Lodi del corpo maschile a cura di alessandra celano e giulio mozzi

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Questo libro

Questo libro (perché questo è un libro, piaccia o non piaccia) raccoglie tutti i testi pubblicati da luglio a ottobre 2013 in vibrisse, il bollettino di letture e scritture a cura di Giulio Mozzi1, nell’ambito del gioco Lodi del corpo maschile. Ecco le regole del gioco, così come pubblicate in vibrisse: Lodi del corpo maschile è un’iniziativa a cura di Giulio Mozzi e Alessandra Celano, promossa attraverso il bollettino vibrisse. Si partecipa inviando all’indirizzo lodidelcorpomaschile@gmail. com un componimento in versi, di qualsiasi lunghezza, che lodi una parte del corpo maschile. Il termine per inviare i componimenti è: 30 settembre 2013. I componimenti dovranno essere inseriti non nel corpo dell’email, ma in un documento a parte (in formato .doc, .docx, .rft, .odt eccetera: per favore, non .pdf). Nel documento dovranno essere indicati: nome e cognome, indirizzo elettronico, indirizzo fisico, numero di telefono. Chi voglia apparire anonimo o con uno pseudonimo dovrà indicarlo chiaramente, sempre all’interno del documento. Trattandosi di lodi del corpo maschile, la partecipazione è riservata alle donne eterosessuali e ai maschi omosessuali – e a chiunque, per proprio orientamento sessuale, desideri il corpo maschile. Ogni testo pervenuto potrà essere pubblicato, nel giro di pochi giorni, nel bollettino vibrisse, nella rubrica dedicata. Mozzi e Celano selezioneranno i testi a loro giudizio migliori per produrre una pubblicazione. Considerando lo stato dell’editoria di poesia, si tratterà molto probabilmente di una pubblicazione digitale. La partecipazione all’iniziativa con l’invio di un componimento implica l’accettazione di quanto scritto in questa pagina. Spiegazione dell’iniziativa di Giulio Mozzi Nel 1536 (un po’ d’anni fa) il poeta francese Clément Marot lanciò (da Ferrara, dove si trovava all’epoca, in esilio per motivi politico-religiosi) una sorta di gioco, o competizione, tra colleghi. Pubblicò una Lode alla bella tetta (Blason du beau tétin) e invitò altri poeti a comporre altre lodi, per ciascuna parte – anche la più piccola, anche la più intima – del corpo femminile. Il libro, intitolato Les Blasons Anatomiques du Corps Féminin, apparve l’anno stesso (dapprima come annesso a un’opera dell’Alberti, poi come volume autonomo).


Qualche anno fa ne uscì una bella traduzione – opera di un gruppo di poeti, da Cesare Viviani a Cesare Greppi, da Vittorio Sereni ad Antonio Porta, da Valerio Magrelli a Maurizio Cucchi – in lingua italiana. Esaurita da tempo quell’edizione, ora lo ripropone Studio editoriale. Ve lo consiglio: è pieno di arguzie, ironie e divertimenti. Ma ciò che volevo proporre qui, come avrete ormai capito, è: fare una raccolta di Lodi anatomiche del corpo maschile. I Blasons erano tutti scritti da maschi, presumibilmente eterosessuali: mi sembra opportuno dunque escluderli dal gioco, ammettendo donne eterosessuali, maschi omosessuali, e tutte le altre varietà. (Io sono dunque escluso). Vorrei, insomma, che non venisse finto un desiderio (mentre il componimento, ovviamente, può contenere tutta la finzione che si vuole).

Qualche regola di gioco 1. Le seguenti regole vanno prese come indicazioni. Ciò che conta, alla fin fine, è che la Lode sia bella. Però cercate di tenerne conto. 2. Forme chiuse, per piacere: sonetti, ballate, canzoni, rispetti, rondò ecc.; o anche forme semichiuse, come i madrigali (di tipo cinquecentesco). Non necessariamente regolari. Nell’originale francese si trovano molte ballate: la forma era allora molto di moda, ma io la trovo anche piuttosto adeguata alla lode (grazie al ritornello). 3. Componimenti corposi, se si può. Meglio trenta versi che cinque. (Perché una lode diventa vera lode quando si comincia a esagerare). 4. Il minimo possibile di linguaggio volgare; molto eufemismo; tutta l’ironia e la giocosità che volete. 5. Usate le risorse dell’elenco e della ripetizione. Si può usare l’anafora (come nel Beau tétin di Marot), si possono trovare quindici aggettivi per lodare l’anca o la scapola, si possono elencare le centoquarantaquattro bellezze del lobo dell’orecchio, eccetera. 6. La parte del corpo lodata può diventare destinatario della poesia: ci si può rivolgere a lei con il «tu». 7. Lodare certe parti del corpo è fin troppo ovvio: dedichiamoci anche alle meno frequentate. Sfruttiamo l’imperfetta asimmetria del corpo umano: della natica destra si possono dire cose che non si possono dire della sinistra, e così via. 8. Non si tratta di lodare l’incavo del ginocchio di Luigi o l’alluce di Giovanni: ma di lodare l’incavo del ginocchio in sé e per sé, l’idea platonica di incavo del ginocchio. 9. Non è necessario “prenotare” una parte del corpo: ci saranno parti del corpo più lodate e altre meno lodate, ma questo mi pare stia nella natura delle cose.


10. L’idea è: mettere insieme un numero sufficiente di testi belli, fare un libro digitale da vendere su tutte le piattaforme, e scalare le classifiche. Nel corso della pubblicazione si sono accese in vibrisse almeno un paio di discussioni piuttosto vivaci. È possibile leggerle in calce agli articoli: Apriamo il dibattito, ovvero la tenzone; Mariella Prestante e lo specifico letterario maschile; Produzione di lodi a mezzo di lodi. 2 Ringraziamo dunque tutte e tutti coloro che hanno voluto partecipare; le lettrici e i lettori di vibrisse che hanno sopportato la pubblicazione delle Lodi per tutta un’estate, e che spesso le hanno intelligentemente e pazientemente discusse; tutte e tutti coloro che hanno fatto pubblicità all’iniziativa via reti sociali, diari di bordo, radio eccetera. Questo libro non costituisce una selezione su base qualitativa. Ci siamo limitati a ordinare tematicamente i testi. Un libro successivo, se riusciremo a farlo, conterrà una selezione su base qualitativa – la faremo noi, e ci esponiamo alle contestazioni – e magari qualche utile intervento critico. A proposito: per questo secondo libro, si cerca un editore. Alessandra Celano, Giulio Mozzi, 9 ottobre 2013

NOTA. Abbiamo

conservate, ove fossero d’autore, le maiuscole ad inizio verso. I ritornelli delle ballate, se ricorrono identici, non sono riportati. Per le saffiche abbiamo adottata l’impaginazione col quarto verso rientrato. Le altre particolarità di scrittura (uso esclusivo della minuscola, carenze di punteggiatura ecc.) sono da considerare scelte d’autore. IN COPERTINA:

Abrecht Dürer, Adamo ed Eva, dettaglio.


Lodi del corpo maschile


Cartaresistente, Lode tipografica


Tra capo e collo


Cristina Del Ferraro, La bella chioma

Mirandone la folta chioma al vento, d’ogni maschio s’intende il forte vanto; t’abbaglia la forza, che da ’l Sansone simboleggia virilità e testosterone. Che gran goduria conficcarvi le dita, di giocar all’annodo mai son sfinita; m’appago di carezzarne il dolce capo, con gesto d’un materno affetto vago. Fulva, bruna, mielata oppur mesciata, qualcuna l’ama riccia, altre lisciata; riluce lascivo il riflesso al chiarore, d’ogni scapigliato convegno d’amore. Il ciuffo s’imperla, la piega stravolge, se il gioco d’Eros l’uomo coinvolge; rimirar tanta bellezza è un tal piacere, ch’a volte il resto non fa così godere. M’ama o non m’ama? Son quesiti oziosi, basta perdermi nei suoi crini deliziosi, scioglierne nodi e saggiarne la saldezza, o se l’abbia detersi con accuratezza. E se la bella chioma, ahimè, scarseggia? L’amante del folto crine, s’amareggia; l’esubero del maschio ormone è onore, che ben consola la donna coll’ardore? Fosse pur falsa leggenda, la criniera che si perda o si diradi è cosa vera; trapianti di ciuffi impazzano, ormai, ché la scienza può toglierci dai guai. Alcuni, sì tosto perdono il capello, mal s’ascondono il capo col cappello: meglio rasar tutto, in tal viril pelata, che sin da’ tempi antichi, fu esaltata.



Antonella Sbrilli, La chioma tagliata corta

Tagliata sulla nuca corta corta si offre a una carezza contropelo e un brividino sulla mano porta un non so che, un fremito, un velo di piacer periferico (gradito ossimoro di ispido e di serico). Zazzeretta d’estate, testolina rasata quasi a zero, una chioma continua e bassa su quella fossetta fra nuca e collo, proprio dove passa e ripassa la mano aperta in cerca – un po’ di fretta – di una scossetta sensazione elastica e pungente precisa e radente, in sé perfetta.


Valentina Simeoni, La pelata

Canto te, sfoltita chioma, ti confesso la mia stima. Di te loderò, non aver tema quel che spero nei cor s’imprima. Nasci timida, lassù in cima, a sguardo acuto sol ti sveli del supremo vertice regina; poi ti espandi e ti riveli piano: sempre poco più di prima, mano a mano cadon’ i peli e crei quel nido su nei cieli che or mi ispira questa rima. Sei dapprima un roseo schiaro: nel cuore del più folto capello ti vedo brillare e il raro, più prezioso mi sembri gioiello. La piazza si estende, un paro di crine sembra ancor t’opprima ch’ io, veggente, già scorgo ignaro quel cranio che un globo mima. Poiché voto non ha formulato si vergogna il tuo padrone; con il riporto ti ha bendato neanche tu fossi sottrazione. Il trapianto? Sarebbe peccato! Il parrucco? Vieto ch’alberghi ma tanto desidero, il pelato, vedere che cresca nel giusto clima. Un’addizione, inver, tu sei di saggezza, fascino e beltà; coronamento di santi e dèi, ti cerco nell’uomo d’ogni età. Specie protetta che fossi vorrei, tonda, liscia qual fatta con lima; a dire ch’amata eri, musei interi t’avrebbero in vetrina .


D’alopecia innamorata, nel diradamento gradazione non tollero: solo tu, pelata, sei per me suprema perfezione. Bella superficie vellutata, con mano ti sfioro dapprima, lascio che su cute delicata tutto il mio desir s’esprima. Calva testa, a te questa lode canto: a te, sfera celestiale di cui il mio interpretar gode; rotonda crapa oracolare culmine sei di membra sode. Di fantasie vivace enzima nel vederti l’amore esplode, nel percorrerti l’ardor sublima.


Ornella Spagnulo, Il cervello

Al tuo cervello io vorrei parlare, cervello sano, nudo, essenziale, perché a me manca quel tuo ragionare così risolto, liscio, elementare. Materia grigia, la parte più nascosta, che è benedetta a partire dalla culla. Il tuo cervello non va dall’analista a ricordare un passato burrascoso. Caro il mio amore, ragazzo intelligente, con te a trent’anni ritrovo l’equilibrio, la tua salute mi sazia anche la bocca. È il tuo cervello, amore, che mi tocca, perché risana la parte mia peggiore. Col tuo cervello io faccio l’amore.


Morena Silingardi, Il cervello

Da sinistra cuor dice: ha cervello! Pallido e smunto, un po’ sordo compagno, pur se sei pingue e di certo anche breve, solo con te da mane e sera io lagno quando tu parli in maniera assai greve. Stanne sicuro, non c’è chi la beve la storia tua che sei stato anche attore: con la Lorèn non ci hai fatto all’amore non assomigli per nulla a Marcello! Ormai quasi calvo, pur anco sei strabico, hai braccia pelose ed irsuto il tuo viso, sembri un po’ tonto con sguardo serafico, sei incapace di rapace sorriso! Il naso adunco, da tanti deriso, non ti giovò quando fosti ragazzo. Tu falso ridevi: «Non è che m’ammazzo!», finto sarcastico, furbo monello! Di te l’intelletto solo voglio lodare: nessun mi chieda che cosa in te trovo se neanche sei un prete che io voglia amare come se fossimo in Uccelli di rovo! Vuoi sapere di preciso che provo quando complici tu ed io parliamo per ore? Lesto e tosto mi assal dolce il languore che a me desti pur se tu non sei bello!


Stefano Serri, Impazzisci con me (il cervello)

Impazzisci, ti prego, facciamolo insieme: lasciamo il cervello al caso. Senza il tuo amore esce sangue dal naso. Nel mio cranio tu intasi un cunicolo con il tuo grappolo, maturo appena, ma già m’infonde ebbrezza in ogni vena. Fammi cantare anche senza spartiti e riposare anche senza risposta: nel tuo pensiero il mio abisso ha una costa. Che cos’è un corpo? Casa e croce, uniti: la mente fonde insieme il chiodo e il perno (ma l’anima è l’uscita da ogni inferno). Provvedi tu un rimedio a ogni male se avrò perduto un giorno anche il controllo di questi miei neuroni che ho sul collo. Forse avverrà che io sia bipolare: sali sull’altalena del mio umore ma salta giù, se ti fa male il cuore. Dentro il mio corpo a volte è notte il giorno: la mente s’aggroviglia al tempo, spesso (ma l’anima è certezza dell’adesso). Senza il tuo amore ho sangue fermo intorno. Forse son stanco o solo un po’ depresso. Impazzisci con me: e sarò me stesso. Stringimi pure, ma dovrai lasciarmi andare via da questo mio cervello. Mi resta da rivolgerti un appello: se una demenza mi farà senz’armi tu tienmi come madre sempre stretto e il mio ricordo ascolterà il tuo petto.



Alessandra Celano, Le ciglia

S’ode un’ode: la lode delle ciglia. Eleganti e sinuose sentinelle sull’indifeso ciglio delle iridi, brevi ombre sulle palpebre, sorelle congiunte a congiuntive, ùvee, coroidi, si chiudono per custodire i brividi (come cancelli, ché non si cancelli, non sfugga alcun di quei fremiti belli), si schiudono a mostrar la meraviglia. Chiuse nel sonno, a tratti tremolanti di un misterioso sogno al soffio lieve, le guardi arrese, incuranti d’incanti e di affanni, per una tregua breve prima che il giorno torni col suo greve carico – e che riprendano sugli occhi a battere, come del tempo i tocchi – prima che il giorno porti paccottiglia. Trattengono il cristallo della lacrima finché si sciolga al labbro che le sfiori (minuscolo cristallo, che dell’anima, puro, riflette il pianto e pur gli ardori), ciglia di maschio, nude di colori, di mascara, di maschera-belletto, belle e leggere seguono il balletto dei baci dalla tempia alla caviglia.


Nadia Bertolani, La pupilla

Kore vuol dir pupilla, è risaputo, una piccola pupa, bambolina, qual sono io se guardo quel velluto nero e mi specchio e vedo me bambina. Loderò la pupilla in un minuto, parte del corpo umano piccolina, perché mi piace la mitologia e della lode al cazzo ho ritrosia. Della pupilla farò l’elegia, perché è una lenticchia assai gentile, modello di perfetta geometria, poco maschile, è ver, ma mai scurrile. Di altre parti del corpo ho bramosia, ma da tal gorgo nero non virile sono sedotta ed affatturata tanto che vorrei farne una ballata. O pupilla nell’iride annidata, voragine che unisce i due amanti, da mille fantasie sei abitata, ma resti misteriosa e desolanti son gli inganni che m’hanno accalappiata, sono le delusioni più brucianti, perché cerco l’amor nel cerchio nero e di speranze trovo un cimitero. Trovo solo me stessa nel tuo specchio, lo sguardo è sempre un laido ingannatore, tuttavia continuo al modo vecchio a scrutarti con indefesso amore, punto nero nell’iride dell’occhio, precipizio infinito e seduttore, di una ballata non sei più l’oggetto, tu, pupilla, monile di giaietto, perché con disappunto ho ormai dedotto d’avere scritto un multiplo strambotto!


Stefania Sorbara, Lo sguardo a G. R. Sì rimiro del volto il firmamento, quel lucore di gemma incastonata, dell’etnia l’impronta blasonata, del sembiante il divin coronamento. Araldo di desio, in me ardimento inietti d’utopistica crociata. Sol lo sprezzo m’arruffa frastornata, se restìo a un pietoso infingimento. Iride tersa, corvina o d’ardesia, te a vedetta di anima erigo. Del viril conio disvela il punzone sicché di dubbi in me cessi tenzone: io che al bel guardo d’Orfeo prediligo l’onnisciente scurità di Tiresia.


Azzurra D’Agostino, Lo sguardo

La retina il cristallino il nervo che porta dritto al nerbo del pensiero e dal pensiero giù e a lato in fondo al quadrato cerchiato del cuore che il bruciore arrossa appena appena e slucida illanguidisce slarga. Non tarda molto anzi parte da qui la rincorsa di respiro e pelle e capelli mescolati lombi intrecciati e spinte scosse basse parole la faccia scostata la testa slacciata – parte da qui tutto da qui, dall’esperienza mineraria oltre il bulbo bianco. A fianco del colore, oltre il colore – verde mare, nocciola, nero pozzo grezzo azzurro, oro, dorato ocra, celeste – nelle teste delle pupille che riguardano come quelle belle svegliate la mattina in ritardo. Fare l’amore il pomeriggio, in segreto, saperlo notte e giorno come un tarlo che rosicchia le vene, fare l’amore per bene, schianto di ossa l di carene, fare l’amore per amore per gioco o per azzardo. È tutto già scritto nello sguardo.


Adriana Libretti, Lo sguardo dello skipper

Vira il tuo sguardo poggia però non stramba e tutto m’orza.


Sicania, Il naso

Odio l’augel che, quando alla foresta di tanti manti di color diversi, s’inoltra intrepido, issato in resta, trionfa in versi. E quando, sazio d’amor, riposa un poco e pronto a inoltrarsi ancora nella rosa appresso a dolce e femminino gioco occhieggia in posa. Te, picciol signor del volto maschio, amo, che, quando al duro inverno esponi le tue nari e al gran nevischio, per me sei il perno. Sarà per la tua maschia consistenza o per il tuo arrapante rossore, che infiamma il centro della mia esistenza, il tuo licore. E allora freme in me tutta la voglia del corpo mio anelante alla nasata che squassa e squarcia tutta la conchiglia abbeverata.


