliano richiedere), ma la distribuzione nelle sale non è ancora garantita. Per ora è già stata organizzata, dopo Venezia, una proiezione speciale per medici provenienti da tutta Italia. Quello sì, che sarà un pubblico super-critico. «Ah, sono già terrorizzato. Un migliaio di medici… dovranno curare me, dopo la proiezione». Tretti, dicci la verità. Ti piace il vino? «Un po’, non è che sia un gran bevitore… forse dopo aver fatto il film ho cominciato a bere un po’ di più… però, via, non bisogna esagerare…».

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Filmografia. sintetica

1960

La legge della tromba

da venerdì 9 ottobre su rapportoconfidenziale.org

Augusto Tretti e la Resistenza a cura di Lorisa Andreoli e Stefano Wiel

1971

Il potere 1980

Alcool 1985

Mediatori e carrozze La versione completa è stata pubblicata su RC16 (pag.24), all’interno della prima parte dello speciale dedicato ad Augusto Tretti.

Il documentario realizzato da Andreoli e Wiel nel 1995 che ha per soggetto (in prima persona parlante) Augusto Tretti è un esercizio della memoria che scava i ricordi di un uomo che ha vissuto in prima persona gli anni dell'occupazione nazi-fascista delle campagne veronesi. Una testimonianza di un'epoca remota che è bene non dimenticare, ed importante recuperare. Augusto Tretti e la resistenza fa parte di un archivio di quaranta interviste ai partigiani che hanno fatto la Resistenza in Veneto. Sul precedente numero di RC (RC17, settembre 2009) abbiamo pubblicato (pag. 24) Resistenza e cinema: Augusto Tretti racconta, un suggestivo articolo in prima persona di Lorisa Andreoli che da conto dell'incontro col regista di Lazise. Il documentario, in versione integrale della durata di un'ora, sarà disponibile in streaming su rapportoconfidenziale.org

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Il cinema popolare dalla B alla Z

