Progetto Roberto

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Gli «Amici del Progetto Roberto» ringraziano la BANCA POPOLARE DI VERONA - S. GEMINIANO E S. PROSPERO

In copertina: Roberto con i «suoi» bambini Coordinamento: Francesco Occhi, Lucio Salgaro e Claudia Bergamo Hanno fornito il loro contributo letterario: Roberto Danese Antonio Pastorello Franco Castelli Claudia Bergamo Luigi Foglia Lucio Salgaro Le immagini sono di: Roberto Danese Luigi Foglia Carlo Gallone Claudia Bergamo Paolo Frigo Silvio Bertelli Anna Stocco Andrea Castellaneta «Amici Progetto Roberto» Parte delle foto di pagg. 32, 34, 35 e 37, sono tratte dal sito: Wikivoyage La foto di pag. 99 è di Ferruccio Dall’Aglio Progetto grafico e impaginazione: Silvano Miniato Finito di stampare presso la Miniato Srl di San Bonifacio (Verona) nel mese di ottobre 2010

© Copyright Associazione di volontariato «Amici del Progetto Roberto» Onlus


Là dove il cielo si tuffa nel mare Là dove il cielo si tuffa nel mare, un uomo dalla criniera bionda sfida la nostra ansia quotidiana. Come il vento in una giornata afosa il suo arrivo dona quiete e speranza. «Come tu estas?» ... «Bien» Con occhi che non cercano il domani, mani che si portano alla bocca oggi. Sogni spezzati vestiti solo di carità. L’uomo dalla criniera bionda raccoglie i cocci, cuce e rammenda vite, soffia sentimento nel fango dell’ignoranza. Anziani con la vista tagliata dalla canna da zucchero, si accostano con riverenza e maestosa riconoscenza. «Ola papà, mi porti con te»? Dalla savana alle turchine acque del mare, semina fra i giovani il fiore della responsabilià, affinché domani possano vivere nel loro giardino. E quando qualcuno gli domanda perché, scuotendo i biondi capelli che luccicano d’argento, risponde: «far del bene ti fa sentire bene». Antonio Pastorello


Arcivescovo Metropolitano di Santo Domingo Primate d’America

PREFAZIONE L’Italia e l’Isola chiamata da Cristoforo Colombo La Española hanno sempre avuto sin dalla fine del XV secolo vincoli molto stretti, a partire dai fratelli Cristoforo e Bartolomeo Colombo che caratterizzarono i primi momenti della presenza della Spagna in America. Inoltre, il primo Vescovo residente di Santo Domingo, Alessandro Geraldini, in realtà fu il secondo nominato, era un illustre figlio di Amelia, il quale lasciò in avanzata costruzione la nostra bellissima Cattedrale Primaziale d’America. Nei secoli XIX e XX si ebbe la presenza di italiani nella Repubblica Dominicana, realtà che è incrementata con l’affluenza turistica degli ultimi anni. Queste relazioni storiche si sono rafforzate, inoltre, grazie al dinamismo, entusiasmo, generosità e capacità imprenditoriale di un giovane figlio della provincia di Verona, nato concretamente a Montecchia di Crosara, il cui nome è Roberto Danese. Da più di 23 anni Roberto ha realizzato un ammirevole lavoro umanitario, di promozione umana, educativa e di salute in diversi luoghi della Repubblica Dominicana, a partire dalla Città di Santo Domingo e diverse opere importanti nella provincia di Monte Plata, specialmente a Sabana Grande de Boyà, a Yamasà e ultimamente a Boyà. Questa impressionante opera è stata possibile grazie alla generosità di molte famiglie italiane. In questi anni di lavoro proficuo a favore dei più poveri, Roberto ha fondato il progetto che portava il suo nome, il Proyecto Roberto, le cui strutture stanno funzionando con grande successo. Ora il Progetto Roberto ha un nuovo figlio il Progetto Boyà vicino a Monte Plata, messo in moto grazie all’Associazione Amici del Progetto Roberto - Onlus nel 2003. Il mio augurio come Cardinale Arcivescovo di Santo Domingo, che sempre ha ammirato e benedetto l’incomparabile opera di Roberto, è che il Progetto Boyà trovi molti e generosi patrocinatori che esperimentino la grande verità che lo stesso Roberto raccoglie in questa frase che ha coniato: «Fare il bene ti fa stare bene». Con la mia cordiale benedizione per Roberto e per tutti i membri dell’associazione «Amici del Progetto Roberto - Onlus».

+Nicolás de Jesús Cardenal López Rodríguez Arcivescovo Metropolitano di Santo Domingo Primate d’America 6


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PREMESSA

Mentre raccoglievamo il materiale perché venisse fatto questo libro, ci siamo chiesti più volte se valeva la pena scriverlo, se potesse servire a qualcosa, se forse non era meglio, come suggerisce il Vangelo in tema di carità, che la destra non sapesse cosa faceva la sinistra. Ci abbiamo pensato a lungo ed alla fine il coraggio e lo stimolo nel promuovere questo testo li abbiamo avuti considerando due elementi: il primo è la storia di Roberto, avvincente, ambientata in un Paese meraviglioso, spesso però conosciuto solo per le immagini da cartolina e non per le condizioni nelle quali sono costretti a vivere i bambini e gli anziani, le fasce più deboli di un’area del mondo poverissima. Il secondo nasce invece dalla capacità comunicativa che Roberto Danese riesce a trasmettere sia direttamente negli incontri pubblici, sia attraverso i mass-media. Chi segue il Progetto sin dalle origini ricorda il successo che ebbe il libro scritto da monsignor Fausto Rossi, allora parroco di Prova di San Bonifacio. Le migliaia di copie distribuite consentirono a Roberto di accelerare i suoi piani nella realizzazione della scuola di Sabana Grande de Boyà. Siamo certi che anche questo volume, che prende spunto da quell’opera e ne prosegue idealmente il racconto, riuscirà a dare una grossa mano ai sempre numerosi e ambiziosi progetti del volontario di San Martino Buon Albergo. Significativo è poi il fatto che la pubblicazione del volume arriva alla vigilia del 25° anniversario del suo primo viaggio nella Repubblica Dominicana, un episodio che ha cambiato la vita di Roberto e quella di molte altre persone. Senza la sua opera e la capacità di attirare aiuti con l’intervento di aziende (come non ricordare l’imprenditore Silvano Pedrollo, uno dei primi a credere in questa missione), con le adozioni a distanza di centinaia di famiglie e con il sostegno di enti pubblici come la Provincia di Verona, Sabana Grande sarebbe rimasta solo un punto sulla carta geografica conosciuto esclusivamente dai topografi. Oggi il Progetto Roberto è la più importante realtà economica della città, con i primi bambini diventati impiegati, insegnanti, medici, imprenditori e con migliaia di famiglie che hanno migliorato la loro condizione di vita. Ma, come insegnano i marciatori, non si deve guardare indietro per vedere quanta strada si è fatta, ma si deve andare sempre avanti per non perdere di vista la meta. Il nuovo impegno si chiama Proyecto Boyà: una struttura più piccola delle precedenti, ma arricchita da tante iniziative decentrate nei diversi villaggi. Al momento di andare in stampa Roberto sta già attuando un primo intervento per adottare non solo i bambini di questo territorio, ma l’intera economia della città offrendo un’opportunità turistica di sicuro interesse. Per dovere di cronaca, va dato il merito di aver promosso questa pubblicazione ad un nostro socio che, pur avendo ricoperto diversi incarichi istituzionali, rimane sempre un semplice sostenitore dell’opera di questa fondazione: Antonio Pastorello. Presidente «Amici del Progetto Roberto» Franco Castelli

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Roberto Danese nasce a Montecchia di Crosara in provincia di Verona il 1° gennaio del 1962. La sua famiglia risiede tuttora nel veronese, a San Martino Buon Albergo dove Roberto ha anche i parenti. Dal 1987 risiede a Boyà, provincia di Monte Plata dove vive con la sua numerosa famiglia fatta di oltre 1.300 persone e dalle quali ogni tanto si separa per tornare nella sua terra d’origine: l’Italia.

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PRESENTAZIONE Se avete voglia di immaginare come può essere il paradiso, vi suggeriamo di pensare alle bianche spiagge della Repubblica Dominicana costellate di palme da cocco e lambite da acque cristalline. Se vi incuriosisce sapere come può essere l’inferno, pensate ai «Batey» sperduti nel centro dell’isola caraibica dove i bambini denutriti devono combattere una quotidiana lotta contro la fame e le malattie. Nel Paese dove tutto è possibile e convivono contrasti inconciliabili, opera da un quarto di secolo un ragazzo diventato uomo richiamato dal paradiso, ma rapito dall’inferno. Una storia che merita di essere raccontata. Gli autori

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INDICE

«La dove il cielo si tuffa nel mare» di Antonio Pastorello............

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Prefazione - Nicolás López Rodríguez - Primate d’America......

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Premessa - Presidente «Amici del Progetto Roberto»................

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Presentazione - Autori..................................................................... 11 La storia di Roberto......................................................................... 15 Lucio e la prima visita al «Progetto Roberto».............................. 25 La Repubblica Dominicana............................................................ 31 Il «Progetto Roberto»...................................................................... 39 I bambini di Roberto....................................................................... 47 Roberto si racconta......................................................................... 55 Mamma Maria, l’uragano e la tragedia di Haiti........................... 61 Claudio, la ragazza con la valigia di cartone e Mejio.................. 69 La toccante storia di Fifa................................................................ 72 Gli orfani di Sabana......................................................................... 74 Storie di ordinaria prostituzione................................................... 78 Missione compiuta.......................................................................... 81 Il Tempio coloniale di Boyà........................................................... 85 Boyà e i progetti futuri.................................................................... 91 L’importanza ed il valore di un’adozione a distanza.................... 95 Come aiutare il «Progetto Roberto»............................................. 99 Bibliografia....................................................................................... 100

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La storia di Roberto

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uesta è la storia di un giovane veronese che come tanti altri, dopo un anno di duro ed estenuante lavoro, aveva deciso di concedersi una meritata vacanza lontano da tutti e da tutto. Acquistato il biglietto, Roberto si era infatti imbarcato da solo per una destinazione sognata da molti: il Centro America e, per la precisione, la Repubblica Dominicana in uno degli arcipelaghi più desiderati: quello delle Antille. Non pensava certo, il giovane Roberto, che quello sarebbe stato il viaggio che gli avrebbe cambiato la vita. A San Martino Buon Albergo, il suo paese natale in provincia di Verona, l’inverno era rigido e quel gennaio del 1985 Roberto, con i suoi 23 anni e la tanta voglia di fare, aveva il mondo nelle mani. L’arrivo a Santo Domingo è sereno, il clima è caldo-umido, la natura è stupenda, il mare meraviglioso, la gente è allegra, tutto proprio come se l’era immaginato nelle cartoline… o quasi. Trovato dove dormire, Roberto cade in un sonno profondo ed il mattino dopo è già pronto per visitare il villaggio. Parlano lo spagnolo, sono socievoli ma la miseria che circonda questa gente è

Il paesaggio che trovò Roberto arrivando a Santo Domingo nel 1985

tanta. A turbare il giovane veronese è poi la presenza di molte ragazzine che gli vengono a chiedere di andare a letto assieme. Sono poco più che adolescenti e questo non può essere certo accettabile. Roberto perciò si fa forza e cerca, in uno spagnolo stentato, di parlare con loro e di capire perché stanno facendo quel lavoro. «Siamo poveri - è la risposta - solo nostro padre lavora e buona parte di quello che guadagna, lo spende alla taverna il fine settimana». Molti adulti infatti lavorano con salari minimi nei campi di canna da zucchero, di ananas, caffè e cacao e spesso questi non sono sufficenti a sfamere la loro famiglia, così la gente si abbruttisce e sfoga i dispiaceri e la disperazione nell’alcol. Roberto di giorno in giorno sta scoprendo l’altra faccia di quello che tanti considerano un vero e proprio paradiso e quello che gli farà cambiare definitivamente opinione su quanto si era immaginato dall’Italia, sarà l’incontro con Raphael, un giovane del luogo di 17 anni. L’incontro è casuale, legato alla vendita di alcuni oggetti che di solito acquistano i turisti. Raphael abita in una capanna di cartone perché non può permettersi di più e perché farla fare in legno 15


vuol dire portare via alberi ai latifondisti. A 17 anni è già sposato ed ha una bambina piccola e deve lavorare sodo e vendere molto per sfamare due bocche. I due si lasciano, il giorno è finito, ma Roberto rimane profondamente turbato da quell’incontro. Il mattino seguente Raphael è lì vicino che aspetta il giovane veronese per fargli da guida ma non si rende conto che sarà molto di più quello che offrirà al turista rispetto a quello che riceverà in cambio come compenso. Roberto infatti vuol vedere questo misero villaggio di baracche di cartone e non esita a far salire in macchina Raphael per dirigersi a Los Bancos de Arena. L’arrivo è raccapricciante, molto peggio di come se l’era immaginato. I bambini sono malati di verminosi mentre tutti camminano a piedi nudi in mezzo a fogne a cielo aperto e ad acqua inquinata. La capanna dove abita Raphael è fatta proprio di carto16

ne e solo qualche tavola è in legno. La giovane compagna con cui vive il ragazzo dominicano ha solo 16 anni e si chiama Nana. È una povertà sconvolgente quella che Roberto scopre e ne rimane fortemente scosso tanto che decide di prendere un volo in tutta fretta e ritornare in Italia. A casa non riesce a dimenticare quell’esperienza e le condizioni di vita delle sfortunate persone che aveva conosciuto. Così dopo sei mesi, convinto che si dovesse almeno tentare di fare qualcosa per aiutare quella gente, decide di tornare là e di vivere a diretto contatto con loro. Raphael lo accoglie a braccia aperte vivendo con lui alcuni mesi. Lo aiuta a rifarsi la casa in legno e lamiere mentre di notte combatte una battaRoberto assieme a Nana davanti alla sua abitazione Roberto con Raphael e alcuni amici a Los Bancos de Arena; siamo nel 1986


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glia personale per difendersi da ragni e topi e per non contrarre malattie veneree in questi luoghi endemiche e trasmissibili anche senza contatto sessuale. La denutrizione colpisce il 70% dei bambini mentre l’analfabetismo supera l’80%. Tra le tante mancanze in questo Paese vi è anche l’assistenza sanitaria quasi del tutto assente mentre molti tagliatori di canna rimangono ciechi a 40 anni a causa di una polvere velenosa emessa dalla canna da zucchero. Si aggiungano poi la costante piaga dell’alcool ed una miseria che costringe gli abitanti a fare i lavori più umili ed umilianti, ed ecco l’altra faccia di Santo Domingo. Per Roberto questo è il secondo viaggio, la seconda esperienza ed il suo rientro in Italia è più pacato, consapevole di aver conosciuto la povertà, la miseria, la solitudine ma anche l’amore e l’affetto dell’uomo. La vicinanza di Dio è molto

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più vera e sentita in quella gente, basta saperla capire per cercare di cambiare con calma ma anche con ostinazione, una situazione grave ma risolvibile. È una conversione personale per Roberto ma è anche una conversione di vita che porta tanta altra gente ad iniziare un percorso di condivisione e di amore. Così Roberto vende due dei tre camion che possiede e parte per il suo terzo viaggio verso quel mare bello e misterioso che è il Mar dei Caraibi. È comunque consapevole che da solo ben poco può fare e che è necessario avere a fianco qualcuno che conosca non solo le persone ma anche le loro anime. Diventa quindi amico di un missionario a Boca Chica, si chiama padre Abel e vive nella Repubblica Dominicana da oltre 20 anni dopo aver lasciato la Spagna. Gestisce una missione con 12 villaggi sparsi nelle savana e qui Roberto si rende immediatamente utile aiutando il


Bambine al fiume a prendere l’acqua La più grande fa da mamma ai fratellini Bambini che riposano nel loro letto La macelleria del villaggio Bambini impegnati a preparare il pranzo A fare legna Sull’uscio di casa Nel villaggio

religioso nella sua opera. Ed è proprio in questo periodo che viene a sapere di un altro missionario, padre Francesco Buriasco, italiano di Genova, che a Sabana Grande de Boyà opera e coordina 33 villaggi visitandone uno al giorno. Nei mesi trascorsi a Boca Chica e a Sabana Grande, le richieste di aiuto e le necessità che si devono affrontare sono tante e tra queste anche il desiderio di ingrandire la piccola chiesa di padre Abel.

