11 minute read

PIACERE, CAMILLA!

Mi chiamo Camilla Ravaioli, ho ventisette anni e sono sorda dalla nascita.

Mia mamma scoprì che non sentivo facendo la prova delle pentole. All’epoca aveva già qualche dubbio, per cui si mise dietro di me e il mio amico di infanzia che stavamo giocando e batté le pentole. Il mio amico – che aveva nove mesi – si prese un colpo. Io invece continuai a fare ciò che stavo facendo come se nulla fosse. Controlli, ospedali e accertamenti confermarono ciò che mia mamma temeva: sorda profonda!

Advertisement

Per la mia famiglia fu un lutto. Eppure, non si arresero, tanto che a neanche un anno facevo già logopedia e portavo gli apparecchi, anche se essendo piccola e non capendo cosa fossero, li lanciavo un po’ ovunque. La mia famiglia, soprattutto la mamma, fu molto presente. Mi portava a musica, a danza, al parco e mi metteva il più possibile a contatto con la frenesia del mondo, invece di costruirmi intorno una campana di vetro. La cosa ironica – passatemi il termine – è che si pensava che probabilmente non avrei parlato, che avrei fatto fatica a integrarmi e avrei avuto poca indipendenza. Invece, oggi ho una mia compagnia di circo contemporaneo chiamata “I(L)LIMITATI”, da quattro anni vivo fuori dal mio paese, da sei ho una relazione fantastica con l’amore della mia vita e non sto mai zitta.

Al mondo del circo mi sono avvicinata a diciassette anni. Era un periodo buio, perché in classe subivo bullismo verbale. Ero vicina alla depressione. L’unica cosa che mi faceva restare in piedi erano gli amici fuori dalla scuola e la mamma, che mi raccomandava ogni mattina di non dargliela vinta. Poi arrivò l’incontro con l’acrobati ca aerea. Iniziò tutto da un volantino pubblicitario di una palestra che pro poneva un corso di questa discipli na. La mamma mi portò, sostenendo che dovevo provare. E aveva ragione. Quella che pensavo fosse una valvola di sfogo, divenne una grande passio ne, a cui mi attaccai con tutte le forze. Non smetterò mai di ringraziare la mia insegnante per avermi fatto scoprire questo mondo e avermi dato una fi ducia che al di fuori della mia famiglia non trovavo quasi mai assegnandomi il compito di aiuto passai dall’allenarmi una volta alla settimana all’andare in palestra tutti i giorni. Col passare del tempo iniziai a lavorare nel mondo dello spettaco lo, a lavorare in più palestre (sempre con la mia insegnante) e ad avere un corso mio come insegnante di cerchio amatoriale livello base concluso con grande soddisfazione. rare e, su consiglio della mia inse gnante, iniziai a fare danza contem poranea. Senza aspettarmelo, divenne una seconda passione che continuai a coltivare fino a quando non decisi di voler intraprendere un percorso professionale. Dopo varie audizioni venni presa all’accademia Kataklò di Milano, dove feci il percorso triennale professionale. Per me fu molto diffici le, ma “non mollare mai” era ed è il mio motto. Per fortuna, la mia classe si rivelò bella e unita e anche il mio compagno mi sostenne sempre. La si di provare a entrare per fare l’anno tecnico alla Flic di Torino e venni presa. Mi trasferii con il mio compagno e mi innamorai della città. Nella scuola, la mia sordità fu accolta a braccia aperte tanto da farmi venire ancora più voglia di raccontarmi. Così preparai un numero con danza, tessuto e lingua dei segni – quel poco che so perché ho sempre parlato – ma quel poco che so l’ho preso, fatto verificare da persone sorde che conoscono la LIS e poi rivoluzionato a modo mio. Io non mi vergogno della mia sordità né dei miei apparecchi e rispondo a tutte le domande che mi fanno perché ritengo giusto che la gente cominci a conoscere la sordità, quello che rappresenta e soprattutto ciò che sento o sentiamo. Per quanto riguarda l’impianto cocleare, ho deciso di non farlo dopo averci pensato molto, perché ho capito che sto bene così e finché non ne sentirò il bisogno continuerò a danzare nella mia sordità. Non sentirò mai le cicale, non parlerò al telefono e non distinguerò mai alcuni suoni, ma – a differenza degli udenti – le cose, i suoni, le voci, i rumori e la musica io non li ascolto, però li percepisco. Il bello della sordità è che convivi con il silenzio assoluto ogni volta che togli gli apparecchi. E non hai paura, anzi, ci trovi pace e rifugio quando serve. Arriviamo così al gennaio 2021, quando ho fondato la compagnia “I(L) LIMITATI”. Se prevale la concezione di limite o quella di risorsa lo lasciamo decidere a chi viene a vederci. Il