Bikesploitation Moto, violenza, sesso e... lupi mannari nelle opere di Michael Levesque e Herschell Gordon Lewis. a cura di Roberto Rippa Quando Marlon Brando apparve sugli schermi a cavallo di una Triumph Thunderbird 6T in The Wild One (Il selvaggio, Laslo Benedek, 1953), nel ruolo del capo della gang dei Black Rebels Motorcycle Club, impegnata nel terrorizzare un’intera città, forse nessuno avrebbe immaginato che nel decennio successivo si sarebbe sviiluppato un vero e proprio genere - fatto di una quarantina di film girati tra il 1966 e il 1975 - capace di attrarre una generazione di ragazzi che nella cultura “biker” vedeva una rivendicazione dei diritti civili e il simbolo di una controcultura, sinonimo di libertà, di ribellione all’autorità, quasi una società a sé stante, con proprie regole e leggi. Quando nel 1969 appare sugli schermi Easy Rider di Dennis Hopper, film diventato simbolo per un’intera generazione, i drive-in e le sale Grindhouse hanno già fatto, mischiando alto e basso, di film come Motor Psycho di Russ Meyer (1965) The Wild Angels (1) di Roger Corman (1966) - anche produttore di Devil’s Angels di Daniel Haller (1967) con John Cassavetes protagonista - Hell’s Angels on Wheels di Richard Rush (1967), The Hellcats di Robert F. Slatzer (1968), The Mini-Skirt Mob di Maury Dexter (1968) – senza dimenticare i cimenti del genere del maestro del cinema da Drive-in Al Adamson, con il suo Satan’s Sadists del 1969 - dei veri e propri fenomeni di culto. Derivativo del Western (come si può notare in maniera evidente in Wild Angels di Corman), con opposte fazioni a ingaggiare sanguinose sfide, la moto a sostituire il cavallo e le lunghe peregrinazioni lungo le strade infinite che attraversano scenografici paesaggi dell’America del nord, il genere ha visto cimentarsi attori allora alle prime armi come Bruce Dern (The Cycle Savages, Bill Brame, 1969), Dennis Hopper – proprio colui che darà al genere il suo capolavoro - (The Glory Stompers, Anthony M. Lanza, 1968), Jack Nicholson (Hells Angels on Wheels, Richard Rush, 1969). Nella realtà giungono poi sulla scena i veri Hell’s Angels, considerati dalla metà degli anni ’60 un’organizzazione criminale vera e propria, ad arricchire il genere di un fascino oscuro particolare, adatto a iniettare nelle storie una buoan dose di violenza e sesso. Se le moto nel cinema di genere hanno costituito per un periodo nemmeno breve un genere a sé, in uno spazio come questo, dedicato al cinema Grindhouse, non possono mancare i cimenti nel genere di due registi come Michael Levesque, in seguito più attivo nella direzione artistica che nella regia e il re del “gore” Herschell Gordon Lewis (The Gore Gore Girls, A Gruesome Twosome, A Taste of Blood e il capolavoro Two Thousand Maniacs di cui, prima o poi, scriveremo su queste pagine). Due prove ben distinte tra loro ma sempre esemplificative di un genere e di un modo di fare cinema sopperendo con l’inventiva alla mancanza di mezzi. Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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Werewolves on Wheels Quella dei Devil’s Advocates è una gang di motociclisti dedita prevalentemente al molestare chiunque abbia la sventura di incrociare la sua strada. I componenti, uomini e donne, si imbattono, nel corso di un viaggio alla volta del deserto, in una congrega di strani monaci che li coinvolgeranno – loro malgrado - in un rito satanico durante il quale verrà disegnato loro sulla fronte con la cenere un simbolo. Dopo questo incontro, ripartono in direzione del deserto inconsapevoli della maledizione che pende su di loro. Lupi mannari su ruote, come recita letteralmente il titolo (in Italia è uscito come La Notte dei Demoni): cosa chiedere di meglio a un film di serie B che la mescolanza di più generi? Il film però sembra basarsi su un soggetto comprendente inizialmente solo I biker, con la storia dei lupi mannari aggiunta solo in un secondo tempo, ed è questo a rendere la parte horror più debole, quasi una sottotrama a dispetto del titolo. Michael Levesque, in seguito apprezzato direttore artistico – da segnalare, in questo ambito, la collaborazione con Russ Meyer per Beneath the Valley of the Ultra-Vixens (1979), Up! (1976) e Supervixens (1975) –, valorizza le scene con un efficace tono psichedelico e gira con precisione un film visivamente molto accattivante che va visto anche come testimonianza di un genere nel periodo in cui si apprestava a sparare le sue ultime cartucce cercando magari, come in questo caso, nuova linfa nella commistione di elementi fino ad allora estranei. Werewolves on Wheels è un film selvaggio, anarchico ed estremamente divertente cui I dialoghi deliranti e la recitazione approssimativa non fanno che aggiungere fascino. Assolutamente da vedere! Poduttore del film è Paul Lewis, che tre anni prima era stato produttore di Psych-Out di Corman e appena due anni prima aveva prodotto Easy Rider. *** Werewolves on Wheels (La notte dei demoni, USA/1971) Regia: Michel Levesque; Sceneggiatura: David M. Kaufman, Michel Levesque; Musiche: Don Gere; Fotografia: Isidore Mankofsky; Montaggio: Peter Parasheles; Interpreti principali: Steve Oliver, D.J. Anderson, Gene Shane, Billy Gray, Gray Johnson, Barry McGuire, Owen Orr, Anna Lynn Brown, Leonard Rogel, Severn Darden, Tex Hall, Dan Kopp, Ingrid Grunewald, Kieth Guthrie, John Hull; Durata: 85’. il DVD: Werewolves on Wheels è disponibile in DVD grazie all’americana Dark Sky Films. Il DVD, che presenta il film nel suo formato originale 1.85:1, è di ottima qualità sia a livello di immagine che di suono. Audio, Dolby Digital mono, e sottotitoli solo in inglese. A livello di contenuti extra, trailer e pubblicità radiofoniche, una galleria fotografica che comprende locandine e manifesti del film, nonché un divertente ed esauriente commento audio del regista Michel Levesque e del co-sceneggiatore David M. Kaufman. Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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She-Devils on Wheels Quella delle Man-Eaters (mangiatrici di uomini) è una gang esclusivamente femminile le cui componenti sono dedite a sesso, corse e violenza. La loro routine semi-quotidiana comprende gare su una pista aerea abbandonata. La prima a giungere al traguardo avrà quindi la possibilità di scegliersi per prima un uomo nel ritrovo che frequentano abitualmente. Il problema è che la consueta vincitrice, Karen, sceglie sempre lo stesso uomo, contravvenendo alle regole del gruppo. Inevitabile che la gang si riunisca in sua assenza per discutere il suo comprtamento e decidere come costringere la ragazza a dimostrare fedeltà al gruppo e al suo capo “The Queen”. Ovviamente, la ragazza non tarderà a dimostrare la sua fedeltà a scapito del povero ragazzo con cui è solita accompagnarsi. Ma non è tutto: l’ex ragazzo di Karen, Ted, continua a tentare di convincerla a lasciare la gang anche perché è entrata nelle mire di una banda - maschile - intenzionata a scatenare un rissa potenzialmente mortale tra le due fazioni. Film inusuale per il maestro del gore Herschell Gordon Lewis (che comunque una bella spruzzata di sangue non la fa mancare nemmeno qui) questo She-Devils on Wheels (letteralmente “diavolesse su ruote”) che trova la sua peculiarità nel rendere protagonista un gruppo composto esclusivamente da donne. Questa scelta nacque dal desiderio del regista di allontanare le accuse che allora gli venivano mosse su come le donne nei suoi film venivano maltrattate e uccise. Interpretato prevalentemente da vere biker, il film deve il suo fascino anche alla sua povertà, con tanto di sequenze riproposte più volte e sesso curiosamente solo accennato - c’è una nemmeno brevissima orgia in cui tutti sono vestiti - a dispetto dei certamente molto più ammiccanti e morbosi film precedenti del regista. Distribuito inizialmente dalla American International Pictures e proiettato in coppia con Born Losers (1967) di Tom Laughlin, il film fu inizialmente un fiasco e ben difficilmente allora Samuel Z. Arkoff - cofondatore della A.I.P. - avrebbe potuto immaginare che il film si sarebbe trasformato in un fenomeno di culto e un successo finanziario per il regista, anche produttore dei suoi film. La grande musica di Larry Wellington, fedele collaboratore del regista, l’umorismo caustico e le interpretazioni che definire acerbe sarebbe generoso, completano un piccolo capolavoro che, pur non essendo esemplificativo dell’opera del regista, ne fa trasparire l’inconfondibile stile. Un film che John Waters non potrebbe non amare. *** She-Devils on Wheels (USA/1968) Regia: Herschell Gordon Lewis; Sceneggiatura: Louise Downe (da uno spunto di Fred M. Sandy); Musiche: Larry Wellington; Fotografia: Roy Collodi; Montaggio: Richard Brinkman; Interpreti principali: Betty Connell, Nancy Lee Noble, Christie Wagner, Rodney Bedell, Pat Poston, Ruby Tuesday, John Weymer; Durata: 82’. il DVD: Pubblicato dalla sempre ottima Something Weird (il cui nome viene proprio dal titolo di un film di Herschell Gordon Lewis), She-Devils on Wheels è presentato in formato 1.33:1 restaurato digitalmente. Lingua inglese soltanto e nessun sottotitolo. Nel settore estra, un esilarante e interessantissimo commento audio del regista, trailer, una galleria e un divertente cortometraggio dal titolo “Biker Beach Party”. Il film è disponibile anche come parte del conveniente cofanetto “The Herschell Gordon Lewis Collection” comprendente anche The Gruesome Twosome, The Wizard of Gore, The Gore Gore Girls, Something Weird e A Taste of Blood. Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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Pulgasari