Roberto decide così di tornare ancora una volta in Italia per raccogliere fondi da inviare al missionario. A San Martino Buon Albergo dove abita, il giovane veronese aveva una sua attività legata al trasporto su terra con alcuni camion ed una persona alle sue dipendenze ed è proprio in questo periodo che matura la trasformazione interiore di Roberto che non solo fa il camionista, ma nei momenti liberi si rende parte 19


Bambini dominicani in una discarica di rifiuti alla ricerca di una qualsiasi cosa di cui cibarsi Un anziano tagliatore di canna percorre il suo desolante sentiero di vita abbandonato da tutti Roberto con i «suoi» bambini

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attiva in tante iniziative legate al mondo delle missioni. Realizza collette nelle chiese, raccoglie carta, stracci, ferro, ma soprattutto raccoglie soldi da mandare a padre Francesco e padre Abel. Un lavoro massacrante ma pieno di soddisfazione e di amore verso il prossimo. Nonostante l’impegno che lo coinvolge senza tregua, sente che gli manca tanto chi ha lasciato in quella terra povera e bisognosa di aiuto e così, una volta venduto anche l’ultimo camion, si trasferisce definitivamente nella Repubblica Dominicana. Qui scopre che padre Abel è gravemente malato e che deve tornare in Spagna per urgenti cure. Contatta quindi padre Francesco e comincia la sua esperienza a Sabana Grande de Boyà. Sono tre i punti cardine della vita che Roberto e padre Francesco decidono di portare avanti nei 33 villaggi che fanno parte della missione. La celebrazione della liturgia eucaristica per potenziare la forza interiore e l’amore verso Dio e verso il prossimo; la lotta all’analfabetismo per cercare di togliere la gente dalla schiavitù culturale ed educativa a cui i proprietari delle coltivazioni di canna da zucchero li avevano ridotti; la cura dei loro corpi e di quelli degli abitanti dei villaggi attraverso l’igiene e la medicina naturale. In questo periodo comunque Roberto continua a mantenere i contatti con gli amici


italiani e grazie alle lettere che manda periodicamente in Italia, nelle quali racconta la condizione di miseria in cui versa quella gente, riesce sempre a ricevere aiuti. Ma il progetto di Roberto e del padre missionario è però diverso, non basato sull’assistenzialismo ma sulla realizzazione di piccole iniziative che vedono coinvolte le persone del luogo che, così, riescono ad avere dignità, fierezza ma, soprattutto, lavoro. È quasi un anno che Roberto condivide con padre Francesco questa missione di vita e

dopo aver seguito il religioso per tutto questo tempo, decide che è necessario programmare e progettare qualcosa che guardi al futuro e che sia legato ai bambini per dare vita a quel processo di autonomia di cui ha tanto bisogno questa gente. Inizia quindi il «Progetto Roberto» aiutato dalla gente del posto con la costruzione di una prima grande sala che verrà adibita a scuola. È una scommessa, una lotta

per dimostrare come il cammino che ha intrapreso sia fondamentale per raggiungere quanto sperato. Utilizza così i soldi portati dall’Italia e con l’aiuto di una maestra raccoglie 20 bambini che imparano a leggere e a scrivere. Non sono facili i primi momenti ed anche i bambini ci mettono del loro nel complicare le cose non essendo abituati a rimanere per così tanto tempo attenti senza poter giocare. Bisogna

Roberto con Monsignor Ramon De La Rosa nel marzo del 1989 all’inaugurazione del primo «Progetto Roberto» a Sabana Grande de Boyà. È presente anche padre Francesco Buriasco (a destra nella foto) La prima struttura del «Progetto Roberto» a Sabana Grande de Boyà 21


lavarsi, mangiare, prestare attenzione durante le lezioni, non distrarsi e, soprattutto, studiare. Roberto ottiene l’attenzione e l’ammirazione della gente ed i bambini aumentano in maniera esponenziale. È però necessario l’aiuto dell’autorità pubblica e Roberto si reca nella Capitale dove riesce ad acquistare un terreno ad un prezzo ragionevole. La gente è a fianco di Roberto; viene costruita una grande mensa e quattro aule 22

ed in breve i bambini ospitati nella struttura salgono a 640 assistiti da 18 maestre, 3 suore domenicane e 21 altre persone. Roberto rivolge molta attenzione al personale educativo, sia per dare un’educazione religiosa, ma anche per garantire una crescita sana e moralmente corretta dei bambini. Molti vedono in questo progetto qualcosa di altamente innovativo e di fortemente educativo. Basti pensare che nella Repubblica

Dominicana oltre l’80% dei bambini è analfabeta. Qui invece i bambini frequentano regolarmente la scuola dalla prima all’ottava classe tutto il giorno tornando a casa la sera dopo le 17, conseguendo un diploma riconosciuto dallo Stato. Nel 1988 i bambini superano gli 800 e le aule dove i ragazzi studiano ed imparano salgono a cinque. Ma come fanno a studiare, a mangiare e a vivere in tale grande struttura tutti questi bambini? Grazie all’adozione a distanza che in breve tempo Roberto con i «suoi» bambini e con alcuni amici italiani in visita Monsignor Ramon De La Rosa, premia nel 1991 Roberto per il suo impegno nella Repubblica Dominicana Al lavoro mentre lava un infermo Roberto impegnato a medicare una persona anziana In un’aula con una maestra nel primo «Progetto»


ha visto le famiglie italiane contribuire in misura fondamentale al mantenimento di oltre la metà dei ragazzi ospitati. Roberto però non vive ed opera solo al suo interno, anzi quando può visita le famiglie sparse tra le colline e spesso riesce a salvare da situazioni disperate bambini indifesi ed inermi a volte preda dei proprietari dei grandi latifondi dell’isola o vittime di padri violenti e spesso ubriachi. Un importante riconoscimento

Roberto è un fiume in piena e quanto tenuto nel proprio cuore diventa un percorso di vita che guarda al futuro e che è fondamentale intraprendere: acquistare dell’altro terreno per coltivarlo e per avere i prodotti necessari per la mensa scolastica; costruire di un’infermeria; realizzare un grande dormitorio per 150 persone. La benedizione del vescovo è il segnale che si può andare avanti. Ma a rallentare l’opera di Ro-

provincia. Dopo due mesi Roberto è già pronto a ritornare e non solo carico di energie, ma con tanti nuovi aiuti economici da investire sul progetto. Quando torna a Santo Domingo, inizia anche un nuovo progetto: realizzare un ospedale pediatrico proprio a Sabana. A venire incontro a questo desiderio sono alcuni medici dell’ospedale centrale di Santo Domingo che vogliono portare il loro contributo a fianco dei due «mis-

Roberto e padre Francesco lo ricevono nel 1991 grazie al vescovo della diocesi, monsignor Ramon De La Rosa. È il 19 gennaio e l’alto prelato visita Sabana Grande dove riconosce la validità e la qualità del progetto e lo benedice. Per i due italiani è una gioia ed è il segno che quanto fatto fino ad ora, va verso una giusta via. Monsignor De La Rosa chiede a Roberto cos’altro vogliono fare e quali progetti hanno per il futuro.

berto ci pensa la natura, anzi una comunissima zanzara. Il giovane veronese, punto da un insetto, peggiora improvvisamente ed è costretto a tornare in Italia, nell’ospedale di Negrar per farsi curare. Qui molti sono gli amici che vengono a trovarlo, vogliono conoscere la situazione a Sabana Grande e chiedono informazioni sul progetto di adozione a distanza. La solidarietà riparte ed anche gli aiuti che partono da Verona e

sionari» italiani. Il progetto purtroppo, non verrà realizzato a causa di difficoltà burocratiche ed amministrative sopraggiunte. Oggi comunque la struttura ospita circa 3.000 bambini e su di essa veglia il Signore che sempre ha benedetto queste persone e questi luoghi. Ma Roberto non si ferma, convinto che la solidarietà e l’amore siano l’humus per dare vita ad un nuovo progetto: in cammino verso il futuro. 23


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Lucio e la prima visita al «Progetto Roberto»

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on la diffidenza e la curiosità del giovane cronista, durante una vacanza nella Repubblica Dominicana decisi di far visita a quel veronese che stava operando ormai da qualche anno in quella terra. Mi aveva incuriosito la sua storia e ancora di più la forza che avevano i volontari che a migliaia di chilometri di distanza promuovevano le adozioni a distanza. Prima del viaggio presi contatto con Claudia Bergamo che mi diede il numero del «Progetto Roberto» e mi indicò gli orari nei quali chiamare. Era il 1993 ed i cellulari nel Paese caraibico erano ancora una chimera. Affittata un’utilitaria nella Capitale, ricevetti telefonicamente da Roberto le indicazioni stradali per arrivare a Sabana Grande de Boyà. A dire il vero non le avevo ascoltate con molta attenzione, ma soprattutto non le avevo annotate. Mi sembrava strano che per coprire gli 80 chilometri che separavano la Capitale dal «Progetto Roberto», fossero necessarie quattro ore di tormentato viaggio. La mia supponenza Canto de la Playa, isola di Saona nella Repubblica Dominicana

nei confronti delle dettagliate indicazioni di Roberto derivava dall’aver acquistato una cartina geografica e dall’esperienza che avevo maturato in Italia nel macinare molta strada; ma mi sbagliavo di grosso! Mi misi in viaggio intorno alle 9, certo di essere a Sabana Grande de Boyà al massimo in un paio d’ore. La prima impresa fu quella di uscire dal traffico caotico della Capitale; migliaia di veicoli ammaccati, senza fari, con le portiere legate da fili di ferro, con un unico accessorio funzionante: il clacson. Difficile tenere i nervi saldi, concentrarsi nella guida, districarsi tra gli ingorghi accompagnati da una colonna sonora costante fatta di continui strombazzamenti. Così se ne andò la prima ora di viaggio. E quando il paesaggio cittadino lasciò il posto alle piantagioni di canna da zucchero e ai pascoli, il caos della città rimase solo un lontano ricordo. Ma la serenità durò poco. Se le strade a mano a mano che mi allontanavo dalla Capitale peggioravano in qualità dell’asfalto, quello che mi creò più difficoltà furono le indicazioni stradali. Da buon viaggiatore in Italia, confidavo troppo sulle 25


«frecce», da noi indispensabili ausili stradali ma che qui non esistono. Nemmeno la cartina geografica che avevo acquistato mi era di grande aiuto, non era abbastanza dettagliata per fornirmi indicazioni utili. Non mi rimase che un unico, vecchio, infallibile sistema: fermarsi e chiedere ai passanti. «Por favor, para Sabana Grande de Boyà?» domandavo. La risposta variava dal «No se...» a «Està lejo...». Non so oppure è lontano. Mi aggrappavo a chi mi rispondeva che era lontano, ma una volta incalzato rispondeva «No se...». Una scena che si è ripetuta una decina di volte. Solo in un caso mi sono permesso di mostrare ad un gentilissimo signore di passaggio la cartina geografica per capire dove ci trovavamo. La girò due o tre volte, la guardò con attenzione, mi spiegò che dove c’era azzurro c’era il mare, ma capii che non mi poteva aiutare quando notai che teneva il foglio capovolto e non si arrendeva al fatto di non saper leggere. Solo nei viaggi successivi mi resi conto di quanto l’analfabetismo pesasse sulla società dominicana. Intanto il tempo passava e la mia tabella di marcia era già stata rivoluzionata. Dovevo cambiare strategia; mi venne in aiuto la cartina geografica. In qualche modo avevo capito dove mi trovavo, per 26

questo ai miei interlocutori chiedevo indicazioni per il villaggio successivo. Quasi ad ogni incrocio domandavo «Di qua o di là?». Le strade sono piene di buche, a volte talmente grandi che nemmeno fare lo slalom è sufficiente, ogni tanto la povera utilitaria a noleggio finisce dentro le voragini, fortunatamente senza lamentarsi. La strada principale spesso entra nelle città (almeno così sono indicate sulla cartina) in realtà sono grandi villaggi, spesso con la strada sterrata, con enormi scoli per l’acqua che attraversano la carreggiata e con gente seduta fuori a guardare chi passa e bambini che giocano lungo la strada. Bisogna rallentare, prestare massima attenzione e soprattutto domandare indicazioni ad ogni incrocio. Superata la città di Bayaguana, arrivai a Monte Plata, l’ultima città prima di Sabana Grande. Mezzogiorno era già passato ed io mi stavo avvicinando alle quattro ore di viaggio che Roberto con previdenza aveva pronosticato. Ormai la meta era vicina, dovevano infatti mancare solo alcuni chilometri alla meta. Qui però il mondo sembrava finire. Nessuno conosceva la strada per Sabana Grande de Boyà e non essendoci villaggi intermedi che portavano al termine del mio viaggio, non funzionava neppure l’inge-


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gnoso trucco di chiedere della località successiva. Non arrendendomi, trovai un signore che mi indicò la direzione. Ma fu molto evasivo, mi disse che Sabana era molto lontana e che la strada stava finendo. Mi rimisi in marcia sconsolato ma sempre più convinto che dovevo arrivare. I panorami sono mozzafiato, bellissimi ed indescrivibili, con le colline adibite a pasco28

li, piante ad ombrello che fanno da contrasto ad un cielo azzurro intenso. Ma la poesia durò ben poco, infatti dopo qualche chilometro la strada asfaltata piena di buche lasciò il posto ad un sentiero sterrato difficilmente distinguibile tra le tantissime buche. D’altra parte la mia era l’unica vettura in movimento, mentre si incontrava molta gente a piedi, qualche animale da soma, qualche motorino e

nulla più. Era ormai il primo pomeriggio quando giunsi a Sabana Grande de Boyà. Un enorme cartellone mi accolse dandomi il benvenuto; un saluto che sembrava beffardo agli occhi di chi ha penato più di cinque ore per giungere in questa località, davvero in capo al mondo. Chiesi informazioni per raggiungere il Progetto Roberto e con l’occasione cercai di capire cosa la gente pensasse di Roberto e del suo operato. Mi dissero: «Es una buena persona», «Ayuda mucho», ma non so quanto dovevo credere ai loro apprezzamenti visto che tutti mi chiedevano se ero fratello di Roberto. Cominciai a credere alla bontà del suo lavoro quando trovai una mamma che mi decantò la missione del giovane veronese, lamentandosi però del fatto che dei suoi due figli solo uno era stato accolto nel collegio e subito mi chiese una raccomandazione per il secondo. Questa richiesta mi confermò che tutto il mondo è paese. Finalmente arrivai al «Progetto Roberto». Tra le casette in legno di diversi colori, spuntava come un castello il «Proyecto Roberto», come è scritto all’esterno. La costruzione infatti richiama la struttura di un forte sviluppandosi su due piani distribuiti su quattro lati senza finestre all’esterno.


All’interno un grande giardino con marciapiedi a raggi che convergono verso il centro. È tutto un brulicare di bambini e bambine con il grembiule, ben pettinati, ordinati, in netto contrasto con la povertà che si nota all’esterno, per le strade sterrate di Sabana Grande de Boyà. Attraverso una terrazza sopraelevata che corre lungo tutto il perimetro del Centro, si raggiungono le classi dove si tengono le lezioni. A piano terra si trovano il refettorio, le cucine, la scuola di cucito, l’ambulatorio medico e quello dentistico. Al piano superiore, disposta in un angolo, c’è la stanza di Roberto che funge anche da ufficio e da sede amministrativa dell’intera struttura. È lì che Roberto conserva tutta la storia del «proyecto», le lettere, le ricevute, la rendicontazione di come sono state impiegate le offerte ar-

rivate dall’Italia. È lì che da cronista ho cercato di capire la missione di questo ragazzo partito da San Martino Buon Albergo e rimasto in questa terra povera e bisognosa. Per tutti i bambini che frequentano il Centro non c’è solo l’istruzione, ma anche la salute, un pasto caldo e la speranza che le norme igieniche che nell’istituto si insegnano, vengano in qualche modo portate in famiglia. È un investimento sui bambini, in prospettiva per il domani. Roberto è qui da anni ed i bambini aiutati nella prima casetta di legno che diede vita al progetto, ora frequentano le scuole superiori nella Capitale. A livello sanitario, quando Roberto arrivò qui la mortalità infantile era superiore al 60%, in pratica quasi un bambino su due non aveva la possibilità di superare il terzo anno di vita; ora le cose vanno molto meglio.