Mariella Prestante, I baffi

Oh quei baffetti, quei baffetti tuoi fedeli amici di un tempo migliore, 3 io no davvero non li taglierei. Danno al tuo viso un’aria superiore da uomo fatto, che sa i fatti suoi: come la valigetta dà al dottore l’aria professionale. Fatti tuoi comunque: i miei ricordi contan poco. «Quali ricordi?». Non ricordi? I tuoi baci primissimi, che mi pungevano il naso, e protestavo… Poi la grande nottata, quando fummo Adamo ed Eva, al buio, un po’ impauriti, e le mutande io non volevo togliere… «Ma tu sei nudo?». «Nudo, e con i baffi!». L’Ande e gli Appennini quella notte in su e in giù scalammo, e pure l’Himalaya. Ah, quell’incanto che non torna più… «Dunque li tengo?». O non capisci? Vai a quel tuo paese, scusa. Tagli i baffi? Chiama il poeta, corri alla petraia: al nostro amor la tomba e gli epitaffi…


Giovanna Iorio, L’orecchio

Voglio lodare il tuo piccolo orecchio lo osservo quando ti metti a letto: è un labirinto e ogni sera l’aspetto. Gli parlo tanto, troppo, parecchio. Lui zitto. Mi senti? Avvicino l’occhio. Guardo dentro: è buio, un tunnel lungo e stretto. Chiedo: arrivano le parole al petto? Non mi rispondi. Sei sordo. Parecchio. Poi un bel giorno ti decidi a parlare: «Il mio orecchio non è sordo al tuo amore. Vedi, ho un segreto. Vieni a guardare». E così ho visto le mie parole accendersi e spegnersi, per ore e ore. Tu, un silenzioso campo di lucciole.


Laura, L’orecchio

Approdo al vellutato lobo di calma morbidezza, dopo il vento vigoroso della barba. Ti sussurro, penisola perfetta, e sento il mare di conchiglia: dai capelli, si scopre e negli occhi vicinissima mi guarda.


Alessandra Celano, Il lobo

Piccolo lobo, tenera appendice, vestibolo di anfratti e labirinti, tu che i sussurri accogli, tu felice generator di brividi agli avvinti, tu che scompari tra due polpastrelli e ti fai vermiglio come gli acinelli dell’uva di ogni Bacco adescatrice e di fiamminghi lucidi dipinti, o bacca, in fregola divoratrice, fragola, volgi i piÚ innocenti istinti: roseo pendaglio, rischi di esser bolo, piccolo lobo, e con un morso solo.


Roberta Durante, Il pezzo liscio

Oh pezzo liscio che ti veggo di striscio! c’è un pezzo (proprio dietro il pezzo-lobo) che spiazza e spezza il vir d’ogni qual omo che d’uopo immaginiamo noi peloso braccio venoso e callo coraggioso ma vale quest’immagine ancestrale appena poco sopra il dito detto quell’unghia mezza rotta con difetto che graffia l’idea d’uomo manovale dietro l’orecchio sta il pezzo che dico che pure quando intorno tutto puzza nascosto e liscio mostra la sua forza ti annuso e noto come parti affini nascondano l’enorme tua sostanza: là dietro sempre sa di biscottini


Stefania Sorbara, La guancia

Di lobi, labbra e lumi sei giuntura, di vivi sensi il cupido sacello, a te la gota accosto nel rovello di un’intima lealtà imperitura. D’ansimanti sussurri dirittura o d’arenate lacrime l’avello, di te, ognor, la brama rinnovello rimpinzandomi in sì quieta pastura. Liquido bacio tua scorza imperla ove carezza espande beneficio, ligi allo sprone di un’inclinazione che bada, però, non è abnegazione. Perciò, ormai lassa, profeto l’auspicio: giammai da moina si schiuda sberla!


Francesca Matteoni, La bocca

Di te, solo di te cerco la bocca la polpa che si tende nella voce la foce che dal corpo ti diffonde senza colore come su una riva pelle-parete a cui si aggancia il cuore e dalla tempia al polso ci confonde il bagnasciuga della tua saliva. Di te, solo di te io voglio avere il succo che risale dalla gola il tuo scorrere denso, l’affiorare l’alga-parola attorcigliata al senso. Dalla tua bocca a questa stanza vuota immersa dentro un’acqua silenziosa e tutta opalescente, insapore quest’onda di rumore che s’arrossa s’affossa ad un’impronta sul bicchiere ci strizza in uno spicchio di limone. E se l’amore è sete viene aspra ci sazia, ci fa storcere la faccia e quando più ci tocca, si discosta.


Morena Silingardi, Le labbra

Le labbra sono un cuscinetto molle ove libido tenera si adagia. Di lor non siamo mai e mai satolle, eccetto se d’amor non c’è piĂš bragia. Amate collinette morbidose, leccabili, mordibili, succhiabili, lascive o umili, timide o bramose: eccovi in premio il pomo: and call me Paride. Labbra carnose, non siliconose, area rosata assai morbida al tatto, bello baciarle, da morder che buone! Bambino-uomo, le unisci a far schiocco, rapido il gesto, mi guardi e sorridi: amor di mamma, dolcissimo allocco.


Silvia Salvagnini, La curva

Io canto di te canto la curva che porta dal bordo del labbro al dentro della bocca io tocco di te tocco la curva della pupilla che si apre a scocco mentre attacco sguardo: la dilatazione delle pupille e delle cellule delle labbra dove lo spazio valica il tempo e il minuscolo dilatare crea sentiero al dentro. il mollo della materia dietro dove sei organo e consistenza, lì allo sbocco allo sbocciare all’istante in cui si apre il corpo al tuo dentro mucoso e vivo e viene a me il sentiero la traccia al lancio: al tessuto delle stelle/accessibili. e al cielo più forti del precipitare le comete, più forti dei giri del magma sottoterra i corridoi che apri aprendo gli orli. e del tutto accessibile alla vita l’inaccessibile alla vista.


Morena Silingardi, La voce

La voce, la voce, la voce: più d’un addome a carapace lei di sconvolgermi è capace. Vero portento è quel rimbombo che dalle tue caverne s’esce: e il mondo a me par più giocondo. «Innondi di diletto il core» cantan le sirene in Omero: tal qual pens’io per un tenore. L’uomo omo, si dice, ha il falsetto, ma Freddy Mercury era bòno non meno di The Voice o Vox Bono. Mark Knopfler, lui è brutto assai, ma la sua voce è… è… divina! Me ne beo da sera a mattina. Esempi? Sì, quanti si vuole, ma a che pro e perché mai dovrei: sai che a ogni voce impazzirei!


Adriana Libretti, Alla lingua

Se ancora del tuo corpo posso dire uomo presente in ogni mio pensiero non mi sarà più lecito mentire celando quel che provo per davvero. Di una lingua mi urge di cantare senza pudore lo farò stavolta non indico però parole care del bel paese da cui nacqui avvolta. La lingua che hai tra i denti, quella intendo, vela, petalo, aratro, mosso mare alla cui onda l’isola protendo anche se il desiderio mio è annegare. Alchimia di rugiada sulla rosa pugnale la tua lingua eppure piuma morbido manto che giammai si posa e fa di me Afrodite nella spuma. Ora che tu oltreoceano stai vivendo con la lingua fai lemmi, li sigilli; io leggo, li assaporo, poi m’accendo ma al buio resto sola e ascolto i grilli.


Gabriella Rossitto, La lingua

Non sono adusa a rime ed assonanze ma invero oggi canto con delizia la parte del suo corpo che mi vizia financo pronta a strambe ridondanze. Si cela la sua lingua un po’ si svela approda si nega amabile torna di bavaragno soavemente adorna lenta veloce tesse la sua tela. Il gioco si rivela sul finire: la lingua che con tutti è menzognera che giace in me sicuro nutrimento cede sincera in andamento lento. Decide lei feroce condottiera di quale morte poi farmi morire.


Mariella Prestante, La lingua

Della tua esperta e delicata lingua 4 nata non è la lingua che lodar sa la gran virtude, onde mi sembra scarsa qualunque lode che i quaderni impingua; né v’è intelletto che i piacer distingua e definisca, quando lei all’arsa mia fica dona, di saliva sparsa, sollievi e gioie giammai visti fin qua. E quando il desiderio è un cener spento, arriva lei e – tac! – in un momento qual brace al vento rossa risfavilla: e poi è un urlo, e poi è tutto un calmo paradisiaco sopor. Lei l’almo dolce licor raccoglie stilla a stilla…


Francesca Perinelli, Le corde vocali (la voce)

Maschietto mio, benché tu parli piano nei sussurri al risveglio («Mamma!») che in seno a me cercan conforto, delizia e croce è il tuo vociar squillante. Meglio dello sgolarmi invano fa il tacer: taci a tua volta. Sì, è contorto, ma la tua voce certo la sopporto. M’inorgoglisco se m’accorgo e sento, giorno per giorno, come si rafforza il timbro, come orza, diretta verso il porto, la prua al vento. Laringe e glossa, che ora impieghi a stento, saranno vigorose. Col tuo cordame scalerai montagne, fanciulle come spose prenderai al lazo, e scaccerai magagne. Bimbo, mangia lasagne che sei magretto, e irrobustirti devi, perché tu possa presto contrastarmi senza bisogno d’armi, o mettere sulla mia testa i piedi. C’è il trucco, non mi credi? Quando alla donna amata vorrai far rivaler le tue ragioni, lancia una sola occhiata, e dille «T’amo», tenendo bassi i toni.


Annalisa Bruni, Il mento

Allunga il profilo quel tuo pizzo appuntito, quasi luciferino dal letto di colpo mi drizzo in te rivedo il mio paparino Se potessi la barba tagliarti in silenzio mentre dormi, magari il mento glabro, sì, potrei baciarti ma anche vederlo, scoprire se bari Se anche quel pezzo di te mi piace capire perché sempre lo celi ché di farmi ragione non sono capace Voglio vederti nudo accanto alla stube senza finzioni, senza tutti quei peli ché mi sa ti raderò pure il pube


Sara Sta, Le barbe

Barbe in quantità, beato chi ce l’ha: Barba grossa, ti dà la scossa Barba fina, un po’ damerina Barba selvaggia, surfista sulla spiaggia Barba rada, ce n’è ancora di strada! Barba fasulla, o vera o nulla Barba scura, goduria pura Barba bionda, passione profonda Barba caprina, figura barbina Barba rasata, non ci sono abituata Barba invadente, proposta indecente Barba folta, la voglia è molta Barba nera, non ti fa uscire la sera Barba blu, ahimè – non vivi più! Barba rossa, alla riscossa Barba bianca, a Natale non manca Barba riccia, accende la miccia Barba con la coda, per i tipi alla moda Barba curata, molto apprezzata Barba importante, sempre affascinante


Barba dritta, meglio se fitta Barba incolta, istruita non conta Barba odorosa, boscaiolo che si sposa Barba pungente, allontana la gente Barba profumata, ogni donna è conquistata Barba di natura, non farla crescere è dura. Una barba di barbe? Strano se non ti garba!


Morena Silingardi, La mascella

Mi piace la mascella volitiva, di fascino non priva per tante, ma forse poi sol me induce a un preoccupante diventar lasciva: certo voglia tardiva dinnanzi ad un che può sembrare il duce! Detta mascella è meglio sia abrasiva, certo non sono schiva, che barba velata abbia in controluce: non sia da me lo stare in difensiva mica è poi corrosiva, lieve rossore al massimo produce! Non so perché forte mandibola io ami: questi son li velami! Da mane a sera ancor io mi arrovello per capir se un vitello mi pare un uomo con codesti richiami. Perché a me pare, è qui che viene il bello, mi piaccian del vitello i modi, quando rimastica strami. Mi chiedo: ch’io declami chi duce certo non è, bensì pischello?


Paolo Giorgi, La barba

Dall’irsute giammai gote non vidi balenar altro che d’Amor la face: nel rimirarle, sì ch’il cor si sface, giunger mi par del Paradiso ai lidi. Nell’estasi d’Amor lanciando i gridi quel vello carezzar fà il petto brace, e poiché’l mondo è vario e per ciò piace di tante e varie forme io me n’avvidi. Ch’essa sia riccia, liscia oppure bionda, od anche nera, bianca over screziata, sola è la barba a render tremebonda quell’alma amante che si vuol beata: niuna lama ne tagli più la sponda, per meglio far mia passion saziata.


Valentina De Lisi, La barba

Nel suo viso va e viene Il barbaglio bruno Che mi abbaglia Bisogna avere naso Rifarsi la bocca Toccare con mano L’oscura luce, lo scuro baleno Dal gelo terso del suo cielo La barba temporale Ricciuta Cupa Qualche filo è rame (mi darà un figlio carota) La barba naturale Bonaria, patriarcale L’ho conosciuto Che ne aveva poca Ora è compatta Ci testimonia Dice il bene del tempo che non chiude La barba coltivata Fresca di bucato Piantarci semi Leccarla fragrante Come il gatto, da bambina, con mio padre La barba bambagia Che mi tiene sul petto In barba ai visi nudi e bianchi Nido di baci Onor del mento Fica sul volto Ornamento Ogni bontade propria in alcuna cosa È amabile in quella: Quando una donna cresce, lo capisce.


Anna Martinenghi, La barba

Sento il rumore della tua barba che cresce e sotto il riflesso tagliente del velo brizzolato indovino guance d’albicocca del bambino che sei stato la voce argentina prima che sprofondasse in gola M’incanta il rituale del rasoio la faccia di panna ogni mattino ciò che resta nel lavabo segni del tempo che passa un codice Morse da decifrare e le gote nuove su cui increspano sorrisi e scorrono lacrime che non vedo Certi baci graffiano la pelle dell’amore lasciando ombre dopo barba


Lidia Del Gaudio, Il dopobarba

E lo conservo, testimone d’una essenza alcolica che quasi mi stordiva quando appena sbarbato col cruccio da bambino pretendevi un bacio. La guancia educata dalla morbidezza mi rimaneva come una carezza, e sosteneva passi impegnativi al pari di grandi imprese. Quando viene a pulire Maria guarda e sorride per quella che considera una follia del cuore, pericoloso quando batte e non s’arrende. Il passato passato s’addormenta con l’ombre di notti senza paura, ma troppo mi spaventa il risveglio, quando si vede meglio l’illusione di cogliere ragioni all’esistenza, quasi fiori del prato. Lo so, lo so, ma faccio finta di nulla e continuo a cercare tra le velature d’un flacone quadrato, dal quale la sostanza di giorno in giorno esala. Un giorno svanirà del tutto, allora me ne andrò anch’io e nessuno saprà più che cosa siamo stati.


Mery Carol, I denti

Sono belli i denti E utili e sorprendenti E se belli non sono Non chiedere perdono. Son belli i denti. I tuoi bianchi splendenti Aperti spesso al riso, Sempre al sorriso Furono galeotti Più dei pensieri dotti. Sia detto per iperbole Parevano colonne d’Ercole. Lo spazio tra i due davanti Lo avevano tutti quanti Ma di tutti i fratelli I tuoi erano i più belli. Tu di piacere voglioso Ne eri orgoglioso. Te li miravi E rimiravi Allo specchio Del comò vecchio E quando mi baciavi La menta assaporavi. Passarono indenni Anni e decenni. Ad un tratto crollò il mito Tremavano al tocco del dito E furono immolati A costi assai salati. A colazione al mattino Li cerchi nel comodino. Son belli i denti e se non sono tuoi Li conservi dove vuoi


Adriana Libretti, Gli incisivi

Ti sfavilla il sorriso parli gesticoli parli solo un attimo uno – fermo immagine – superiori incisivi taglia capello in quattro in concerto col resto mani avambracci occhi sei più due in tutto applausi attendono. Apnea di sorriso. Resina lattea, manna sacro pasto. Respiro ecco respiro si espandono gli alveoli aria di neve fiocca. D’incisivo silenzio mi nutro no mi abboffo perché zitto mi piaci tanto che dico troppo anzi – cito– parecchio. E mentre taci le tue labbra sigillo. Viva i baci.


Gilda Policastro, Il molare

L’inno ai molari vengo qui a levare (e all’alitosi che è sempre degli altri): non li serbano in bocca solo i maschi, tanto più sembrerà paradossale. Mola implica abradere, in volgare: triturano e sminuzzano le parti; disposti parimenti sui due archi, presiedono all’estetica facciale. Wikipedia, ma tu fai veramente? Occulti, rifiniti di catrame, pendant dei musi lerci dopo i pasti… problema a parte è quello della carie, l’ultima quando fu, che ti curasti? «Era il giudizio, amo’». «Impropriamente».


Marilena Renda, Il collo

La parte tua che va dall’orecchio alla scapola – dai più, senza estro, chiamata collo – quello è il luogo ove risiede l’odore tutto, e l’odore è il motivo vero per cui t’adoro. Meglio la parte destra che non la sinistra, e meglio in alto che in basso, da dove ti sfioro i capelli e il succulento lobo. E posando infine lo stanco mento sulla spalla ti guardo dietro, di più, ti guardo il retro, e ti dico quello che c’è, cosa succede quando non ci sei, e il mondo non vedi.


Artemisia, La vena giugulare

Il luogo che io canto è peculiare è nodo palpitante d’infinito col polpastrello ne tasto l’ordito con la mia lingua lo ascolto pulsare. Qui sento l’onda sfigmica vibrare qui del cuor freno l’ala con un dito qui batte la tua vena il suo spartito qui sfioran le mie labbra il tuo ansimare. Il polso sul tuo collo io lo divino tachi, bradi, persino l’aritmia del tuo miocardio io qui la so auscultare. Forte pulsa la vena giugulare rapida o lenta, fine melodia musica, che scandisce il mio cammino.


Nadia Bertolani, La nuca

Tante bellezze brillan sotto il cielo, che non saprei da quale cominciare, ma una sol traspar di sotto a un velo, meravigliosa. L’ho vista un giorno che c’era penombra, nella sala d’un cinema all’aperto, il crepuscolo la teneva in ombra, stupefacente. Sembrava fosse d’oro incoronata, tanto splendeva nella sala buia come colonna in rame rastremata, delizïosa. Sotto la linea scura dei capelli, come una campitura di Morandi, ti arricchivi di due capitelli, vittorïosa. I capitelli tuoi eran due lobi rosa, e carnosi come lumachine, riccioli cesellati come nodi, nuca graziosa. O nuca chiara e tonda e profumata, d’essenze che provengon dall’Oriente, con il mio sguardo ti ho accarezzata, audacemente. Un apax sei apparsa all’improvviso, unico esempio di rara bellezza, nucarotondabella più del viso che ti sovrasta. E all’apparir di tanta meraviglia, l’audacia di sfiorarti con le dita, un volo breve di una cocciniglia, mi ha tramortita.