L'incredibile storia di un film assurdo. di Alessio Galbiati

«Riteniamo che neanche la Corea del Nord possa sottrarsi ancora per molto a questo vento di apertura e siamo molto curiosi di vedere come questo paese e come i registi più attivi reagiranno a tali mutamenti e faranno proprie le nuove tematiche che verranno immancabilmente introdotte in seguito all’apertura del paese al mondo esterno». Così si concludeva un saggio (1) dedicato al cinema della Corea del Nord scritto a pochi anni dalla caduta del muro di Berlino ed a pochi mesi dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, un testo che condensava l’opinione diffusa di un rapido squagliarsi al sol del cambiamento della tirannia nordcoreana, ma la storia – con buona pace dello studioso Francis Fukuyama – non ha arrestato il suo corso ed alla fine del primo decennio del nuovo millennio la famiglia Kim è ancora arroccata nella sua torre d’avorio con 22 milioni di persone in ostaggio. La Repubblica Democratica Popolare di Corea, più comunemente nota come Corea del Nord, è forse il regime totalitario più assurdo presente sul nostro pianeta. Isolata dal resto del mondo a partire dal 1948 è attualmente governata da Kim Jong-Il, figlio del “Presidente Eterno” Kim SungIl che rimase al timone ininterrottamente dal 1948 al 1994, data della sua morte. Tutto è orwelliano in Nord Corea, fuori dal tempo e surreale, l’architettura di Pyongyang (la capitale) è li a dimostrarlo, con le sue strade immense dove le automobili sono fantasmi, con edifici lisergici come l’Hotel Ryugyŏng, una piramide incompiuta che dovrebbe ospitare turisti e gente di passaggio a fronte di un paese che regola questi flussi in due sessioni da trecento persone. C’è pure la questione dell’atomica, unico motivo di interesse della comunità internazionale, una corsa infinita che ha prosciugato gran parte delle risorse di un popolo che vive fra gli stenti e soggetto a frequenti carestie che provocano decine di migliaia di morti. Insomma un deliro. Questo delirio affonda le sue radici nella politica isolazionista ed autarchica (2) intrapresa dalla dirigenza comunista dalla fine della guerra di Corea (1953) ed ha avuto nel cinema una delle sue più bizzarre concretizzazioni. Kim Jong-il, l’attuale capo del governo e come già scritto figlio del Presidente Eterno Kim Sung-Il, è un grande appassionato di cinema (3), nonché teorico di infimo livello (4); la sua mano è attiva nel cinema fin dagli anni settanta, epoca in cui ricopriva il ruolo di Ministro della Propaganda e durante la quale decise che proprio il linguaggio cinematografico sarebbe stato al centro della sua azione. Il paese non era però attrezzato a produrre opere cinematografiche, mancavano le strutture ma soprattutto mancavano i registi, categoria che invece nel sud della penisola coreana era più che fiorente. Cosa decise di fare allora il leader che sembra una installazione pop? La cosa più semplice del mondo se il tuo cervello presenta qualche squilibrio, cioè rapire alcuni registi. La vicende più nota e che face un enorme scalpore internazionale fu quella del regista Shin Sang-ok (1926-2006) rapito insieme alla ex moglie ad Hong Kong nel 1978 e trattenuto contro la sua volontà fino al 1986. Shing era senz’altro il più popolare autore del cinema sud coreano, regista e produttore attivo sin dal 1946, epoca della prima produzione nazionale coreana (Viva Freedom! di Choi Inkyu), una personalità attivissima e prolifica che, fino all’epoca del suo rapimento, contribuì in prima persona ad edificare una delle

cinematografie più interessanti del pianeta. La sua prigionia fu decisamente atipica, perché venne isolato nel palazzo del governo immerso in ogni confort ma impossibilitato a muoversi liberamente e quando provò a fuggire venne catturato ed imprigionato a Pyongyang e “rieducato” all’ideologia nord coreana (gli venne addirittura imposto di sposare nuovamente l’ex moglie). Nel 1983 viene rimesso in libertà (se così si può dire) ed a questo punto incominciò a dirigere film per il regime, confezionando tre fra le opere migliori di una cinematografia anemica: Sarang sarang nae sarang (Oh My Love, 1984), Pulgasari (1985) e Sogum (Salt, 1985). È Pulgasari (5) senz’altro il capolavoro: un film folle, e non poteva essere altrimenti, che pure a distanza di anni mantiene intatta la propria forza e la sua assurda bellezza. Shin Sang-ok, riuscirà a fuggire solo nel 1986, chiedendo asilo all’ambasciata americana durante un soggiorno a Vienna, ma a distanza di anni ricorderà Pulgasari come una fra le sue opere più riuscite. Pulgasari è un film alla Godzilla, della serie pupazzone antropomorfo incazzato col mondo (per essere più precisi, Kaiju Movie), realizzato in co-produzione con i giapponesi della Toho Company Ltd. (casa di produzione giapponese celebre per i leggendari Godzilla, Mothra, King Ghidorah, Mechagodzilla e Rodan) che qui mette in pratica (ed al meglio) la propria bizzarra effettistica, dando vita ad un mostro in tutto e per tutto figlio delle precedenti produzioni made in Japan (tant’è che gli attori che “impersonano” il bestione coreano sono proprio gli stessi dei film giapponesi: “Little Man” Machan e Kenpachiro Satsuma). Il film si svolge nel XIV secolo, all’epoca della dinastia Koryo, è la storia di un governatore-tiranno, che affama il suo popolo e spadroneggia nei propri possedimenti con la benedizione del proprio Re. Quando i giovani di un piccolo villaggio contadino, capeggiati dal furente Inde, paiono ormai decisi a fuggire sulle montagne per organizzare la resistenza alla tirannia, il governatore emanerà un editto che prevede l’esproprio di ogni oggetto di metallo presente nelle sue terre. La sua intenzione è di produrre un gran numero di armi per sedare ogni possibile rivolta ed al contempo disarmare ogni speranza di lotta. Incaricherà di forgiare le nuove armi il vecchio fabbro del villaggio, ma questi, vedendo che il metallo requisito priva i suoi concittadini degli strumenti per coltivare la terra, si opporrà fermamente alla decisone del Governo. Scatta quindi la repressione ed i giovani e il vecchio verranno imprigionati. Nella cella in cui è stato isolato l’anziano fabbro si lascerà morire, rifiutando di toccare quei pochi pugni di riso che i suoi carcerieri gli gettano, non prima però di aver plasmato con le proprie mani un piccolo pupazzetto al quale, invocando verso il cielo, darà tutta la propria speranza per un futuro migliore della sua famiglia e del suo popolo. La morte dell’uomo getta nello sconforto l’intera comunità ma soprattutto la sua giovane figlia Ami, che guardando il cupo cielo di una notte senza stelle piangerà lacrime di disperazione. Una di queste finirà sul piccolo pupazzetto ed una scossa illuminerà i suoi minuscoli occhi. Da questo momento Pulgasari, questo il nome che gli affibbieranno, non smetterà più di crescere e di mangiare metallo, di ciò infatti si ciba - assai voracemente - l’essere creato dal fabbro. Sarà l’alleato decisivo, la forza inarrestabile, che aiuterà i contadini a