A lato: Roberto e Lucio a «Mondo Felice» Il campo da basket che divide «Mondo Felice» da «Hogar de Fatima» Scorcio del «Progetto Roberto» e l’entrata della struttura

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La Repubblica Dominicana

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a Repubblica Dominicana viene spesso identificata con il nome della sua capitale Santo Domingo, termine che dai dominicani non viene quasi mai usato perché il Paese viene chiamato semplicemente La Repùblica, mentre la città principale è La Capital. È una Repubblica presidenziale che occupa la parte orientale dell’isola di Hispaniola (dopo Cuba la seconda delle Grandi Antille per dimensione), ad Ovest confina con Haiti, mentre ad Est è separata dall’isola di Puerto Rico dal canale «de la mona», cioè della scimmia. Il territorio in cui si stende il Paese è prevalentemente montuoso. La catena più importante è la Cordillera Central (Cordigliera Centrale), che lo attraversa da Nord-Est a Sud-Ovest innalzandosi oltre i 3.000 metri con il Pico Duarte (3.098 metri), che rappresenta la cima più elevata di tutte le Antille Nell’isola si trovano altre tre catene montuose, all’estremo Nord la Cordillera Septentrional, che supera di poco i 1.200 metri, mentre a Sud della Cordillera Central vi sono la Sierra de Neiba, che s’innalza oltre i 2.200 metri, e la Sierra

de Bahoruco. L’isola è ricca di terreni fertili e di corsi d’acqua e tra la Cordillera Central e la Cordillera Septentrional, si trova la valle del Cibao, che assieme alla pianura costiera sudorientale, rappresenta la zona più fertile del Paese. L’economia della Repubblica Dominicana è basata sull’agricoltura (canna da zucchero, tabacco, banane, caffè, riso, cacao, mais, pomodori, ananas, noci di cocco) e sul turismo mentre di un certo interesse sono le risorse del sottosuolo (bauxite, nichel, ferro, oro, argento e salgemma); poco sviluppati sono invece l’allevamento del bestiame (bovini, suini) e la pesca. LA SUA STORIA In origine la Repubblica Dominicana era abitata dal popolo Taino, l’isola si chiamava Quisqueya (madre di tutte le terre) o Babeque. Poche sono le notizie giunte fino a noi di quella civiltà fortemente sconvolta quando il 5 dicembre 1492 le caravelle di Cristoforo Colombo arrivarono nell’isola che divenne una colonia spagnola e venne appunto ribattezzata Hispaniola. Dei primi anni di colonizzazione si ricorda 31


lo schema delle fattorie basato sull’esperienza portoghese nella costa occidentale dell’Africa. L’economia consisteva infatti nello sfruttamento del lavoro retribuito degli spagnoli, un regime di schiavitù per le popolazioni native, la vendita degli stessi in Spagna e l’imposizione di un tributo in polvere d’oro o cotone. Lo sfruttamento delle ricchezze naturali e della forza lavoro indigena, potevano avvenire solo a favore della corona spagnola e non dei privati. Questo provocò molto malcontento tra gli spagnoli e la morte, spesso per tristezza ma anche per malattie e stenti, di tanti «taino» durante il viaggio oceanico. I modi con cui vennero trattati gli indigeni, considerati come la ricompensa per la conquista, provocarono un crollo della loro condizione fisica e della speranza di vita. I «taino» arrivarono a suicidarsi in massa e a realizzare aborti come unica via di salvezza dalla schiavitù. Per questo motivo la popolazione scese dalle circa 400.000 persone calcolate nel 1492, a 60.000 nel 1508. La scarsa manodopera indigena e la concentrazione della stessa in poche famiglie aristocratiche, fece si che i coloni spagnoli emigrassero presso altre terre. Solo con 32


l’introduzione della lavorazione intensiva della canna da zucchero la popolazione riprese a crescere, e con essa iniziò anche la tratta degli schiavi neri dall’Africa. A metà del secolo XVI si calcola che fossero presenti sull’isola più di 20.000 africani provenienti da tribù differenti, mentre i «taino» erano praticamente estinti. All’inizio del 1600 per combattere il contrabbando e gli attacchi dei pirati, la Casa reale spagnola decise di trasferire tutte le persone che vivevano nelle zone Ovest e Nord-Est dell’isola in zone più controllabili e vicine alla capitale Santo Domingo. Questo provocò un impoverimento generale dell’economia dell’isola e la possibilità per filibustieri e bucanieri, di occupare la parte Ovest (La Tortuga) come loro principale sede di partenza per gli attacchi alle navi dirette e provenienti dall’Europa. Nel 1791 una ribellione di schiavi guidati da Toussaint l’Ouverture segnò l’indipendenza della colonia francese di Haiti dalla madrepatria e la conseguente unificazione dell’isola per mano degli haitiani. La prima misura che venne presa fu l’abolizione della schiavitù. Nel 1801 Napoleone inviò una gigantesca spedizione per la riconquista di quello che doveva «Plaza Colon» con la Cattedrale ed il monumento a Cristoforo Colombo La Cattedrale di Santo Domingo dedicata a Santa Maria dell’Incarnazione L’isola di Hispaniola con Haiti, la Repubblica Dominicana e la zona di Sabana Grande de Boyà

essere il centro del suo impero coloniale, ma ciò non impedì che tre anni più tardi Haiti (la parte occidentale dell’isola) dichiarasse l’indipendenza. I francesi rimasero a controllare i territori ad Est con capitale Santo Domingo grazie all’appoggio degli ex-coloni spagnoli che rifiutarono la dominazione da parte di ex-schiavi non riconoscendosi come neri, ma come spagnoli mulatti. Dopo un breve ritorno sotto il dominio della Spagna (1808) e un’indipendenza effimera (1821), nel 1822 la Repubblica Dominicana (o Repubblica di Haiti Spagnola, come si chiamò nel 1821) venne invasa da Haiti. Nel periodo successivo (fino al 1844) si registrarono l’abolizione della schiavitù, una riforma agraria e la ridistribuzione delle terre, l’istituzione dell’educazione obbligatoria laica e gratuita e un forte scontro con la chiesa cattolica. La popolazione dominicana mal digerì queste riforme. Nel 1844 un movimento di sollevazione popolare guidato da Juan Pablo Duarte portò all’indipendenza della Repubblica Dominicana sancita da un manifesto che segnava l’uguaglianza di tutti gli uomini, senza discriminazioni. Il nascente Stato si dibatteva tra quelli che volevano l’indipendenza assoluta e quelli che preferivano l’opzione di protettorato di una nazione sviluppata. Nel 1860 il presidente dominicano Santana firmò un trattato di riammissione alla Spagna (1861). Tale trattato provocò la sollevazione di alcuni generali e l’inizio di una guerra definita di Restaurazio33


ne e conclusa con una nuova indipendenza (1863). A partire dal 1863 la nazione è stata retta per alcuni anni da presidenti eletti formalmente in maniera democratica, fra i quali Francisco Gregorio Billini. A causa dell’insolvenza nel debito estero verso gli Stati Uniti d’America, ma soprattutto per difendere gli interessi nordamericani legati alle coltivazioni di canna da zucchero, questi ultimi nel

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1916 attuarono un’occupazione militare dell’isola. Nel momento in cui gli Stati Uniti lasciarono il Paese insediarono il dittatore Rafael Leónidas Trujillo con l’incarico di difendere gli interessi economici americani. La dittatura di Trujillo, osteggiata fra gli altri dalla legione caraibica, durò fino al 1961. Nel 1937 Trujillo, in cerca di popolarità, ordinò l’uccisione di 18.000 haitiani che vivevano

nelle zone di frontiera dominicana e fece passare il massacro come una rivolta del popolo dominicano. Da quel momento iniziò una campagna volta alla ripopolazione della zona con famiglie dominicane, a cui si consegnavano terre, e alla creazione di nuove province. Trujillo cambiò nome anche a diverse città, tra le quali la capitale stessa, diventata Ciudad Trujillo, e San Cristóbal, ridenominata Ciudad Benemérita. Alla morte del dittatore, ucciso da una congiura il 30 maggio 1961, il suo braccio destro Joaquín Balaguer Ricardo tentò di rimanere al potere, anche con un fallito colpo di stato, ma cedette alle pressioni internazionali e le prime elezioni libere furono vinte da Juan Bosch Gaviño, fondatore del Partido Revolucionario Dominicano (PRD), cresciuto in esilio durante la dittatura. Le sue posizioni, ritenute politicamente inaccettabili dall’amministrazione statunitense - Juan Bosch chiedeva una riforma agraria e una revisione del sistema economico - hanno portato a una seconda invasione militare (1962-1965), durante la quale fu praticamente annientata la sinistra dominicana. Dopo il ritiro degli Stati Uniti, nel 1966 venne eletto pre-


sidente Joaquin Balaguer. Il primo periodo di governo di Balaguer durò fino alle elezioni del 1978, che videro l’elezione di Antonio Guzmán Fernández, del Partido Revolucionario Dominicano allora all’opposizione. Fu la prima elezione dominicana in cui si assistette ad un cambio di governo in modo pacifico. Il mandato si caratterizzò per essere stato uno dei più liberali tra quelli conosciuti dalla Repubblica Dominicana. Terminò con il suicidio di Guzmán nel 1982 e gli succedettero due brevi esperienze legate al PRD fino al ritorno di Balaguer nel 1986. Balaguer governò per dieci anni, venendo rieletto nel 1990 e nel 1994 in un clima di violenza e intimidazione verso l’opposizione. Dietro la pressione internazionale, Balaguer acconsentì a organizzare nuove elezio-

ni nel 1996 per le quali non si sarebbe candidato. Le elezioni dell’agosto 2004 hanno visto sconfitto il governo in carica e il ritorno alla presidenza di Leonel Fernández Reyna riconfermato nelle amministrative del 2006; garanzia a lui accordata anche nelle elezioni presidenziali del 2008 dove il presidente uscente viene riconfermato con il 53% dei voti.

Alcune immagini di Santo Domingo Il quartiere «El Conde» La residenza di Diego Colombo figlio di Cristoforo «Avenida Anacaona», una delle vie principali della Capitale L’ingresso dell’Università Entrata secondaria della Cattedrale

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LA POPOLAZIONE La Repubblica Dominicana è suddivisa amministrativamente in 31 province. In aggiunta a queste è stato istituito il «Distrito Nacional» (Distretto Nazionale), costituito dalla parte centrale della città di Santo Domingo. Le province si suddividono a loro volta in municipi (municipios). I municipi più grandi contengono uno o più distretti municipali (distritos municipales). La popolazione ammonta a 9,6 milioni di abitanti con un tasso di crescita dell’ 1,5% (2006, fonte Banca Mondiale), ma a cui si devono aggiungere circa un milione di immigranti illegali haitiani che sfuggono al normale censimento. Circa la metà della popolazione vive in zone rurali, e buona parte di essa è composta da piccoli proprietari terrieri, ma si sta registrando un fenomeno preoccupante di abbandono delle campagne a favore delle città. La maggioranza della popolazione è mulatta, nata dall’unione fra europei (in particolare, spagnoli) e africani. Circa l’11% dei dominicani è di discendenza africana, considerando anche molti immigrati haitiani e i loro discendenti. Il 16% dei dominicani è invece composto da bianchi di origine europea, prevalen36


temente spagnola. Ci sono infine piccole minoranze di cinesi e arabi mediorientali. La cultura è prevalentemente di stampo ispanico, anche se non mancano influenze africane e statunitensi. L’ECONOMIA Nell’agricoltura, le colture prevalenti e di maggiore reddito sono quelle orientate alle esportazioni: canna da zucchero, diffusa in particolare nella pianura costiera meridionale e per la cui produzione viene sfruttata la mano d’opera quasi schiavizzata dei (braccianti), haitiani radunati nei villaggi chiamati «batey»; caffè, coltivato sui versanti della Sierra de Bahoruco e nella penisola di Samanà; cacao, tabacco, presenti in tutte le pianure interne. Tra le colture destinate all’alimentazione locale, prevalgono il riso, il mais e la manioca. Le foreste forniscono discrete quantità di legname pregiato e di prodotti coloranti, ma il loro sfruttamento intensivo ne ha determinato, nonostante le politiche di tutela dei recenti governi, un certo impoverimento nel corso degli ultimi decenni. In campo minerario è cessata l’estrazione della bauxite, mentre restano: il nichel nei giacimenti di Monsenor Nouel, che concorre in modo significativo alle esportazioni; l’oro e l’argento. Il settore manifatturiero, condizioIl «Faro Colon» L’artistica facciata della Cattedrale «Fortaleza Ozama» un maniero risalente alla dominazione spagnola

nato da una cronica mancanza di energia elettrica, di capitali e di manodopera qualificata, rimane poco diversificato e sostanzialmente vincolato al comparto agro-alimentare, fatta eccezione per le zone franche, dove l’industria mostra una maggiore dinamicità. La bilancia commerciale è passiva. Le importazioni provengono soprattutto da Stati Uniti, Venezuela, Messico e Giappone e riguardano macchinari, petrolio e suoi prodotti derivati; mentre le esportazioni sono prevalentemente dirette verso gli Stati Uniti. Anche il rhum dominicano, riconosciuto come il più antico dei Caraibi, è un prodotto tipico del Paese. I rhum più conosciuti anche all’estero sono Brugal, Barcelo e Bermudez. Il principale porto è quello della capitale Santo Domingo, attraverso il quale passa tutto il movimento commerciale con l’estero; la Capitale è, inoltre, servita dall’aeroporto internazionale di Punta Caucedo. Altri aeroporti di pari importanza si trovano a Puerto Plata e La Romana, al servizio del crescente movimento turistico. Purtroppo la Repubblica Dominicana è celebre anche per altri tipi di servizio, meno meritevoli delle spiagge paradisiache e del rhum, cioè il turismo sessuale. Non solo donne, ma uomini e bambini sono sfruttati da turisti senza scrupoli e senza etica. Anche il traffico illegale di droga ha reso (tristemente) famosa la Repubblica Dominicana. Il Paese viene, infatti, considerato il «ponte» di passaggio per il traffico illecito di droghe tra Stati Uniti ed Europa, in particolare per il traffico di ecstasy dall’Olanda e dal Belgio verso gli Stati Uniti ed il Canada. 37


Il «Progetto Roberto» a Sabana Grande de Boyà, oggi Grazie agli aiuti degli amici veronesi, Roberto inizia la costruzione del «Progetto Roberto» a Sabana Grande de Boyà

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Il «Progetto Roberto»

I

l «Progetto Roberto» è una realtà nata nel 1986 nel cuore della Repubblica Dominicana frutto delle tante esperienze vissute dal giovane veronese Roberto Danese che, immersosi nelle condizioni miserevoli della gente di Sabana Grande de Boyà, ha sentito l’esigenza di donarsi loro e di condividerne la povertà. E questa esperienza è la prova concreta dell’importanza di costruire qualcosa basato sull’amore e sulla tutela dei diritti umani verso persone nate in una terra dove ai più non è riconosciuto neppure il diritto di vivere. È nato così, nel giro di breve tempo e con la necessità di aprire una struttura che accogliesse i bambini dando loro nutrimento ed educazione, il «Progetto Roberto» che di anno in anno si è ampliato ed ingrandito con enormi sforzi e superando grandi difficoltà. Oggi il centro ospita circa 3.000 ragazzi che vengono seguiti ed educati dalla scuola dell’infanzia fino al «bachillerato» (le nostre superiori). dove i bambini frequentano la scuola in due turni: un gruppo al mattino ed uno al pomeriggio. Le scuole pubbliche funzionano a singhiozzo e nella maggior parte dei casi i bam-

bini arrivano da famiglie disagiate. Nella Repubblica Dominicana la figura del padre è praticamente assente e spesso anche le madri lasciano i figli a nonni o zii in quanto si trasferiscono nella capitale o nelle località turistiche per svolgere i più disparati lavori, non da ultimo quello più antico del mondo. La struttura attuale del Progetto vede impegnata un’equipe di suore, insegnanti, cuoche, medici, infermieri, meccanici e artigiani tutti del luogo, i quali operano in strutture molto semplici al nostro sguardo, ma dove il laboratorio meccanico o quello informatico sono l’unica possibilità per questi giovani di imparare un lavoro. Il Progetto assicura anche un pasto al giorno, materiale scolastico, una divisa (imposta dal governo) e cure mediche. Insieme a quella di Sabana, Roberto ha anche fondato a Yamasà un altro centro che dà ospitalità ad oltre 1.000 bambini, ed altre strutture satelliti minori distribuite sul territorio. Sono state poi costruite un centinaio di abitazioni per famiglie disagiate o che versano in grave situazione economica. Nel 1999 il Progetto ha raggiunto la propria indipendenza sia amministrativa che 39


Bambini e ragazzi tutti con la loro divisa, nel cortile interno del «Progetto Roberto», durante la preghiera e l’alzabandiera mattutino Alcune giovani al corso di cucito che si svolge all’interno della struttura La dentista in ambulatorio Ragazzi in aula partecipano alle lezioni didattiche

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Le cuoche indaffarate in cucina La farmacia interna Il dottore impegnato in una visita ambulatoriale nel Centro I bambini a pranzo nella mensa interna del ÂŤProgetto RobertoÂť

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economica e questo grazie anche ad un finanziamento del Governo Dominicano, per cui si è pensato di lasciare la gestione ad una Congregazione di Suore Dominicane: Las Hermanas Misioneras del Corazon de Jesus, che continuano le finalità del Progetto sempre sotto la supervisione dell’Associazione Onlus «Amici del Progetto Roberto», che continua ad aiutare i bambini di Mondo Felice ed i nonni dell’Hogar de Fatima, una casa di riposo per una ventina di vecchi tagliatori di canna, ormai ciechi e senza una famiglia, per i quali i loro ultimi giorni sarebbero altrimenti caratterizzati da stenti e abbandono. Oggi il «Progetto Roberto» offre lavoro a circa 200 persone di Sabana e dintorni e tutto grazie a Roberto Danese che ha iniziato l’attività di volontariato ed assistenza ai bisognosi dominicani attingendo inizialmente alle proprie risorse e decidendo Yamasà, Centro didattico del «Progetto Roberto» che dista da Sabana oltre 70 chilometri «Mondo Felice», la struttura che accoglie i bambini abbandonati «Hogar de Fatima», il complesso che accoglie anziani abbandonati Il «Villaggio Arcobaleno» costruito per dare un tetto agli «ultimi» Tutti gli edifici sono stati realizzati su iniziativa di Roberto, grazie agli aiuti degli amici italiani e con manodopera locale 42


di spendere alcuni anni della propria vita tra i poveri della Repubblica Dominicana, cedendo la sua attività in Italia ed impiegandone il ricavato per la sua missione. Quando le sue finanze cominciarono a scarseggiare, nel 1988 a Verona ha preso avvio un grande meccanismo organizzativo fatto di solidarietà, di altruismo, di sensibilità e di amore verso il prossimo per raccogliere fondi per queste popolazioni. Grazie ad uno straordinario passa parola, trascinato con grandissima volontà da alcuni volontari che periodicamente si recavano a Sabana per portargli il suo aiuto materiale ed economico e che organizzavano un po’ dovunque, conferenze e riunioni con lo scopo di testimoniare ed a far conoscere l’attività di Roberto, arrivarono i primi aiuti concreti attraverso un gruppo dal nome di «Gruppo Famiglie». Roberto rientrava in Italia 24 maggio 2003. Alcuni «Amici del Progetto Roberto» a Sabana per l’inaugurazione di «Mondo Felice» alla presenza del cardinale S.E. Nicolás de Jesús López Rodriguez, arcivescovo di Santo Domingo e Primate d’America Una delegazione degli «Amici del Progetto Roberto» in visita a Santo Domingo, con alcune autorità dominicane Gli «Amici del Progetto Roberto» con la Land Rover inviata a Santo Domingo e utilizzata da Roberto come ambulanza 43


generalmente una volta l’anno, ed in questo periodo gli incontri si intensificavano sempre più ed il suo presentarsi ed il suo descrivere il progetto in un italiano ormai spagnoleggiante, gli permetteva di entrare nel cuore di tutti mentre la sua testimonianza diretta era fonte di nuovo amore disinteressato per tutte le attività. 44