Mariella Prestante, La nuca

Quante carezze e quanti baci, amore, io dispensai alla tua dolce nuca! Eppure lei, nervosa, quasi timida si sottraeva a tutto il mio interesse. E io insistevo, sempre d’amor vaga. Non lo sapevo, ahimè, che tu già altrove – tu, cuore duro come una tortuga – volgevi il desiderio, né la chimica poteva ormai più nulla. Strade incerte incontra amor, se disamato vaga. Eppure la tua nuca, mio… Son vuote ormai le mie parole, sì. Fanciulla che oggi ti credi amata, attenta! Limita il tuo coinvolgimento. Tante belle parole avrai, qualche promessa vaga… Eppure la tua nuca… Invero è folle perdermi in questi sogni, quando cupa è la realtà. Ma mente metronimica non ho; sono sfasata; le carezze che un tempo ti donavo, amore, vagabonde (ti chiamo amore, in questa notte, ancora, amore… Sono pazza tutta…) vanno per l’aria muta e sorda, e imitano la forma tua, la nuca, le fossette… Ed io son senza rotta o porto, ondivaga…


Alessandra Celano, Il muscolo sternocleidomastoideo

Muscolo sternocleidomastoideo, maschio pilastro del collo tornito, a te va questo canto un po’ euclideo, di geometrie mirabili nutrito. Per te si va verso il lobo adorato, per te, sfiorato, all’agile mandibola, per te le labbra vanno alla clavicola, o battistrada verso il corpo amato. Muscolo sternocleidomastoideo, pura sostanza michelangiolesca, a te va questo canto un po’ esiodeo dal quale, infine, occorre che io esca: per te m’infiammo, per te ardo e bollo se non t’infiammi tu, pel torcicollo.


Gian Maria Annovi, Il pomo d’Adamo

Adamo dïede nome al pomo, non pesca, prugna, pigna né banana, sicché se ‘l mena seme non emana, ma n’esce solo voce mista a suono. Edema dà cavernità di tuono, ormone ingalluzzisce il gozzo, lo gratta irsuto il tizio rozzo, s’altrui lo pressa greve more l’omo. Non altra umana belva reca in terra tal prominenza bella ma nel daino, ch’Artemide formò a maschia imago ed Ercole cacciò con lunga guerra. S’al bacio al collo esso si fa traino nel pargolo tal cosa è sogno vago.


Intermezzo: il bacio


Cecilia Resio, L’Oliponto

Ti bacio sulle labbra unite come gli sci e tu con quelle scendi a spazzaneve sulle mie gambe socchiuse e lascia due piccole scie di saliva in modo da ritrovare la strada per ritornare e farmi sentire le tue labbra ristorate ti bacio e voglio che la tua bocca sia spalancata in modo da infilare la lingua e poi la testa e poi tutto quanto il muscolo del cuore che batte come una puttana sulla tangenziale del nostro trafficato amor ti bacio i luoghi del tuo corpo dove nessuna mai ha posato la sua bocca, ti bacio l’oliponto, il postalzo, entrambe le passigonde, ti lecco le sfilotizie, risucchio il bandorlo e i tuoi meravigliosi lapsi ti bacio le sinapsi e tutta la fibra muscolare quando mi stringi forte e mi dici non andare


Prima corona


Stefano Serri, Una corona di sonetti

Anima mia, con questo corpo infranto tu puoi salire a Dio più che se fossi spolpata di ogni peso, nuda di ossi e senza sangue dentro: e fuori il manto di questa pelle che trasuda amando. Abbiamo avuto questi spazi rossi dentro il cuore, questi nervi percossi mentre ragiono, sento o mi domando. Essere nati insieme fiato e carne: in noi creature è come se uno smalto unisse ad un motore le ali scarne che tentano da sole il grande salto. Profeta rosa, poeta del letto, loderò il corpo, rosario imperfetto.

Sonetto pubico Foresta della carne, ecco la piega nel mio inguine regalato presto con il pretesto solo di una sega. Tiro il freno a mano e zip! zap! mi svesto. In fretta vado dove mi si prega di infilarlo, là dietro al caldo. Resto con il mio alfa stretto nel tuo omèga: qui il naso annega in un profumo onesto. Eccolo il cuore, tra le gambe sbatte e manifesto eretta l’aritmia che avvera la genealogia del latte o seme. Al casto che nega la mia musa posteriore il water ribatte: da ogni culo rinasce la poesia.

Tra le tue gambe (il seme)


Mi ospiti tra le tue gambe a rombo e dentro ti lascio questa perla che mi hai fatto nascere nel grembo: io la restituisco senza averla vista, sentita scorrere sul lembo dell’inguine, inesplosa, come sberla nata tra le gambe con rimbombo prima che sia il tuono. Puoi anche berla, questa pioggia, refrigerio salmastro ma gentile, se penso all’uragano che mi agiti, cometa senza astro. Dentro, lava inghiottita dal vulcano, riparo il tuo dolcissimo disastro. Il mio seme è figlio della tua mano.

La piattola «Ho fatto questa scelta: mi depilo dal ginocchio fin sopra l’ombelico». Lo dico al rasoio, mentre l’affilo. Prevedo il risultato, quel lombrico nudo in mezzo al rosa, senza l’asilo di qualche ciuffo scuro: benedico nel corpo l’ombra e il pelo. Senza un filo per aggrapparsi come a un ponte amico la piattola vivrà senza difese e le sue uova resteranno scaglie esposte all’aria e alle feroci offese dell’unghia che le gratta tra le maglie di mutande, sulle carni contese al mostro che mi infesta con tenaglie minime e tenaci. Senza pretese apro le gambe implumi come quaglie.


Narciso (il glande) E resterò a specchiarmi sul tuo glande cercando di capire che ci trovi su questa rosa storta che si espande mi bagna e si ritira in mezzo ai rovi del tuo pube. Poi, senza far domande, quasi un gioco di gomma, me lo muovi mentre il silenzio dentro si fa grande. Come se in muscoli ogni volta nuovi scorresse la certezza dello sperma, così tu inneschi, con quel breve grido, entrando inneschi una bufera ferma che tra le gambe si alza se mi affido al tuo tenermi in corpo. Senza karma mi incarno in te come Narciso e rido: nelle mutande covo un nido e un’arma.

Larghezza (la cintura) Perché s’incontrino delle tue dita i medi almeno dietro questa mia schiena dilatata e ripiena di vita devo trattenere in lunga apnea il fiato – se poi mi sgonfio è finita e salta il bottone insieme all’armonia. Sedendo, faccio spesso la sgradita scoperta che nel buco di platea a me toccato in sorte non mi infilo – conviene scegliere con grande cura il proprio posto al mondo. Cerco asilo in tutto quello che non ha armatura perché la libertà è senza profilo. E sei tu la mia unica cintura.

L’uomo eretto (tra le cosce) Capaci di confonderci al creatore per qualche istante di turgore saldo


tenuto su con forza da stupore per quanto poco sangue serva a dare stabilità all’esplosione. Ogni fiore dopo la dolce durezza conosce che cosa l’aspetta: un fiotto incolore di vita iniziata per altri, un caldo regalo naturale in cambio di ore passate insieme a farlo fermentare. Questo è per l’uomo lo stadio migliore: quando sa trasformare tra le cosce il buio in carne, la goccia in vapore.

Il biscotto A mille Kamasutra preferisco un bel pompino fatto in pieno agosto nel bagno soffocante di una disco – se bussano dirò: Non c’è più posto! Per chi mi segue all’esplosione unisco quella sorpresa aspra e a basso costo di chi ritrova il latte in un biscotto. Il ritmo della sala che ci è imposto lo faccio mio; prima che sia interrotto da qualche buttafuori, con gran cura gli attiro il naso contro la cintura. Che si sporchi lo specchio me ne fotto: per guardarsi in faccia senza paura bisogna sputare ogni cosa pura.

69 (La gola) Lo so che in mezzo d’ogni selva resta un sentiero dove il corpo inespresso poi si riversa sopra la mia testa se capovolti ci inseguiamo il sesso: la lingua mi dipana la foresta spingo la bocca nel tuo buio accesso. La frana del tuo corpo, la mia festa


nella gola, tu me lo aspiri e – adesso! Libero il seme. Ora vieni anche tu: mi bagni esausto il petto disarmato. Ma affinché nessuna goccia cada giù tornerà dritto quel che è ribaltato: e l’amore sarà frontale, fiato ricambiato in questa nuova schiavitù.

Sonetto cardiaco Quando si spegnerà, con breve fiotto stagno, tutta l’armonia e ogni sistole e l’abisso coperto d’aureole che viene detto cuore sarà rotto, ricorderò il tuo petto e quando sotto m’appoggiavo appena e senza botole cadevo amandoti tra le tavole dove, tra caos e vita, ancora lotto. Sarò livido e poi polvere e bruno fango; pochi battiti di sorriso e vissuto amore saranno grumo e carie, ma anche dal corpo reciso te lo dirò: sono stato qualcuno quando nel tuo ho nascosto il mio viso.



Arti superiori


Stefania Sorbara, Le braccia

Non ramulivi, ma tronchi gemini, rigonfi di superbia secolare: pienezza d’un suggello speculare, qual vago tremor in cor dissemini? Di padri, frati o galantuomini il molle abbraccio è un coccolare, amplesso soave, crepuscolare, ove garbo, non ardor, predomini. Amor, di contro, spalanca le chele, Passion le cinge, rinserra e mozza nel respiro che si accorcia, nella stretta d’uno slancio, ahi misera granchietta, che contorce, stringe e, infine, strozza, chi per certo morirà d’aerocele.


Antonella Fontana, Le vene delle braccia

Immaginar neanche un poco potete Quel che mi accade al vederle affiorare E non è neanche question di diabete Non son romantica né so amoreggiare, Ma di sicuro mi sciolgo all’istante Se una cefalica ammicca lontano Così divento un vampiro adorante Preda indifesa di chissà quale arcano. Ago metallico vorrei diventare E penetrarla con tutta me stessa E nella vena trovarmi a sguazzare Come nel mare sciaguatta platessa. Se poi intercetto una vena brachiale, Vengo rapita da istinto rapace Impulso al limite del delinquenziale Che mi fa perdere il sonno e la pace. Voglio addentarla, succhiarla, baciarla E prosciugarla di tutto il suo rosso E con il sangue la bocca truccarla Con deferenza ed ossequio commosso. Quando poi scorgo una vena basilica Non so spiegare ben quel che mi accade È come una scossa che va adrenalinica E che il mio corpo e il mio esser pervade. Rivolo verde che mi possiedi, Che opere d’arte disegni sul braccio, Fa’ che io almeno rimanga all’impiedi E non mi riversi come inutile straccio Sei venerabile, quasi divino E a te rivolgo i miei occhi incantati, Vieni a innaffiare il mio verde giardino Pieno di rose e oleandri assetati Io m’inginocchio e ti porto rispetto


Perché il mio cuore è rigonfio di ardore E sarò sempre il tuo servo cadetto Pronta a difender la grazia in tuo onore.


Alessandra Celano, La mano

E sempre sia lodata anche la mano: sarebbe un caso strano che del corpo maschil d’encomio oggetto dal piede al naso, dal tallone al petto, rimanessi negletto, primo strumento del genere umano. O mano che manovri, o Mana, o mano che mi porti lontano (l’ontano è il legno di Venezia, ho letto, e di testiere ripide di letto) ti dedico un sonetto rinterzato in orario antelucano. E scrivo e sembra di vederti, prensile aprir l’anta del pensile, stringer manubri, corde pizzicare o decisa afferrare, per spingerla, la leva del cambio, esile. E m’inebrio di gesti quotidiani (poi penso che domani, tra le infinite cose che ho da fare – a parte il verseggiare – c’è da comprar la crema per le mani).


Debora Pradarelli, La mano

Non piangere mano, non piangere ancora la tua bianca bellezza sa commuovere i fiori. Tutto ciò che sembra perduto un giorno tornerà. Asciuga il tuo candore quindi e fatti più vicina. Non piangere mano, non piangere ancora. Benedetto, sempre benedetto sia il tuo vento. Benedetto e sempre benedetto sia il tuo incedere, questo vibrare lungo la pelle come bocca e voragine. Non piangere mano, non piangere più. Ho raccolto nei miei vasi la tua soffice brezza, rinfacciato al giorno la notte onorando ogni minuto. Tutto ciò che sembra perduto un giorno tornerà. Benedetta sempre sia la tua mano, il suo gioco splendido di fiamme quando si alza l’improvviso e mi sfiora.


Francesca Del Moro, La mano

Che a un uomo non si fa il baciamano Chi lo ha detto? Ora appoggio la bocca Sul dorso e con le labbra piano piano La riverisco nocca dopo nocca. La volto e omaggio le sue cinque dita Che sono così lunghe lisce e snelle Studio le linee e in quella della vita Affondo il naso e respiro la pelle. Poi con un bacio a pugno la richiudo E la apro bene e mi ci copro il viso La passo lenta sul mio corpo nudo Finché mi trova in basso il paradiso. E con la mente lieve mi allontano Nel vagheggiare un dito più notevole. Vedi che fare a un uomo il baciamano Non è una cosa proprio irragionevole.


Andrea Breda Minello, Le dita

Di voi porto l’effigie d’un sogno Di voi che conducete a sfiorare Il corpo del mio amato lare Di voi, esili e sinuose aste Che osate sfidare le vite caste Sento le pulsioni prima del respiro In una notte senza Zefiro Di voi, discole, che amate sfidare Con le falangi leste a espugnare Celebro il tocco lieve del fiore Nella compunzione ilare del biancore Voi siete nunzi d’amore carnale Sicari dell’arco teso a vibrare Prima del colpo lo spasmo ferale Voi siete l’effige d’un sogno breve e invernale.


Franca Mancinelli, Le mani

Le senti aprire dove non ricordavi ci fosse una porta. Al loro tocco sei una stanza di sole porte: niente pareti, porte una sull’altra, contigue, una dentro l’altra. Si aprono e conducono infinitamente più dentro, dove non eri arrivata, dove irradia un calore costante, un sole che si vede sorgere e tramontare, ma è sempre nel suo ruotare, sempre fuoco che crepa, frantuma, fonde quello che era stato diviso. Queste chiavi che hai, che metti in tasca, o appoggi sul tavolo, non posso pensare di perderle. Ho il terrore di non potere più entrare, di rimanere chiusa fuori, nell’aria che affiora gli aghi alla pelle. Cucini, guidi, accarezzi i gatti, tocchi altri corpi. Quanti spazi aprirai che non si potevano abitare prima. *** Per questo ci leggono il destino. Come guardando il cielo. È un miracolo che siano qui, così vicine, mai spente, con le punte che premono, gravitano. Centri di luce quando si allontanano. Perdi la misura del tempo: dici che un’ora sono molti anni. *** Se un passo segue un altro. Se è possibile capire dove sono. È perché sono qui. Posso piegarle, aprirle. Dentro sono segnate le strade che continuano e quelle senza uscita, i sentieri paralleli, i bivi difficili.


Francesca Donazzan, Il pollice Under my thumb She’s the sweetest pet in the world Mick Jagger – Keith Richards Voglio cantare il pollice opponibile che i nemici del giallo sommergibile anni or sono stimarono infallibile perché congegno di tipo flessibile. Pure io lo reputo il solo dito abile a far la femmina addomesticabile: l’animaletto più tenero e affabile ella è se lui la ravana indomabile. Se inabile all’amore il viril manico mi appare, mai mi prende infatti il panico ché il pollice con impeto satanico vuole condurmi allo stato nirvanico. Tanto si impegna nell’intento edonico da rovistare con sforzo olimpionico fin quando arriva il piacere fotonico, seguito poi da un sonno catatonico. Mio formidabile, prensile pollice, il tuo genio botanico è risibile se sopperendo agli apparati molli rendi lo scacco d’amore impossibile.


Elisa Bruno, L’unghia

Nera di terra, sporca di lavoro, cosÏ forte ma con cura limata. Ingiallita dal fumo, fragile e mangiucchiata. Lama pallida e corta graffiante ma gradita. Io ti lodo, unghia, specchio dell’uomo, cheratina affondata nella vita.


Mariella Prestante, Il tocco I

Bel palmo, bella pelle, belle dita, bei tendini guizzanti, belle vene non rilevate e chiare: o mani degne della più umìle lode, custodita in voi è la bellezza più squisita del corpo maschio: il tocco che mi tiene a quello avvinta mentre tutto freme il mio, di corpo; ed io son sbalordita. Oh non è il bacio non è la profonda penetrazione: è la carezza lieve, il lento diteggiare sul capezzolo o sulla vulva che dà l’onda, l’onda che inonda me, che mi fa fuoco e neve: e sospirando mi fa dir: «Corbezzoli!…».


Mariella Prestante, Il tocco II

Quel tocco che in un vortice confuso di emozioni mi getta mentre immobile nuda nel letto sto e tutti nel clitoride concentro i miei neuroni sperando in un esplodere di gioia che non so descrivere; quel timido titillo che perlustra le parti mie più morbide cercando non so che e induce una vertigine che neanche balaustra in torre ripidissima provocherebbe in me: quel tocco, insomma, salubre 5 che a me mi rende amica, e in estasi concilia e corpo e mente e cuor, è il dono più mirabile che tu dài alla fica, o amante mio espertissimo nel gioco del dottor. Per quanto penetrabile per sua natura stessa (e molto disponibile al pènetro and so on) la fica mia s’inebria se al coito tu prelimini e fai d’una premessa un gorgo di passion. Ma mentre, persa, mugolo e nel piacer sprofondo, mi viene inevitabile, terribile un timor: il dolce tuo puntèruolo


tenterà mai l’affondo? O solo al carezzevole si limita il tuo amor? Su, presto, quel birillico attrezzo tuo esibisci; tràgemi d’este fòcora, come dicea quel tal: 6 colma il mio vuoto orgasmico, l’opera tua finisci: schiudo le labbra, vieni qui, scopami, bene o mal.


Silvia Cassioli, L’orologio

Adoro il tuo orologio il cinturino che sa di pelle vera la solita fessura che blocca la fibbia con un gancetto mobile sul perno che torna sempre lí, quasi da sé. Mi fa pensare a te. Adoro la rotella zigrinata di cui hai cura ogni sera, puntuale con un gesto che si perde ogni volta e ogni volta ritorna, uguale un gesto puramente meccanico mi dà un leggero senso panico. Adoro il tic tic che si sprigiona dal tuo polsino candido e ti annuncia vicino, di là dalle parole negli intervalli dei discorsi che difficilmente ho il coraggio di ascoltare (è sempre così strano, amare). Mi piace sentire questo cuore indipendente che continua a battere altrove quando tu dormi o scompari nella doccia e in tutti gli altri casi in cui bisogna abbandonare il proprio organo vitale come sai fare tu, mio male.