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spazzare via il governatore ed a distruggere il Re con tutto il suo esercito. La parte più interessante del film è proprio la conclusione; il popolo, guidato da Pulgasari, sconfigge la tirannia, ma la fame del mostro non accenna a placarsi e ciò ben presto diviene un problema. Cioè la forza che ha prodotto la vittoria sull’esercito del Re, che ha prodotto insomma la Rivoluzione è divenuta ingombrante, distruttiva e pericolosa per la rivoluzione stessa; sarà Ami a chiedere a Pulgasari di lasciare il paese, di andarsene da un’altra parte, e lui, mansueto, ubbidirà. Quel che è sorprendente, data la committenza (il produttore era addirittura l’attuale tiranno della Repubblica Democratica Popolare di Corea in persona: Kim Jong-il), è la consapevolezza dimostrata dalla sceneggiatura del potere distruttivo insito in ogni rivoluzione. Se per tutto il film Pulgasari rappresenta allegoricamente la forza muscolare della rivoluzione con la quale l’Esercito rivoluzionario popolare coreano prese il potere alla conclusione dell’occupazione giapponese del 1945, nel finale si compie questo incredibile corto-circuito della propaganda di regime. L’allontanamento del mostro amico della rivoluzione, che se rimanesse priverebbe di ogni risorsa il suo stesso popolo, è un inaspettato miracolo che stupisce vedere concretizzato. Senz’altro questo finale potrebbe essere stato escogitato come una sorta di catarsi: nella finzione (almeno) il potenziale distruttivo del Comunismo di guerra viene rimosso alla conclusione delle ostilità. La realtà nel nord della penisola coreana è assai differente, quello stesso mostro famelico di metallo ancora si annida nei palazzi del potere di Pyongyang ed ha le fattezze di un piccolo uomo vorace di denaro e potere.

(3) Oltre che un fanatico della serie 007 ha dichiarato di amare in particolar modo anche la serie giapponese di film dedicati a Godzilla ma anche quelle di Venerdì 13 e Rambo nonché il cinema d’azione di Hong Kong. Possiede una mastodontica collezione di film, pare in VHS. Si veda Philip Gourevitch , The madness of Kim Jong Il, The Observer (2/10/2003). [http://snipurl.com/s9a6r] (4) Ha dato alla luce alcuni testi di teoria cinematografica, davvero imbarazzanti per pochezza, costrutto e documentazione: On the Art of the Cinema, Great Man and Cinema, Theory of Cinematic Art e The Cinema and Directing, tutti ovviamente editi dal Foreing Languages Publishing House. (5) Il film a dire il vero è formalmente realizzato a quattro mani da Shin Sang-ok e Jo Chong Gon; quest’ultimo è in realtà stato imposto dal regime che voleva dare prestigio ad un giovane autoctono, voleva cioè fra crescere un regista nazionale legandolo al suo più grande sforzo produttivo in ambito cinematografico. Il fatto che negli anni a seguire Jo Chong Gon non abbia firmato alcuna pellicola è un ulteriore indice (certo il meno drammatico) della poca lungimiranza della tirannia Kim.

Il film ha varcato i confini nord coreani per la prima volta quattordici anni dopo la sua realizzazione, sbarcando in Giappone e da lì negli Stati Uniti e nel resto del mondo grazie ad una edizione home-video; nel 2000 è addirittura stato proiettato a Seoul, la capitale della Corea del Sud. ***