Con il trascorrere degli anni e grazie ai tanti aiuti ricevuti, il «Progetto Roberto» è diventato realtà e nel 2003, con l’inaugurazione di Mondo Felice, gli amici hanno ritenuto opportuno dare forma giuridica a tutta l’attività di Roberto costituendosi in associazione Onlus. Il 16 ottobre 2003, 19 persone si sono così ritrovate in uno

studio notarile di Verona ed hanno dato vita all’associazione Onlus «Amici del Progetto Roberto», che ha come obiettivo quello di supportare tutte le attività benefiche di Roberto nella Repubblica Dominicana. Tra le tante attività quella a cui l’associazione tiene particolarmente, porta il nome di «Adotta un bambino» con la quale si cercano di aiutare i tanti bambini della Repubblica che vivono in condizioni disperate condannati alla miseria e ad una vita senza prospettive. Trovando persone disponibili all’adozione a distanza, l’associazione, con meno di un’euro al giorno, riesce a garantire alimentazione, istruzione ed assistenza sanitaria ad un bambino che, una volta adulto, potrà cambiare il proprio destino e contribuire a migliorare il futuro della propria gente e del proprio Paese. L’obiettivo è quello di vedere questi piccoli, guidati dagli educatori e cresciuti in un ambiente sano ed organizzato, ben inseriti nella propria cultura nel rispetto delle proprie tradizioni, diventare gli uomini nuovi del domani: piccoli semi che porteranno grandi frutti. Roberto abbracciato da Maria ospite del Centro per anziani «Hogar de Fatima» Lo sguardo penetrante e intenso di una bambina di un «batey» di Boyà


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In fila per il pranzo ÂŤFare del bene ti fa sentire beneÂť

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I bambini di Roberto

S

ono tante le esperienze che Roberto ha vissuto in questi anni a contatto con migliaia di bambini e tanti sono i ricordi che si affollano nella sua mente. Ecco alcune testimonianza del lavoro che quotidianamente il giovane veronese ed i suoi collaboratori continuano a fare in questa terra povera e bisognosa di aiuto. «Ricordo, specie all’inizio di questa esperienza, i tanti bambini che arrivavano al Progetto denutriti e con gravi carenze fisiche e psichiche -racconta Roberto- Man mano che noi li accoglievamo, li sfamavamo, li aiutavamo con cure mediche e garantivamo loro un minimo di educazione. La notizia si era trasformata in un tam tam ed aumentavano sempre di più le mamme che si accalcavano ai cancelli del Centro con i loro bambini in braccio che ci pregavano di prenderli per curarli ed alimentarli. Spesso dovevamo fare delle scelte, difficili, faticose, impegnative, ma dovevamo farle e così cercavamo di accogliere i casi più gravi, per salvare queste giovani vite da morte certa; ma quanti altri avremmo potuto salvare se avessimo avuto la possibilità di farlo». Svariate sono state le difficoltà incontrate dai volontari del «Progetto Roberto», gran

parte delle quali superate. Non era certo facile vivere e condividere una vita fatta di stenti, di privazioni, di paure come quella della gente dominicana. «Ricordo un giovane Haitiano affetto da tetano -prosegue il volontario veronese- che nessuno voleva toccare per paura di esser contagiato. Era in condizioni disperate, rigido come un baccalà non si muoveva. Abbiamo dovuto caricarlo a mani nude sul cassone della nostra camionetta per portarlo d’urgenza all’ospedale di Santo Domingo. Aveva le gambe incrociate e non riusciva a muovere alcun arto. È rimasto così per tutto il viaggio. Una volta arrivati all’ospedale, per la precisione al Centro di Salute, abbiamo chiesto l’intervento degli infermieri per trasferirlo su di una barella ma nessuno ci ha voluto aiutare per paura del contagio. Allora ci abbiamo pensato noi. Una volta caricato il giovane sulla barella, abbiamo chiesto un paio di forbici per tagliare i pantaloni che ci rendevano difficile poterlo curare. Non ne abbiamo trovate, così ci siamo dovuti arrangiare; recuperata una lametta da barba, abbiamo tagliato i calzoni e lo abbiamo finalmente accompagnato a ricevere i primi soccorsi. Dopo pochi giorni il giovane 47


haitiano è morto». Nonostante siano ormai passati anni da questo triste fatto, la voce di Roberto trema ancora solo a parlarne; sono esperienze che lasciano il segno! «Come quella di Sandy -riprende lui- non la dimenticherò mai. Un giorno passando per alcuni villaggi a visitare delle persone che frequentavano il Centro, a Cojoval notai un bambino denutrito sotto un albero che non riusciva a stare in piedi e con la testa appoggiata su di un lato sulla spalla. Il bambino mi incuriosì particolarmente ma proseguii nel mio viaggio. Il giorno dopo ripassando dallo stesso villaggio, rividi la medesima scena. Il bambino era nudo e denutrito e da un esame più attento, non si riusciva neppure a capire con una certa esattezza quanti anni potesse avere. Sembrava averne due, forse tre, ma dalla dentatura non poteva averne meno di sette. Chiesi allora informazioni ad un’anziana che abitava lì vicino e seppi che un paio di settimane prima, uscendo dalla sua baracca di buon’ora, si imbatté nel piccolo abbandonato ed impaurito che non aveva neppure la forza di piangere. Mi disse subito che le faceva tanta tenerezza ma che non aveva né i mezzi né la forza di tenerlo con sé perché quel poco che riusciva a racimolare non bastava per vivere neppure a lei. Così lo lasciava lì sotto l’albero dove lo aveva trovato, nella speranza che qualcuno, impietosito, lo portasse via. La notte invece lo ospitava nella sua baracca per proteggerlo dagli animali. Non ho avuto un attimo di esita48

zione e ho portato con me Sandy al Progetto. Dopo le visite mediche, i dottori hanno indicato in sette anni l’età del bambino abbandonato che oltre ad una preoccupante denutrizione, era affetto da gravi patologie. Lo abbiamo alimentato, curato ed aiutato a crescere. Il luogo preferito da Sandy (così lo abbiamo chiamato), era la cucina dove si muoveva a suo piacimento dentro un girello e dove amava stare specie quando si cucinava per sentire l’odore del cibo. Oggi Sandy è cresciuto, è un bambino allegro, vivace e pieno di vita. Non trascorre più gran parte delle sue giornate in cucina perché sa che potrà mangiare tutti i giorni. È un bambino riconoscente, riportato alla vita, consapevole che grazie a tante persone e a tanti amici italiani, è stato possibile salvargli la vita regalandogli una nuova opportunità». Un altro caso che merita di essere ricordato è quello di Robinson, un bambino di 9 anni ospite del Progetto ormai da oltre cinque. «Era nato da una donna alcolizzata, senza padre e abbandonato su degli stracci che fungevano da letto -inizia il suo racconto Roberto- ed è stato trovato grazie ad una vicina che ci ha avvisato. Nei primi anni di vita non si è mai alzato da quello che era il suo lettino. Sopravviveva grazie ai vicini che gli davano qualcosa per alimentarlo e di quei durissimi primi anni trascorsi sdraiato, porterà sempre un indelebile ricordo: una testa piatta per il troppo tempo passato Sandy nell’infermeria del Progetto poco dopo averlo accolto. Il gonfiore della pancia e i capelli bianchi sono dovuti ai patimenti subiti e alla denutrizione


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coricato. Quando lo abbiamo incontrato non sapeva né camminare e né parlare. Accolto al Centro, i medici diagnosticarono che, a causa della sua denutrizione, non sarebbe mai diventato un bambino normale e che con molta probabilità avrebbe avuto poche possibilità di sopravvivenza. È ormai nostro ospite da più di cinque anni ed oggi, grazie alle cure ricevute e al tanto amore che gli amici del Progetto gli hanno dimostrato facendolo vivere con tutti gli altri bambini, Robinson ora cammina, mangia da solo, si lava, e soprattutto si difende. La sua capacità intellettiva è limitata ma ha tanta voglia di vivere. Dimenticavo, Robinson è nato con dodici dita nelle mani e a volte penso che se fosse nato in un altro posto, sarebbe diventato di sicuro un bravissimo maestro di pianoforte». Se come in questo caso hanno vinto la solidarietà, l’amore, la voglia di vivere e di far vivere, tante altre volte a vincere sono state le sconfitte, e l’impossibilità di trovare soluzioni accettabili di fronte a problemi gravissimi. «Per chi vive in quest’isola una delle sofferenze

maggiori è quella di assistere impotente quasi ogni sera al “Baquinì”, un’espressione afroantilliana che indica un rito fatto in occasione della morte di un infante -racconta Roberto- è una litania straziante che dalla notte dura fino al mattino per dare l’ultimo saluto ad un bambino che muore. Al piccolo viene posta una corona in testa come simbolo angelico. Il corpo del piccolo viene circondato di fiori, mentre i parenti e gruppi di bambini cantano per una notte intera accompagnati da tamburi prima di seppellirlo. Si pensi che di solito il corpo del bambino a causa del troppo caldo, nel giro di qualche ora si gonfia ed i parenti sono costretti a mettere una grossa pietra sulla pancia del piccolo per evitare che si verifichi questo fenomeno di una crudezza unica. Un’altra delle cose più strazianti durante l’intera cerimonia è il comportamento dei genitori ed in special modo la disperazione delle mamme che, per il dolore della perdita del figlio o della figlia, si infliggono atroci sofferenze battendo la testa contro il muro o utilizzando altre punizioni corporali. Quanti bambini a Santo Domingo

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muoiono ancora oggi per “verminosi”, un’infestazione che colpisce l’organismo, in particolare l’intestino, causata da vermi parassiti che con un minimo di profilassi ed alcune elementari regole di corretta nutrizione potrebbero invece essere salvati». E qui ritorna uno degli obiettivi cari a Roberto, quello legato all’alimentazione. Infatti una volta giunto nell’isola, il giovane volontario veronese si era proposto come finalità quella di dare educazione, alimentazione, salute e lavoro agli abitanti di Santo Domingo in un progetto che lo vedeva impegnato come «costruttore d’amore» per veder realizzato un sogno. «Quante volte abbiamo diviso i nostri alimenti con le persone dei villaggi vicini -dice Roberto- la povertà è tanta, inimmaginabile per chi non ha toccato con mano queste realtà e il desiderio di mangiare o di dar da mangiare ai propri cari è tale che non di rado ci capitava e ci capita ancora oggi, di essere assaliti dagli abitanti di alcuni villaggi mentre portiamo loro gli aiuti. In queste situazioni sono più i danni che subiamo rispetto ai benefici portati; ti rovinano la macchina, ti ammaccano la car-

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rozzeria, causano rotture al motore tanto che non riesci neppure a completare il viaggio per portare aiuto ai villaggi vicini. Subito ti assale la rabbia, il desiderio di mandare tutto a quel paese, ma poi ci pensi e capisci che quello che fai è giusto. Pazienza, perseveranza e molto amore sono indispensabili. Dopo anni di lavoro nella Repubblica Dominicana, ogni tanto mi fermo e guardo indietro per vedere quanto è stato fatto fino ad oggi e tutto questo mi sembra miracoloso. Penso a quando sono arrivato qui, a quello che ho trovato in questa piccola Betlemme come io la chiamo e a quanto siamo riusciti a fare con l’aiuto dei volontari. La cosa straordinaria è che grazie al sostegno di tante, tantissime persone che non mi hanno mai visto e che hanno creduto in questo progetto, è stato possibile unire queste gocce per formare un grande mare che ha permesso di salvare molte vite. Niente è più bello del fidarsi del prossimo senza essersi mai visti se non attraverso una lettera ed aiutare con donazioni sincere in un cammino del vivere e del servire che è guida e grazie al quale, facendo del bene al prossimo, ti fa stare bene con te stesso».


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Roberto si racconta

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Tipiche abitazioni dei «batey», i villaggi all’interno dell’isola dominicana Roberto, con padre Francesco Buriasco, in una delle tante visite ai «batey» nei primi anni di permanenza nell’isola

urante il suo primo viaggio Roberto era rimasto colpito dalla grande miseria che opprimeva il Paese e non era riuscito a dimenticare la condizione di estrema povertà nella quale vivevano migliaia di persone. La prima esperienza di condivisione fu nel quartiere di Cristo Rey, una baraccopoli nel cuore della capitale. Con un pastore protestante aveva iniziato a dare una mano nella costruzione delle case in legno e lamiera che venivano erette dalle varie famiglie. Angelo custode dell’impavido italiano era Raphael, un coetaneo domenicano che vigilava sulla sua incolumità. «Per lui ero come un fratello, uno di famiglia -racconta- ero stato padrino dei suoi figli». Raphael una notte portò Roberto nel Parque Enriquillo, un mercato di basso livello della Capitale, appena fuori la zona coloniale. Questo era anche un luogo di ritrovo per barboni e disperati. «Una notte siamo rimasti lì nel parco a dormire -ricordaavevo uno zainetto che ho usato come cuscino sotto la testa. Avrò dormito un quarto d’ora e quando mi sono

svegliato ero senza scarpe. Ho pensato che se mi hanno portato via le scarpe è perché qualcuno ne aveva bisogno». Roberto, all’inizio era animato dal desiderio di condividere la realtà di questa gente, così chiese di poter vivere sotto il ponte Duarte. Il manufatto scavalca la foce del rio Ozama e ai suoi lati ci sono gli accessi alla pancia del ponte, un lungo budello privo di luce dove all’interno sono stati ricavati con del cartone degli scompartimenti per salvaguardare la privacy delle diverse famiglie che vi abitano. Quando c’è bel tempo si cucina all’esterno, quando piove, all’interno; la miscela di aromi e fumi è inimmaginabile. I bagni non esistono, i bisogni fisiologici vengono fatti in sacchetti di nylon che poi vengono gettati giù dal ponte. Nella zona Est della Capitale c’era un cimitero vicino al porto di Haina abitato da qualche centinaio di persone che avevano trovato alloggio nei loculi liberi in baracche costruite all’interno: «Le tavole erano state fatte utilizzando le lapidi», ricorda Roberto. Di fronte a questa situazione 55


il ventenne veronese voleva fare qualcosa, ma non sapeva cosa. Nel frattempo aveva conosciuto un prete spagnolo, padre Abel parroco di Boca Chica e di Andres che gli aveva parlato di un sacerdote italiano, Francesco Buriasco, nativo di Genova ma cresciuto a Torino. Era un salesiano di don Bosco, missionario a Cuba, ma costretto all’espatrio dal regime di Fidel Castro. Padre Francesco aveva 56

scelto di diventare diocesano sposando in pieno la «chiesa dominicana» promettendo obbedienza al cardinale di Santo Domingo che lo aveva inviato in una delle zone più povere del Paese: Sabana Grande de Boyà. «Sono andato a trovarlo un paio di volte -ricorda Roberto- ma raggiungere quella località dalla Capitale era un’avventura: strade dissestate e mancanza di mezzi pubblici


rendevano impegnativa ogni visita all’amico sacerdote». Dopo un paio di viaggi, il missionario propose a Roberto di rimanere a Sabana qualche giorno e di visitare alcuni dei 40 villaggi che la circondano. Con padre Francesco imparò a conoscere quella realtà visitando i «batey», villaggi di capanne in legno o paglia prevalentemente abitati da haitiani tagliatori di canna da zucchero che lavorano stagionalmente per pochi pesos. Se al contrario il villaggio è composto solo di dominicani, questo si chiama «campo», ma anche in tale caso la condizione non è per nulla migliore. «Per visitare queste realtà -spiega Roberto- si doveva arrivare con la macchina fino ad un certo punto poi il resto del tragitto lo si faceva con un cavallo o un asino. Quando la

gente ci vedeva in lontananza, batteva dei ferri a mo’ di campana e tutto il villaggio si radunava. Una capanna di frasche era adibita a scuola e a cappella. Il sacerdote non portava solo la parola di Dio, ma si impegnava anche ad alfabetizzare la popolazione. Si raccoglievano le notizie, i morti, i nati, si impartivano i sacramenti. Da pochi giorni che dovevo rimanere con lui, ho accompagnato padre Francesco per otto anni!» Da questa significativa esperienza Roberto ha così pensato di fare il primo passo con i bambini. Trovando l’appoggio di una signora anziana che aveva frequentato la scuola in gioventù per qualche anno, prese in affitto una casa in muratura con il tetto in lamiera, venne innalzata una tettoia nel terreno adiacente adibita a mensa, ed ebbe inizio il suo progetto

Roberto con padre Francesco Buriasco il missionario salesiano che aveva scelto di vivere in una delle zone più povere del Paese e che fu la sua prima guida Il primo pick-up acquistato con parte del ricavato dalla vendita dei suoi camion Tagliatori di canna all’opera Un tagliatore di canna da zucchero Anziano tagliatore di canna al bar, a spendere quei pochi soldi che ha