Gianluca Garrapa, L’avambraccio

Quell’avambraccio sodo vedo e bramo dell’uomo che cammina nerboruto e pelo non gli manca, e non è muto: quell’avambraccio parla e io lo amo. Avambraccio che lavori, non gramo! godo a vederti gentilmente irsuto immagino la grande mano, acuto dare piacere al fior col tuo bel ramo. Vorrei esser io il tuo prolungamento, la mano che lava il corpo, strofina l’avambraccio l’altro, quel tuo gemello. Mi stringe il cuor non esserti fratello. Sei l’estasi! Un nodo in gola: rovina mia, della virilità il monumento. E ancora un’altra cosa, mio avambraccio, vorrei di te cantare, muscolosa beltà ad infatuare: la grazia a far volare con gesto metonimico il mio occhio al monte genitale, a quel tuo doppio!


manu, L’avambraccio (luci e ombre)

ballata stravagante in sette note

Avambraccio in do diedero un giorno il nome all’avambraccio, domenica non era, dimentico in che era. da dietro e da davanti diversi i movimenti: due ossa articolate. dovean sapere, pria ch’io fossi mia, di quanto avrei goduto del disegno, del mio debole per l’anatomia, di notti insonni a dire: sì, ora vegno, disposta a tutto, ad ogni convegno. devo dir che m’accende, diamine se mi prende! disegnarne le vene, dietro e davanti, bene, disfar le matite! dacché mi misi un dì per prova in prova, due tele enormi feci a Claudio amico, denaro per realizzar mi mancava, decise lui, pagò per un trittico, da due a tre divenne automatico. due tele, due figure, di tre, la terza in piedi (distillaron paure dirai tu, se le vedi) d’avambraccio fornite. diedi fiato alle trombe del disegno, deh, quanto mi piacea sporcar le mani! divenne sfida l’avambraccio pregno di muscoli estensori su due piani,


diavolo d’un corpo, senza domani! da questo che fu inizio divenne presto vizio dirottare il mio sguardo: devo veder, se guardo, dossi e cune a palate. di avambracci a colori è pieno il mondo dappertutto, dove li vidi, ho pianto da Michelangiol copiar non pretendo, da Egon Schiele, oh si, rubai tanto devo dir con gusto, e senza rimpianto. dovevo dire questo da comporre in un testo, dov’è però la donna dietro l’artista in gonna? domande strampalate! dov’è, mi direte, ciò che ti piace dell’avambraccio, un pezzo di braccio? dirlo saprò, non c’è solo il ‘rapace’. dell’uomo intero, detto in modo spiccio, desidero ciò che mi prende al laccio: dal gomito giù al polso dev’esser come l’orso, dolente la sua presa, di carne dura e tesa, di mosse misurate. dimagrito, sinuoso e delicato, denota forse mollezza d’animo; diffidare di quello non irsuto depilato magari, anonimo, devoto a se stesso, vuoto acronimo! diversi ne ho scartati, del resto anche gli ambìti, devo dir la verità, declinano con l’età: dipende dalle date.

Avambraccio in re (dedicata a V.B.)


ritorna alla mia mente in questi giorni reduce da dolore, rabbuiata per ore, ricordo d’avambraccio riottoso al molliccio, robusto e rockeggiante. rapida divago per associare Rodin Auguste, con ‘le penseur’ scolpito, ritorta figura di pensatore, riserva d’avambraccio ben guarnito, re del pensiero, in simbolo mutato. riunisco qui a tal lode rumor per chi non m’ode: rapido pensatore, redento dal Signore, rissoso già silente. rare radure tra masse sapienti rendon speciale l’incontro di luce negli avambracci pieni, senza stenti, ricchi di segni della forza in nuce, riflesso di un’anima che seduce. riecheggiano le storie rotte, provocatorie, rantolano nei libri ricordano squilibri, redimono il viandante. rivedo allor tra fili di memoria redattor fidato dell’origine raschiare a lungo notizie di storia, ricomporre in parole il disordine, remare contro muri di acredine. risposte seppe dare ricche spesso di ardore. riguardo l’avambraccio, rimase un suo traliccio ritmò il blues, vivamente. ritorno però all’avambraccio in arte, restituisce spesso il mio ideale: riprovo ancora a scoprir le mie carte, riavvolgo la mia gioia naturale, ripenso in re ciò che per me è reale.


reca infatti tal gioco regole non da poco redar lodi alla parte reietto il tutto ad arte, ritratto competente. rifletto su retinature ardite ravvicinati sguardi, da paura, rese di velature su faesite, rosa incarnato per la tingitura, rifinito a volte con raschiatura. robuste le membrane riducono il confine realtà e astrazione ruotano in confusione ricreo. inconcludente. rispondo a una domanda che può nascer riccioli i peli preferisci o dritti? ruotano i riccioli sull’avambraccio, ritti a pelle stanno gli altri piegati, ridicol pensar che siano d’impaccio, rilevante, che non sian di bamboccio. registro altro al tocco rintocco di scirocco, rapido è il piacere risale al mio volere, retrocede la mente.

Avambraccio in mi mi ritrovai per una selva oscura molteplici i suoi rami, ma non vidi legnami, mi accorsi delle vene, mi accoccolai per bene: mappamondo di pelle. meno di un momento fu sufficiente, mentre andava il pensiero in superficie, mentivo, tenetelo bene a mente, miravo all’astrazione, mia editrice,


magica geometria evocatrice. ma è ben diverso, si sa, mappar percorso d’ossa, mimar natura in segno mediando con l’ingegno: mostrare le stampelle. mappa del mondo potrà diventare margine d’avambraccio, linea sola, memoria di confine lo scrutare mutamenti minimi dell’aiuola, magnifico mistero che s’immola. martellando la mente matematicamente mirando all’avambraccio manubrio del maschiaccio muovo da stalle a stelle. manu son io che vo tentando impresa muscoli, ossa, nervi, arterie e vene, mi ossessiona da giorni la contesa, mèntore di me stessa, in confusione, manco ai miei impegni di amministrazione. ma no, non serve tanto, misurar basta il canto, melenso o espressivo? mi chiedo mentre vivo, mordendo le mascelle. m’arride ancora un’idea ripensando: ma .. fratello d’avambraccio è polpaccio? metti l’uomo a quattro zampe, a comando, magico accordo, gomito-ginocchio, (montato a viti se fosse Pinocchio). mano e piede, che dire, mi piaccion da morire, medesima matrice, magari sottovoce, mitiche sentinelle. ma or che penso bene a tutto quanto mi preme scriver anche un’altra cosa, magari non sarà poesia d’incanto ma è questo il caso d’esser rigorosa, muscolosa e si, scontrosa e incazzosa.


mi appresto a ricordare momenti di terrore: minaccia d’avambraccio mannaia anziché abbraccio, motore di barelle. molti dei gesti noti d’avambraccio, maschile, si, dico proprio di questo, mio malgrado causano raccapriccio: massacri di donne, con un pretesto, magari per un addio, basta un gesto. messaggio poco allegro? mi fermo, non integro. miracolo mi aspetto, maschio! tu! maledetto! mostra così le palle!

Avambraccio in fa finire non mi basta, lo so bene, fedifrago avambraccio, faraone di ghiaccio, folleggio per te ancora fìdati, io son dura, farò di te un’icona. fuor di qui ricomincerò daccapo, fosti cavallo di troia da usare, forte del tuo potere da satrapo, fallace sussidio al mio immaginare, frusti le difese da penetrare. fiore di loto, sbocci, fascinosi i tuoi approcci, fenice favolosa, filiera macchinosa, farò di te corona. fosse da paragonarti a qualcosa, frullar le note della mia canzone, farei ricorso a nostalgia maestosa, famosa musica d’una regione: fui mandata al suo ascolto in confusione.


Fado è la forma mia (fu pure di Pessoa) forse per ricordare forma tua popolare: farò di te Lisbona. famose le tue strade in saliscendi, fotografia di una magica città, forme irregolari, lontani araldi, forse non lusso, ma calma e voluttà, feudo, su sette colli, del baccalà! fiume che si fa stretto, forestiero da letto, (frase che mi concedo fico avambraccio, vedo) farò di te persona. fuggivi negli androni a tarda notte, favoleggio di te, ma non so nulla, fragile creatura, dalle ossa rotte, fato avverso dal primo dì in culla, feristi il mio cuore con un nonnulla. forse fu sol poesia, film di un canto, bugia, frusta ancora l’anima, forte voce anonima, farò di te colonna. forma o fila, comunque allineamento, (fan fede gli antichi se son d’Ercole) fiero mostrar di svariato ornamento, finisci e cominci, ammirevole, frutto prelibato per le apostole. fusto che appoggia bene, fascio, se in più colonne, formula del massone, fissa da Salomone: farò di te Gorgone. Forco e Ceto vivevano nell’Ade figliaron tre volte, tra cui Medusa fu la più nota di quella triade, forse eri tu, sola autentica musa, forse in Atena una faccia rinchiusa. fluenti i tuoi capelli,


fatti a serpi ribelli, fa il tuo sguardo di pietra fugge ogni idolatra, ferrato è chi rimane.

Avambraccio in sol seria fino in fondo io non so stare, s’alza lo sguardo mio, saluto qui con brio segno famosissimo: sta su un film notissimo, Sordi ne fu interprete. sicuramente avrete già capito, se d’avambraccio stiamo qui parlando, so esser accrescitivo del dito, sempre insulto triviale il suo rimando, sortita per insultar sbeffeggiando. se mano nell’incavo s’aggancia al suo concavo, se avambraccio si piega senso non fa una piega, senza dubbi sarete. storico sei tu, gesto dell’ombrello, saper da dove può venir la fama si addice a stravagante ritornello, storia con S maiuscola chiama, si trova in Guerra dei Cent’anni trama: su campo di battaglia si presenta marmaglia, son tutti inglesi armati son dai francesi odiati, senza temer vendette. si era ad Azincourt nel mille e quattro, sul fare dell’autunno ecco il longbow (sul mille e quattro e quindici .. non quattro si sa, non cantaron over the rainbow) sortirono i francesi la loro blow. senz’altro è una leggenda,


se nei francesi scenda sospetto di minaccia, sul mozzar dito o braccia, suvvia, mi abbonerete. sicuri i francesi di aver la meglio si misero ad alzar il dito medio, sceneggiarono intenzione del taglio, sbruffoni furono senza rimedio, scherzandoci su, senza alcuno studio. su tutti fu qualcuno si sa, inopportuno, scherzò sul taglio al braccio simulò lì il gestaccio, son scelte scellerate. sopravvissuti in pochi furon quel dì, sottovalutarono l’arco lungo, squassati già poco dopo mezzodì sconfitti da frecce inglesi, proprio lì. simile fu per Sordi storici i suoi bagordi, segnati da sfortuna su mossa inopportuna, sfide non calcolate. sul film ‘I vitelloni’ di Fellini sbeffeggia dall’auto: ‘lavoratori!’ sfidandoli con la pernacchia alcuni si muovon verso l’auto minatori, si trasforman così in vendicatori. sulla vigliaccheria sta il senso della storia, sbeffeggio e goliardia sottendon ironia, salvo subir vendette.

Avambraccio in la li ho visti tesi agli angoli di chiese, lontani dalle genti, laidi, magri e dolenti,


lesinare gli sguardi, lodare chi si attardi lasciando una moneta. li ho incontrati ovunque, spesso per strada, legati a un bimbo fasciato e dormiente litanie per un mondo che degrada, lasciati in disparte, semplicemente, li ho fotografati nella mia mente. là, che sia sole o pioggia, luogo di culto o spiaggia, la mano sempre avanti lamentano gli stenti, la posa sempre quieta. la strada, il freddo marmo o gli scalini, l’androne di un palazzo e il suo portone, lamiere, cartoni, sacchi, cestini, l’uno dei due ridotto ad un moncone, latrina la casa dell’accattone. legittime esistenze leggere consistenze, legati ai loro cani lineamenti zigani, la supplica consueta. la storia di uno è storia di tutti, la chiamerò la storia di Graziano: l’avambraccio rotto da farabutti, le suppliche con una sola mano, l’incrocio con semaforo, paesano. luci e colori alterni l’estate e gli inverni, la notte segue al giorno, lente le auto attorno, liturgia con compieta. la vita può giocare strani scherzi: lasciarti gli avambracci tutti interi, l’ago in vena per imitare terzi, le guerre tatuate nei militari, le mani giunte dentro ai monasteri. l’approdo si ripete le differenze miete, la strada è sì in salita


limitata, finita, la meta ai più segreta. lo sapremo mai cosa può pensare l’uomo che chiede ai bordi della strada, la vita intera passata a patire, la mano tesa, vada come vada, lo stare, finché la gente dirada? la gente, oh, la gente, litigiosa, saccente, la gente non si ferma, l’occhiata ne conferma la pietà di sfuggita. l’immagine passa dalla rètina, le forme restano impresse negli occhi, l’avambraccio nel cuore rigermina lambisce e trasforma tutti i miei blocchi l’imbrunire favorisce i rintocchi. la penna che può fare? l’aiuto non compare, lenta macerazione, logorante illusione, lenire la ferita.

Avambraccio in si si potrebbe dire ‘basta avambraccio’! s-batterlo finch’è caldo, Sir Nanni qui è l’araldo. sommo poeta? non so, so che qui io lo uso sull’ultima ballata. signorine Richmond di tutto il mondo, se volete, potete unirvi a fare sulla mia pagina un bel girotondo, segno o significato, non badare, stare in movimento, su, s’ha da andare! su ventuno lettere si può crocifiggere, SI, con chiodi su legno, si, si, si, ora vegno,


sii mio amico, poeta! si, lo so, sto scrivendo una poesia in si sgocciolata, e vuota della poesia in re. son poche le mie pretese nei versi, se va bene, riesco a balbettare, strizzo parole, ne vedo il pallore. salasso di giornata, sei lingua anemizzata? sollevati, ti prego, su avambraccio ripiego, su sua semplice vita. sono solo canzonette, Sir Nanni, sillabe messe in fila sullo schema spellato di ballata d’altri anni, sulle poche istruzioni attorno a un tema sciorinate dal blog, da Sir Teorema; scossa avvertita presto, sciame sismico lesto, shock intenso nei giorni, strofe, rime e dintorni, si gioca una partita. se si possa cantare di avambraccio segno dei tempi, o proferirne lode, sin dall’inizio mi è stato d’impaccio, sto sempre divisa in due, ciò mi rode, si può servirlo con due uova sode? sicché io non capisco: sull’ordine, patisco, sul caos non ho mai spinto, su movimento finto sta in piedi sta bravata! sono semplici i passi tra i suoi rami, segni che si dipartono da un centro, strade secondarie per panorami solcati da rotaie, in cui mi addentro, senza mai raggiungere l’epicentro. si torna alla pittura se non sintomo, cura, si presta ogni sua glossa, sicura e ortodossa, seppure di facciata.


s’accasciò mesto il destro, a pavimento, spirò dicendo: «a me mia cara amica» si riunì tutto il popolo, sgomento, si fece santificazione laica, si spegneva il simbolo di un’epoca. stesso braccio del Cristo, su Marat ho intravisto, su amico del popolo si conclude il mio volo, su immagine adorata.


Intermezzo notturno


Stefania Sorbara, La russata,

ovvero Notturno, ovvero Sinfonia di fiati

Al tubar di cimbasso, il cor sobbalza, al vibrar di cornetta, i sensi all’erta s’accingono a pugnace avanscoperta. Se di grugniti la gragnuola incalza, furia omicida in seno mi rimbalza, e scalcio e spintono, dapprima incerta, (ché non v’è onor a botta in sonno inferta) infin spietata, se l’ottave innalza. Breve e piumato zefiro d’infante, del talamo insonne muta chimera! Da muliebre Diogene con lumera, ricerco ansante quel notturno lido, flautato sol quando, di libido, Borea insuffla il suo olifante.


Mariella Prestante, Il peto

Amor, dopo l’amore è gran dolcezza addormentarsi quieti e senza fretta, e «Ancora un bacio…», «Un’ultima carezza…». Quest’è l’intimità, dich’io, perfetta. E quando il corpo cede alla stanchezza definitivamente e non aspetta altro che i sogni, mi fa tenerezza se – ignaro – del tuo cul tu fai trombetta e spira tra le coltri un venticello acre e salato: il naso mio ne gode perché di te, mio amore, tutto è bello. Languida bolla che dal ventre esplode, sacro vapor ch’esci dal corpo snello: questo sonetto dice la tua lode.


Busto e petto


Lidia Del Gaudio, Il petto

Petti robusti, ampi, muscolosi, malfermi o da macho, malandati, petti scarni, fragili e stentati, glabri, pelati, possenti, villosi, petti prestanti, erculei, rocciosi, a volte cagionevoli, patiti, rachitici, malfermi, striminziti oppure che si mostrin baldanzosi, tutti amo carezzar e agogno possedere ogni spazio vitale di pelle tesa a vestir il sogno della mia vita, allorchÊ carnale la voglia mi prende e il bisogno suggerisce abbandono fatale, prima, su quell’ipotesi virile sostenuta dai muscoli contratti, per poi dormire dove cuore batte.


Maria Luigia Longo, Il torace

Questo torace liscio come una tavola forte questo spazio teso come una lastra nuova del passato tu sei la tela. Tocco con le dita il tuo presente, ne scolpisco il profilo, ne guido il respiro: è ansante, vivo, è mia creatura, sta salendo in questo momento. Lo afferro lo tengo lo liscio. Mi faccio strada bacio, accarezzo trattengo la sua deliziosa fragranza di carne e con essa mi ci faccio una sedia, il mio tavolo la mia casa. Questo torace è molto più di questo; è l’essere trattenuta su un piano infinito.


Claudia Muscolino, I capezzoli

Voglio tesser le lodi dei bottoni bei fratelli di fede e pelle, adorati, amabili lamponi. Se la brama di succhiarli toglie l’interesse mio oltre il tuo centro, guida il leccar che però scioglie la lingua pronta a soddisfar le voglie.


Francesca Matteoni, La scapola

Sarebbe troppo facile ridire che il cielo la tua scapola sospende l’appende piatta e ferma come un’ala dentro la pelle poi la fa stormire. Cala l’osso gemello in un reperto tatuaggio interno e senza sangue offerto. Su per la schiena, sotto la tua nuca premo la bocca sopra questa buca che lieve si sostiene sul costato s’imprime sulla gabbia del tuo fiato. E se questo tuo sonno fosse piume e se questo tuo sasso triangolare fosse una cicatrice per volare slacciata con la lingua sul tuo fiume.