Pulgasari

(Corea del Nord-Giappone/1985) Regia: Shin Sang-ok, Jo Chong Gon; sceneggiatura: Kim Se Ryun; fotografia: Kenichi Egami, Cho Myong Hyon; montaggio: Sang-ok Shin; effetti speciali: Teruyoshi Nakano, Osamu Kume; art direction: Yoshio Suzuki; interpreti: Hui Chang Son (Ami), Sop Ham Gi (Inde), Ri Jong-uk (Ana), Ri Gwon (Fabbro, padre di Ami), Yu Gyong-ae (madre di Inde), Ro Hye-chol (fratello di Inde), Tae Sang-hun (ribelle), Kim Gi-chon (ribelle), Ri In-chol (ribelle), Ri Riyonun (Generale Fuan), Pak Yong-hok (il Re), Pak Pong-ilk (il Governatore), Kenpachiro Satsuma (Pulgasari), “Little Man” Machan (piccolo Pulgasari); produttore esecutivo: Kim Jong-il; anno: 1985; data di uscita (Giappone): 4 luglio 1998; data di uscita (Corea del Sud): 22 luglio 2000; paese: Corea del Nord, Giappone; lingua: coreano; durata: 95’. Il film, in versione integrale in lingua originale sottotitolato in inglese, è visibile al seguente indirizzo (prossimamente pure su rapportoconfidenziale.org): http://snipurl.com/sclsn *** Note: (1) I Hyo-in, Il cinema nordcoreano e la teoria «juche» in (a cura di) Adriano Aprà, Il cinema sudcoreano, Marsilio Editore, 1992 (pag. 143). (2) L’autarchia, che mutuata in terra di Corea prende il nome di ideologia Juche (con la nuova costituzione del 2009 essa ha preso il posto del comunismo) è divenuta dall’epoca della sua prima proclamazione (1958) lo strumento ideologico primario della tirannia. E’ una elaborazione dello stalinismo con alcuni principi del confucianesimo, una specie di religione di massa che fa del culto della personalità, concepita come emanazione divina, il suo tassello fondamentale. La famiglia Kim è il popolo Coreano, la guida divina che lo condurrà alla supremazia ed alla distruzione di tutti i suoi nemici (in primis gli Stati Uniti). Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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Lake Tahoe numero18. ottobre 2009

di Roberto Rippa

Il giovane Juan va a sbattere contro un palo della luce con l’auto di famiglia. Inizia quindi una lunga giornata alla ricerca del ricambio del pezzo danneggiato e di qualcuno che gli permetta di fare ripartire l’auto. La ricerca lo porta dapprima da Don, un anziano meccanico la cui unica compagnia è un cane, quindi da Lucia, giovanissima ragazza madre aspirante cantante punk, e infine da David, ossessionato dalle arti marziali e dalla filosofia del Kung Fu. Tutti loro lo porteranno ad accettare ciò che prima lo costringeva alla fuga: la morte di una persona amata. Camera fissa, un luogo semideserto che diventa ulteriore protagonista del film, poco - asciutto - dialogo, questo è in poche parole Lake Tahoe, o ¿Te acuerdas de Lake Tahoe?, come è noto in Messico, o ancora Sul lago Tahoe, come è stato presentato al Festival di Torino. Opera seconda di Fernando Eimbcke, il cui Temporada de patos (Duck Season, 2004) gli era valso una cascata di premi (come quelli ottenuti dall’ Academia Mexicana de Artes y Ciencias Cinematográficas o al Festival du film de Paris, per citarne due), Lake Tahoe è un racconto narrato per sottrazione, i cui elementi fondamentali vengono svelati progressivamente e senza clamore. Quella di Juan è una fuga che dura per tutto il film, per un’intera sua giornata. Juan è un adolescente e per i suoi sedici anni - un’età sospesa in cui non si è più bambini da proteggere ma nemmeno adulti in grado di farlo da soli - il dolore che prova non può avere una giustificazione logica né, forse, trovare sollievo: sua madre trascorre il tempo nella vasca da bagno a piangere, il fratellino sta in giardino sotto una tenda a ritagliare figure e ha bisogno di lui. Intorno a Juan, quasi nulla. Eimbcke però non svela alcun elemento, ci accompagna nel viaggio di Juan alla ricerca di una soluzione all’innocuo incidente che ha causato a inizio film (e che accade fuori campo, con il solo suono - come spesso accadrà nel corso della storia - a farci capire l’accaduto) mentre incontra umanità tra le più disparate e tenta di crescere in fretta, quanto basta per tornare a casa e riuscire a sopportare il suo dolore. Lake Tahoe - luogo assente ma simbolo di rimpianto per qualcosa che non si potrà mai più fare, non nello stesso modo - è alla fine il racconto sobrio, mai autocompiaciuto, spesso esilarante, sempre di grande poesia e intensità, di una brusca crescita. Il regista, che si basa su una sua esperienza personale, gira il film in brevi quadri, tutti separati da una dissolvenza in nero, raccontandoli quasi come storie a sé stanti, mentre lentamente, quadro dopo quadro, la tragedia che ha colpito il protagonista e la sua famiglia viene svelata attraverso alcuni dettagli. Un piccolo capolavoro fatto di grande eleganza formale, di grazia e sobrietà che continua ad accompagnare lo spettatore per lungo tempo dopo la visione. Il film ha ottenuto l’Alfred Bauer Award alla Berlinale 2008, dove è stato insiginito anche del premio Fipresci. Uscito fugacemente in alcune città italiane (attualmente pare essere programmato solo a Vicenza), Lake Tahoe è in uscita in DVD negli Stati Uniti per Film Movement (www.filmmovement.com), mentre è già stato pubblicato in Germania e Francia). Lake Tahoe (Sul lago Tahoe, Messico-Giappone, 2008) Regia: Fernando Eimbcke Sceneggiatura: Fernando Eimbcke, Paula Markovitch Fotografia: Alexis Zabe Montaggio: Mariana Rodríguez Interpreti principali: Diego Cataño, Hector Herrera, Daniela Valentine, Juan Carlos Lara II, Yemil Sefani, Olda López, Mariana Elizondo 89’ Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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Le relazioni pericolose

connessioni tra suoni e immagini

Around “Theme de Yo-Yo” LES STANCES A SOPHIE

E’ il 1970 quando esce “Les stances à Sophie”, film francese, diretto dal regista di origini israeliane Moshe Mizrahi. Girato in una Parigi entusiasta ed esaltata da ideali rivoluzionari post-’68, oggi è un cult della nouvelle vague francese, fino a poco tempo fa’ di difficile reperibilità. Una sorta di dramma comico sulla storia di Celine (Bernadette Lafont), donna dallo spirito libero, alla scoperta dell’emancipazione femminile. Misrahi, amico degli Art Ensemble Of Chicago (formazione di jazz sperimentale, con tratti afro e soul), chide loro di comporre la colonna sonora ancor prima di girare il film. L’Art Ensemble appare anche nel film, per qualche minuto, in una performance live. http://www.youtube.com/watch?v=LbEKQelx8TI

La colonna sonora esce, sempre nel 1970, per la EMI France e più tardi, negli Stati Uniti, per la Nessa Records, dopodiché diventa molto difficile reperirla, come del resto il film. Nel 2008, la label inglese Soul Jazz Records, ristampa il DVD di “Les stances à Sophie”, il CD e, in edizione limitata, 1000 copie in vinile della colonna sonora.