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Il mezzo di trasporto di un ferito tutt’ora utilizzato in alcuni villaggi all’interno dell’isola dominicana L’ambulanza donata dagli «Amici del Progetto Roberto» per il trasporto degli ammalati

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per i bambini: educazione e alimentazione. Il volontario di San Martino pensava di dedicare un po’ del suo tempo per questa iniziativa; doveva essere solo una parentesi della sua vita ma, visto che le cose andavano bene e che soprattutto dedicarsi agli altri lo faceva star bene, decise di dedicarsi completamente al Progetto. Da qui il motto che Roberto ha insegnato a tutti i bambini che sono passati dai suoi centri e che è alla base del suo operato: «Far del bene ti fa sentire bene». Uno stato d’animo forse egoistico, ma indispensabile in un luogo dove qualunque cosa si facesse per gli altri era una goccia nel mare. «Per me era angosciante sentire quasi ogni sera il “Baquinì”, la litania che si intona in occasione della morte di un infante -spiega commossonon possiamo rimanere inerti davanti a queste tragedie». Quando Roberto arrivò a Sabana Grande, la mortalità infantile nei primi 3 anni di vita, era altissima. Alla luce di questo, aveva intuito che la parentesi non sarebbe stata tanto breve così decise di costruire una casa capiente affiggendo all’esterno a caratteri cubitali, «Progetto Roberto San Martino Buon Albergo». «Il Centro di settimana in settimana era sempre più af-

follato e pressanti e continue erano le richieste delle famiglie di far entrare nel Progetto i propri figli -raccontaCosì è iniziata una seconda fase legata ad un’opera di decentramento portando la filosofia del Progetto: alimentazione, educazione e salute, nei villaggi vicini. La grande casa acquistata era ormai insufficiente, così, grazie agli aiuti dall’Italia abbiamo dato vita al «Progetto Roberto», un fortino con 32 aule, una mensa, la cucina, una sartoria, una falegnameria, un laboratorio di informatica, la biblioteca, 4 ambulatori (dermatologia, ginecologia, cardiologia, dentista), una farmacia interna e un centro analisi». Il fuoristrada di Roberto, donato dagli amici italiani, era l’ambulanza della città ed era anche l’unico mezzo in grado di raggiungere i villaggi sperduti per portare i malati più gravi all’ospedale nella Capitale. A distanza di un quarto di secolo Roberto guarda indietro a quello che ha fatto con soddisfazione e compiacimento ma è pronto a raccogliere nuove sfide. «Non mi è mai successo niente -dice- mi sono sentito sempre guidato da qualcuno di grande lassù e questo mi sprona a guardare avanti verso nuovi progetti e verso nuove esperienze». 59


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occante è la storia di mamma Maria che ancora oggi consiglia, aiuta e condivide il lavoro che sta facendo Roberto. «Maria è una signora di 60 anni che un giorno mi si avvicinò e disse di volermi raccontare la sua storia. Da ragazza aveva avuto la possibilità di emigrare negli Stati Uniti lasciando la miseria e le privazioni della Repubblica Dominicana». Roberto racconta la vita di Maria con precisione e con dovizia di particolari e ricorda come la signora, dopo essersi felicemente sposata, era anche diventata madre di tre figli. «Da sempre però sentiva la vocazione di servire gli altri -riprende il giovane volontario di San Martino- e dove abitava era molto impegnata sia in parrocchia sia a prestare aiuto ai carcerati latini. Purtroppo rimase vedova molto presto; decise allora di rimboccarsi le maniche allevando i tre figli con amore fino al loro matrimonio. Compiuto il proprio dovere materno, volle tornare nel Paese in cui era nata con l’intento di aiutare il prossimo. Così un giorno, sentendo parlare del Progetto, pensò di venire a farmi visita per mettersi a disposizione e per rendersi disponibile a fare qualsiasi cosa. La accolsi curioso per questa sua scelta e volli sapere dove abitava. Mi

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Mamma Maria, l’uragano e la tragedia di Haiti accompagnò in un villaggio chiamato Boyà dove viveva in una casupola per metà di cemento e per metà di lamiera. Dormiva per terra, come materasso aveva un lenzuolo e condivideva la miseria del villaggio con le persone che la circondavano. Grazie alla sua disponibilità e alla sua pazienza e perseveranza, è nato il progetto Boyà che oggi accoglie 30 bambini mentre altri 860 usufruiscono del servizio diurno. Maria ora la sento come una mamma che mi cura, mi consiglia, mi consola e mi coccola. Una presenza indispensabile ed insostituibile per me e per tutti i bambini».

ti ma nulla più. Tutto questo fino al settembre 1998. «Eravamo stati avvisati alcuni giorni prima dalle strutture del governo, che si stava avvicinando un uragano di forte intensità -spiega Roberto- subito non mi preoccupai più di tanto; infatti l’esperienza degli anni precedenti mi tranquillizzava e mi diceva di non preoccuparmi. Di solito, all’avvicinarsi di uno di questi fenomeni, le autorità invitano le persone a rifugiarsi

in luoghi sicuri come in chiesa, dove l’edificio è costruito in cemento o all’interno del Progetto anch’esso realizzato in cemento armato. Purtroppo quella volta le cose andarono diversamente. Vidi infatti verso le sei di sera, avvicinarsi delle nuvole cariche di cattivi presagi in un cielo di un nero mai visto. Facemmo entrare nel Progetto molte famiglie con bambini, e di lì a poco iniziò a soffiare un forte vento prima da un lato

L’URAGANO Ogni anno, nel periodo che va da giugno a novembre, il Centro America è colpito da fenomeni naturali chiamati anche cicloni. Per questo motivo i mesi in questione vengono chiamati «epoca ciclonica». Nei primi 12 anni vissuti da Roberto nella Repubblica Dominicana, i fenomeni si sono sempre presentati con scarsa intensità. Molta acqua, vento moderato e tanta preoccupazione per allagamenti, tetti scoperchiaMamma Maria tra i suoi bambini a Boyà 61


Molti sono gli imprenditori veronesi che hanno sostenuto e che tutt’ora sostengono Roberto, in particolare, come non ricordare Roberto Dalla Valle della Stone Italiana Spa, che ha donato tutte le pavimentazioni dei vari «Progetti» e Silvano Pedrollo della Pedrollo Spa, che oltre a sostenere in concreto Roberto, ha contribuito in modo determinante all’invio degli 11 container di aiuti dopo l’uragano.

Silvano Pedrollo 62

Quello che rimane di una «casa» dopo il passaggio dell’uragano Si scarica uno degli 11 container con gli aiuti appena arrivati dall’Italia


poi dall’altro, quindi da entrambe le direzioni. L’acqua che cadeva, era come polverizzata dal vento che provocava una fitta nebbia. Con il passare dei minuti sopra di noi aumentava un forte rumore che assomigliava ad un elicottero che volteggiava sopra le nostre teste. Da alcune fessure potevo vedere gli alberi che volavano, lamiere taglienti lanciate in aria ed una miriade di oggetti che volteggiavano da tutte le parti. Eravamo terrorizzati, nonostante fossimo al sicuro e che tutto fosse ben chiuso, l’acqua entrava da ogni parte ed allagava ogni luogo. Ricordo che ero all’interno della grande cucina quando si staccò a seguito della forza del vento, una porta robusta che mi colpì di spalle scaraventandomi sul pavimento. Rimasi senza respiro per un bel po’ mentre un chiodo mi era entrato nella schiena provocandomi una grave ferita.

Vedevamo sia i bambini piccoli che quelli grandi, bagnati e terrorizzati. Non riuscivamo a capire quello che stava succedendo fuori. L’uragano continuò nella sua furia per ben sei ore. Il villaggio ed il Centro erano totalmente al buio mentre fuori non si poteva camminare. Alle prime luci dell’alba siamo usciti e con grande sorpresa abbiamo visto l’intero villaggio di Sabana raso al suolo. Le piante erano cadute sulle case di mattoni e le avevano distrutte mentre le baracche di legno e lamiera non c’erano più. Oltre ai gravissimi danni, molte sono state le persone ferite ma, soprattutto, tanti sono stati i morti. Le autorità locali non hanno mai fornito il numero esatto delle vittime anche se, da un censimento parrocchiale, mancarono più di 5.000 persone all’appello. Con il tempo ci siamo resi conto che tutta l’isola era sta-

ta colpita da questa gravissima calamità. Le comunicazioni erano garantite solo via terra mentre non c’erano né luce né telefono. Dopo quattro giorni le autorità iniziarono a portarci alcuni viveri con degli elicotteri ma questo aiuto non bastava per tutti. Intanto in Italia la grande famiglia del Progetto aveva saputo dai giornali quello che era successo. Si mobilitarono tutti per raccogliere viveri e per inviarli con dei container, via mare. Dopo lo smarrimento e l’impotenza iniziali dovuti alla grande devastazione, abbiamo cominciato a sgomberare e a ripulire le strade mentre eravamo impegnati a ricostruire le baracche con qualsiasi materiale si trovasse per strada. Ricordo la ricerca disperata di chiodi che non si trovavano e la grande marea di persone che, persa la loro casa, di notte dormivano chi sotto una lamiera chi sotto un cartone. Grazie a Silvano Pedrollo che ha messo a disposizione del Progetto un capannone come centro di raccolta, siamo riusciti ad inviare ben 11 container con generi di prima necessità. A distanza di un anno siamo poi riusciti a riavere la luce elettrica per alcune ore al giorno e a ritornare ad una vita normale». Effetti collaterali dopo il passaggio dell’uragano 63


LA TRAGEDIA DI HAITI Il recente terremoto di Haiti è stato per il mondo intero l’esempio di una calamità naturale di dimensioni spropositate e mai le popolazioni dell’isola avrebbero pensato di dover assistere ad un inferno come quello. Comunque non tutta l’isola Hispaniola ha subito la furia della terra tanto che i dominicani hanno avvertito solo un leggero movimento in occasione delle scosse più forti. Le ore successive, convulse e cariche di notizie, furono molto incerte e poco o nulla si sapeva sulla gravità della situazione. Solo due giorni dopo il disastro, grazie alla televisione, tutti poterono finalmente comprendere le dimensioni del disastro e la devastazione totale della capitale haitiana. «Prendemmo subito a cuore i timori e le paure di un uomo, padre di quattro ragazzi che da poco avevano finito gli studi nel Progetto e che lavoravano come piccoli commercianti ad Haiti -racconta Roberto- Il padre non aveva più loro notizie e mi supplicò di andare a cercarli convinto di trovarli

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ancora in vita. Mi sembrava fosse un’impresa impossibile riuscire a rintracciare quei ragazzi vivi o morti sepolti da tutte quelle macerie. La convinzione però di dover fare la cosa giusta, ci ha portato ad organizzarci e a partire con la nostra Land Rover; otto persone con aiuti umanitari in macchina e con indosso i giubbotti della Croce Rossa. Sapendo più o


meno dove erano alloggiati i ragazzi, siamo partiti al mattino del terzo giorno successivo al terremoto. Dopo quattro ore eravamo al confine con Haiti in un posto che si chiama Jimeni. Tutti i cancelli della frontiera erano aperti ed oltre questi si vedevano solo alcuni militari impauriti. La strada era tutta bianca, piena di buche, e dopo alcuni chilometri, si cominciarono a vedere delle strutture crollate. Man mano che si procedeva, aumentavano i danni fino all’arrivo nella Capitale che dista dalla frontiera 40 chilometri. L’intera Capitale era crollata, i morti sulle strade erano centinaia mentre l’odore era insopportabile. Anche l’espediente di utilizzare una mascherina sul naso non alleviava l’odore sempre più acre Roberto arriva ad Haiti con i primi soccorsi, tre giorni dopo il tremendo terremoto del gennaio 2010 Roberto con il giubbotto della Croce Rossa dominicana si aggira sconsolato tra le macerie di una Haiti che non esiste più

mentre la gente, non sapendo più cosa fare, si metteva del dentifricio sulle narici. Giunti sul posto ci accorgemmo della gravità della situazione. Tutti chiamavano e ti tiravano disperati per il braccio gridandoti che avevano la propria famiglia sotto le macerie e che le persone erano ancora vive. Ricordo in maniera molto nitida le urla di aiuto di gente sepolta sotto i pesanti detriti che chiedeva aiuto mentre noi eravamo impotenti davanti a tale disastro. Quanto avremmo potuto fare se solo avessimo avuto anche un semplice crick idraulico. Purtroppo dopo molti tentativi dovemmo desistere. Non si riusciva a camminare per le tante macerie sulle strade, i morti venivano calpestati mentre noi non riuscivamo ad arrivare sul luogo dove forse c’erano i nostri ragazzi. Dopo numerosi tentativi, la nostra Land Rover riuscì a scavalcare montagne di macerie ma di lì a poco siamo dovuti intervenire direttamente per togliere con un seghetto i fili di alta tensione che ostruivano il passag65


Altre tremende immagini del dopo terremoto Bambini tentano di dormire sotto un rifugio provvisorio Lo scarico del container con gli aiuti inviati dall’Italia dagli «Amici del Progetto Roberto» La distribuzione di beni di prima necessità agli abitanti di Haiti

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gio. La Land Rover ci serviva anche per fare luce nel luogo degli scavi; grazie ad una fila di lampadine allestita sopra il tetto per illuminare la notte, si poteva continuare a scavare. Ricordo che nel luogo dove dovevamo arrivare era già notte. Iniziammo subito a fare dei buchi con la mazza nel tetto di questa struttura crollata, che dava da dormire a questi ragazzi mentre dai buchi usciva un odore inimmaginabile. Dopo ore di lavoro notturno, illuminati dai fari della jeep, siamo riusciti ad estrarre i primi corpi, credo che siano stati più di venti,

tutti gonfi. Circondati da tanti altri volontari, continuammo fino a che trovammo uno dei quattro ragazzi. Era già tutto gonfio ed emanava un fortissimo odore di carne in putrefazione. La stanchezza era tanta e anche la paura, infatti la terra continuava a tremare mentre noi scavavamo. La nostra cocciutaggine ci permise di trovare un ragazzo ancora vivo e così, pieni di gioia e felicità, abbiamo ripreso a scavare con maggiore entusiasmo ma di lì a poco alcuni spari di pistola e di mitraglietta dietro di noi ci fecero capire che era meglio

andare e che la zona non era per nulla sicura. Caricammo sul tetto della Land Rover il giovane morto avvolgendolo in un telo di nylon e ripartimmo verso casa lasciando alle nostre spalle l’inferno e la nostra strana ma palpabile sensazione di impotenza. Arrivammo a Sabana la sera e ci recammo direttamente al cimitero per seppellire il nostro ragazzo che ormai emanava un odore nauseabondo. Il dolore della madre era straziante ma ci ha lo stesso ringraziati; vicino a lei aveva almeno un corpo da poter piangere».

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Q

uando Roberto giunse a Sabana Grande de Boyà la mortalità infantile si aggirava sul 60%. Denutrizione, condizioni igieniche precarie, ignoranza, epidemie e tante altre cause sottolineano come gli infanti siano la parte più debole di questa parte poverissima della Repubblica Dominicana. Se è facile immaginare le condizioni difficili di vita dei bambini normali, è altrettanto semplice comprendere come sia precaria la vita dei piccoli portatori di handicap. Gli amici del Progetto, quando possono, cercano di lasciarli nella loro famiglia d’origine, convinti che nessuno sia in grado di sostituire l’amore di un genitore ed in queste situazioni il loro sostegno è solo un aiuto esterno che si fa carico dell’intera famiglia che spesso è composta dalla mamma e dai figli. Alcuni casi significativi sono quelli di Claudio, della ragazza con la valigia di cartone e di Mejio; testimonianze molto toccanti e che ci fanno riflettere sull’insostituibile lavoro che i volontari del Progetto stanno facendo a Santo Domingo. Ce li racconta Claudia che segue Roberto Danese sin

Claudio, la ragazza con la valigia di cartone e Mejio dalle origini del suo impegno umanitario in questa parte dei Caraibi. CLAUDIO «Claudio, la ragazza con la valigia di cartone e Mejio

sono giovani con gravi problematiche che vivono nel Batey Santa Rosa che dista una trentina di chilometri da Sabana Grande de Boya -ci spiega la volontaria veroneseClaudio è un ragazzo di circa