Alessandra L., La schiena

Con una giravolta atemporale la maschia schiena appare. Non ha faccia un torso senza testa, senza braccia prono disteso all’atto originale: un buco nero gravitazionale attira a sé le dita, gli occhi in caccia tra nevi, pus, comedoni, robaccia Asceta certosina maniacale io spremo. Di pressioni in estrusioni mimo su lei il big bang, la ctonostoria pianura di pigmenti ed eruzioni galattiche, materia bruta e scoria o scena, campo lungo lungo eoni di tempo, zolla bianca di memoria e altare vertebrale celebrerò in silenzio il nostro rito d’amore ed epiderma inaridito O dorso primordiale di un fidanzato acefalochìro tra il mio intimare «Fermo!» e il suo respiro, [Scusate, ho qui un disclaimer dell’autrice che appesa sopra al vuoto del registro vocativo e pomposo si ritrae l’immagine archetipica ora pare non più metonimia o mutilazione forse risiede nei silenzi radi dell’atto in coppia – e invece solitario – tra maschio-schiena e donna-spulciatrice Sin da bambina mi stupiva come potesse chi ama far lordura amore farà bon ton, essere una che spreme a dita nude? ed io personalmente mai lo farei? sei tu che ci stordisci e agganci ai loro pori pieni, schiena?] O Dorso primordiale di un fidanzato acefalochìro


– tra me che intimo «Fermo!» e il tuo respiro, l’immoto coniugale – o Schiena, che sbalzando a ti con zero collassi il cosmo dentro a un punto nero.


Elena Di Gregorio, La schiena

Se tu pari di nei costellazione, perd’io polare, bussola e fanale. Tavolozza scarna senza azione? Creo io un dipinto elicoidale. Se un ramo di quercia in torsione, ci dondolo un’altalena carnale. Un molo che frange flutti di passione? Ti faccio palco del mio baccanale. Oh nei languidi giochi contemplarti! Solo in quei momenti n’ho diritto finché il mio poter il tuo padron squarti. Giacché quando pronto lui sta ben dritto, ahimè più non posso lieta ammirarti. Io vedo il cuscino. Tu, il soffitto.


Sofia Bruschetta, Le vertebre

Le tue aguzze vertebre: salde fortezze sotto cute, sotto la schiena ferme, puntute, sì, proprio le tue vertebre. A stento rammento la bocca, la larghezza dello sguardo, il colore della ciocca, la durezza del tuo dardo. Tutto ciò per cui ancor ardo l’asotto mano di quando le lambivo piano son proprio le tue vertebre! Dalla sporgente cervicale, al culminante osso sacro: struttura architetturale d’amor nostro simulacro! Con questa lode io consacro (ché la memoria è perduta per il tempo meno acuta!) sol la colonna vertebrale. Sì, più quelle tue magrezze, del dorso penetranti lame, più che le ardenti carezze più che la terribile fame di te: mie ossute brame! L’augusta cresta, non scorderò mai di quella schiena che amai: le tue aguzze vertebre.


Adriana Libretti, Il deltoide

Sono a lodare il muscolo di spalla del maschio che ti avvolge e ti scavalla. Sfiorarlo se anche impugna un sol righello è vera metafisica del bello. Non sempre occorre che sollevi massi specie se poggia sopra i materassi. Abbandonarsi sul deltoide destro purtroppo fa accettare anche un capestro. Deltoide destro, tutto di velluto, carezzarti più volte mi è d’aiuto! Se ti tasto s’invola ogni mio affanno garrisce il cuore e si fa capanno. Alla stretta di mano stai al comando, così al volo capisco se m’inganno: la stretta che di stretta non ha niente, rivela un uomo inetto, inconsistente. Giammai deltoide infatti fu robusto quanto un destro, sia pure neanche lustro. Se poi invece lui ha presa mancina è il sinistro che ammalia ed avvicina. Che sia sinistro insomma oppure destro il deltoide m’incanta e mi dà l’estro di brindare alla vita, di gioire: al deltoide maschile scaccia ire! Seducente deltoide ti disegno la mia matita è china, chino il legno: il profilo del muscolo in questione indovinarsi può sotto il maglione. Del dio Apollo, confessi qui ogni dama, morderebbe il deltoide senza tema, a rischio di spezzarsi gli incisivi contro ogni statua in marmo sui declivi. Non s’osi sfidar maschio in occasione


di un gioco sul ripiano per tenzone a gomiti incollati e mani chiuse: al virile deltoide cediam, Tuse!


Lidia Del Gaudio, L’ascella

Umido vezzo del mio pigro olfatto, che esita indolente dove penna di Verga mani imposta, lascia che esplori curiosa il tuo anfratto, come foresta aulente, per respirar la tua essenza nascosta. Ogni mio sacro desider s’accosta a questa fonte d’umore asprigno, che sa di vino rosso, così intrecciar dal dolce incavo posso spine e rose da tenere in uno scrigno, e al fin, o nettare succoso, abbeverarmi al tuo spirito goloso. Baia senza vento d’ogni amplesso, in te speranza fondo per una sosta di gusto e di piacere; ogni profumo vi trovo compresso, ombelico del mondo, straripante dai bordi a canottiere che oggi sembrano armature altere; e se bisbiglio all’anfratto le cure, estreme ed esigenti, che se stai lì con tutto il cuor le senti, ti pare che spariscan le paure, o bivio di fragranza, che a feromoni saturi la stanza. Radice dell’abbraccio acrobatico, ispiratore d’arti, solido basamento tu sarai e solco della scia di aromatico ardore, che a sniffarti ogni poro della pelle chiamerei e tutti gli altri scandalizzerei, che stanno con la puzza sotto il naso a spruzzarsi bugie da costose boccette, allegorie degli scontri ormonali, putacaso si dovesse mostrare quanti saprebbero davvero amare.


Antro del mio amore ingegnoso, con la lingua ti sfioro e di stare così mai non mi stanco: sai un po’ di bozzolo caramelloso e ancora mi accaloro nel leccarti da lì per tutto il fianco, ma subito tornare col rinfranco, e un certo malinconico stupore, d’esser la preferita di questa lunga tavola imbandita, che mi rende vittima al languore di completare il pasto con qualunque avanzo sia rimasto Meravigliosa e suadente Ascella, plastica e favolosa del corpo maschio anatomica forma, preziosa, ardita, fragrante e bella, più di qualsiasi cosa giuro d’amarti come prima norma, e ci metto anche la controfirma, impressa con le labbra a schiocco del mio slancio bucolico, appassionatamente apocalittico, così da fonderci in un solo blocco che freni la follia di proseguire nell’apologia. Se fossi fatta di riccioli d’oro, potresti arditamente sembianze d’angelo offrire alla gente


Marco Simonetti, L’ascella

Io voglio la tua ascella, starci dentro, restarci come stilla di sudore. Ti metterò le labbra proprio al centro leccandoti a solletico l’odore. La lingua te l’appoggio in mezzo ai peli e ti ripasso come il gatto il piatto. Ti porto fino al settimo dei cieli con un bacino kinky un po’ coatto. Le scosse dei tuoi arti e pelle d’oca e scatti e spasmi e brividi di schiena. Sei come una mentina nella Coca, un sasso nello stagno, un fiume in piena. Oh gemiti di risa e di sussulti! Il gioco è sempre questo. È per adulti.


Mariella Prestante, La canottiera

Oh se mi piaci quando cedi al caldo ed esibisci spalle e canottiera! Giacca, cravatta, scarpe da cric-croc, 7 camicia bianca, pantalone in rigo: amore mio, se tu non fossi un figo rigetterei tutta ’sta roba in blocco. Per carità: il lavoro, la carriera… Ma più mi piaci quando cedi al caldo ed esibisci spalle e canottiera. Tutto compunto, dritto come un pioppo, ti vidi – ti ricordi? Io mi ricordo: eri bellissimo. Tentai l’abbordo. Pensai: «Com’è annodato… Or me lo sgroppo…». E invece no. Quel nodo era ben saldo. Ma oggi mi piaci quando cedi al caldo ed esibisci spalle e canottiera. Ci volle un mese per andare al Brek (due fagiolini, ahimè, un’insalatina…) e un altro mese per l’invito a cena. Finché mi dissi: «Faccio la cretina» (paziente son paziente, ma ero in saldo), e a te: «Ma senti un po’, tu non hai caldo?». Ed esibii le spalle e la pettiera. L’avessi fatto prima! Un tal tornado si scatenò, che temetti morire: e in sogno, tra un venire e uno svenire, «Costui per fermo nacque in Eldorado», pensai. E fosti mio, e io tua, amor mio madido. 8 Da quella volta, se tu cedi al caldo ed esibisci spalle e canottiera, io tosto vado in giuggiola e in riscaldo, ché presagisco già l’alzabandiera….



Dappertutto nel corpo


Cristina Venneri, Il pelo

Si riproduce molteplicemente, traccia virile di maschile ormone, dalla calotta fin giù al tallone pelo curato o selvaggio, suadente. Piace alla gota e pur talvolta mente se viene offesa da irritazione, setola resa da abile incisione o crine incolto ostinatamente. Ma il pelo ch’è più vispo ed efficace è quel che folto si staglia sul petto anticipando se l’uomo è maturo né mai sia fatta la rima con ‘duro’ che se natura vuol fare dispetto glabro ne lascia il lucido torace.


Adriana Libretti, I peli del pube e del petto

Inneggio ai ciuffi sparsi. Lodarli come il pane, in barba ai corpi glabri ora conviene. Peli, petali, steli, del mai spinoso cardo. Che pizzico, palpeggio, pure mordo. Attorno alla tua verga, li arriccio, formo un otto, li districo e ci affondo, mi ci butto! Al centro del tuo sterno li sfioro, fanno massa: morbida lana, seta, altrochÊ ossa! Capezzolo, di lato un tronco grigio sfoggi. Altri ne scorgo accanto: paion faggi! Qua ne ho trovato uno diritto, lungo, duro, nero, sano, robusto... pelo d’oro! Nutrimento il tuo pelo, leccornia delle api, pasto della regina: già mi scopi.


Alessandra Carnaroli, La vena

la vena che segue l’inclinazione dell’anca la ronda del sangue che disperda la folla di peli il breve passaggio del testimone tra inguine e pancia una lancia spezzata in favore della lingua (riesco a percorrere in marcia retro e avanti usando la frizione dei corpi /giocando) il filo del gas sotto il freno un incrocio /manubrio del mio motorino: potessi attaccarmi a rimorchio io su rotelle come un film anni ottanta vietato ai minori di anni diciotto /protagonista un fiotto new wave mentre aspiro il sudore residuo io promoter kirby io domestica domatrice di tappeti persiani annodati a mano / a mano sgrano il tuo rosario pagano di ghiandole appena appena ingrossate


Mariella Prestante, Il sudore

Tu sudi, o Gedeone. E quando dalle arcate sopraciliari colano le gocce su le lanose gote lungo l’erculeo collo fino al petto villoso, io che ne son golosa baci su baci aggiungo e così suggo quel nettare acre che sa di sale che sa di mare e sa di maschio e sa di sabbia: e lecco, lecco e dal villoso petto all’ombelico e poi più giù – in cerca d’altro umido afrore, acre sapore… Tu sudi, o Gedeone. E quando nelle notti afose estive tu mi raggiungi e il tuo sudore inzuppa le coltri in cui t’inoltri cercandomi in cui mi cerchi trovandomi in cui mi prendi sbattendomi, tutto tu inondi: le labbra arse i capezzoli erti il solco dei seni


le reni nervose il ventre pulsante la schiena stretta le natiche tonde e noi come anguille oleose, bramose… Tu sudi, o Gedeone. Non fu più dolce la pioggia d’oro con cui il superno Giove Danae coverse e fe’ feconda; onde una tomba marina il crudel padre per lei dispose e il figlioletto: noi due nel letto che sa di salso, noi due tra l’onde delle lenzuola, quando stremati ci abbandoniamo verso l’ignota meta del sonno nudi e felici viaggiam, viaggiamo: e profumiamo del tuo sudore, o Gedeone.


Mariella Prestante, L’odore

A volte di salsedine e di vento, a volte di autostrada e di autogrill, a volte di cantiere e di cemento, a volte di De Palma e Dressed to kill; a volte di balena, plancton, krill, a volte di piastrelle e pavimento, a volte di liberalismo e Mill, a volte di cartucce e inseguimento: cambia il tuo odore, amore, e in giorni e ore diversi esso è diverso: è secco afrore o languida fragranza, è gran clamore o sottilissimo alitare: il mondo giri e traspiri; sai di mappamondo; poi fai la doccia e mi ritorni mondo. Ma, amor mio vagabondo, ti preferisco, sai, al naturale (appena appena un poco postcoitale).


Alessandra Racca, I nei

Luigi ha un neo che non ha nessuno Giovanni è nessuno ma ha un neo Francesco, di neo, ne ha qualcuno C’è qualcuno che non abbia un neo? Esistono sette nei per sette fratelli? Paolo ha sette nei fratelli (molto belli) Alessandro: anche i belli hanno nei Belli o brutti, dice Luca, sono i miei La scoperta dei nei dell’uomo dopo l’amore. In solitaria esplorazione puro occhio, semplice agnizione Il ritrovamento dei tuoi nei dentro l’amore, corpi del tuo corpo, pieno nel pieno, centri dentro il centro


Lara Mammi, La cicatrice

Nitore della pelle dov’è tesa, per ingiuria o sgarbo ormai passato, sai che sul corpo nulla è mai ignorato. Vulno incarnato e rinascita adesa, velo d’imprudenza o slancio di vita, scommessa mancata e non mai tradita. Amo la cute dov’è lacerata, lì trovo all’anima la tua entrata.


Francesca Matteoni, Il tatuaggio

La traccia che si sgocciola in un ago, l’intruso che ti entra e ti racconta segna l’appartenenza, provenienza del sangue sollevato in una crosta. Se lo percorro diventi maori indiano del deserto, marinaio schiena che si rovescia in una storia. Il gesto che ti incide ti attraversa ti versa al mondo, a lui ti traduce ricuce la tua cute come un ragno l’acchiappasogni che ti mette in scena. S’aggruma una medusa, nera aggalla si spande e si rapprende in una lingua poiché se non lo scrivi il corpo è nulla.


Dentro il corpo


Anna Ruotolo, Sul tuo petto esistono due porte

(in lode di un petto)

Sul tuo petto esistono due porte: una a destra, l’altra che si sposta dal centro verso sinistra con la naturalezza dell’acqua fra l’erba e dentro le nuotate d’estate e tutte le perdite che un giorno, presto, hanno inizio. Così se apri l’una, l’altra è chiusa e tale deve rimanere. Tale è il suo ruolo e lo scotto. Allora mi chiedo quale sia giusto spalancare sugli orti che ti vedo nei nervi e le colline che annuso nei muscoli. Se prendo (e così è andata) la strada per la prima, la destra, si apre – perché si aprì davvero – una vallata di cose nuove e animali di specie inabissate e metrature vaste e piccoli, calmi terremoti dal giorno alla notte, per avvisare dell’ordine perfetto, per farmi entrare nell’antro della pace. Ma quando ho preso, una volta, per caso e per dimenticanza del nascosto e del privato la tua porta del centro un poco spostato a sinistra e ho avuto nell’occhio la luce che non può tornare in quel modo due volte di fila


quando l’ho scostata piano, nemmeno con furia perché mi sentivo pronta a tutto, bardata da guerriero lucente quindi entrando quasi senza fendere l’aria, lasciando per poco l’impronta nel vano (di certo come sarebbe venuto a tutti di fare) fu lì che la stagione invereconda di tormente e sole a intermittenza e il giro delle mappe e l’incostanza dei territori che v’erano e pure i suoni millenari sentìti e i tamburi battenti da una costa all’altra mi atterrirono. Ebbi paura di quanto tu potessi contenere, della moltitudine della quale fosti padre, lo sei sempre e non lo dai a vedere. Invece – entrata – fece buio, quiete la neve si fermò sull’ultimo nocciòlo il giro di grammofono fu lento la primavera ebbe la meglio, il gioco s’assestò. Trovai da sedere e da mangiare. Da allora vi feci il mio luogo ed ogni volta ritorno – tu lo sai – come nella casa delle più mansuete tra le bestie, come nel fuoco dei più brillanti tra i ghiacciai.



Intermezzo pompier


Pietro Roversi, I pompieri

1315 C Quando ho visto il calendario dei pompieri, ho pensato ad uno degli imbianchini. Patinato, antartico, i pinguini, venderebbe coi fabbri e gli infermieri, unici veri esperti del calor e.


Pancia


Claudia Zironi, La perfezione (della pancia)

Come lodare ciò ch’è perfezione che all’appoggio la sua rotondità invita del capo, all’abbandono delle dita nell’affondo lascivo e sornione? Come descrivere la morbidezza che istiga a rapidi morsi, a leccatine a succhiare qui e là, alle palpatine, all’abbraccio di tutta l’interezza? Ci porta certi a fremere nel mentre, la china ripida che induce al piacere, la selva rada che solletica le labbra. Non è dunque penombra di palpebra od il dolce ancheggiare di un sedere, ma perfezione di pancia prominente.


Barbara Vuano, La pancia

O cara pancia, pancia mia diletta tu sei per me l’approdo dopo il mare non ti celare non ti camuffare non c’è compagna più di te perfetta. Sei salvagente in mezzo alla tempesta l’oro nascosto fuori della scena la terra certa che accoglie la mia testa mio ciambellone più non darti pena! Cibo buon vino e inviti fuori a cena per me tu sei la prova più sicura di ciò che fa la vita meno dura tu sei riparo sei isola che aspetta. A chi t’insulta manda uno sberleffo fra turchi e indiani faresti un figurone del ricco emblema e non di certo beffa per me si tratta solo di opinione. Chi mai più osa montarsi il cinturone? Non è di moda, non fa più tendenza portarsi appresso tanta dipendenza. Io lì m’appoggio, invece, e lei m’accetta. Morbida lana, letto per dormire lascio i miei sogni andare alla deriva li affido a te mio mare non tradire portali salvi naufraghi alla riva lascia che questo nostro patto viva ciò che amo più di te è la debolezza conseguenza animale all’incertezza non è la forza quello che mi alletta. Se non è guerra è gara a far carriera molte anzitempo all’orco generose condusse alme d’eroi e nulla preghiera valse a distogliere tante orgogliose vite da tali imprese perniciose dai bronzi greci passando per Adone si arriva dritti a Sylvester Stallone. Essere maschi è proprio una disdetta.



Francesca Garello, La pancetta

Tanto grata m’appare una certa prominenza che di sua presenza mai mi vo’ privare, da femminile sprezzo per questo son colpita e in pubblico schernita, e a questo non m’avvezzo. Io sola tra le dame, pulzelle o maritate, al giro dell’estate concentro le mie brame su ‘n dispregiato oggetto dal femminil desìro e più che un sol sospiro gli dedico, negletto. Che sia non oso dire per tema di dileggio, ma muta lo corteggio, né l’occhio sa ubbidire agl’incoraggiamenti di qualche amica arguta che ad ogni tartaruga ostenta svenimenti. A me piuttosto piace la morbida apparenza d’una circonferenza, che oso dir audace, di chi come Saturno ostenta trionfale l’anello ombelicale. Lo immagino, diurno, sedere lietamente a tavola imbandita, e con l’esperte dita offrirmi allegramente vuoi cibi o libagioni. E poi me lo figuro, l’amato mio maturo, i tondi maniglioni porgermi a saldo aggancio in amoroso amplesso, offrendomi anche spesso il suo notturno slancio. Da gioventù piallata al più l’aperitivo m’aspetto e un letto sbrigativo, e lugubre insalata. Tanto lieta m’appare maschil circonferenza che di sua presenza mai mi vo’ privare, e di converso sprezzo testuggine scolpita ingiustamente ambita, e a quella non m’avvezzo.