CRISTIAN SIGHEL, UNO STRAORDINARIO ULTRAMARATONETA «ALLA RICERCA DEL SOLE»

a cura di Martina Dei Cas

Inverno 1998. Cristian Sighel ha vent’anni e il suo futuro è azzurro e limpido come il cielo sopra le montagne dell’altopiano di Piné che lo hanno visto nascere. Concluso il servizio militare con un ricco carosello di esperienze su e giù per l’Italia, ha cominciato a lavorare nell’officina meccanica del papà e non vede l’ora di sfrecciare per le strade del paese con la sua auto nuova assieme agli amici. Ma una mattina tutto cambia. È ora di colazione, le luci sono accese, eppure intorno a Cristian – a causa di una brutta infezione cerebrale – è scesa una penombra che non se ne andrà più. A nulla valgono la corsa in ospedale e i successivi interventi. La diagnosi è una doccia fredda: il giovane è diventato ipovedente. D’ora in poi per lui resterà accesa solo una piccola fiammella, che gli permetterà di distinguere il giorno dalla notte. Per la famiglia Sighel cominciano così mesi e anni terribili, di dolore, rabbia e confusione, ma anche di adattamento e riscoperta.

Piano piano, Cristian – che frequenta un apposito corso di formazione dell’Unione Italiana Ciechi a Padova e poi trova lavoro come impiegato – decide di adattarsi alla sua nuova condizione. O meglio, di rifiutare che la sua condizione definisca tutta la sua persona. Così, comincia a correre, contro i pregiudizi, il pietismo e la curiosità – non sempre rispettosa e costruttiva – dei compaesani. Corre contro, ma anche incontro, alle esperienze che ancora gli regalano gioia. Il calore dei raggi sulla pelle, un tramonto appena abbozzato, il profumo dell’erba tagliata di fresco.

Ecco allora che si trasforma in ultramaratoneta. Gareggia su diversi circuiti, per cinquanta, sessanta, cento chilometri di fila. Le prime volte, il papà lo segue di nascosto in bicicletta per paura che perda l’orientamento e si faccia male, ma alla fine Cristian trova il suo ritmo. Stimato atleta, fa amicizia con l’olimpionico Alex Schwazer, sposa Romina, diventa papà di due bellissime bambine e anche coautore della sua biografia. Il libro, pubblicato nell’autunno del 2021, si intitola “Alla ricerca del sole” ed è scritto a quattro mani assieme al giornalista Maurizio Panizza, un vero e proprio “detective di storie trentine”. Significativo anche il sottotitolo “Questa pazza vita che tanto mi ha tolto, ma tanto mi ha dato”. Infatti, di queste pagine colpisce proprio la prosa delicata che, pur non indorando il dolore, apre capitolo dopo capitolo piccoli squarci di quotidiana bellezza. E non si tratta di rassegnato stoicismo, bensì di un profondo lavoro interiore e di una maturità conquistata a un prezzo troppo alto, ma capace di ispirare e di dimostrare che anche i cassetti delle persone con disabilità, proprio come quelli di chiunque altro, sono pieni di sogni. Sogni costretti ogni giorno a fare i conti con la malattia, gli stereotipi e la paura, eppure tenaci. Sogni capaci di trasformarsi in realtà, di emozionare e di regalare preziosi insegnamenti a chi ha la fortuna di incontrarli.

Perciò, amici e amiche di PRODIGIO, siete tutti invitati a imbarcarvi assieme a Cristian e Maurizio, in

Profumo Di Arance

di Giacomo Carbonara

E fu così che apparisti davanti a me, senza che me ne accorgessi.

E in cielo vedevo i lampi accecarti. Come clochard cerchiamo delle coperte in più per non sentire il freddo, per riuscire a dormire la notte.

Ma chi dorme dopo un tale concerto di anime?

In un aereo mi ritrovai.

L’atterraggio più duro della mia giovane esistenza.

Ma chi dorme?

Chi, dopo una tale incoerenza? Chi dorme non piglia pesci.

E le onde in questo peschereccio, si sentono fino a togliermi la fame. Le vite volate via si specchiano in mare.

Luci arancioni tagliarono la nebbia. Le arance raccolte.