Mejio in carrozzina con l’amico Robinson Claudio in braccio alla mamma 69


14/15 anni, la sua mamma ci racconta che è nato normale ma che dopo un mese di vita, è stato colpito da una febbre altissima che gli è durata alcuni giorni. Quella febbre purtroppo era la poliomielite. Da allora Claudio vive nella sua baracca di legno steso su di una branda in posizione fetale, non parla ma capisce tutto. Da piccolo la mamma o i fratelli più grandi lo portavano fuori tenendolo in braccio ma adesso non è più possibile trasportarlo perché è diventato grande e nella carrozzina che gli avevamo comperato non ci sta più. Il suo mondo è tutto lì tra quelle quattro assi, segue con gli occhi ogni piccolo 70

movimento all’interno della baracca e quando ti vede è contento anche perché sa che quando arriva qualcuno del Progetto, arriva anche da mangiare. Claudio dipende dagli altri in tutto e per tutto, bisogna lavarlo, cambiarlo, medicarlo, dargli da mangiare imboccandolo, è tutto pelle ed ossa ma i suoi occhi sono pieni di vita e quando ti guarda riesce a farti capire quello che prova. La prima volta che ci siamo conosciuti l’ha fatto sorridere il fatto che mi chiamassi come lui e per molto tempo sono stata una tra le sue amiche preferite ma, man mano che cresceva, vedevo che Claudio guardava sem-

pre con maggior interesse le ragazzine della sua età e mi stupiva come anche in un corpo malato la natura facesse il suo corso. La famiglia di Claudio è composta dalla madre che vive con lui, dal padre che lavora nella Capitale e che manda qualche soldo a casa anche se torna si e no una volta al mese (probabilmente nella Capitale ha un’altra famiglia, cosa non rara nella Repubblica Dominicana) e di tanti fratelli, nipoti, zii, cugini che vivono nella stessa baracca. Sono più di dieci anni che conosciamo Claudio e da allora ogni volta che lo vedo Mejio, Claudia e Martina


penso che probabilmente sarà l’ultima, ma fortunatamente non è stato così. Il suo cuore è forte e nonostante le piaghe da decubito e la bronchite cronica, continua a vivere. Dopo ogni visita penso sempre che il suo compito in questa vita sia quello di farci ricordare quanto siamo fortunati, ma purtroppo molto spesso non ce ne accorgiamo neanche. La madre è molto riconoscente nei confronti di Roberto e del Progetto. Spesso quando andiamo a trovarli, portiamo con noi un medico e la baracca diventa un ambulatorio. Lei riesce sempre a procurarci dell’acqua pulita e ci dà una mano facendoci da traduttrice quando ci sono degli anziani che non parlano spagnolo ma solo patuà (un dialetto haitiano). A visita conclusa la incarichiamo di cambiare le medicazioni e di somministrare le medicine agli anziani e ai bambini. LA RAGAZZA CON LA VALIGIA DI CARTONE Sempre in questo batey abita un’altra donna molto speciale, non saprei dire quanti anni abbia. È una catechista protestante che aiuta i malati di mente. Tra le persone che segue mi ha colpito una ragazza; ha sempre una vecchia valigia di cartone in mano e

non si avvicina a nessuno. Prende il cibo solo dalle sue mani e dorme accovacciata davanti alla porta della sua baracca. La ragazza ha subito ripetute violenze sessuali da piccola perché la mamma era morta e viveva con una coppia di anziani che purtroppo non sono riusciti a proteggerla. Alla catechista lasciamo sempre una piccola scorta di denaro a cui possa attingere in caso di necessità. MEJIO In questo villaggio abita anche Mejio, un ragazzo di 20 anni. Difficile dire cos’avesse. Quando l’abbiamo conosciuto il problema più grave per il giovane erano gli attacchi frequentissimi di epilessia. Mejio che non è in grado di capire e non parla ma emette solo dei suoni gutturali, cadeva in continuazione, aveva escoriazioni e bruciature su tutto il corpo. Di frequente scappava di casa e quando si avvicinava a qualche cucina (nelle baracche dei villaggi, il fornello è un fuoco sopra una pietra) e vedeva una pentola, si avvicinava al recipiente per mangiare. Spesso in quegli istanti era colpito da un attacco, sveniva e cadeva con il viso o il corpo sul fuoco. I primi periodi in cui frequentava il Progetto e fino a quando il medico non riuscì a trovargli la cura giusta, siamo

stati costretti a comperargli un caschetto da ciclista che lo riparasse e che doveva tenere tutto il giorno (a Mondo Felice il pavimento è ricoperto da mattonelle e Lui che cadeva spesso, era sempre pieno di bozzoli in testa). Adesso Mejio sta meglio. È rientrato in famiglia, tutte le settimane una persona del Progetto porta la spesa e le medicine a sua madre. Con i medicinali giusti l’epilessia è diventata gestibile, il ragazzo è molto più tranquillo e la mamma riesce a controllarlo. Mejio quando Roberto lo va a trovare, sente da lontano arrivare la Jeep e gli corre incontro pazzo di felicità. Sa che Roby gli porta le caramelle e che lo fa sedere sulla Jeep dove lui rimane per tutto il tempo che Roberto si ferma al villaggio; a Mejio piace infinitamente esser il padrone di quel potente mezzo meccanico e molto spesso sono lotte per farlo scendere e per ripartire con la Jeep e visitare altri villaggi. Sua madre è una persona semplice, Mejio è il più grande dei suoi figli e gli vuole un bene infinito. Ci ringrazia sempre per averlo curato e ci ricorda come il periodo in cui il ragazzo è stato lontano da casa per essere curato, è stato per lei il più triste ed il più buio della sua vita». 71


La toccante storia di Fifa

F

ifa è stata una delle prime persone che ho conosciuto a Sabana Grande de Boya’ -racconta Claudia- Era una donna di età indefinibile per la quale ho provato un affetto immediato. Passava tutto il giorno nel cortile della casa delle Suore e, all’ora

di pranzo e cena, si metteva in fila per avere da mangiare. Quando arrivava sera se ne andava e tornava puntuale il giorno dopo. I suoi movimenti erano lenti, quasi meccanici; non aveva i denti, lo sguardo era vacuo; ti osservava ma non ti vedeva,

era tutta arruffata e spettinata. Non appena mi si presentò l’occasione cercai di avvicinarla e con il mio spagnolo stentato iniziai una conversazione, difficile ma intensa. Fifa, in realtà si chiamava Francesca, non sapeva quanti anni avesse e mi raccontava che le era morto da poco il marito. Indagando alla missione scoprii che a questa donna le venivano somministrati degli psicofarmaci per tenerla tranquilla. Fifa era una tipica donna del Terzo Mondo dove essere donna vuol dire lavorare il doppio o il triplo degli uomini, sacrificarsi per i figli e venire picchiata selvaggiamente dai mariti che, ubriachi, scaricano la loro rabbia in questo modo. Fifa era andata in sposa a 14 anni ad un uomo molto più vecchio di lei, già padre di numerosi figli avuti con varie donne, (le ragazze molto spesso scelgono compagni molto più vecchi di loro perché sperano di essere trattate meglio e soprattutto di non essere abbandonate per una più giovane), e una volta spoFifa con Ale

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sata è iniziato il suo calvario. La giovane Fifa poco dopo il matrimonio rimase incinta ma le botte non cessarono e quando era già molto avanti con la gravidanza, per le pedate ricevute nella pancia dal marito, perse il bambino e a causa di questo aborto rimase sterile. La sua fu una vita di stenti e di umiliazioni e quando il suo uomo si ammalò, dovette anche accudirlo e servirlo. Il suo istinto materno era molto forte e, nonostante il divieto da parte del marito, prese in casa una bambina abbandonata di nome Maria. L’allevò e la amò come una figlia ma dopo alcuni anni, quando la bambina aveva raggiunto l’età per lavorare, si presentò davanti casa una donna accompagnata dalla polizia dicendo di essere la madre della piccola portandogliela via e spezzandole per una seconda volta il cuore. Il dolore fu troppo forte da sopportare. Fifa crollò, dando segni di pazzia e quando morì il marito, nel giro di alcuni giorni si presentarono i figli avuti dai precedenti matrimoni a reclamare le proprietà ed i beni del padre. Così Fifa si ritrovò in strada costretta a chiedere la carità. La donna, ormai sopraffatta dal dolore, entrò in quel tunnel chiamato pazzia dal quale

non c’è ritorno. Iniziò a vivere per strada dormendo dove capitava e mangiando quello che qualcuno pietosamente le dava, non chiedendo niente a nessuno e diffidando di tutti. Roberto venne a conoscenza di questa storia, ne fu impietosito e decise di metterle a disposizione una piccola casa di legno dove Fifa potesse dormire al sicuro di notte mentre di giorno veniva accolta nella missione dove era seguita da un medico. In questa mia intensa esperienza a Santo Domingo, ho conosciuto tante persone con problemi di pazzia e ho capito che in molti casi questa è forse l’unica via d’uscita, quando il peso della vita diventa troppo forte. Le soluzioni che hai di fronte sono quindi due: o morire o scappare lontano con la mente. Con gli anni ho imparato a volere bene a Fifa e man mano che le cure le facevano effetto, la donna diventava una persona socievole. Lei comunque era regredita tornando bambina; bisognava dirle quando lavarsi, quando prendere le medicine, a volte anche sgridarla quando litigava con altri anziani per una caramella. Parlare con lei era come leggere un libro, ti lasciava sempre a bocca aperta, per un aneddoto, per un

particolare che la volta prima non ti aveva raccontato. Negli ultimi anni della sua vita quando aveva problemi alle gambe e non ce la faceva più a camminare, eravamo noi ad andare a casa sua a portarle da mangiare, a lavarla, a farle compagnia. Mi ricordo l’ultima volta che l’ho vista, era domenica mattina. Quando siamo entrati nella sua capanna io e Roberto, c’era un buon odore di caffè; Fifa stava bene ed era particolarmente di buon umore. Fuori pioveva e gustare il caffè caldo è stato un piacere per entrambi. Siamo rimasti con lei a chiacchierare per un po’ di tempo e proprio quando ce ne stavamo andando, un vicino di casa ci fermò e ci disse che era preoccupato per Fifa perché la vedeva peggiorare di giorno in giorno. Quella mattina Fifa era andata da lui a chiedergli se poteva prestarle del caffè perché sarebbero venuti i suoi famigliari a trovarla e non aveva niente da offrire loro. Fu l’ultima volta che la vidi viva. Da allora Fifa ha sempre un posto nel mio cuore -conclude Claudia- ed è stato anche grazie a lei e per non dimenticare le difficoltà di queste persone sole, che abbiamo iniziato a lavorare anche con gli anziani abbandonati. Grazie Fifa «te quiero mucho!»… 73


Gli orfani di Sabana

N

el 1992 il Progetto Roberto iniziò a lavorare con i bambini abbandonati; l’occasione si presentò a seguito di un caso umano, una richiesta concreta di aiuto da parte di alcune donne che vennero a Sabana Grande spinte dalla disperazione e dall’amore verso piccole ed inermi creature. Una mattina infatti arrivaro-

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no alla missione delle donne haitiane chiedendo insistentemente di Roberto (Haiti è l’unico Paese confinante con Santo Domingo dove la gente sta ancora peggio che nella Repubblica Dominicana e sono molti quelli che fuggono e che si rifugiano nei villaggi dominicani sempre abbastanza lontani dai centri abitati e che si chiamano Batey). Ro-

berto era nella Capitale per sbrigare delle commissioni e il suo ritorno era previsto solo nel tardo pomeriggio. Anche se Sabana Grande de Boyà dista solo 120 km dalla Capitale, la strada a quei tempi era un inferno, i tratti asfaltati erano brevi e pieni di buche, così per andare avanti ed indietro si impiegavano intere giornate.


Le donne che avevano chiesto di Roberto, si rifiutarono di parlare con qualcun altro e si sedettero fuori dalla chiesa ad aspettare all’imbrunire il suo arrivo. Una volta ricevute dal giovane veronese, gli raccontarono angosciate che una ragazza del villaggio con problemi mentali, qualche mese prima aveva partorito una bambina ed era convinta che la piccola fosse una strega. Così al mattino la legava ad un palo e la lasciava lì tutto il giorno al sole, senza mangia-

re e bere. Le donne del villaggio impietosite, cercavano di liberarla ma la mamma, ogni volta che tentavano di avvicinarsi, le allontanava in malo modo e le minacciava con un bastone. La sera stessa del racconto, Roberto partì per il Batey accompagnato dalle donne del villaggio con l’intenzione di andare a prendere la piccola. Dopo aver parlato a lungo con la madre, riuscì a convincerla di lasciar libera la bambina e di consegnargliela

per averla in custodia. La piccola ed inerme creatura fu affidata alle suore e seppur piccina e solo con qualche mese di vita, si mostrò subito vispa e piena di vita nonostante le tante sofferenze patite. Venne chiamata Martina e nel giro di pochi giorni diventò la regina della casa. I medici però dopo i primi controlli, non ebbero dubbi e lasciarono tutti nel «Mondo Felice»: la struttura che accoglie i bambini orfani e abbandonati

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più grave sconforto: la piccola aveva poche speranze di sopravvivere. Infatti si capì che aveva dei problemi a livello celebrale, e nonostante crescesse fisicamente anche se lentamente, non parlava, mangiava poco mentre Roberto ed i volontari, per farsi coraggio, dicevano che Martina faceva così solo perché da grande aveva deciso di fare la modella. Dopo pochi mesi arrivò al villaggio una seconda bambina; fu consegnata da una ragazzina che disse sconfortata che non se ne poteva occupare lei e che la madre della piccola andava e veniva da casa sua senza avvisare nessuno. Anch’essa fu presa in cura dai volontari del Progetto e fu chiamata Anna Chiara. Era piccolissima e molto fragile, aveva bisogno di cure approfondite e specializzate e 76

per questo doveva essere trasportata d’urgenza all’ospedale della Capitale. Ma la paura che per le sue condizioni non riuscisse a sopportare le difficoltà del viaggio e morisse per strada, fece desistere i volontari a trasportarla fino al nosocomio. Roberto cercò quindi di costruire una rudimentale termoculla; in una scatola vennero messe delle coperte ed il piccolo fagotto fu posto sotto ad una lampadina, per dare calore alla sfortunata creatura. Purtroppo, nonostante l’amore di cui era circondata e le premurose cure, Anna Chiara dopo poche settimane morì. Per tutti fu una tragedia ma Roberto, Claudia, Maria e tutti i volontari, si proposero che un fatto del genere non sarebbe mai più dovuto accadere, almeno a Sabana Grande, e che avrebbero fatto

di tutto per impedirlo. Intanto Martina cresceva tra lo stupore generale dei medici che l’avevano data per spacciata e nonostante le tante difficoltà che hanno costellato la sua giovane e fragile vita, è riuscita a raggiungere la maggior età. Martina ha sempre lottato con una forza enorme ed oggi è una ragazza grande anche se a vederla sembra una bambina di 7/8 anni. Il suo sviluppo fisico si è fermato a quell’età, parla poco ma è molto vivace e in ogni suo gesto si percepiscono la voglia e la gioia di vivere. Ha una sorriso accattivante che ti conquista in un attimo e di certo nessuna persona che ha visitato il Progetto potrà dimenticarsi di lei. Sempre a pochi mesi di distanza arrivarono a Sabana altre tre bambine: Yronelli, Anna e Rosa, tutte e tre con


storie tristi e penose alle spalle. Yronelli era denutrita e a causa di questo le erano venuti i capelli bianchi e la pelle chiarissima piena di macchie, Anna invece soffriva di una grave forma di epilessia e perciò fu rifiutata dalla famiglia. Rosa era poi l’ultima di una numerosa famiglia e la madre non ce la faceva a crescerla, così decise di abbandonarla. Per andare incontro a queste gravi situazioni e a quelle di tanti altri bambini e bambine nati in famiglie già numerose ed abbandonati dalle proprie famiglie, vennero costruite in un primo momento delle stanze e poi si realizzò una piccola casa che fu chiamata «Casa di pietra» dove i piccoli orfani rifiutati dai genitori per handicap fisici, i bambini che avevano subito violenze fisiche e quelli con problemi mentali, potevano trovare rifugio. Il Progetto diventò l’unica struttura in tutta la provincia che cercava di affrontare e di risolvere il problema occupandosi dei piccoli abbandonati, così anche il Tribunale dei Minori iniziò a sostenere l’iniziativa e ad affidare dei casi. Ben presto anche la «Casa di pietra» non bastò più; nacque allora «Mondo Felice» e poi il «Centro di Boyà» per dare aiuto, assistenza e sostegno a

questi piccoli e per garantire loro un’altra opportunità di vita. Le considerazioni conclusive sono di Claudia «Ormai sono 21 anni che seguo il Progetto e posso dire di avere visto migliaia di bambini arrivare qui e trovare aiuto, assistenza e rifugio grazie al lavoro svolto a «Mondo Felice». Ogni volta che ci portano un nuovo bambino nella speranza di ricevere aiuto ed assistenza, è per tutti un colpo al cuore e vedere questi piccoli che ti guardano con gli occhi tristi, pieni di paura e terrore è come ricevere un pugno allo stomaco; il loro è uno sguardo che fai fatica a dimenticare. Ed averli lì per noi ogni volta è un’ulteriore scommessa; i nuovi ospiti in breve tempo diventano parte attiva, si inseriscono nel Progetto e rapidamente li vedi cambiare, crescere, migliorare. In un primo momento hanno solo bisogno di mangiare e gli si illuminano gli occhi solo alla

vista del cibo. Mangiano con le mani, si guardano attorno spauriti con la paura che qualcuno gli tolga il piatto. Alle volte mi chiedo se non ci fosse stato il «Progetto Roberto» che destino avrebbero avuto queste piccole ed inermi creature. È una domanda che mi sono posta spesso. Dopo aver conosciuto il «Progetto Roberto», nei pochi momenti di tranquillità e di silenzio, ho letto una poesia di Antony de Mello che mi ha cambiato la vita. Diceva: «Per la strada ho incontrato un bambino, sporco, affamato, solo, con la paura negli occhi. Mi sono arrabbiato e ho chiesto a Dio perché permetti questo? Perché non fai qualcosa? Non ricevetti nessuna risposta e questo mi fece arrabbiare ancora di più; poi una notte mentre dormivo mi è arrivata chiara e forte la Sua risposta: “Certo che ho fatto qualcosa, ho fatto te!” e nel nostro piccolo, nelle nostre possibilità è quello che abbiamo sempre cercato di fare».