Francesca Donazzan, La curva etilica

Mio emisfero d’amor, pallido e morbido, t’amo se fuor ti manifesti audace ché giammai l’addominal carapace seducente mi fu al vagheggiar torbido. Tosto il pensier di lussuria m’ammorbi se ti avvicini mentre già fantastico circa un incontro d’amore ginnastico. Quando le pinte scolate tu assorbi, capolavor di giottesche fattezze, Dio ti salvi da’ anonimi alcolisti, tu che conduci a ben diverse ebbrezze: alle manovre d’amor sempre assisti – baci, carezze, coccole, sconcezze – ché dal diletto invero poco disti. Le notti son ben tristi se su di te, mio pancino di luppolo, a fini equivoci non m’avviluppo.


Mariella Prestante, L’ombelico

Non loderò per scherzo l’ombelico, ma seriamente ne dirò la gloria. Traccia nel corpo del materno amore che ti contenne per ben nove lune; segno d’un nodo che non sciogli mai: ma Adamo ed Eva ti avevano in pancia? Dolce fossetta al centro della pancia, morbido labirinto, tu, ombelico, a chi ti fruga non concedi mai d’una completa pulizia la gloria: esplorano i tuoi anditi le lune dell’unghie, con pazienza e cura e amore ma come alla koalessa con amore sta stretto stretto il koalin, la pancia dentro di sé tu vuoi che d’altre lune conservi dei ricordi. Eh sì, ombelico: bioccoli di cotone e lana, gloria del nulla d’ogni giorno, tu non mai vorresti abbandonare; e quando mai si vide per le secrezioni amore tanto ostinato? Cerchino altri gloria con alte imprese: tu, che della pancia sei ornamento e stemma, tu, ombelico, giacente in ventri grossi come lune crescenti o gracilini come lune calanti, non vorresti mai, mai fama che dal nonnulla. Tu, ombelico, unico buco che nel far l’amore impenetrato resti, che la pancia nasconda in fitto pelo la tua gloria o glabra ti esibisca, sì, ti gloria la tua umiltà. Si dice: mille Lune non fanno un Sole, ma una sola pancia umilemente ombelicata mai meno d’un cazzo vanitoso amore susciterà: io t’amo, o mio ombelico!


(Mio perché dài gloria alla luna-pancia di colui al qual mai, ma per amore, rinuncerei di frugar l’ombelico…).


Chiara Daino, La cresta iliaca

Dell’epica erotica: inno ad Ilio Règia catena, ripido crinale, patibolo di amplessi, di piacere; Tu tututto tu, canto d’Animale: cerco lo schianto d’ossa per godere dopo quel pànico fiutare fiero l’ischio robusto di maschio guerriero. Nell’acetàbolo voglio cullare la perversione che pura pretende leccare lenta lombi – per lodare lo lembo ligneo ch’al sesso scende. Tu m’ubriachi, cresta iliaca goduria pelvica, dionisiaca…


La Donna Camèl, La tartaruga

Guizza la magra se missionaria mi fai non c’è più inverno


Lombi


Evelina Dietmann, Le natiche

Passeggiando a Viale dei Salici Agli occhi balza la sfericità Di solidi sederi erratici: Mezze-lune osservo, a sazietà. E mi colano sudori fradici Nel mirar – io, habituée – cotal beltà! Sai, mi paion ponti d’oro («Tu dici?») Tra la corporea una e altra metà. Son due portenti, quegli astri sorgenti, quelle dure chiappe invereconde, reverende e ognor assai presenti: m’ossessionano, difatti, ad onde. Son succosi maracuja, accidenti! Della passion le frutta fresche e tonde.


Normanna Albertini, Le cosce

Quando ben vigorosi vedo lustri cavalli salir sgroppando i colli e i muscoli nervosi guizzar lor sottopelle, ecco il cuor che s’agita, e grida su alle stelle che bramo le tue belle cosce d’ambra solida. Oh, come vivo in pena, oh, quei massi ruvidi, baluardi sempr’impavidi di bruciante rena! In pena, mio diletto: da te son separata e sogno il tuo stretto ghermirmi abbandonata e avvolgermi nel letto. Oh, la mia bocca quanto vorrei su te sciupare su quelle cosce dare baci e baci tanto! Vive, aspre, piccanti, viziose, sensuali braci, d’energia roventi, di tormento audaci, mirabili e potenti. Oh, mio diletto amico, luce mia tra gli astri, il mio sguardo impudico lambisce quei pilastri laddove tu cammini: la carne tua s’inarca sotto i calzoni fini come vela di barca o vispi topolini. Muraglie del giardino


mio, che a te sol compete, più dolci del buon vino mi colgon come rete. M’afferra lor fragranza di maschia bramosia che cura con costanza di te la voglia mia e il male dell’assenza. Oh, carni che più amo, all’alba da me venite! Amate cosce d’uomo colonne ben tornite spingete nel giardino intrepido il fioretto. Io fremo e voi aspetto qui a pigiar l’archetto che dà piacer divino.


Morena Silingardi, Il muscolo quadrato dei lombi

Il muscolo dei lombi che quadrato sovente nominar senti in palestra a me par bello assai, e sia lodato chi mostra sode terga e ben l’addestra! Non conta che sia sol delineato, non voglio di dettagli esser maestra, ma so che, se è ben proporzionato, sol ruba sguardi da sinistra a destra. Può capitare che, per la visione sol di un didietro come lo si deve, si perda pur di vista la ragione! Perciò talora, come al sol la neve, si scioglie di una moglie l’intenzione d’esser fedele per la vita breve. Qualcuna sa però non esser greve, sa come mantener saldo il timone e far la casta donna, come deve! Aggiungo una coda al mio sonetto per dir un che di vero non già detto: non finga d’esser pia chi non è tale perché si sa: non è per nulla uguale il sodo nervo del bel palestrato (essendo donna pia da te ignorato) al muscolo quadrato di quei lombi che paion appartenere ad uno zombi(e)! Se zombi(e) è il tuo compagno, poveretto, immantinente gli dedico il sonetto.


Angioletta, Il bel culotto

Bel culotto rotondotto, se ti guardo mi commuovo: guizzi svelto nel passeggio e sei liscio come un uovo. Ah! Svelarti smutandarti, gioia delle mie pupille! E dei baci piĂš rapaci ricoprirti a cento, a mille! Ma sei timido e comprimi tanta grazia nei tuoi pantaloni e lasci nelle ambasce me, che ognor sospiro: ÂŤPant!Âť.


Genitali


Clara Vajthò, Rimembro

Tu sei l’unico al mondo mi rendo conto adesso che può cambiar di colpo e rimaner se stesso tu puoi uscire entrando rientrare invece uscendo e ritornare piccolo anche se stai crescendo solo tu puoi venire anche se sei già qui e inoltre, per finire fai pure la pipì.


Francesca Genti, Il cazzo

il tuo cazzo, per me, era kriptonite, magico marte, scia violenta rossa, il firmamento intero nelle ossa, era il destino, la legge da seguire. pura primavera era il tuo cazzo: stupende gocce di pura biologia, stella cometa con la sua collosa scia ficcata nello spazio pi첫 profondo. con te sarei venuta in capo al mondo.


Artemisia, L’augello

Non gluteo canterò, setto nasale coccige, sterno o osso mascellare non apparato gastrointestinale non prostata né vertebra lombare non milza né sutura occipitale non fegato, polpaccio o pettorale. Augello, che senz’ali t’alzi in volo: per tua bellezza canterò te solo. Qual sentinella sullo spalto eretta sempre pronta alla lotta e alla tenzone così l’anima tua, pur se costretta, mostrasi ognor, financo nel calzone e alla carezza mia maliziosetta s’infiamma con l’ardore di un tizzone: corri al galoppo con la lancia in resta sulla via del piacer nulla t’arresta. O tu ascoso e gentil, nobile augello che con furor pudico m’innamora come incudine attendo il tuo martello come grano l’estate che l’indora e più m’adopro nel prestarti ostello e più di te la fame mi divora. Tu pronto, abile, docile ed altero tu, d’ogni intimo gaudio messaggero.


Mariella Prestante, Il cazzo

Voglio dal ver questo cazzo copiare 9 sì che somigli come a madre un figlio questo sonetto nei cui versi impiglio ciò che ai miei occhi tanto bello appare. Fiero è il suo capo, che gli piace alzare come nel prato s’alza fiero il giglio; scende il cappuccio, e mostrasi vermiglio e apre la bocca come per baciare. Cerca sua via con far così gentile che la mia fica tutta va in solluchero e se ne bea quanto non si crede: respingerlo sarebbe cosa vile, ché pur la bocca ’l cerca appena ’l vede e se lo succhia come fosse zucchero.


Loredana Semantica, Il lato erettile

Ha un che di sorprendente il lato erettile dell’uomo che si rivela a volte ardito e indipendente quasi rivendicasse vita propria. Ieri ad esempio l’ho visto sollevare ad arco il costume nero di un bel ragazzo moro che al mare osservava una ragazza distesa sulla sabbia tutta d’oro. Lei languidamente coccolava sulla pancia un tenero granchietto dalle chele rosa che si muoveva piano e imbarazzato un poco avanti un poco indietro sul ventre piatto ed abbronzato. L’altro torreggiava come Apollo godendosi la scena nelle vicinanze splendido con la sua coda di cavallo legata alta sulla nuca a incoronare in onde umide e lucenti i bei capelli a ciocche. Intimamente pensava sono certa che invece del granchietto avrebbe saputo fare meglio il suo vermetto e quello alzando la bandiera dell’autonomia dalle convenienze e dall’ipocrisia ha reso al mondo prontamente il pensiero suo segreto spavaldo ed evidente.


Alba Lapilla, Ode al punto centrale

Cullando nel pensiero la tua lode punto centrale – Lui – mi prende i sensi. Opra sublime di Madre Natura. E che lo senta o soltanto lo pensi ammirazione nella mente esplode per così incomparabile fattura. Esulta la mia mano al tuo contatto per tanta varietà di paesaggio dal più lieve al più duro ogni passaggio. Mi sembra a volte poterti plasmare argilla malleabile a piacere e di te fare quello che mi pare. Niente conosco di più pronto al tatto. Sei fatto apposta per offrirti prensile. Disponibilità quanto ingannevole! Gratitudine provo: il tuo bocciolo di papavero, a crespe sottilissime più che palpebra e petalo di pelle. Le dita come elitre o vibrisse. Pistillo di pisello nel baccello. Mille miliardi di minimi semi. E dal primo tuo palpito all’estremo fra labbra, valve, ali umide lisce scivoli che ti tiene e che ti freme. Di te parlano asparago e cetriolo salciccia, stocco, ciondolo e pendaglio… E chi ne ha ne metta, a propria voglia. ***

Esagerata è la tua presenza cui – ben capisco! – anch’io contribuisco. Ora narro perché tanta invadenza…


Adamo inventò i nomi del creato. A propria somiglianza nominò come animali del suo proprio gregge che il Creatore gli aveva donato. Ma del proprio potere si esaltò si proclamò Padrone incontrastato si fece Dio: ogni Nome fu legge. E poi guardò al suo fianco, vide Lei e disse «Ecco la mia compagna, eguale». Scoprì quanto era assai più bello il mondo se accanto al rettilineo ascensionale sta l’accogliente concavo e rotondo. Ci vollero millenni, fino adesso per indurlo a spartire il suo possesso. ***

Di nomi e forme in espansione non c’è parola – o unità di misura che non sconfini in quinta dimensione. Come il mitico Proteo – Molteplice e Uno – Filosofia ti prende come archetipo. Tua parabola studia Architettura. Il mio dolce paese solatìo ti tiene in alta considerazione. L’Argìa si finse femmina in tuo onore 10 (Io che lo sono, vedi quanto rischio ridicolo e patetico in amore Sarebbe errore dir che me ne infischio…) E nella Piazza va per la maggiore il gigante Nettuno col tridente che per guardarlo in retta angolazione si prende il torcicollo ogni studente. Se mai volesse usarti il tuo signore come strumento di potere, Asso pigliatutto, o peggio, arma da scasso… Tu rifiuta la collaborazione. Sciopero a oltranza, in bassa condizione. E non seguire rozze usanze antiche. Fallo per noi, ché ti restiamo amiche


Polisemica è tanta estensione. Ti rese emblema di concupiscenza la Carne – e la sua propria Trascendenza. Le nozze fra simbolico e reale trovano in te metafora e ragione. Ma Tu resta te stesso – tale quale.


Adriana Libretti, Il pene

Rotta l’estate lo squarcio è da colmare pene d’amore.


Lidia Del Gaudio, Lo sperma

Dal desiderio di conquistare vita lievito fresco


Mariella Prestante, Il membro gentile

Sempre cari mi fur quel grosso cazzo e quei coglioni così sodi e duri che solo a ricordarli quasi impazzo. Ma quando tu mi sbatti contro ai muri stile Orchidea selvaggia, o quando a letto mi preghi perch’io accetti i tuoi più impuri e osceni desideri, è presto detto: a te t’importa che il tuo cazzo duri ben duro il più possibile; che il getto fatale si ritardi; e m’insiluri interminabilmente. Il guaio è questo: i cazzi semimolli o semiduri son proprio troppo tristi, ma un Efesto che sempre ci ha il martello sull’incudine finisce col dar noia, e mi è molesto. Oh quanto è bello stare un poco, nudi, nel letto, a fare chiacchiere e carezze, senza pensieri che sian troppo rudi… Oh quanto è bello alle scostumatezze preporre un po’ di giochi, anche infantili, e farsi un po’ di coccole e dolcezze… Lo so: son desideri femminili, e il maschio è un’altra cosa, ci ha sue leggi più dure, più brutali, più maschili per dirla tutta. Ma, amor mio, se reggi due ore a cazzo dritto, io son contenta: e non son io che a questo s’indietreggi: però la fica, vedi, è più contenta (e anche la bocca, per tacer del culo) se fa una vita meno turbolenta e meno impegnativa, un po’ più cool,


più sorridente, più sentimentale e un pizzichino, aggiungo, un po’ più fool: subir di brutto tutto l’animale che sta nel maschio è cosa troppo greve: ti fa sentire oggetto, e questo è male. E dunque, per finirla, sarò breve: quel tuo bel cazzo assai mi manca, amore, e son gelosa di chi se lo beve oggi, che non son io; se torni, amore, io son felice; ma sii men febbrile: membro gentil conforta sempre amore. Bench’io non sia bigotta o baciapile, non ci ho la fica a mollo a tempo pieno: e non perciò rinnego il campanile… (Mio bruto, mio adorato energuméno, indiavolato come sei, già sembrami vederti in preda al raptus penïeno: su, datti una calmata, da’ a quel membro così agitato una sciacquata fredda: non aver fretta di stampare il timbro; e su, facciam due passi…).


Rosaria Lo Russo, Lo scroto

(piĂş sbadiglio che haiku)

Scruto lo scroto e poi lo tocco. Anche in lui qualcosa resta moscio.


Viviana Viviani, I testicoli

Fidi scudieri del membro virile Molto di più che banali ornamenti A lui lasciando i piaceri più ardenti Sempre lavorano in modo febbrile Infaticabili industrie di vita Gran produttori di spermatozoi Non c’è nessuno né prima né poi Che li ringrazi per l’opera ardita Per l’erezione sì tanto cercata Dal dittator dalle voglie frementi Son solo loro a restare dolenti Nel caso questa rimanga frustrata Senza mai sosta producon ormoni Per la gran gioia del duro tiranno Mentre lui svetta da schiavi gli fanno Forse per questo li chiaman coglioni? Loro son prova che in ogni contesto C’è come sempre chi sgobba e chi gode Se dopo mille fatiche e soprusi In una sacca rimangono chiusi Né mai nessuno gli dedica un’ode Per un lavoro sì duro ed onesto Per dar conforto alla cupa amarezza Di chi è lontano da applausi ed onori (Che nella vita è sì come nel sesso) A noi non resta che dopo l’amplesso Fare un inchino a codesti signori E salutarli con una carezza


Paola Malaspina, Di gonadi, iperuranio e chirurgia

Nel buio siderale di fellatio, d’ansimare, scie lunghe di saliva oscillavano lune in carne viva in coppia su nel fallico iperspazio. In vista della fine, a cosmo sazio si facevano piene, ed io lasciva poi big bang, in cui tutto trasaliva, il silenzio tuo, l’estasi, lo strazio. Loro a guidarmi in ciel, come beatrici la prodiga e l’altra, preferita: compagna del tuo muto pleistocele quella col taglio del varicocele rivela verità da me intuita: m’appartengono le tue cicatrici.


Selenia Bellavia, Il perineo

Dicevi: sfioralo. Palpita e s’ingombra il cielo tuo segreto a una carezza, la carne più nascosta è palco di letizia imbuto d’uragano nell’affanno un vero eccesso come vortice sul piano. Dicevi: bacialo. Questa culla prediletta è potenza chiusa e sola se avida la bocca non osa innamorata. Al cinabro delle vene la lingua è come fuoco lavora e si protende aperta d’aria è luce colma di piacere di tremore una valanga. Dicevi: forzalo. La spinta vigorosa delle dita è promessa di risucchio esagerato e vivo e mostra un lembo al porto tuo se prende corpo in una mano il lago assurdo. E la punta tua dorata ne approfitta. Ma io dico: rimanda la tua resa! L’asta vuole la sua cura nascosta nel miracolo ridotto alla materia dentro, pure, il fiotto è breve istante allo spessore d’arto espanso se non reggi la natura. Riprendo la carezza al colmo della carne e se non basta come dono d’attenzione all’umido giardino orali le mie mani sublime fanno l’abbandono. Resta immobile. Non esalare fiato. Che t’avvolgo e ti conduco


a esplorare gorghi di delizia inusitati al mescolìo scarlatto. Per ogni vena un brivido, per ogni tratto d’angolo disteso uno slancio come sogno interminabile e sfrenato. Il ritmo intenso e già doppiato sangue è fragore nella notte è vertigine d’ebbrezza se giungi ora alla sconfitta della carne.


Intermezzo: diventare ciò che si è


Silvia Cassioli, Un madrigale trans

Ăˆ giovane, e risoluta a farsi operare. Non desiderava altro che questo, di ricucire la sua piaga interiore ricoprirsi di un fitto crine scuro e avvicinarsi, in questo, al Cristo. Ăˆ la sua forma di voto sponsale l’imitazione del padre via ormonale.