Più profumate di un doloroso amore perduto.

E io guardavo le montagne quando gli altri guardavano il mare. Una favola che nessuno saprà mai raccontare.

E il rumore assordante dei tuoni mi toglieva il respiro.

Fango, sabbia e poi asfalto.

Ma lo sai che a vederti, come un infante io salto?

E le strutture che abbiamo costruito resteranno lì.

Così immobili e complicate da non lasciarti nemmeno il venerdì.

Ma che cretino io a non vedere la soluzione.

È sempre stata sotto i miei occhi. Sotto un arancio una vipera trova dimora.

Con quell’eccessiva ricchezza di frutti. Sempre sola.

questa magica avventura alla ricerca del sole, da soli o in compagnia dei giovani della vostra famiglia o della vostra scuola. Vi assicuro che non rimarrete delusi. Parola di una lettrice che non ama particolarmente le biografie, eppure ha divorato questa in un baleno!

E se provi a prenderle quei gioielli che solo qualcuno dall’alto poteva donare.

Per portarli a chi ha più fame. Lei, immancabile egoista, prova a morderti, pensando di avere ragione.

Questa è la storia di una tra le molte donne eccezionali che, spesso dimenticate da una Storia scritta al maschile, hanno determinato le conquiste dell’umanità.

Marie Curie nacque nel 1867 in Polonia da una famiglia amante dello studio e della scienza, ma senza molte possibilità economiche. Perciò, solo a ventiquattro anni ebbe la possibilità di realizzare il suo sogno di recarsi a Parigi e frequentare la Sorbona. L’incontro con Pierre Curie fu un amore a prima vista, accomunato da un profondo interesse per la ricerca. Il loro laboratorio era un cadente capannone annesso alla facoltà di chimica. Gli esperimenti li portarono ad individuare un elemento sconosciuto, trecentotrenta volte più radioattivo dell’uranio, ma instabile. Marie, fervente patriota, volle chiamarlo Polonio in onore della sua patria tristemente sottomessa alla Russia zarista. Fu di poco successiva la scoperta che valse loro il Nobel per la fisica: un altro, più stabile, elemento che chiamarono Radio in virtù del chiarore che emetteva al buio. In verità il comitato per l’assegnazione del premio fece il solo nome di Pierre. Ma lui si disse pronto a rifiutare se non poteva condividerlo con la moglie che aveva contribuito, anche più di lui, alla scoperta. E così Marie fu la prima donna a cui venne conferito il più prestigioso dei premi scientifici anche se, in quanto tale, le fu impedito di leggere dal palco il discorso che insieme avevano preparato. Nonostante la società maschilista e ottusa in cui si trovò ad operare, che relegava le donne ai soli ruoli di mogli e madri, Marie era consapevole del suo valore e del contributo umano e scientifico che avrebbe potuto dare all’umanità intera. Emblematica è la risposta che diede ad un giornalista che scioccamente le domandava cosa si prova a vivere con un genio: «Non so, chieda a mio marito». Presto divenne evidente l’importanza del radio in ambito medico, soprattutto in relazione alla cura del cancro. Brevettare le loro scoperte avrebbe potuto sollevare i coniugi Curie dalla cronica carenza di fondi per le ricerche e renderli molto ricchi, ma loro non vollero mai farlo poiché ciò avrebbe implicato un aumento dei costi delle cure e degli altri impieghi che il radio aveva trovato in medicina e consideravano le scoperte scientifiche un patrimonio di tutto il genere umano.

Nel 1906 Pierre Curie morì, travolto da una pesante carrozza mentre si recava al laboratorio. Marie rimase sola con le figlie di due e nove anni, in una situazione economica non certo agiata. Grazie all’intervento di alcuni amici le fu proposto di ricoprire, in quanto vedova di Pierre e in assegnazione provvisoria, la cattedra che era stata del marito alla Sorbona, ma le sue lezioni richiamarono così tanti studenti e interesse da parte del mondo accademico che l’università si vide costretta a ufficializzare la sua posizione conferendole il ruolo di professore ordinario.

Fu la prima donna nella storia del prestigioso ateneo a ricoprire tale incarico e, cosa ugualmente importante, aprì la strada ad altre eminenti studiose che, nel corso del ventennio successivo, l’università incaricò come docenti, superando finalmente le restrizioni di genere.