ART ENSEMBLE OF CHICAGO “Theme De Yo-yo” 9:10 album “Les Stances à Sophie” (OST) 1970

Nella colonna sonora di Les Stances à Sophie spicca il brano di apertura “Theme de Yo-yo”, cantato dalla voce soul di Fontella Bass. http://www.youtube.com/watch?v=perVFDDy_xg

a cura di Romeo Sandri

La complessità nella semplicità. Mi chiedo perché questa traccia sia rimasta scolpita nella storia come un pezzo che ormai si può considerare una pietra miliare, pronto ad entrare nell’enciclopedia del pop (con l’accezione estesa del termine). Entriamoci. Il contrabbasso inizia a delineare le 5 note sulle quali il pezzo si sviluppa (qualche altra nota verrà aggiunta, ma soltanto nello stacco che ci riporta sempre da capo). Rapporto Confidenziale. rivista digitale di cultura cinematografica. www.rapportoconfidenziale.org

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Lavorare in maniera interessante sulle pentatoniche (le scale di 5 note) non è cosa da tutti ed in questo caso l’obiettivo raggiunto è al massimo dei livelli possibili. Il Perché della completezza della ricetta, della ricchezza del gusto e dell’armonia dei sapori, invece, si può capire in parte dando uno sguardo agli ingredienti: l’anima freejazz dell’Art Ensemble Of Chicago, le improvvisazioni impazzite e le urla di saxofono, le percussioni afro, il calore del soul e la voce gospel e arrabbiata di Fontella Bass. Il resto .. è Segreto dello Chef.

FONTELLA

Moglie di Lester Bowie, trombettista dell’Art Ensemble of Chicago, Fontella Bass è già molto popolare per la sua “Rescue Me”, un singolo di successo che nel 1965 raggiunge il primo posto nelle R&B charts americane. http://www.youtube.com/watch?v=ndO80eh9YwI

MAN WITH A MOVIE CAMERA

Nel 2000 viene commissionata a The Cinematic Orchestra la musicazione di una ri-edizione del film muto del 1929 di Dziga Vertov, “Man With A Movie Camera”, da suonare dal vivo come evento di apertura a Porto per l’European Capital of Culture 2001. “Man With A Movie Camera”, di Dziga Vertov - considerato ormai un capolavoro per le tecniche radicalmente innovative per l’epoca - è un film/documentario muto sulla vita del lavoratore sovietico negli anni 20. La prima esibizione live della musicazione al Porto Film Festival viene accolta calorosamente da un pubblico di migliaia di persone. Nel frattempo, nel maggio del 2002 esce “Every Day”, secondo album della Cinematic Orchestra, dove Fontella Bass è stata coinvolta per cantare 2 importanti canzoni, “All That You Give” ed “Evolution”. Nel novembre 2002, la band si convince a registrare il terzo album “Man With A Movie Camera” con una sezione archi e l’aiuto del percussionista Milo Fell. Nel nuovo disco di The Cinematic Orchestra, che esce nel maggio del 2003 per la Ninja Tune records, spicca una versione strumentale di “Theme de YoYo”.

THE CINEMATIC ORCHESTRA “Theme De Yoyo” 2:06 album “Man With A Movie Camera” 2003

http://www.youtube.com/watch?v=uswtDGprAk4

5 note per un tema. Introdotto da “Odessa”, che con le sue schegge di pianoforte punteggia le immagini dei bagnanti (e non solo), il “Theme De Yoyo” viene utilizzato nella rimusicazione per sottolineare le successive immagini di imprese sportive ed atletiche. Lo svolgimento musicale della cover è semplice, ma efficace. Intro di PIano Fender Rhodes tremolante, importante costruzione ritmica della batteria che si contrappone a quella del contrabbasso, intelligente lavoro di scratch, sovrapposizione di sax tenore e

pianoforte che ricalcano il tema progressivamente. .. sbriciolamento finale. 2 minuti e 6 secondi. Ora l’atmosfera si rilassa con altri 2 minuti di piano solo per sottolineare “The Magician”, dopodiché si torna al tema di Yoyo con “Theme Reprise”, 2 ulteriori minuti di sviluppo pentatonico, con altre varianti che portano ad una versione un po’ più cattiva dellla precedente. Ora parte un solo, tipico del bravo saxofonista della Cinematic Orchestra, che dialoga spesso con lo scratch del dj che a sua volta si lancia in una sorta di solo, prima che il pezzo si fermi e, con naturalezza, riprenda su toni più riflessivi in tempo ternario. E’ “Yoyo Waltz”, che in circa un minuto e mezzo chiude il momento Yoyo di questa colonna sonora. “Man With A Movie Camera” della Cinematic Orchestra viene presentata da J. Swinscoe (padre del progetto TCO) come l’evoluzione naturale del precedente album “Every Day”, anche per il fatto che ne contiene alcuni pezzi ri-lavorati ed alcuni spunti, sviluppati in maniera più orchestrale, data la formazione utilizzata. Caratterizzato dai tratti tipici delle colonne sonore, possiede lo spirito jazz, le pulsioni del funk, il calore del soul e il tocco contemporaneo dell’elettronica. Non è un disco facile e prevedibile, ciononostante riesce a soddisfare palati alquanto differenti. Fontella Bass canterà di nuovo con The Cinematic Orchestra nell’album “Ma Fleur” del 2007. Altre versioni del “Theme de Yo-yo” sono state suonate e incise da: • Motorpsycho and the horns section of Jaga Jazzist (“in the fishtank” series) • The Boogoos (Perfect Toy rec.) • Su-paka-pooh (Mr. Bongo rec.) • Spaceways Inc. & Zu (Atavistic rec.) • Denis Colin trio presents Gwen Matthews (Nato/Nocturne rec.) ***