Arti inferiori


Antonella Bukovaz, Il muscolo gracile

sonetto sull’Isonzo

Prepari una giornata di lettura disteso lungo il corso del fiume seguo la piega che il corpo assume cerco il punto che il guardo cattura. Guardare è fare letteratura! lungo le cosce dilata il volume il muscolo tuo scorre come il fiume dal perineo al ginocchio giuntura. Il gracile adduce, flette, ruota insieme a te tutto l’esser mio si tende e sporge e quasi esplode. Nelle donne è muscolo custode guardo della coscia mia il tremolio mentre nell’acqua salta una trota.


Francesca Garello, Le ginocchia

Le ginocchia non sono apprezzate! A debole spirito spesso associate, evocan scene di umiliazione molli e contorte in genuflessione. Per lode maschile son poco adeguate? Invece a me piacciono, anche piegate. Perché se assieme sono accostate, offron sostegno e consolazione le ginocchia. E alle ritrose assai corteggiate (e con l’anello un po’ incoraggiate) cosa l’uom piega in dimostrazione di una nuziale disposizione? In questa posa son molto apprezzate le ginocchia!


Stefano Serri, Quasi fratelli (i polpacci)

Cuori svasati. Mandorle. O panciuti come gli otri di un sangue che ingombrante comprimete dai vasi negli imbuti delle caviglie a zampa d’elefante: è reso manifesto in voi, polpacci, il rebus rosa di doppia bellezza poiché non foste fatti per gli abbracci, ma l’occhio che vi guarda si accarezza. Vedo la vostra ascesa in queste scale alterni, in sincronia, quasi fratelli e non a caso aprendo un manuale il vostro vero nome è: gemelli. Siete grappoli, ma siete anche noce che infrangerei tra i denti con furore. La vostra carne è la mia doppia croce: voi nelle gambe ci allacciate il cuore. Gemina all’uomo è sempre la passione. La vostra densa polpa bipartita germina appena un po’ sopra il tallone e si apre, calamita alle mie dita. Senza di voi nulla rimane eretto e alcuna statua si alza in monumento. Trovate pace finalmente a letto. L’amore è solo puro inseguimento.


Nadia Bertolani, Il piede

Se dalla nuca il tuo corpo percorro e con lo sguardo lentamente scendo al piede tuo stupendo, m’incanto per sì tanta meraviglia, perché di sotto alla gentil caviglia c’è un tesoro di piccole sorprese, dalle donne incomprese, vale a dir l’epicondilo mediale, il malleolo, mediale e laterale, poi l’astragalo, l’ischio ed il calcagno degno di Carlo Magno, imperatore alto e maestoso, che stava sempre in pie’, mai a riposo. Calcagno o tallon che dir si voglia, nudo in battaglia com’era nudo il tendine di Achille che nella guerra d’Ilio fe’ scintille tanto che con l’arsi e con la tesi, modello per aedi, il piede fu misura di poesia. Tallone nudo, quale frenesia! Nudo come la pianta e come il collo, piede che io controllo da buona feticista innamorata, di tarso e metatarso infatuata, di dita e di magnifiche falangi, controllo che non cangi il color della pelle in un momento, perché questo tuo ultimo segmento, il piede, dico, nobile appendice, che io guardo in tralice, non venga concupito da qualcuno, ché il tuo piede è mio e di nessuno.


E me lo bacio e me lo accarezzo, e ne annuso l’olezzo. Afrodisiaco piede del mio amato! Come tutte le notti l’ho sognato che si insinuava su per la mia gamba: Oh che mitico samba abbiam ballato il tuo piede e io.


Evelina Dietmann, Il piede

Il piede reca lontano: passo a passo, fino in Congo. Il piede, e non la mano, regge il corpo e pure il mondo! Nel caldo agostano, si lascia (stupendo!) all’aria, carmelitano. E io l’ammiro, sai, piangendo. Piedi d’ebano, piedi d’avorio, piedi ossuti, piedi adiposi, con odor di vita e cose. Quelle dita appetitose, i metatarsi mordicchiosi… Io li sogno: è già delirio! Penso ahinoi all’adulterio, carezzandoti il tallone, Oddio che desiderio! Santo ciel, vo’ nel pallone! Ci vorrebbe un annuario che, con ammirazione, faccia un sommario dell’articolazione. Piedi tozzi, piedi fini, piedi grossi, piedi mini. Amo tanto anche il calcagno. Il tarso, una falange: me li magno! Se potessi, quei piedini morderei, con i canini!


Alba Cataleta, I piedi

Oggi mi va di parlar dei tuoi piedi belli, a parer mio, unici. Pianta larga e dita gaie. Vanno ognuna per suo conto sgarzule, gioiose, pare cantino lodi alla terra. Mi cammini avanti in ciabatte da mare ed io non riesco a distogliere lo sguardo dagli alluci nervosi che non sanno dove andare. Dimenandosi di qua e di là crean in me un desiderio strano: imprigionarli a me per trastullarmi sempre a guardarli nei giorni belli e in quelli brutti. Più tozzi ancor degli altri, ma come ci stanno bene fra indice e mignolo… E a me, che dire? Parlano al cuore perché anch’essi son tuoi.


Mariella Prestante, Il piede

O piede dolce e caro, che conduci l’amato a me che attendo già discinta in letto; piè di bellezza raro, sottile affusolato, e di misura e proporzion perfetto: voglio darti un bacetto e mille e cento baci darti ancora: un bacio a ciascun dito, uno al tallone ardito e poi da capo ancora ancora ancora. La tua pianta s’inarca se appena la solletico e sembra rida come un bimbo in culla; tu sei piccola barca, sensuale anestetico che ogni tempesta della vita in nulla volgi a chi ti trastulla: ed io son fortunata perché t’amo e rïamata sono, o magnifico dono che il Creatore fece al corpo umano. Venere teste, Adone non ebbe un piè sì bello; né ne cavò con l’arte Prassitéle dal pario un paragone: nemmeno Raffaello seppe eguagliarti in cento e cento tele. Che calci un Supertele 11 o giochi a tuca-tuca 12 con la micia, è tale la tua grazia che di piacer mi sazia: come ti vedo, smetto la camicia. Oh, non sia mai che il tempo un tal prodigio guasti; sia mai che usura, macchie, vene, calli e gli altri orror del tempo ciò che Tu, Iddio, creasti


perché varcasse queste meste valli e nelle eterne calli marciasse altero verso la Tua gloria, facciano sozzo e brutto: che terribile lutto, sol per cantare sopra a Te vittoria! Ma fa’ ch’io speri e creda che come desti al giglio eterna vita grazie all’arte e al verso, così grazie all’aeda ch’io sono (e guarda il ciglio, già lagrimoso), Tu, dell’universo Signore, non avverso sarai a questo piè che tutti incanta e me, la sua diletta, a letto assai diletta: in sua presenza tutto il mondo canta. Ordunque vieni vieni, vieni piedino mio, vieni pieduccio caro del mio cuore: vieni, piedino, vieni, vieni, lesto: con brio nel letto giocheremo a far l’amore. Non conteremo l’ore: tra le lenzuola e tra i cuscini freschi ci daremo ai trastulli: saremo un po’ citrulli, un po’ vanesii e un poco boccaceschi. Va’, canzonetta mia, e più tosto che pria conducimelo qui, che già io smanio e se non posso sbaciucchiarlo insanio.


Maria Grazia Di Biagio, I piedi nudi

Sui luoghi estremi della tua bellezza il tuo sud profondo – inconsapevole della dannazione delle tortore si allunga l’ombra delle ciglia amanti. Dove hai messo le ali? Le nascondi forse tra i fasci tesi sui talloni o sotto gli archi bianchi delle piante nomadi sulla Terra – di nessuno. Tu non lo sai che il mercurio s’impenna per i tuoi piedi nudi – caldissimi dei flussi azzurri che li percorrono scendendo rapidi sui dorsi dolci. Per i crinali delle dita egizie le labbra fanno dieci anelli d’acqua e vocali gemelle per le unghie perfette – di satiro o dio caduto. Mi trattengo qui – sul punto e virgola del tuo alluce destro – dove ancora nessuna ha messo gli occhi e lo stendardo – conquistadora dei tuoi piedi scalzi.


Sicania, Il calzino

Tanto spesso io ho cercato dell’uom mio qualche segnale. Ringraziato sii tu, Amore, che l’ho pure alfin trovato. Era proprio in quell’oggetto trascurato alquanto pria pria giammai da me eletto ad onor di un’elegia. Egli è stato mezzania: squassat’ha tutt’il mio core. Ringraziato sii tu, Amore, che l’ho pure alfin trovato. Care amiche amici cari di parola e di versetto io vo’ dirvi tra i vestiari solo un m’infiammò il petto: un calzino assai negletto mi ha preso tutto il core. Ringraziato sii tu, Amore, che l’ho pure alfin trovato. Il segnal da me cercato alfin eccolo al mio sguardo sotto il letto rintanato al cor mio fu come un dardo: il suo lezzo sì gagliardo inondò tutto il mio core Ringraziato sii tu, Amore, che l’ho pure alfin trovato. Questa picciol frottoletta dedico a ogn’om di core perché sia da ognun diletta sempre signoria d’amore. Di poeti chiara e netta musa prima e poi signore ringraziato sii tu, Amore, che l’ho pure alfin trovato.



Seconda corona


Stefano Serri, Corona di lodi

Fessure Basta questo a farmi correre all’orgasmo: l’occasione di esplorarti le fessure. Non mi immergo nel tuo corpo, ma lo plasmo dentro gli occhi, intuendo il rosa pure nei recessi d’ombra e pelo. Come un chiasmo il calore e la visione fanno dure le distanze – so goderti solamente fermo al limite dei sensi che assaporo. La mia bocca stando chiusa chiara sente quella lotta degli umori che oltre il foro si consuma. Inumidita, la mia mente assaggia il tuo corpo, lo scopre tesoro.

Gas Il mio tuo amore è come gas metano fatto per fiamme, senza anestesia. Richiama l’anima d’ovunque sia e il tempo lo fa fuoco. Scalda piano. Se mi concentro in te tutto l’annuso. Passa sui baffi quasi solletico eppure, come fiato domestico, mette un abbraccio in ogni spazio chiuso. Alza ogni velo dal caldo e peloso retro scena dei nostri procreatori: l’origine dell’uomo è tra i sudori. È una bomba il corpo, chi ama è esploso. Tra i suoi fumi lievitiamo i cuori senza nascondere odori, immuni ai casti sonetti e ai gusti comuni.


Petto vs schiena Stanco dei momenti – poi mi hai avvolto nel tuo petto che scalda la mia schiena, un’onda morbida presenza, molto adatta come materasso e cena. Un animale profumato e folto consolazione calda e carne piena di tempo fermato, spazio guarito da abbracci. Stanco di tutti i passanti trafitti da un addio, mi hai stabilito tra le gambe come anello gradito per nozze senza pretese, e avanti! non importa se ospite o marito.

Preservativo (sonetto della marchetta) Bocca della stazione e del parcheggio aperta senza questua, ragazzino e genio carnoso: non ho di peggio che vendere il mio muso sbarazzino che ha visto molte oscenità a passeggio – troppe da pulire, non c’è spazzino capace a farlo come me. Scoreggio se me lo prendo dentro, immagazzino tutto il piacere che mi svuoti dietro. Cinquanta euro e posso anche succhiarlo. C’è una legge sui viali o sulla metro per dare l’amore, temendo il tarlo sopra ogni glande che sembra di vetro: un preservativo, mai rifiutarlo.

Il piede Cerco la vita nel basso, in quel rosa che può cantarmi le lodi terrene:


stringo il tuo piede, la bocca lo sposa e dopo averlo baciato il tallone occupa tutto il mio muso indifeso. Lui, che su questo calcagno adorato restando morbido accumula il peso, in rughe fa i passi, a stento fasciato da calze. Loro lo assorbono, lente, delle giornate il sudore che, sale, penetra questo anatomicamente tenero capolavoro finale.

La pancia Di invitarmi non tutti hanno il coraggio perché la pancia supera in larghezza la tavolata stessa e col suo raggio promette un conto salato che spezza ogni fraternità. Con un assaggio comincio, ma è come una carezza ogni portata e all’arrembaggio! mi spazzolo ogni piatto con l’ebbrezza che ho quando amo, rido oppure lotto: io nel mio corpo ho posto per due vite. Lo so, quello che ora sento sotto è la sedia che cigola. Capite, non ho paura di un piedino rotto: lo stomaco obbedisce a calamite di un pranzo caldo, sugoso, ben cotto. Provate a farmi alzare, se riuscite.

Altezza, I La lampadina all’entrata, la gruccia del nostro armadio, il fungo della doccia, lo spigolo che come una bertuccia sbaam! sbeffeggia questa mia capoccia vittima di altezza: tutta si sbuccia


la fronte e presto un gran bozzo ne sboccia ridicolo, se l’angolo non muccia. Il soppalco – eccola l’ultima goccia che mi fa traboccare questo vaso ammaccato: anche il mio povero naso sbatte ovunque! Quando al supermercato chi mi chiede il barattolo, incastrato là in alto sullo scaffale, per caso se vedesse sopra il mio cranio raso i punti, rimarrebbe senza fiato (e invece mi chiede: «Ma che ha mangiato?»).

Altezza, II (verticale) La bocca, in piedi, approda alla cintura (e questo ha i suoi bei lati positivi) ma per un bacio che alle labbra arrivi occorre adulterare la statura: devo chinarmi fino alla tua dura fronte, sciogliendo tra i denti attivi la mia lingua (ma se ti volti e schivi l’invasione, ti morderò con cura sul pomo e poi la nuca); oppure posso avendo ben rincorso il desiderio sollevarti finché il tuo viso rosso strofino sul mio muso, planetario del piacere – allora atterri sul grosso mio mento e dici: ecco un bacio sul serio!

Altezza, III (orizzontale) Anche stavolta sbordano dal letto pure le ginocchia. Ma potrò un giorno dormire senza essere costretto ad accucciarmi come pasta intorno a un buco di ciambella? Ci scommetto che non ti accorgi, scaldato dal forno del mio petto, quale gelido oggetto diventa l’alluce là in fondo, a scorno di ogni coperta. Se mi coricassi


storto, finirei di scalciare il vuoto – ma la fessura in mezzo ai materassi da noia si fa tortura. Ti scuoto e subito capisci: ecco, ti abbassi e abbracci il mio piede così remoto. Così, con le tue mani sui miei passi, mi scaldi i piedi, cucciolo devoto.

La pelle Non temere il mio corpo di marmo non sono statua, vivo le ore resistendo bianco a ogni tarlo. Il mio guscio ha un antico colore a un passo dal rosa. Osa toccarlo questo mio petto: subito smuore ogni corazza e il gelo disarmo per riavere una pelle, l’odore che in noi nascosto dà il sangue. Ultimo, dopo che le iridi hai scoperte, da pietra a piega ti si converte il cuore, pugno rosso e intimo che tra le vene va a mani aperte e batte il tempo, scopre l’attimo.


Divagazione (sottofinale)


Mariella Prestante, Natura e cultura

Quando la mano tua si posa sulla mia chiappa destra io mi sento nella medesima una scossa, e la basculla dell’osso sacro ha un’incertezza, della quale non so spiegarmi il senso. Dillo, se sei capace, tu. Quella bavella che dal mio corpo porta al tuo gingillo di me una marionetta nelle belle tue mani fa. Mettesti tu un sigillo nascosto in me? Ti fui, ti son ribelle se non mi tocchi; se mi tocchi a galla dal fondo oscuro di me stessa (nelle mie parti oscure chi comanda? Dalla mia volontà son governata? Fuffa è quella storia dell’inconscio, balla in pro’ degli analisti se non truffa ben combinata, e chi ci arraffa arraffa e porta a casa i soldi? Molto buffa cosa sarebbe…) emerge non un vaffa ma un desiderio, un cedimento… Goffa sarò pur io, ma di riffa o di raffa padrona di me stessa: no, non stoffa da farci tonache, ma neanche bleffo: non sono quella che sta sempre in coffa spiando intorno, vedi qualche ceffo scopabile pervenga… Torno a bomba: il «Grande Muratore» (Claudio Chieffo) ci fece maschi e femmine; si tromba perché si deve, a conservar la schiatta fin quando il suon della finale tromba ci chiamerà al giudizio. Autodidatta


fu Adamo in questo, autodidatta Eva: fu quel che fu, né lei rimase intatta. Le piacque? Fu dolore? La primeva delle primeve non lasciò poscritti. 13 E Adamo, lui, nel mentre la prendeva, cosa provò o pensò? Già vide iscritti nei secoli futuri d’arroganza e di violenza quei maschili editti, o fu lui stesso a imporli alla sua ganza? O è la natura che ci dà gli istinti, che guida nostro gioco e nostra danza, per cui già calvi e con i denti finti, le vene varicose e il ventre molle, ancora i maschi seguono un imprinting ineludibile, e finché le ampolle non vuotano in un vaso qualsisia tristi gli fremon tutte le midolle? E sentono un bisogno, una mania di dominare, di sentirsi forti: quasi gli viene la cremnofobia se vittima non c’è che li conforti con sua sottomissione in quello stato: e senza questa cosa sono morti. Sarà così? Natura ha loro dato d’essere tali senza scampo? O il maschio nasce innocente, e viene poi educato alla violenza, al desiderio e all’astio mischiati insieme verso di noi femmine, e alla centralità del suo bel mastio? È natura? È cultura? Non di lemmi si fa questione qui. E noi donne, siamo a nostra volta spinte come lemming misterïosamente a dire «T’amo» a chi ci pensa solo come oggetti?


Noi donne, quanto e come consentiamo alla violenza, ai desideri abbietti, alla sottomissione impunemente imposta, noi che spesso in lazzaretti dell’anima dobbiamo e della mente tener rinchiusi sia il disio sia il velle, e se vuoi libertà tremendamente vieni punita? È forse nelle stelle inscritto tutto questo? O nella carne? Non so, non so, non credo. Alle bretelle Münchhausen si aggrappò per trarsi fuori dalla palude. 14 Natura e cultura in noi sono una cosa, e se agli afrori feromonali nostra mente abiura, purtuttavia c’è un corpo e quel che vuole il corpo fa, o almen sogna, e la censura è rimozione che, siccome suole, appresta il suo ritorno, e sì da mane a sera, sera a mane, finché il sole risplenderà sulle miserie umane resta in agguato. Sola una speranza ci resta: che in un tempo (se non vane credi certe storie), in tempo futuro (ma in un futuro smisuratamente futuro, quando il mondo avrà il futuro annïentato da quello stess’Ente che glielo diede) questo nostro corpo, identico a sé stesso e differente, con l’anima un tutt’uno, senza scorporo, sarà, e sarà per sempre, senza fine. Ma tu sei stufo di ascoltarmi ed «Orpo!», mi dici, «mia Mariella, senza fine è il tuo discorso. Il fatto è chiaro e semplice: io sono uomo, tu sei donna. Fine».