La «Casa di pietra» Guido Farina fra i bambini di Boyà 77


Storie di ordinaria prostituzione

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ossono bastare piccoli episodi per capire come l’economia della Repubblica Dominicana sia fondata sulla donna. Se vi recate in un negozio e chiedete informazioni mostrando un foglio scritto rivolgetevi ad una donna, sicuramente saprà leggere; è infatti tra i maschi il più elevato numero di analfabeti. Se in banca o in un grande albergo chiedete del direttore, nove volte su dieci vi si presenterà una direttrice. Spesso sono le stesse famiglie ad investire sulle figlie che vengono mandate a scuola molto più facilmente dei ragazzi. Considerando che nei nuclei famigliari la figura del padre nella maggior parte dei casi è assente, anche la famiglia è fondata sulla donna. Il nucleo classico è composto da nonna con meno di 40 anni, madre con meno di 20 e spesso con un paio di figli. In questo panorama si inserisce un fenomeno che, come in altri Paesi poveri del Centro-Sud America o dell’Oriente, risulta una fonte insostituibile di sostentamento: la prostituzione. Qui, forse più che in altre zone del mondo, è presente quella minorile. La maggioranza dei parti che avvengono nelle strutture pubbliche della Repubblica Dominicana riguarda ragazze di 12/13 anni. In alcuni casi di tratta di violenze, il 78

più delle volte di «incidenti sul lavoro»; il lavoro più antico del mondo. Se la prostituzione minorile diventa più visibile e quindi più odiosa nelle località turistiche in quanto coinvolge spesso nostri connazionali, il fenomeno è altrettanto diffuso in tutta l’isola a partire dalle zone più povere come quella dove opera Roberto Danese. Le ragazzine vengono introdotte alla prostituzione già a 10-11 anni spesso spinte dalla necessità della famiglia (sfamare la madre, la nonna, i fratellini) o per spirito di emulazione di zie e cugine. Poco più che adolescenti, sono costrette ad assecondare uomini maturi in cambio di pochi pesos quando va bene, intraprendendo una via senza ritorno soprattutto se si verifica una gravidanza che porta inevitabilmente ad una bocca in più da sfamare. «Una ragazzina che ha iniziato a prostituirsi può essere salvata solo se aiutata e seguita in tempo, quindi all’inizio della sua professione -spiega Roberto- dopo i primi tempi si innescano meccanismi pericolosi e difficilmente rimuovibili nella mente di queste giovani come la facilità di guadagnare soldi, l’ambizione, il sogno di un diverso tenore di vita, la voglia di spendere quanto guadagnato

in cose superflue». Tra i bambini orfani del Progetto Roberto non mancano quelli abbandonati dalle mamme che si sono trasferite nella Capitale o nelle località turistiche per prostituirsi. Ed è là che il mercato diventa più redditizio con molti più clienti, specie europei, ed affidandosi ad un chulo (così si chiamano i protettori) grazie al quale le giovani sono convinte di correre meno rischi. A Boca Chica, la spiaggia più vicina alla capitale, più che a Las Terrenas al Nord, sulla penisola di Samanà, il mercato del sesso per i turisti è fiorente. Con 20-30 euro è possibile avere rapporti di vario genere, magari dopo un tiro di coca, con bambine, con adolescenti, con ragazze ventenni o addirittura con ragazze incinte, che devono sfamare una famiglia. La rivista «Vanity Fair» nel numero dell’11 agosto 2010 riporta un dettagliato racconto, curato da Andrea Scarpa, su quanto succede a Boca Chica: «... quando vanno in Calle Duarte per lavorare si vestono meglio che possono e si trasformano. Potrebbero sembrare turiste pronte a passare una serata in discoteca. Per capire quali sono le loro reali condizioni di vita, bisogna rivederle il giorno dopo, nelle catapecchie dove abitano». Quasi tutte vivono


ad Andrès, un paese attiguo alla località turistica, lo stesso posto dove Roberto Danese venne a contatto con «l’altro lato della cartolina». L’autostrada Las Americas è lo spartiacque: la parte verso il mare è composta da piccole casette in cemento e mattoni, a volte anche ben tenute. Al di là «dell’autopista» c’è la baraccopoli dove vive il personale degli alberghi e dei bar, dove abitano gli ambulanti, le massaggiatrici (in gran parte ex prostitute convertite causa l’età ad altri servizi al turista) e, ovviamente, le prostitute con la madre, o con i figli, o con zie o cugine. Qui le case sono delle baracche, a volte costruite con parti di mattone, il più delle volte fatte con lamiere o pezzi di legno. Scarpa su «Vanity Fair» descrive nel dettaglio la casa di una ragazza: «Il bagno non esiste: è un buco nel terreno fuori quella che dovrebbe essere la cucina, ma che in realtà è un angolo dell’unica stanza. Dorme con i figli su un letto matrimoniale dal materasso sporco e sfondato, poggiato su mattoni perché quando piove l’acqua entra da tutte la parti». Ma la prostituzione minorile riguarda anche i maschi, sia per le signore in cerca di avventure, sia per gli omosessuali. «... un uomo sui 50 - alto, magro, con la barba

e il viso che sembra ustionato - sta per entrare (in hotel) con un bambino che avrà al massimo 10 anni. Lo tiene da dietro, per la cintura, con il braccio teso, e ha una luce rivoltante negli occhi. Il giorno dopo, sempre da quelle parti, incontro di nuovo il bambino. Mi racconta che quell’uomo è un francese, che lo ha già incontrato tre volte, e che lo paga bene: «Fa in fretta, mi vuole bene», così si conclude l’articolo di Vanity Fair che poco prima spiegava come questi ragazzi

siano vittime della mancanza di autostima. Nessuno li ha mai fatti sentire amati, così sono cresciuti nella convinzione di non meritare nulla. Così accettano qualsiasi umiliazione e anche i soprusi a volte li interpretano come gentilezze». Legato al fenomeno della prostituzione c’è naturalmente anche quello dell’Aids. Secondo l’Action Aid del 2009, il virus Hiv ha già colpito più del 2% della popolazione, il

dato più elevato dell’intera area caraibica, più di 10 volte l’incidenza della malattia in Italia. Per le donne di età compresa tra i 14 e i 49 anni è la prima causa di morte. Sono le stesse prostitute a confidare che molte loro colleghe sono ammalate e che tante sono morte e che, pur lavorando sempre con il preservativo, quando un cliente insiste per farlo senza protezione pagando molto di più, accettano. Eppure quasi tutte hanno un progetto di vita, soprattutto nelle località turistiche. Considerano la loro una professione solo transitoria, giusto il tempo necessario per comprare la casa alla mamma e ai fratelli, poi contano di trovare un europeo o un americano con cui sposarsi e cambiare vita. Dopo il terremoto ad Haiti, sulla piazza di Boca Chica, sono arrivate molte giovani haitiane disposte a prostituirsi ad un prezzo inferiore strappando i clienti l’una all’altra ed inscenando plateali zuffe in spiaggia. E pensare che fino a qualche mese prima il principale nemico delle lucciole erano le turiste europee o americane che, per puro diletto, si concedono a turisti o a domenicani; per le professioniste del luogo un fenomeno definito semplicemente «concorrenza sleale». 79


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Missione compiuta

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issione compiuta. È questa la frase che Roberto Danese ha pronunciato quando il Governo dominicano ha riconosciuto il ruolo didattico e sociale del Progetto a Sabana Grande de Boyà agli inizi del 2000. Così il volontario veronese ha scritto alle famiglie comunicando l’importante obiettivo raggiunto: «Il progetto cammina con le proprie gambe» e con una correttezza ormai sempre più rara, ha chiesto alle famiglie di sospendere ogni invio di denaro. Un gesto da molti apprezzato, segno della grande trasparenza con la quale Roberto ha gestito il denaro altrui, ma che qualcuno non ha capito. Qualcuno che, d’improvviso, si è sentito privato di un legame che magari aveva coltivato per molti anni e che non voleva abbandonare. Ma il risultato era stato raggiunto; «Missione compiuta» potremo giustamente dire, così, d’intesa con gli «Amici del Progetto Roberto», un’associazione senza fini di lucro di diritto internazionale, la gestione del collegio, della scuola, della casa di riposo e di tutto quanto era stato creA lato, alcune immagini del «Progetto Roberto» ormai autonomo

ato, è passata alla Congregazione delle Suore Missionarie Dominicane che con Roberto avevano condiviso il cammino a Sabana Grande. Roberto era pure tornato a casa, pago del lavoro svolto con l’aiuto di tanti amici. Ma nel 2005, dopo un periodo di riposo sabbatico in Italia vicino ai propri familiari e alla mamma, Roberto è ritornato nella Repubblica Dominicana con in mente un nuovo progetto. Confortato dagli amici confluiti nella nuova associazione, ha individuato una nuova realtà nella quale operare: Boyà, una ventina di chilometri più a valle di Sabana Grande. Un paesino povero, senza servizi, abitato in prevalenza da braccianti occasionali di origine haitiana impiegati come tagliatori di canna o tagliatori di ananas. Con i primi fondi raccolti, tra i quali anche il contributo della Provincia di Verona, vengono così acquistati alcuni terreni in prossimità dell’antica e trascurata chiesa coloniale che fa da centro del paese. Riparte da zero con gli obiettivi e l’esperienza del primo progetto. Comincia affiancando Mamma Maria che già da 30 anni si occupa di insegnare a leggere e a scrivere 81


L’interno del nuovo «Proyecto Boyà» con i bambini e alcuni volontari italiani Scorcio del «Proyecto Boyà»

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ai bambini del villaggio e, in una baracca in legno, offre un letto e un pasto ad alcuni anziani tagliatori di canna, ormai ciechi e giunti agli ultimi giorni di vita. Bastano pochi mesi per iniziare a pensare in grande. Il primo passo è stato quello di riprendere le adozioni a distanza tornando a coinvolgere le vecchie e le nuove famiglie che avevano creduto in lui. Il campetto a lato della chiesa coloniale diventa un cantiere e si comincia a costruire un convitto per i bambini orfani, senza famiglia, una scuola con le aule e un refettorio. Lavori che proseguono per 4 anni fino all’estate del 2009. Oggi il Centro ospita una trentina di orfani, 400 frequentano la scuola, mentre in 14 Batey (villaggi isolati) nel raggio di 30 chilometri, sono state costruite o ristrutturate altrettante scuole. Qui vengono accolti i bambini in età scolare, ma anche i più piccoli, già dai primi mesi di vita, assieme alle loro mamme, spesso donne adolescenti bisognose anche loro di assistenza economica, morale e psicologica. Lo scopo di questo decentramento didattico è molteplice: dare un servizio ai bambini vicino alle proprie famiglie, seguire le problematiche dell’intero nucleo, dare lavoro ad insegnanti e personale non docente del luogo risultando così fonte di

sostentamento. A tutt’oggi il «Proyecto Boyà» segue quasi 900 bambini offrendo istruzione di base, alimentazione e salute. Grazie ad uno staff medico i bambini vengono costantemente seguiti. Tra prevenzione e interventi immediati vengono combattute epidemie e malattie croniche. Carenza di vitamine, infezioni per la mancanza di acqua potabile sono alcune delle patologie più frequenti, mentre in alcuni periodi dell’anno si manifestano vere e proprie emergenze. Dopo la stagione delle piogge sono frequenti le epidemie di «dengue», una malattia trasmessa dalle zanzare che porta a continue emorragie interne. Se non individuata tempestivamente e curata, porta alla morte, soprattutto dei bambini. Come nell’originario progetto, anche a Boyà, Roberto Danese ha costruito una piccola casa di riposo in grado di ospitare una decina di anziani. Sono i tagliatori di canna senza una famiglia in grado di accudirli, completamente ciechi. Probabilmente per la polvere che contamina gli occhi durante le operazioni di taglio della canna da zucchero, è estremamente frequente la cecità tra i tagliatori. Il progetto Boyà garantisce loro un pasto e un letto pulito, praticamente una dignità per gli ultimi anni di vita. 83


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Il tempio coloniale di Boyà

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a gente di Boyà racconta che il tempio coloniale che sorge al centro del paese comparve come per magia alcuni secoli fa. Nessuno ne conosce bene l’origine, per questo tra la carenza di documenti trovano spazio leggende e credenze popolari. La chiesa intitolata alla Madonna delle Acque è un luogo di culto di grande valore storico e mistico probabilmente legato alla conquista dell’America da parte di Cristoforo Colombo e alla locale popolazione indigena dei Tainos che in questa zona dell’isola trovarono rifugio fino alla loro estinzione. Delle leggende che aleggiano attorno ad essa e delle tradizioni che si tramandano di generazione in generazione, ne ha parlato diffusamente Luigi Foglia che ha edito un saggio che riunisce documenti storici, tradizioni orali e racconti fantastici tramandati di padre in figlio e che raggruppa documenti certi ad argomenti non confutabili narrati dall’autore in maniera quasi romanzata in un intreccio che diventa parte integrante con la vita di queste popolazioni ma soprattutto con la nascita del tempio in

cui viene venerata Maria e l’acqua miracolosa che, dalla sua nascita ad oggi, se non ha guarito molta gente, di sicuro ne ha salvata molta. L’acqua potabile, non inquinata, è in questa zona il bene più prezioso. Il libello porta il titolo di «La storia e la leggenda di una realtà» e aiuta a fare luce sui tanti dubbi che ci accompagnano in questa visita. La chiesa della Madonna delle Acque è anche conosciuta come il tempio coloniale di Boyà e di sicuro ha origini molto antiche anche se un recente intervento di restauro realizzato negli anni ’80 del secolo scorso con intonacatura tipica delle abitazioni spagnole, ha modificato l’originaria costruzione un tempo di sassi e mattoni «faccia a vista» nello stile che si può ammirare nel cuore della ca-

pitale, nella famosa città coloniale, riconosciuta dall’Unesco patrimonio dell’umanità. La chiesa per lungo tempo è rimasta chiusa al culto ostaggio di erbacce ed incuria. Grazie a Roberto si è provveduto ad un radicale intervento di restauro che ha permesso di restituirla ai fedeli in tutto il suo splendore. Dalla tradizione orale sembra che il luogo di culto sia stato eretto agli inizi del 1500 e precisamente tra il 1504 ed il 1510 da uno dei marinai imbarcati in una delle caravelle di Cristoforo Colombo e precisamente la Nina, e dai suoi discendenti. Il luogo di culto si dice che fu realizzato nell’arco di sei anni, dal 1504 al 1510, ma se di questo non abbiamo prove certe ma solo ricordi tramandati di padre in figlio, di certo

Il tempio coloniale di Boyà La lapide sepolcrale posta ai piedi dell’altare del tempio coloniale 85


Il tempio coloniale immerso nella vegetazione Alcune fasi della sua ristrutturazione

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esiste un’epigrafe datata 1691, che attesta non solo l’esistenza della chiesa verso la fine del 1600, ma di sicuro anche la sua grande importanza visto che una benefattrice volle lasciare i propri averi per impreziosire questa chiesa. È quindi ipotizzabile che se non proprio agli inizi del 1500, di sicuro già verso la metà del 1600 qui esisteva una chiesa dove si officiava regolarmente. La lapide in questione si trova ai piedi dell’altare ed è un lastra sepolcrale sulla quale viene riportata la seguente epigrafe: «Qui giace Catalina Mary benefattrice cristiana che ha scelto questa casa come sepoltura essendo parroco Victor Pedro Ballama nell’anno 1691». Chi ha fatto ricerche racconta che Catalina Mary fosse stata una ricca benefattrice della città che in più riprese sovvenzionò le attività della chiesa. Il tempio coloniale di Boyà se esternamente si avvicina alle tipiche case spagnole, al suo interno ha un altare intarsiato in legno dove sulla sommità si trova una statua che raffigura la Madonna e che dai locali è identificata come la statua della Madonna de las Aguas, cioè la Madonna dell’Acqua. Ai lati si trovano invece due piccole statue in legno raffiguranti San Francesco e San Giovanni. All’ingresso troviamo pure un’altra statua in legno che raffigura San Giacomo e cioè Santiago

che forse vuole caratterizzare il legame tra il Vecchio Continente, Spagna e Portogallo, con queste Regioni. All’esterno, poco lontano dalla chiesa, si trova invece il ruscello che ha dato il nome al luogo di culto e che in passato aiutò a guarire molti abitanti. Oggi oltre a garantire acqua agli abitanti, da esso viene pompata l’acqua che serve sia per l’orfanotrofio sia per la foresteria del Progetto Roberto. A riaprire la curiosità sulla chiesa Madonna delle Acque è la visita che, si dice, in passato fece un alto prelato italiano che a Santo Domingo non solo visse ma ne divenne il terzo Vescovo. Infatti se quanto si tramanda corrispondesse al vero, grazie alla sua visita pastorale nella chiesetta di Sabana Grande, si poterebbero retrodatare le origini della chiesa ai primi decenni del 1500. Infatti Monsignor Alessandro Geraldini, fu una delle figure più carismatiche ed importanti di questa terra. Si vuole che fosse stato lui a credere nella chiesa di Sabana Grande di Boyà e che proprio dentro la vecchia chiesetta di legno e palma durante una sua visita pastorale abbia ordinato un sacerdote ed un diacono. Monsignor Alessandro Geraldini era nato in Italia, ad Amelia (in provincia di Terni) da nobile famiglia nel 1455. Ebbe come precettore un umanista dal quale ricevette una formazione non 87