Man With A Movie Camera [cd/dvd ninja tune] On the DVD: The Cinematic Orchestra extras include two live tracks, two videos (“All that you give” and “Man with a movie camera”) plus a documentary entitled “From Reel To Reel”. DVD Description
Special Features 1. “Man With A Movie Camera” directed by Dziga Vertov (full length film with Cinematic Orchestra soundtrack, 68 mins with IDs for each track) 2. Video for “Man With A Movie Camera” Edited version by Eva Katzenmeier (9 mins) 3. C4 4 Play Documentary/Interview with J Swinscoe etc. (10 mins) 4. Cinematic Orchestra LIVE @ Cargo (26mins), including: 
-Man With A Movie Camera 
-Theme de Yo-Yo 5. All That You Give (promo video-super 8 version, 4 mins) 6. Band Info (photo gallery, biography) (CD/DVD/2xLP ZEN78, 2003.05) DVD: “Man With A Movie Camera” directed by Dziga Vertov (with Cinematic Orchestra soundtrack) (68 mins) / Video for “Man With A Movie Camera” Edited version by Eva Katzenmeier (9 mins) / Documentary/Interview with J Swinscoe (8 mins) / Cinematic Orchestra LIVE @ Cargo “Man With A Movie Camera” (16 mins) / Cinematic Orchestra LIVE @ Cargo “Theme de Yo-Yo” (10 mins) / All That You Give (promo video-super 8 version, 4 mins) / Band photo gallery / Band and Vertov biographies

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Dal 17 al 26 settembre presso il DOCVA (Documentation Center for Visual Arts di via Procaccini 4 a Milano) si è svolto “Quando l’occhio trema. Il flicker fra cinema, video e digitale”, videoscreening a cura di Claudia D’Alonzo (Digicult) e Mario Gorni (Careof DOCVA), una selezione di 15 opere che mette in scena l’effetto chiamato flicker. Il cinema, più in generale l’immagine in movimento, si basa su di una successione di immagini statiche alla velocità di ventiquattro fotogrammi al secondo, questa frequenza di aggiornamento rende possibile la percezione del movimento. Alterando il numero di fotogrammi, all’incirca dimezzandoli, abbiamo l’effetto chiamato flickering, o sfarfallio. Tutto qui. Parafrasando Laura Mulvey (1) si potrebbe dire: Madden 12x a Second! Il presente articolo è stato pubblicato su DIGIMAG n.48 - ottobre 2009. http://www.digicult.it/digimag

di Alessio Galbiati

Le opere basate su questo principio risultano a dir poco disturbanti, disorientanti, maldimaranti (e tutto il cotè di aggettivi e neologismi del caso) tanto che Ken Jacobs (apro e chiudo una parentesi: perché non si è selezionato nemmeno un suo lavoro?!) in testa al suo Razzle Dazzle -The Lost World (2007) colloca una didascalia con le seguenti parole: “This film is not for those suffering from epilepsy” (2). Dal punto di vista dello spettatore, colui il quale compie l’atto di guardare un film, l’esperienza è decisamente traumatica ed è difficile con questa tecnica mantenere un’attenzione costante. Il nervo oculare, sottoposto a stress, non è in grado di seguire lo sviluppo (anti) narrativo delle immagini che si alternano, questo la sensazione è simile a quella provata da Alex nella celebre sequenza della visione coatta di A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971). È dal punto di vista cognitivo che l’effetto in questione rivela le sue sorprendenti potenzialità, stimolando una comprensione delle immagini assai più libera e disarticolata, non lineare, difforme dall’abitudine dei 24 fotogrammi al secondo e per questo sorprendente. La selezione curata da Claudia D’Alonzo e Mario Gorni ha messo in mostra undici opere provenienti dai ricchi archivi DOCVA e INVIDEO, insieme a quattro opere selezionate fra le produzioni degli artisti (digitali) del network internazionale Digicult. La selezione è stata una occasione unica d’approfondimento e mostrazione d’un (non)cinema invisibile perché sperimentale ed underground, distante dall’abitudine spettatoriale dei 24 fotogrammi al secondo, dalle convenzioni narrative, ma soprattutto dall’abitudine dell’occhio a seguire il movimento come una fluida successione continua di frame. D’Alonzo e Gorni hanno saputo dare conto di una tecnica non solo nelle sue attuali concretizzazioni (con i lavori di Granular Syntesis, Otolab, Cairaschi, Fleish, Girts Korps, ape5, Graw & Bockler, De Bemels, Chiasera, Arford, Arnò), ma anche delle origini dell’emersione di questa tecnica. Piece Mandala / End War di Paul Sharits (1966), il primo elemento del videoscreening, pone l’intera selezione entro una visione del “fenomeno” flickering come generato dalle sperimentazioni degli anni sessanta del cinema sperimentale americano, il (non)cinema di Stan Brakhage, Tony Conrad, Michale Snow e tutta quella costellazione di personalità che hanno utilizzato il linguaggio delle immagini in movimento per rinnovarlo ed il cui insegnamento è giunto intatto all’attuale epoca digitale. Sharits, Steina e Woody Vasulka, ma soprattutto Paolo Gioli, la cui opera selezionata da il titolo alla “mostra”, quasi a voler orgogliosamente affermare la centralità ed originalità dell’esperienza italiana, viva e vivida nei decenni passati quanto oggi (si veda il lavoro di Otolab). Dar conto di opere sperimentali è sempre una operazione complessa, mancano gli appigli linguistici ai quali aggrapparsi per rendere un senso rizomico e sfuggente che in ambito flickering si amplifica a dismisura. Merge / Se Fondre di Antonin De Bemels è l’opera più facilmente narrabile perché la più prossima al linguaggio cinematografico classico: organizzata come un cortometraggio, sia per durata che per modalità narrativa, è l’unica opera ad utilizzare lo sfarfallio dell’immagine a fini narrativi; qui il flickering viene utilizzato come rappresentazione visiva del disagio esistenziale vissuto dai tre protagonisti della vicenda narrata. Questa felice scelta apre la riflessione per immagini (in movimento) di D’Alonzo e Gormi al cinema tout court, accendendo nello spettatore l’illuminazione della propria memoria, producendo in