E poi mi guardi con lo sguardo complice; e poi carezzi ancor di più la chiappa (da cui partì il discorso) ed io son duplice: m’insegue una me, la sfuggo, m’acchiappa; ma tu m’insegui, ti sfuggo, m’acchiappi; ma mi rinchiudo come una calappa; ma poi t’inseguo, mi sfuggi, mi scappi; ma poi ti prendo, mi prendi, in viluppi stringiamo i corpi: mi baci, mi lappi… …e siamo madidi, fradici, zuppi… (…finché, quel benedetto cavatappi…)


Il corpo intero


Silvia Cassioli, Il corpo intero

Dammi le tue membra grevi la pianura sterminata, la pelliccia d’erba fresca, la cartuccera dei denti veridici, il tuo latte sacratissimo e dolcissimo. Dammi la fossa profonda dell’ascella, ricovero di tutti gli odori, il bianco sfolgorante dell’occhio rovesciato, il grido della perdita irreparabile. Dammi la clavicola, la rotula e tutte le giunture che ti tengono insieme che io possa sciogliere o allentare secondo logica d’amore o di noia le parti per il tutto, il bello e il brutto. Dammi il tuo strato superficiale, la tuta mimetica con cui fai credere di essere mortale le cerniere invisibili, le valvole a scomparsa il boccaporto della discesa ai visceri. Dammi il tuo lato sinistro, e su questo lato facciamo che ogni cosa mi appartenga il piede, il ginocchio, la coscia, finché discuteremo di ciò che è indivisibile e io ne assorbirò l’eccesso.


Alessandra Racca, Il corpo conosciuto

Che so dove nascondi l’alluce e che ho imparato di te la forma del piede e come piegano le righe sul tallone le calze e le puzze che fanno a volte le maglie la sera e di quando dall’orizzonte delle spalle aspetto che pigra ti sorga la testa (e presto dalla mia parte ne spero il tramonto e il respiro) non è cosa che puoi dire al passante al nessuno della corrispondenza che ho scoperto fra la forma del pollice e il pene però lo farei, furbetta come una volta ho parlato i segreti (anche se mia madre aveva detto però non dirlo a nessuno, va bene?) io lo rifarei, stupidotta lo direi a chiunque al nessuno e anche il sapore del segno, la conca sul lenzuolo (del vuoto) del corpo (mentre prepari il caffé) il mattino


Rosaria Lo Russo, MILF

L’ombra che caldeggia di proteggermi la fitta tenera penombra che accarezzo con un dito, e scatta una fitta poco sotto l’ombelico in quella svelta voglia di tenebra il tratteggio da cui affiora la linea che trema del tuo labbro superiore che sboccia di stupore. É un praticello fresco dove mi sdraio su un fianco in un sogno omertoso di leggerezza estiva soffice come la lingua che ti scappa dalla bocca allargandosi in un sorriso di troppo bianco gelato. Ritraggo il dito d’istinto temendo quel gioco di rosa mucosa di un morso che non posso permettermi, ma tu senza forza mi fermi il polso e avvicini il dito al mio naso, ridendo di gusto di quel vecchio rimorso.


Mia Baratti, Il corpo

Naufrago ai bordi del tuo corpo spazioso e accogliente. Come marinaio inesperto cerco i riferimenti naturali, il nord della tua bocca calda, l’est e l’ovest forti braccia mi trattengono come corde al molo mentre viro cercando il tuo sud incantevole isola su cui vedo già issata la bandiera.


Stefano Serri, Sessanta distici (tutto il corpo)

Ecco sessanta distici Dai toni gravi o comici: Lodando il corpo maschile Voglio spiegarvi il mio stile. (Per l’ardua mia impresa, o Musa Mi chiudo un po’ in bagno. Scusa.) Avvio il mio canto dal basso Dal piede, che dal suo spasso Dischiude un profumo spesso Misto di cuoio e di lesso. Del tuo polposo polpaccio Troppo ho già detto e ne taccio. Vado al ginocchio proteso Quasi una rocca che ha reso La mia mano assalitrice Persa su una cicatrice. Poi c’è il cosciotto peloso Che dentro il bluejeans ben teso Mi ricorda – forse è brutto A dirlo – proprio un prosciutto. Nella patta dei calzoni C’è un trofeo che non esponi Ma celandolo trionfi Con i tuoi coglioni gonfi. Dal pube tricotrofico Il viottolo anatomico Del tuo sesso bulimico: Si gonfia, ma poi stitico Non dà che poche gocce Delle decantate docce. Come con folte vibrisse Nelle tue chiappe prolisse Rinvengo e tosto m’affosso Nell’ano selvoso e rosso. Qui mi perdo e perdo il verso… Tosto parto verso il dorso. Le vertebre candiscono E scandiscono all’unisono


L’ampio circumnavigarti Dal sedere fino agli arti. Speculari le scapole, Le spalle quasi isole Il petto è una Batmobile Dotata di due aureole. È una bocca il tuo ombelico: Canta quello che non dico Della tua pancia protesa (Piazza, casa, prato e chiesa). E c’è un borbottio lontano. Se vi appoggio la mia mano Non è più soltanto un suono Nel tuo ventre vuoto sono Lamenti e moti, parecchi Lai (è ora ch’apparecchi). Tu, oltre il varco tiroideo, Sternocleiodomastoideo, Giusto al lobo dell’orecchio Mi conduci verso il teschio Sorpassando dell’Adamo Quella mela che reclamo E che resta sopra il ramo Del tuo collo, esca e amo. È quasi il mento un secondo Sesso, più duro e rotondo; La mascella è come un’anca Che mangiando non si stanca; Pure trovo nella guancia La mollezza della pancia: È per questo che nel viso Tutto il corpo vi è conciso. Giungo, a dorso del tuo naso, Al rugoso lago roso Del frontone pensieroso Del tuo tempio (o pur Parnaso). Un orecchio è labirinto: Quello che dentro vi è spinto In cunicoli si perde: E una nota sembra verde E una voce prende accento E un rumore si fa vento.


Dalla bocca come stiva Un tesoro di saliva Con un bacio mi conquisto (Senza Giuda, solo Cristo). Chissà quali sentimenti Si dipartono dai denti: So che ad ogni tuo sorriso Il mio amore è già reciso Perché un po’ di smalto netto Vale più del mio poemetto. Poi si complica parecchio Ogni rima nel tuo occhio Perché in quel pertugio aperto C’è un mosaico di concerto: La pupilla è la solista Che fa dardo d’ogni vista E l’archetto dell’iride Rende le occhiate vivide. Poi la sclera, bianco manto Che fiorisce per il pianto, E pieghettate palpebre Sipario delle tenebre. Tutt’intorno, infine, ciglia Quasi un vello che bisbiglia. Basta, è inutile che smanio: Oramai si è giunti al cranio E a quest’ampia mia canzone Sopra il corpo e le sue zone Ho da tentare un termine (Corona, corna o cercine) Che sul capo stia ben fissa Nel ricordo resti impressa. C’è, giusto sopra i capelli Un tal quid, di cui novelli: Forse è solo una fisima Ma la chiamano «anima». Al di sopra della testa Oltre i versi, questo resta: Oltre distici o quartine Il tuo corpo non ha fine.



Dislodi


Rosaria Lo Russo, La prostata

Doppiotriplo pseudohaiku (im)mortale con caudina

Fragile, delicata, tondeggiante; e se s’ingrossa, è malata la prostata. Fra gli organi di Lui unico apostata. * Organo ancor segretamente umano volle ammalarsi e zac! da cybersilvio. E lo lasció impotente, Lui già nano. * Tanto aggraziata memoria il tallone di Achille, quanto trista espressione del corpo la prostata di berluscone (che per un pelo, a vita, non l’ha di(s)messo da senatore).


Rosaria Lo Russo, L’anca

(Discriminazione sessuale a paritá di handicap)

A Mariella Prestante

Anca lussata, anca operata. Per entrambi un’elegante protesi di ceramica. Occorre la stampella per deambulare ed anche a lungo, per entrambi esercizi snervanti di fisioterapia. Ma se lei assume subito l’aria di una mesta vecchierella lui invece quella del seducente dr. House. A lei lo invecchia a lui gli dona essere zoppi con la stampella. E come va a finire la storiella? Lei resta sola a casa a guardare alla televisione chi seducendo gioca claudicando al dottore, com’è sexy, che compassione! Lui esce e, copia del target perfetto di un seduttore imbrocca una donnamamma e ci gioca al dottore. Senti te che ingiustizia, Mariella!


Mariella Prestante, La pompa peniena

Quando vedo il tuo cazzo bello in forma, 15 oh io non posso no dimenticare che una pompetta te lo rende enorme. Quando mi penetra ardito e pimpante oh io non posso no dimenticare le due strizzate che gli desti avante. E in queste orrende visĂŻoni assorta benchĂŠ tu spinga, palpi, ciucci ed ansimi fredda mi sento come e piĂš che morta.


Gran finale


Elisa Bruno, La salma

Il corpo cambia, diventa una salma Pelle madida di rospo o ranocchia Albero freddo, spettrale la calma Ora, morto, non piega le ginocchia. È morto poco a poco Mi dicono: «Si è spento» Gli cresce la barba solo sul mento. È morto poco a poco Mi dicono «Abbi fede» Su un sentiero scosceso ci precede.


Piccolo finale


Mariella Prestante, La pace dei sensi

Se vuoi quel tuo barzotto e fiacco membro 16 tener celato dentro la mutanda come si cela in casa l’educanda: e sia. Non mi lamento. Ma rimembro i tempi in cui, glorioso benché sghembo, sapeva il fatto suo e si ergeva il glande come polena che fendesse l’onde ardita e d’ogni esitazione sgombra. Bei tempi, sì. Ma ahimè, anche la mia micia peraltro è spesso un poco smorta e stanca e quel che un dì le piacque, ormai la sfianca. A letto, orsù: io metto la camicia, tu metti il pigiamone a righe: il sonno darà bei sogni a quei che agir non ponno.


Corpi estranei


Stefano Bartezzaghi, Sprezzo del corpo maschile

Che palle queste palle: ognor mi pendono, Che pena questo pen che si frappone Ch’epalle l’epa che mi s’antepone: Misantropie di me da mo’ mi offendono. Le ginocchia ginofilo mi rendono, Le mani m’animan d’autoirrisione, I piedi spiedi donano afflizione, Gli occhi sciocchi si guardano, e mi stendono. M’allucinano gli alluci ritorti, La faccia faccia meno la fasulla! I calcagni li calcolo già morti. Di tale disistima il cul è culla, chiappe-chiaviche, del color dei morti. Del resto, non c’è resto. Il resto è nulla.


Francesco Pecoraro, La voce di maschio

La voce di maschio Gli raschia nel teschio I peli le unghie giallastre Le barbe le gote nerastre Muscoli quadri massicci Foruncoli estrusi rossicci Il ventre in lenta espansione Lo smegma il testosterone Le mano li piedi callosi Le nocche i ginocchi nodosi Il pacco lĂŹ appeso in silenzio Catalessi di cefalopode.


1) http://vibrisse.wordpress.com ↾


2) http://vibrisse.wordpress.com/2013/08/12/lodi-del-corpo-maschile-apriamo-il-dibattito-ovvero-la-tenzone/ http://vibrisse.wordpress.com/2013/08/19/mariella-prestante-e-lo-specifico-letterario-maschile/ http://vibrisse.wordpress.com/2013/09/23/lodi-del-corpo-maschile-produzione-di-lodi-a-mezzo-di-lodi/ ↾


3) Vedasi del Carducci: Davanti San Guido. ↾


4) Vedasi del Della Casa: Poi ch’ogni esperta, ogni spedita mano. ↾


5) Si adotta, per esigenze metriche, la diffusa benché erronea pronuncia sàlubre. ↵


6) Cielo d’Alcamo. ↵


7) Scarpe nuove, di cuoio, che scricchiolano. ↾


8) Endecasillabo assai discutibile ↾


9) Vedasi del Guinizzelli: Voglio del ver la mia donna laudare. ↾


10) Argìa Sbolenfi, pseudonimo femminile che il poeta romagnolo Lorenzo Stecchetti usò per le sue rime di argomento sessuale, rese popolari dall’interpretazione di Paolo Poli. ↵


11) Pallone da calcio leggero, per ragazzi, commercializzato alla fine degli anni Sessanta. ↾


12) Riferimento a una celebre canzonetta di Raffaella Carrà che suscitò a suo tempo – nel 1971 – un certo scandalo. ↵


13) Il Diario di Eva pubblicato da Mark Twain è palesemente un falso. ↾


14) La storia, veramente, racconta che si trasse fuori tirandosi per il codino. Ma c’erano esigenze di rima. ↾


15) Vedasi del Tarchetti: Memento. ↾


16) Vedasi dell’Alamanni: Ben puoi questa mortal caduca spoglia. ↵


Table of Contents Questo libro Lodi del corpo maschile Cartaresistente, Lode tipografica Tra capo e collo Cristina Del Ferraro, La bella chioma Antonella Sbrilli, La chioma tagliata corta Valentina Simeoni, La pelata Ornella Spagnulo, Il cervello Morena Silingardi, Il cervello Stefano Serri, Impazzisci con me (il cervello) Alessandra Celano, Le ciglia Nadia Bertolani, La pupilla Stefania Sorbara, Lo sguardo Azzurra D’Agostino, Lo sguardo Adriana Libretti, Lo sguardo dello skipper Sicania, Il naso Mariella Prestante, I baffi Giovanna Iorio, L’orecchio Laura, L’orecchio Alessandra Celano, Il lobo Roberta Durante, Il pezzo liscio Stefania Sorbara, La guancia Francesca Matteoni, La bocca Morena Silingardi, Le labbra Silvia Salvagnini, La curva Morena Silingardi, La voce Adriana Libretti, Alla lingua Gabriella Rossitto, La lingua Mariella Prestante, La lingua Francesca Perinelli, Le corde vocali (la voce) Annalisa Bruni, Il mento Sara Sta, Le barbe Morena Silingardi, La mascella Paolo Giorgi, La barba Valentina De Lisi, La barba Anna Martinenghi, La barba Lidia Del Gaudio, Il dopobarba Mery Carol, I denti Adriana Libretti, Gli incisivi Gilda Policastro, Il molare Marilena Renda, Il collo Artemisia, La vena giugulare


Nadia Bertolani, La nuca Mariella Prestante, La nuca Alessandra Celano, Il muscolo sternocleidomastoideo Gian Maria Annovi, Il pomo d’Adamo Intermezzo: il bacio Cecilia Resio, L’Oliponto Prima corona Stefano Serri, Una corona di sonetti Sonetto pubico Tra le tue gambe (il seme) La piattola Narciso (il glande) Larghezza (la cintura) L’uomo eretto (tra le cosce) Il biscotto 69 (La gola) Sonetto cardiaco Arti superiori Stefania Sorbara, Le braccia Antonella Fontana, Le vene delle braccia Alessandra Celano, La mano Debora Pradarelli, La mano Francesca Del Moro, La mano Andrea Breda Minello, Le dita Franca Mancinelli, Le mani Francesca Donazzan, Il pollice Elisa Bruno, L’unghia Mariella Prestante, Il tocco I Mariella Prestante, Il tocco II Silvia Cassioli, L’orologio Gianluca Garrapa, L’avambraccio manu, L’avambraccio (luci e ombre) Avambraccio in do Avambraccio in re (dedicata a V.B.) Avambraccio in mi Avambraccio in fa Avambraccio in sol Avambraccio in la Avambraccio in si Intermezzo notturno Stefania Sorbara, La russata, Mariella Prestante, Il peto Busto e petto Lidia Del Gaudio, Il petto Maria Luigia Longo, Il torace


Claudia Muscolino, I capezzoli Francesca Matteoni, La scapola Alessandra L., La schiena Elena Di Gregorio, La schiena Sofia Bruschetta, Le vertebre Adriana Libretti, Il deltoide Lidia Del Gaudio, L’ascella Marco Simonetti, L’ascella Mariella Prestante, La canottiera Dappertutto nel corpo Cristina Venneri, Il pelo Adriana Libretti, I peli del pube e del petto Alessandra Carnaroli, La vena Mariella Prestante, Il sudore Mariella Prestante, L’odore Alessandra Racca, I nei Lara Mammi, La cicatrice Francesca Matteoni, Il tatuaggio Dentro il corpo Anna Ruotolo, Sul tuo petto esistono due porte Intermezzo pompier Pietro Roversi, I pompieri Pancia Claudia Zironi, La perfezione (della pancia) Barbara Vuano, La pancia Francesca Garello, La pancetta Francesca Donazzan, La curva etilica Mariella Prestante, L’ombelico Chiara Daino, La cresta iliaca La Donna Camèl, La tartaruga Lombi Evelina Dietmann, Le natiche Normanna Albertini, Le cosce Morena Silingardi, Il muscolo quadrato dei lombi Angioletta, Il bel culotto Genitali Clara Vajthò, Rimembro Francesca Genti, Il cazzo Artemisia, L’augello Mariella Prestante, Il cazzo Loredana Semantica, Il lato erettile Alba Lapilla, Ode al punto centrale Adriana Libretti, Il pene Lidia Del Gaudio, Lo sperma Mariella Prestante, Il membro gentile


Rosaria Lo Russo, Lo scroto Viviana Viviani, I testicoli Paola Malaspina, Di gonadi, iperuranio e chirurgia Selenia Bellavia, Il perineo Intermezzo: diventare ciò che si è Silvia Cassioli, Un madrigale trans Arti inferiori Antonella Bukovaz, Il muscolo gracile Francesca Garello, Le ginocchia Stefano Serri, Quasi fratelli (i polpacci) Nadia Bertolani, Il piede Evelina Dietmann, Il piede Alba Cataleta, I piedi Mariella Prestante, Il piede Maria Grazia Di Biagio, I piedi nudi Sicania, Il calzino Seconda corona Stefano Serri, Corona di lodi Fessure Gas Petto vs schiena Preservativo (sonetto della marchetta) Il piede La pancia Altezza, I Altezza, II (verticale) Altezza, III (orizzontale) La pelle Divagazione (sottofinale) Mariella Prestante, Natura e cultura Il corpo intero Silvia Cassioli, Il corpo intero Alessandra Racca, Il corpo conosciuto Rosaria Lo Russo, MILF Mia Baratti, Il corpo Stefano Serri, Sessanta distici (tutto il corpo) Dislodi Rosaria Lo Russo, La prostata Rosaria Lo Russo, L’anca Mariella Prestante, La pompa peniena Gran finale Elisa Bruno, La salma Piccolo finale Mariella Prestante, La pace dei sensi Corpi estranei


Stefano Bartezzaghi, Sprezzo del corpo maschile Francesco Pecoraro, La voce di maschio


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