Verso la fine del 1910 si liberò un posto nell’autorevole Accademia delle Scienze di Parigi. Marie decise di candidarsi, dato il prestigio che ormai aveva raggiunto anche a livello internazionale, per le positive ricadute che la nomina avrebbe avuto, poiché il costante impegno nella ricerca di finanziamenti le sottraeva tempo allo studio e alla sperimentazione. Ma aveva sottovalutato l’ottusità degli accademici, i quali sentenziarono che mai una donna avrebbe messo piede in quel tempio sacro! La sua candidatura richiamò un folto pubblico che il giorno dell’elezione si assiepò ai cancelli dell’istituto. «Lasciate entrare tutti fuorché le donne» furono le parole del presidente! In un clima di agitazione e confusione si svolsero quindi quelle votazioni che (l’avreste mai detto?) la videro sconfitta. Marie non fece commenti, ma da allora in poi si rifiutò di concorrere ad altri seggi ed onorificenze.

Intanto nella sua vita privata, dopo quattro anni di lutto e depressione per la morte del suo amato Pierre, un altro uomo giunse a rasserenare i suoi giorni. Paul Langevin era uno studioso di fisica che già in giovane età aveva conquistato una certa fama. Marie e Paul si conoscevano da tempo poiché lui era stato un collaboratore di Pierre e spesso aveva lavorato con lei a preparare le lezioni alla Sorbona e gli esperimenti in laboratorio. Che stringessero un legame amoroso era quasi inevitabile. Ma Paul aveva un gran “difetto”: era già sposato e padre di quattro figli a causa dei quali, pur vivendo una tempestosa storia coniugale, non sapeva decidersi a divorziare e abbandonare la famiglia. Le relazioni, si sa, si intrecciano in due, ma fu solo Marie a subirne le conseguenze: fu violentemente accusata dalla stampa conservatrice di essere un rovina­famiglie, fino al punto di dover temere per la sua vita e per quella delle figlie, e ci furono anche duri attacchi nei confronti di amici che osarono ospitarle e proteggerle. Niente di tutto questo dovette subire Paul: per il fatto di essere un uomo veniva “giustificato”! Intanto era arrivato da Stoccolma il telegramma in cui le si annunciava la volontà di conferirle il Nobel per la chimica,

MARIE CURIE, UNA DONNA ECCEZIONALE PER UN 8 MARZO LUNGO TUTTO L’ANNO!

per essere riuscita a isolare un grammo di radio. Ma, quando l’eco dello scandalo che l’aveva travolta giunse in Svezia, con un secondo telegramma le fu richiesto di non accettare poiché se l’accademia ne fosse venuta a conoscenza prima con ogni probabilità non le avrebbe conferito l’onore. Marie, razionale ed orgogliosa, rispose: «Il premio mi è stato assegnato per la scoperta del radio e del polonio e credo non vi sia alcun rapporto tra la mia opera scientifica e le vicende della mia vita privata. In linea di principio non posso ammettere che le calunnie e le maldicenze della stampa influenzino l’apprezzamento accordato al mio lavoro scientifico».

Perciò si recò a Stoccolma per ricevere l’alta onorificenza dalle mani del re e nessuno si azzardò a parlare dei suoi fatti personali.

Quando scoppiò la Prima guerra mondiale la Francia si trovò impreparata a fronteggiare le cure per le vittime di nuove micidiali armi: soltanto in alcuni ospedali parigini era presente un servizio di radiologia necessario ai chirurghi per salvare la vita ai soldati feriti da pallottole e schegge. Marie, accesa pacifista e strenuamente contraria ad ogni azione bellica, ebbe l’idea di organizzare un servizio di unità mobili di radiologia da spostare sui vari fronti di guerra e negli improvvisati ospedali militari. Le cosiddette “petites Curie” erano grosse automobili riadattate e fornite di una strumentazione semplice ed essenziale per gli esami radiologici. Aiutata da molte volontarie pare che siano state fatte dai suoi laboratori mobili più di un milione di radiografie.

Marie morì nel 1934 per un’anemia aplastica dovuta all’esposizione alla radioattività che aveva caratterizzato tutta la sua vita di studiosa. Nel 1995 il presidente francese Mitterand, alla presenza di quello polacco Walesa, fece traslare le spoglie dei coniugi Curie nel Pantheon, dove giacciono quelle dei grandi di Francia.

Patriota, pacifista e grande scienziata, Marie Curie ha aperto la strada maestra verso la parità di genere, perché non esiste “l’altra metà del cielo” ma un unico cielo sotto il quale ognuno, donna o uomo che sia, ha il compito di collaborare allo sviluppo dell’umanità intera.