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lui il ricordo di esperimenti simili in molto cinema visto e noto, su tutti David Lynch ha da sempre fatto ampio ricorso al flickering per caricare di una ulteriore valenza perturbante il proprio cinema (penso ad esempio ad alcune sequenze di Lost Highway, ma pure Heraserhead fino all’ultimo INLAND EMPIRE). Una riflessione più generale merita la scelta compiuta di organizzare il materiale selezionato con la formula del videoscreening, cioè della proiezione a ciclo continuo. Pur riuscendo a cogliere la finalità primaria della visione di un gran numero di opere, questa opzione incorre in quel sovraccarico cognitivo che snatura l’unicità delle singole opere. Il rischio è quello di tramortire lo spettatore (ci sono stati momenti in cui ho temuto realmente di precipitare in uno stato epilettico), proiettandolo in una corsa senza sosta fra immagini che prendono a martellate il nervo ottico. “Quando l’occhio trema. Il flicker fra cinema, video e digitale” è stata, prima ancora che un’ottima occasione per vedere opere particolarissime ed estreme, una efficace concretizzazione di sinergie vitali ed interessanti quali il Documentation Center for Visual Arts di Milano, Digicult ed INVIDEO: tre realtà italiane d’assoluto interesse (internazionale). Per una più completa documentazione dell’evento rimando il lettore a quanto scritto dai curatori nella presentazione dell’evento che, oltre a definire con chiarezza gli assunti metodologici della selezione, presenta pure i quindici elementi di cui si compone. http://www.digicult.it/2009/QuandoOcchioTrema.asp ***

Note: (1) Laura Mulvey, Death 24x a Second: Stillness and the Moving Image , Reaktion Books, 2006. (2) Pure una delle opere capostipiti e paradigmatiche di questo “effetto” dell’immagine in movimento, The Flicker (Tony Conrad, USA/1965), si apre con una didascalia che così ammonisce lo spettatore: “WARNING. The producer, distributor, and exhibitors waive all liability for physical or mental injury possibly caused by the motion picture “The Flicker.” Since this film may induce epileptic seizures or produce mild symptoms of shock treatment in certain persons, you are cautioned to remain in the theatre only at your own risk. A physician should be in attendante”.

Quando l’occhio trema.

Il flicker fra cinema, video e digitale.

Videoscreening a cura di Claudia D’Alonzo (Digicult) e Mario Gorni (Careof DOCVA). 17-26 settembre 2009, DOCVA Documentation Center for Visual Arts, via Procaccini 4, Milano.

Filmografia Piece Mandala / End War (USA/1966) dir. Paul Sharits d. 5’

Noisefields (USA/1974)

dir. Steina Vasulka, Woody Vasulka (The Vasulkas) d. 9’ 54”

Light solfeggio (Italia/1977) dir. Claudio Ambrosini d. 2’17”

Quando l’occhio trema (Italia/1989) dir. Paolo Gioli d. 12’

Form (Austria/2000)

La serie animata dei Pokémon è incorsa più volte in censure, per i motivi più vari. Il primo caso riguarda il 38° episodio della prima serie, il cui titolo originale è でんのうせんしポリゴン (Electric Soldier Porygon), che è stato bandito in tutto il mondo. L’episodio in questione andò in onda la prima ed unica volta il 16 dicembre 1997 in Giappone, causando quasi 700 casi di epilessia provocate da alcune sequenze nelle quali vengono mostrate intermittenze luminose troppo veloci. Le intermittenze hanno questa successione: un fotogramma rosso, uno blu e uno azzurro. Poi di nuovo rosso, blu, azzurro e così via. Alcune persone hanno sofferto di attacchi di epilessia anche a causa della successiva trasmissione della sequenza d’immagini incriminate durante la diffusione della notizia tramite telegiornali. [fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Pokémon]

dir. Kurt Hentschläger, Ulf Langheinrich (Granular Synthesis) d. 3’

Délice (Francia/2002)

dir. Gerard Cairaschi d. 9’

Because (Germania/2002) dir. Graw & Bockler d. 3’47”

Untitled for Television (USA/2003) dir. Scott Arford d. 5’57”

Stars (Italia/2003)

d. dir. Alessandra Arnò 4’

Ho deciso di non fare più l’arte (Italia/2003) dir. Girts Korps d. 3’

Scarti (Italia/2005) dir. ape5+miky ry d. 10’37”

Superbitmapping (Germania/2000)

Merge/Se Fondre (Belgio/2006)

dir. Thorsten Fleisch d. 2’3”

dir. Antonin De Bemels d. 24’30”

20mo Livello (Italia/2001)

Vagina cosmica (Italia/2009)

dir. Paolo Chiasera d. 6’

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dir. Otolab d. 4’50”

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