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solo filosofica, ma anche politica e diplomatica. Fratello di Antonio, ambasciatore plenipotenziario del Re Ferdinando d’Aragona, visse a lungo presso la corte spagnola ove ebbe incarichi militari e diplomatici di primissimo piano. Consacrato in un secondo momento sacerdote, divenne Protonotario Apostolico e Cappellano Maggiore della famiglia reale. Fu amico personale di Cristoforo Colombo e fu proprio Alessandro a convincere i reali di Spagna a sostenere il progetto del navigatore genovese; progetto che era già stato respinto dall’Alto Consiglio perché ritenuto eretico visto che Colombo voleva dimostrare la sfericità della terra. All’età di L’altare in legno all’interno del tempio coloniale di Boyà Roberto tra i «suoi» bambini davanti al tempio coloniale

64 anni Alessandro, affascinato dal Nuovo Mondo, decise nel 1519 di vivere presso questi popoli per convertirli alla religione Cristiana. Dopo un avventuroso viaggio durato 200 giorni e descritto in un libro, raggiunse Santo Domingo dove, vescovo, fece erigere una maestosa Cattedrale tutt’ora esistente, e dove visse fino alla morte avvenuta nel 1525. Durante la sua permanenza a Santo Domingo, di sicuro fece varie visite all’interno della propria diocesi e tra le chiese visitate dovrebbe esservi stata anche quella di Sabana Grande. Monsignor Geraldini morì a Santo Domingo. Tornando al Tempio Coloniale di Boyà, varcato l’ingresso, a sinistra, una lapide annerita ricorda un altro episodio della storia di questa chiesa: il battesimo dell’arcivescovo Meriño. Un caso unico al mondo: il

più alto prelato del Paese diventato Presidente della Repubblica. Fernando Arturo de Meriño nacque nel villaggio di Antoncí, nella provincia di Monte Plata, poco lontano da Boyà. Era il 9 gennaio del 1833. Dopo poco venne battezzato proprio in questo tempio coloniale, unica chiesa dell’intera area. Come sacerdote è stato la più grande figura del clero dominicano. Come politico scalò le vette più alte della storia dominicana. Fu presidente della Repubblica e a tutt’oggi viene considerato il più grande oratore della vita nazionale. Il suo linguaggio diretto, ricco, profondo e armonioso viene preso tutt’oggi ad esempio per chi ambisce ad una vita pubblica. Le sue spoglie mortali sono custodite all’interno della cattedrale di Santo Domingo. 89


Roberto all’interno del nuovo «Proyecto Boyà» mentre gioca con i bambini Mamma Maria ed i bambini pregano davanti alla statua della Madonna

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Boyà e i progetti futuri

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uanto fatto da Roberto in un quarto di secolo in questa terra è senza dubbio qualcosa di eccezionale, eppure lui appare come una persona assolutamente normale. Veste alla europea e porta i capelli lunghi, due vezzi che fanno il paio con un fisico che in Italia definiremmo palestrato. In realtà l’alimentazione dei più poveri (riso e fagioli tutti i giorni) e le epidemie dalle quali non è immune, gli impediscono di ingrassare. Per quanto riguarda le braccia muscolose sono il frutto di un duro allenamento quotidiano nell’impastare malta, caricare mattoni, spostare pesi, dipingere case, inchiodare assi di legno, insomma partecipare attivamente alla costruzione delle varie opere. A un quarto di secolo dal suo arrivo nella Repubblica Dominicana, le tracce del passaggio di Roberto Danese sono evidenti, soprattutto a Sabana Grande de Boyà dove oggi il Progetto è la realtà imprenditoriale più importante. Impiega più di 200 persone, ha formato migliaia di ragazzi che, con una qualifica professionale, un diploma o una laurea, hanno trovato impiego nella Capitale o nei villaggi turistici e assicura un futuro didattico, educativo e formativo a tutti i giovani che partecipano al progetto consentendo l’eleva-

zione economica e sociale di un intero territorio. Se 20 anni fa Sabana Grande de Boyà era una città fantasma, sconosciuta al resto del Paese, oggi è una realtà seguita ed invidiata da molti, specie dai dominicani. Lo dimostrano gli investimenti che il governo ha fatto in termini di viabilità asfaltando le vie del centro e le mulattiere che la collegavano al resto del territorio. I primi bambini seguiti dal «Progetto Roberto» oggi sono insegnanti, medici, professionisti, artigiani ed impiegati. Raggiunto questo importante obiettivo, il volontario di San Martino Buon Albergo vuole ora portare l’esperienza maturata fino ad oggi e metterla a disposizione del piccolo centro di Boyà. Così, dopo aver garantito l’istruzione e la salute per le future generazioni, il suo obiettivo è quello di dare un’economia ed un’autonomia all’area. Visitando la Repubblica Dominicana si nota subito il divario tra le località toccate, anche solo marginalmente dal turismo, e quelle totalmente escluse. La povertà delle seconde è totale. Per questo Roberto ha pensato di valorizzare ciò che Boyà può offrire al visitatore e al turista. Infatti proprio in questa parte dell’isola si erano rifugiati gli ultimi «Tainos», la popolazione che 91


Momenti dell’inaugurazione del «Progetto Boyà» alla presenza di S.E. Mons. Pablo Cedano Cedano, vescovo ausiliare di Santo Domingo e di un gruppo di «Amici del Progetto Roberto» arrivati dall’Italia, accompagnati da Antonio Pastorello, Presidente del Consiglio Provinciale di Verona «Amici del Progetto Roberto» in visita a Boyà Alcune strutture scolastiche sparse nei vari villaggi intorno a Boyà

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abitava il Paese prima dell’arrivo dei colonizzatori europei. Le loro tracce sono evidenti in alcune incisioni rupestri e nei numerosi reperti rinvenuti durante la lavorazione dei terreni. Oggetti senza valore che i contadini portavano a Roberto, meravigliandosi del suo interesse per questa «basura» (immondizia). Tra asce in pietra, mortai, ciotole, urne funerarie, attrezzi per i tatuaggi per distinguersi tra tribù, sono ben 350 i reperti accuratamente raccolti e rappresentano il nucleo centrale del museo della storia Taina che verrà realizzato accanto alla chiesa in stile coloniale. Un ulteriore tassello per diventare meta turistica è il turismo ecologico a contatto diretto con la natura con un maneggio per le passeggiate a cavallo e con alcuni torrenti ideali per proporre discese di rafting. Un percorso curioso è poi quello che sta nascendo e che potrebbe chiamarsi «Dal cacao

alla cioccolata» con la visita ad una piantagione di cacao, la sua lavorazione in fabbrica e la degustazione di cioccolata calda. Non è un’utopia. Roberto ha già concluso un accordo con la famiglia Cortès, proprietaria di alcuni noti marchi di cioccolato domenicano come le tavolette Embajador o la polvere da sciogliere nel latte Sobrino; un’azienda di levatura internazionale che vanta una tradizione di qualità sin dal 1929. Nel centro di Boyà, vicino al Centro Educativo, sorgerà un fabbrica di cioccolato: l’azienda specializzata fornirà i macchinari, assicurerà la formazione del personale e tutto il knowhow, sovrintenderà al «proyecto» mentre una parte del cacao giungerà dalla proprie piantagioni per essere lavorato. Una banca ha già garantito il finanziamento, mentre un «tour operator» ha manifestato interesse per l’intera offerta turistica.Il visitatore potrà scegliere tra una passeggiata

a cavallo, una discesa del torrente con il gommone, potrà visitare la chiesa coloniale ed il «museo taino». Sicuramente la giornata si concluderà con la visita alle piantagioni di cacao, alla fabbrica del cioccolato e alla degustazione di una cioccolata calda sopra una terrazza panoramica già costruita sopra il monte sempre di proprietà del Proyecto Boyà, da cui si può assaporare un panorama mozzafiato con un tramonto indimenticabile che già sta affascinando gli operatori turistici.Roberto è convinto che questo sviluppo imprenditoriale, che sarà completato nel corso del 2011, creerà nuovi posti di lavoro e un indotto economico grazie a bancarelle, ristorantini, bar e negozietti. Questa volta il volontario veronese e tutti i suoi sostenitori in Italia sono destinati non solo ad adottare quasi mille bambini, ma un’intera città composta da un nucleo storico e da vari piccoli villaggi intorno a Boyà.

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L’importanza ed il valore di un’adozione a distanza

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uando aderiamo ad un’adozione a distanza, aiutiamo e sosteniamo un bambino lontano ed in tutti questi anni di lavoro a contatto con chi è in difficoltà e vive in condizioni di miseria, sono state tantissime le dimostrazioni di affetto verso Roberto ed i volontari che lo aiutano e che documentano la verità del suo motto «Fare del bene ti fa sentire bene». Tra di esse Claudia ne ha scelte due: quella di Nonno Berto e di Elena. NONNO BERTO «Di Nonno Berto ho sentito parlare per la prima volta da una signora di Sommacampagna che era venuta una sera ad un incontro a Ferrazze -racconta- Prima di andarsene tutta contenta con la scheda del suo bambino in mano, mi ha chiesto se ero disponibile ad andare a parlare con un signore anziano che per motivi di salute non era potuto venire all’incontro ma che si era dimostrato molto interessato quando gli aveva parlato della sua intenzione di fare un’adozione a distanza. Ci siamo messe d’accordo e dopo alcuni giorni sono andata a trovare questo signore. Berto viveva da solo in una grande casa, non si era mai sposato e non aveva avuto

figli. La prima impressione che ho avuto è stata quella di una persona burbera e diffidente, mi ha lasciato parlare per un’oretta, ha visto le diapositive in silenzio e poi mi ha chiesto se potevo dargli delle garanzie che quello che gli avevo raccontato e che gli avevo fatto vedere era vero. In un primo momento mi sono infastidita ma con pazienza ho voluto raccontare la mia esperienza personale e gli ho promesso che non appena Roberto fosse ritornato in Italia, avrei fatto in modo che si incontrassero. Roberto è tornato a Verona dopo alcuni mesi e la prima cosa che abbiamo fatto è stata di andarlo a trovare; ne avevo fatto una questione di principio. Da questo incontro è nata un’amicizia che è durata fino alla Sua morte. Nonno Berto aveva prenotato una cena in pizzeria, (aveva anche deciso che pizza dovevamo prendere e la bibita per ognuno di noi e non c’è stato verso di fargli cambiare idea), ci ha raccontato tutta la sua vita; era un pilota dell’Alitalia e durante gli anni di lavoro ne aveva combinate tante. Ci ha anche fatto ridere a crepapelle dicendoci quanto era stato in gioventù birichino con le donne e delle gomme dell’auto consumate in una sola estate percorrendo il tragitto 95


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Treviso-Mantova per andare a trovare due fidanzate contemporaneamente. Ci ha spiegato il perché della sua diffidenza, ci ha detto che non bastava tirare fuori dei soldi ma che bisognava sempre accertarsi dove andavano a finire affinché nessuno potesse speculare o creasse finte associazioni che potessero rovinare il lavoro di chi con tanta fatica porta avanti delle nobili iniziative. Quella sera stessa Nonno Berto ha fatto tre adozioni! Tutte bambine, perché lui aveva viaggiato tanto e sapeva quanto fosse difficile essere donna nel Terzo Mondo. E queste bambine sono diventate la sua ragione di vita; aspettava le letterine e le foto con ansia e diceva che non poteva più morire perché adesso aveva dei bambini da far crescere. Ogni anno ne adottava delle altre e ormai la sua famiglia era diventata molto numerosa, le aveva tutte in bella mostra sulla credenza e orgoglioso faceva vedere le foto delle piccole creature a chi andava a trovarlo. Ogni volta che tornavo dal mio viaggio a Sabana, gli portavo dei disegni, dei piccoli oggetti che le bambine gli mandavano e lo vedevo rinascere; il suo obiettivo era portarle all’Università perché voleva che, attraverso lo studio, avessero una vita migliore. Una volta aveva fatto anche stampare da amici sopra delle magliette bianche da lui

Nonno Berto con Roberto

comperate la scritta «Mauri Umberto - Verona Italia» e aveva voluto avere la foto gigante da mettere vicino al letto. Al suo funerale ho chiesto al sacerdote di poter dire due parole al termine della Santa Messa per far sapere a tutti che grande cuore avesse questo finto burbero, e in fondo alla chiesa mi è sembrato di vederlo, nascosto tra la gente, sorridermi e farmi l’occhiolino». ELENA Il 10 settembre 1995 a Villa Buri (Verona) sono stati festeggiati i primi 10 anni della nascita del Progetto Roberto. Durante la Santa Messa in sostituzione dell’omelia, sono state portate alcune testimonianze di persone che da tempo avevano aderito all’iniziativa dell’«Adozione a distanza». Tra le più commoventi c’era quella della mamma di Elena. «Tempo fa una nostra amica ci aveva parlato dell’adozione a distanza, ci è sembrata una bella cosa e abbiamo deciso di

aderire anche noi prendendo due bambini, un maschietto per me e una bambina per mia figlia Elena -ha esordito la signora- Elena, mia figlia, è una ragazza tetraplegica ed è qui tra noi con la sua carrozzina. Ha vissuto l’adozione in un modo eccezionale, quello che sembrava essere un piccolo gesto di solidarietà nei confronti di chi ha bisogno, una piccola goccia in mezzo al mare si è rivelato per Lei una cosa importantissima, Elena lavora in una cooperativa per disabili e con questi soldi è orgogliosa di mantenere la sua piccola. Ha tappezzato la casa di sue fotografie e proprio questa bambina è diventata la ragione principale della sua vita, grazie Roberto». Ora «Progetto Roberto» aspetta anche te con l’Adozione a distanza per continuare in questo cammino di speranza e di amore perché, aiutare il prossimo è come aiutare noi stessi ricordandoci che «Fare del bene ti fa sentire bene». 97


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Come aiutare il «Progetto Roberto» Adozioni a distanza L’adozione a distanza è la maggiore fonte di sostentamento all’impegno di Roberto per quello che sta facendo per i bambini della Repubblica Dominicana. Per adottare un bambino a distanza è sufficente fare richiesta all’indirizzo degli: Amici del Progetto Roberto Onlus sotto riportato. Con l’adesione, verrà inviata la scheda del bambino adottato con la relativa foto e la sua breve storia. L’impegno che si chiede a chi adotta un bambino, è una somma minima mensile da versare tramite bollettino postale con la causale: Adozione a distanza e il nome del bambino o della bambina. Due

volte all’anno ai padrini o alle madrine verranno inviate delle lettere che illustrano i progressi fatti con una nuova foto del bambino o della bambina. Il 5 per mille Anche l’Associazione «Amici del Progetto Roberto» Onlus è stata inserita tra gli Enti beneficiari dell’aliquota del 5 per mille, derivante dalla firma sul CUD o sui modelli 730 e 740 della denuncia dei redditi per l’anno 2010. È sufficiente che l’interessato ponga la sua firma ed indichi il numero del Codice Fiscale del Progetto nella prima sezione (associazioni di volontariato ed altro).

Grazie a tutti coloro che vorranno aiutarci. Per informazioni: Amici del Progetto Roberto Onlus presso: Sinectra Srl - Località Villabella, 24/a - 37047 San Bonifacio (VR) - Tel. 348 2377606 Codice fiscale: 93161100230 www.progettoroberto.com - mail: progettoroberto@virgilio.it Si può contribuire effettuando versamenti a: Amici del Progetto Roberto Onlus Banco di Brescia spa - Filiale di Sona (VR) - IBAN: IT91U0350059870000000003919 Banca Popolare di Verona Agenzia di San Martino Buon Albergo (VR) - IBAN: IT43K0518859790000000024720

Alcuni «Amici del Progetto Roberto» durante una delle tante iniziative a sostegno del «Progetto Roberto» 99


BIBLIOGRAFIA AA.VV. - Claudia e Franca, diario di un viaggio, San Martino Buon Albergo 1989. Mons. Fausto Rossi - Oltre l’oceano la gioia di donare, Vicenza 1990. AA.VV. - Dal Progetto Roberto nasce il Progetto Boyà, San Bonifacio 2005. Luigi Foglia - Il Tempio Coloniale di Boyà, La storia e la leggenda di una realtà, Marzana 2010. Andrea Scarpa - Vanity Fair, 11 agosto 2010.

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PROYECTO BOYÀ Asociacion de Vuluntariado Amigos del Proyecto ROBERTO ONLUS Calle Fidel Maria Sombrano, 13 BOYÀ - MONTE PLATA - REPUBLICA DOMINICANA Amici del Progetto Roberto Onlus presso: Sinectra Srl - Località Villabella, 24/a - 37047 San Bonifacio (VR) - Tel. 348 2377606 www.progettoroberto.com - mail: progettoroberto@virgilio.it Presidente Onorario Roberto Danese Presidente Franco Castelli Vice Presidente Vicario Claudia Bergamo Vice Presidente e Coordinatore adozioni Luigi Foglia Segreteria operativa Carla Tecchio, Loredana Battaglia, Monica Brunelli Soci fondatori della ONLUS «Amici del Progetto Roberto», fondata il 16 ottobre 2003: Marco Agnelli Piergiorgio Agostini Claudia Bergamo Adriano Bochese Monica Brunelli Franco Castelli Antonio Casu Riccardo Cinti Roberto Dalla Valle Maurizio Danese Luigi Foglia Stefano Giavarina Lorella Malgarise Sisto Marchesini Silvano Miniato Antonio Pastorello Gianni Piubello Giorgio Sartori Daniela Veneri Pietrogrande 101


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